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CURSILLO DI CRISTIANITA’ La pagina con gli appuntamenti
a pagina 10
Fornitori del Vaticano
Broni Stradella Gas s.r.l.
IL TUO FORNITORE DI FIDUCIA
Settimanale di informazione della Diocesi di Tortona fondato nel 1896
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Giovedì 2 febbraio 2017
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La festa
della Polizia Locale
a Novi Ligure
a pagina 13
a pagina 11
O LT R E P Ò
Riserva del Lesima
può diventare
"sito europeo"
a pagina 8
SAPERE ASCOLTARE
COMUNE DI VOGHERA
Il tuo presepe in cartolina
Parole perdute
Ballottaggio-bis: Carlo Barbieri
riconfermato sindaco
Il Vescovo
ha premiato
gli 8 vincitori
di GIOVANNI M. CAPETTA
I
nostri nonni, o forse ormai i bisnonni,
soprattutto nei paesi, usavano dire “si
parlano” quando due ragazzi in età da
fidanzamento iniziavano a frequentarsi.
Un modo pudico di indicare qualcosa di
profondamente vero, perché le parole fra
gli innamorati spesso sono molto più importanti dei baci e delle effusioni. È infatti in quei dialoghi che si forgia la robustezza di una storia che forse potrà diventare d’amore. Oggi, però, l’espressione rischierebbe di essere non solo ingenua ma anche obsoleta. Più facilmente
verrebbe da dire “chattano”, “si scrivono” o “whatsappano”, anche se poi c’è
sempre la speranza che l’umanità non
muti troppo in fretta, o piuttosto evolva
senza lasciar prevalere le storture contingenti del tempo e le ingerenze eccessive
della tecnologia. Davvero questa non è
una denuncia, ma la constatazione (un
po’ ansiosa) di chi si trova totalmente
immerso nel fenomeno che descrive: i
nostri antenati usavano forse meno parole, ma è probabile comunicassero più intensamente, trovando nel tempo, nello
spazio di luoghi deputati e perfino nel silenzio, alleati preziosi che oggi paiono
essere ovunque stranieri. E se tutto questo riguarda il dire, in modo ancora più
eclatante lo si sperimenta quando vogliamo sondare il peso specifico del verbo
“ascoltare”. Non ci ascoltiamo più.
continua a pagina 16
FELICI & TAGGATI
Sabato 28 gennaio la festa con tutti
i partecipanti e la Redazione del “Popolo”
Marco Rezzani a pagina 7
COMUNE DI TORTONA
Gianluca Bardone rilancia
su crescita e sicurezza
Le foto dei vincitori e dei vostri presepi
non ancora pubblicati nell’inserto di 4 pagine all’interno
CONTINUA LA NOSTRA RACCOLTA PER
IL MONASTERO DI RIETI TERREMOTATO
Stefano Brocchetti a pagina 11
di MATTEO COLOMBO
Mio figlio è Pelé. Anche se non è vero. Ma ho ragione io
Genitori si picchiano sugli spalti mentre i figli giocano a calcio. È accaduto a Spoleto e la notizia è apparsa sul
“Corriere dell’Umbria”: durante un’amichevole di inizio 2017 (era il 2 gennaio) tra la squadra locale e la rivale di
Terni, è successo il parapiglia. In campo bambini di 11 anni; sulle tribune gli adulti “accompagnatori” che se le sono
date di santa ragione davanti alle facce stupite (ma forse non troppo) dei loro pargoli. Scene che, magari con meno
violenza, si ripetono settimanalmente ai bordi dei campetti di periferia. Perché i grandi, che sognano per i loro figli un
futuro da campioni e cioè soldi e bella vita; che proiettano le loro frustrazioni in quelle partitelle della domenica mattina; che sono sempre pronti a giustificare i ragazzi anche quando prendono un brutto voto, quando un professore li rimprovera; i grandi hanno in mente di tutto tranne che i valori dello sport. Non accompagnano i baby campioni a giocare,
a divertirsi. Li usano. La parola “gioco” non è all’altezza delle aspettative, non funziona, è sminuente. Il calcio in
Italia – si sa – è una cosa seria. Si può cambiare moglie, fede religiosa, credo politico, ma la squadra del cuore non si
tocca. Mai. E la squadra del cuore in cui milita il proprio golden boy non può permettersi di perdere. Se accade, sarà
sempre colpa di qualcun altro: dell’arbitro, del terreno di gioco, della nebbia… di un compagno che non è bravo a fare
gli assist e l’allenatore non dovrebbe inserirlo in formazione… quel compagno che è pure grasso e meridionale. E via
dicendo. Con il repertorio di cattive maniere e luoghi comuni da inculcare nella testa del bambino spesato. Lui che forse, in fondo, non ha il coraggio di ammetterlo a suo padre, ma preferisce il basket o la danza o il tennis e ne farebbe a
meno del calcio. Genitori così sgretolano in un attimo il lavoro faticoso che dirigenti e ct appassionati e per bene (ce
ne sono) svolgono in certi ambienti, non da “maestri” del calcio, ma da educatori. Poi arriva un adulto e dice: “Mio figlio è Pelé e se non vi va bene, non capite nulla. E nel secondo tempo il rigore non c’era”. Tutto da rifare. Aiuto. Vai a
spiegarglielo tu che suo figlio è un brocco…
@MatteoColomboqb
Le monache vi ringraziano
I
l Centro Italia trema. Come ben sanno i nostri lettori, tra
gli edifici colpiti figura anche il monastero delle Clarisse di Rieti che in parte è inagibile. A Rieti, prima che il
sisma cambiasse il corso degli eventi, doveva trasferirsi
da Città della Pieve Suor Sara Fedele, nostra sorella tortonese, insieme a Suor Chiara Lucia che del monastero reatino è stata nominata Abbadessa, con lo scopo di aiutare
le consorelle, per la gran parte anziane, e di rinvigorire la
spiritualità clariana nell’antica Valle Reatina. Il terremoto
le ha costrette ad abbandonare la loro “casa” e hanno trovato ospitalità a Roma, nel monastero di cui Abbadessa è
un’altra tortonese, madre Elena Francesca Beccaria.
Nelle scorse settimane la Diocesi, attraverso la Caritas
diocesana e il nostro settimanale, ha lanciato una raccolta
fondi per un primo aiuto alle sorelle di Rieti.
Ad oggi è stata raccolta la somma di Euro 10.499,00 (e
sul prossimo numero daremo un resoconto dettagliato di
chi ha aderito alla nostra campagna) ma è ancora possibile contribuire utilizzando le coordinate che trovate nel
box della pagina. Pochi giorni fa ci è giunta una lettera
via mail che pubblichiamo nella quale Suor Sara e le sue
sorelle ci aggiornano sulla situazione. E ringraziano il
Vescovo e la Diocesi per quanto stanno facendo.
Primo Piano a pagina 6