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Diritto Civile Contemporaneo
Rivista trimestrale online ad accesso gratuito ISSN 2384-8537
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Anno IV, numero I, gennaio/marzo 2017
IL NUOVO VOLTO DEL DANNO NON PATRIMONIALE: RINASCITA
DEL DANNO MORALE E «FUGA» DALLE TABELLE MILANESI
Sara Scola
Il nuovo volto del danno non patrimoniale: rinascita del danno morale e
«fuga» dalle tabelle milanesi
di Sara Scola
Senza alcuna pretesa di completezza ed esaustività, si intende in questa sede
svolgere qualche breve riflessione a margine della nota pronuncia Cass. Civ., 20
aprile 2016, n. 7766, Rel. Travaglino, che costringe ad interrogarsi sulle peculiarità
del danno non patrimoniale e sui criteri risarcitori tradizionalmente utilizzati per la
sua liquidazione.
Nel caso di specie, la S.C. ha dovuto pronunciarsi sul ricorso proposto da una
compagnia assicuratrice avverso la decisione di merito, resa in primo grado e
confermata in Appello, la quale aveva accordato in favore della vittima di un
sinistro stradale il risarcimento del danno non patrimoniale subito, discostandosi,
motivatamente, dai parametri stabiliti dal Tribunale di Milano con le apposite
tabelle per la liquidazione unitaria del danno non patrimoniale.
Più precisamente, in sede di merito era stata attribuita una particolare rilevanza al
danno estetico patito dal danneggiato, sia per come esso aveva inciso sull’esistenza
della vittima sul piano delle sue relazioni esterne, sia per come la compromissione
dell’aspetto fisico e dello stato di salute aveva determinato nel danneggiato un
pregiudizio psichico di non scarso rilievo.
Pur non essendo noti i dettagli della pronuncia censurata dal ricorrente, si deduce
che al danneggiato era stato riconosciuto in sede di merito un risarcimento il cui
importo risultava diverso, e senz’altro superiore, a quello che sarebbe scaturito
dalla “pura” applicazione delle tabelle milanesi; in particolare, una autonoma
rilevanza era stata attribuita alle voci di danno morale e di danno cd. esistenziale,
la cui liquidazione era avvenuta in modo difforme dai consueti parametri
risarcitori in ragione dell’eccezionalità del caso concreto.
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Orbene, la Suprema Corte, con un’accurata e dettagliata motivazione, rigetta il
ricorso proposto dall’assicuratore, avallando integralmente l’operato dei giudici di
merito.
In particolare, e questo è uno degli aspetti che maggiormente interessano (anche
per le implicazioni pratiche che da esso derivano), la Cassazione afferma a chiare
lettere che il dolore interiore (ossia il danno morale) e la significativa alterazione
della vita quotidiana (ossia il danno esistenziale o alla vita di relazione) sono “danni
diversi e perciò solo autonomamente risarcibili”, aprendo un varco di non scarso rilievo a
modalità alternative di liquidazione del danno non patrimoniale, non più basate
sulla semplice personalizzazione del danno biologico, ma che presuppongono, sin
dal principio, voci di danno distinte e autonomamente risarcibili, anche al di fuori
dei consueti criteri tabellari.
Al contempo, la S.C. coglie l’occasione per tracciare una sorta di statuto del danno
non patrimoniale, che sembra discostarsi, almeno parzialmente, dall’impostazione
tradizionale delineata dalle sentenze cc.dd. di S. Martino (ci si riferisce,
evidentemente, a Cass. Civ., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972-26975).
La sentenza in esame prende le mosse da una pronuncia di appena un mese prima
(Cass. Civ., 7.3.2016, n. 4379 – Cons. Rel. Dott. M. Rossetti), per ribadire la natura
unitaria e onnicomprensiva del danno non patrimoniale, così come a suo tempo
predicato dalle sopracitate S.U. del 2008. La natura unitaria si riferisce,
segnatamente, all’interesse costituzionale posto alla base del risarcimento, con ciò
intendendosi che non vi devono essere differenze nell’accertamento e nella
liquidazione del danno in base al diritto costituzionalmente protetto che sia stato
leso. La natura onnicomprensiva, invece, sta a significare che l’unitario
risarcimento del danno non patrimoniale deve tener conto di tutte le conseguenze
dannose dell’evento, con il limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo
nomi diversi a pregiudizi identici, e con il requisito che venga superata la cd. soglia
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di risarcibilità, al di sotto della quale il danno è considerato bagatellare e non
meritevole di risarcimento.
Curioso il fatto che la sentenza in esame, pur facendo proprie le premesse indicate
in Cass. Civ., 7.3.2016, n. 4379, giunga poi a conclusioni diametralmente opposte
rispetto a codesta pronuncia.
Nel nostro caso, infatti, la S.C. precisa che non può non tenersi conto della cd.
fenomenologia del danno alla persona, ossia delle circostanze del caso concreto
che impongono l’adeguata valutazione di tutti i pregiudizi non patrimoniali, al di là
del ricorso ad astratte tassonomie classificatorie che, per usare le parole
dell’illustre Relatore, portano al rischio “di sostituire una meta-realtà giuridica ad una
realtà-fenomenica”.
In questo senso si giustifica pienamente l’autonoma risarcibilità del dolore
interiore e della significativa alterazione della vita quotidiana, trattandosi di due
modalità attraverso le quali si esplica la sofferenza umana.
Il primo attiene all’aspetto interiore, per come esso ha inciso sul danneggiato
procurandone sofferenza psichica e patema d’animo. Si tratta, evidentemente, del
danno morale, che non può trovare una determinazione ex ante, ma richiede una
quantificazione parametrata alle circostanze del caso concreto.
Il secondo, invece, si riferisce all’aspetto esteriore, per come esso ha condizionato
la vita quotidiana del danneggiato, modificandone in pejus le abitudini. Si tratta del
cd. danno esistenziale (rectius danno alla vita di relazione), categoria fortemente
discussa e, come noto, notevolmente ridimensionata dalle sentenze di S. Martino
in poi, soprattutto al fine di evitare risarcimenti bagatellari.
Secondo la S.C., dunque, tali pregiudizi devono trovare adeguato ristoro, al di là di
“sterili formalismi unificanti” che rischiano di oscurarne la rilevanza.
Una conferma di tale costruzione dogmatica si troverebbe nell’art. 612-bis del
codice penale, norma che, nel disciplinare il reato di atti persecutori, individua
separatamente le conseguenze della condotta dello stalker sia nel perdurante e
grave stato di ansia e paura cagionato nella vittima, sia nell’alterazione delle
abitudini di vita della stessa.
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O, ancora, la normativa in fieri del cd. d.d.l. concorrenza (d.d.l. n. 2085/2015)
proporrebbe una concezione di danno non patrimoniale che distingue
espressamente l’aspetto dinamico relazionale del danno dalla sofferenza interiore
patita dal danneggiato, così rimarcando l’ontologica diversità tra le due voci di
danno.
Inoltre, la S.C. muove a contrario dalle risultanze di una pronuncia della Corte
Costituzionale in tema di micropermanenti, di cui ripercorre ampiamente le
argomentazioni e conclusioni (Corte Cost., 16 ottobre 2014, n. 235, pubblicata, ex
multis, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2015, I, 172-185, con nota di Cuocci), per
rimarcare la distinzione tra lesioni di lieve entità e cd. macrolesioni, tale da
giustificare un diverso impianto risarcitorio.
La Corte Costituzionale, infatti, era stata chiamata a pronunciarsi sulla possibile
illegittimità costituzionale dell’art. 139 del Codice delle Assicurazioni (norma che
disciplina il risarcimento del danno biologico per lesioni di lieve entità) per
violazione degli artt. 2, 3, 24 e 76 Cost. Per gli aspetti che qui interessano, il
profilo censurato atteneva al limite prestabilito dalla norma per l’incremento del
danno biologico (fissato nella misura di un quinto) che, da un lato, non
permetterebbe un adeguato contemperamento degli interessi in gioco, così
contrastando con l’art. 2 Cost., e, dall’altro, non consentirebbe di tener conto della
diversa incidenza delle lesioni in ragione delle peculiarità del caso concreto, con
violazione dell’art. 3 Cost.
La Consulta ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale,
come del resto già aveva fatto pochi mesi prima la Corte di Giustizia con
riferimento ad un possibile contrasto dell’art. 139 Cod.Ass. con la normativa
comunitaria (Corte di Giustizia, 23 gennaio 2014, n. C-371/12 [Enrico e Carlo
Petillo contro Unipol Assicurazioni Spa] in Nuova Giur. Civ. Comm., 2014, I, 820832, con nota di Sabbatelli) e ciò, principalmente, per due ragioni.
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In primo luogo, si è rilevato come la norma in esame, pur non contemplando
espressamente il danno morale, consenta senz’altro la liquidazione di detta voce di
danno, seppur nei limiti di quanto previsto al comma 3. A tal proposito la Corte
rammenta che il danno morale “rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni
sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente”, così come
statuito dalle S.U. di S. Martino, sicché “la norma denunciata non è (…) chiusa, come
paventano i rimettenti, alla risarcibilità anche del danno morale”.
Proprio questo passaggio viene evidenziato, quasi con enfasi, dal Dott. Travaglino
nella sentenza qui annotata per sconfessare la tesi predicativa della “unicità del
danno biologico”, in favore di una distinzione concettuale tra aspetti relazionali
della vita del soggetto leso (espressamente contemplati dall’art. 139 Cod.Ass.) e
sofferenza interiore (non menzionata ma pur sempre liquidabile, attraverso detta
norma).
In secondo luogo, la Corte Costituzionale rimarca la necessità di compiere un
bilanciamento tra i diritti inviolabili della persona sottesi al risarcimento e il dovere
di tolleranza.
Si richiama così, seppur sinteticamente, il precetto già espresso dalle S.U. del
novembre del 2008 secondo cui, per aversi danno risarcibile, occorre che il
pregiudizio subito abbia superato un determinato limite (la cd. soglia di offensività
o soglia minima di tollerabilità) che non è indicato espressamente dalla legge né
può essere determinato a priori, ma che si fonda, per l’appunto, sul bilanciamento
tra i principi di solidarietà e tolleranza e compete al giudice di merito sulla base
della fattispecie concreta. Peraltro, tale criterio è stato ribadito di recente dalle S.U.
della Cassazione, con riferimento al risarcimento del danno non patrimoniale
derivante da reato di pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale di
cui all’art. 684 c.p. (così, Cass. Civ., S.U., 25 febbraio 2016, n. 3727, pubblicata in
diversi periodici tra cui Nuova Giur. Civ. Comm., 2016, I, 7-8, 1012-1020, con nota
di Delli Priscoli).
La solidarietà impone di riparare i pregiudizi cagionati ad altri consociati secondo
le regole all’uopo previste dalla responsabilità civile; la tolleranza, invece,
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comporta di dover negare il risarcimento di fronte alle offese minime e irrisorie
che non colpiscono il nucleo inviolabile del diritto leso, ma semplicemente urtano
la sensibilità degli individui o rappresentano meri fastidi e disagi che ognuno è
tenuto a sopportare in virtù dell’armonica convivenza civile all’interno della
società (v. per tutti, NAVARRETTA, “Il danno non patrimoniale e la
responsabilità extracontrattuale”, in Navarretta [a cura di], Il danno non patrimonialePrincipi, regole e tabelle per la liquidazione, Giuffrè, Milano, 2010, pp. 36-40).
A parere della Consulta, dunque, la norma de qua opera un inevitabile
bilanciamento tra diversi valori che supera senz’altro il vaglio di ragionevolezza
necessario per la sua legittimità.
Le Compagnie assicuratrici, infatti, perseguono anche fini solidaristici
(concorrendo ex lege ad alimentare il Fondo di garanzia per le vittime della strada)
e, in ogni caso, l’interesse risarcitorio del singolo danneggiato deve essere
bilanciato con l’interesse generale degli assicurati ad avere premi assicurativi di
livello accettabile e sostenibile (invero, tale ragionamento è fortemente criticato da
una parte della dottrina; così ad esempio MONATERI, La fenomenologia del
danno non patrimoniale, in Danno e Resp., 2016, 7, 725-726, secondo il quale tale
affermazione “è ideologica perché sostituisce alla realtà la falsa coscienza di un rapporto
solidaristico tra assicurati e assicuratori; arbitraria perché non congruente con le questioni
tecniche, e non retoriche, che erano state sottoposte alla Corte, ed è pure falsa perché non
corrispondente alla realtà economica odierna”).
In tale prospettiva va, dunque, pienamente giustificato il limite all’incremento
risarcitorio individuato dal terzo comma dell’art. 139 Cod. Ass. (occorre, tuttavia,
precisare che la soluzione della Corte Costituzionale non risulta unanimemente
condivisa, tenuto conto che alcune pronunce proclamano l’ontologica autonomia
del danno morale anche nell’ambito delle lesioni di lieve entità: v. in proposito,
Cass. civ., 13 gennaio 2016, n. 339; nella giurispr. di merito, v. Trib. Benevento, 30
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maggio 2016, n. 1442, che si pone espressamente in contrasto con codesta
pronuncia della Corte Cost.).
A ulteriore supporto della propria soluzione, la Corte Costituzionale precisa che
tale meccanismo standard di quantificazione del danno attiene “al solo specifico e
limitato settore delle lesioni di lieve entità”, lasciando comunque aperta la possibilità di
personalizzare l’importo del risarcimento (seppur entro il limite prefissato) in
ragione delle condizioni soggettive del danneggiato.
E proprio da quest’ultimo aspetto il Relatore trae conclusioni utili al caso che qui
occupa. La precisazione secondo cui il limite risarcitorio fissato ex lege deve
applicarsi solo alle micropermanenti starebbe a significare che nell’ambito delle
macrolesioni la rilevante incidenza della menomazione impone un equo
apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, tale da condurre
anche a un risarcimento al di fuori dei parametri prefissati.
Così, da un lato, il danno morale rivive nella sua interezza, quale voce di danno
meritevole di autonoma valutazione. Si tratta di un pregiudizio diverso dal danno
biologico, non direttamente collegato ad esso ma attinente al dolore interiore
patito dal danneggiato in conseguenza dell’evento dannoso; difatti, ben può
sussistere il danno biologico senza il danno morale e viceversa, poiché non
esistono automatismi risarcitori e solo l’analisi del caso concreto può individuare
di volta in volta i pregiudizi risarcibili.
Parimenti, il danno esistenziale, che come detto rappresenta la proiezione esterna
della sofferenza umana, risulta predicabile pur in assenza del danno biologico (v.,
sul punto, Cass. Civ. 3 ottobre 2013, n. 22585). Quando, invece, sussiste il danno
alla salute, esso si salda all’interno del danno biologico e viene liquidato attraverso
un adeguato incremento personalizzato di quest’ultimo, poiché la definizione
stessa di danno biologico indica un pregiudizio che incide sulle attività quotidiane
e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato (artt. 138 Cod. Ass.).
Pertanto, nei canoni del Relatore Travaglino non sussiste alcuna duplicazione
risarcitoria laddove vengano risarciti i diversi profili della sofferenza umana,
poiché non esiste né bipartizione né tripartizione del danno non patrimoniale, ma
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solo la doppia dimensione della sofferenza umana, interiore (il danno morale) ed
esteriore (l’incidenza nella vita quotidiana del danneggiato).
Analizzando, dunque, le argomentazioni della Consulta fatte proprie dalla
Cassazione, appare, invero, un po’ fragile l’affermazione della S.C. secondo cui il
Giudice delle leggi, parlando espressamente di danno morale, avrebbe confermato
l’autonomia di tale pregiudizio rispetto alle altre voci di danno.
Che le sotto-categorie di danno non patrimoniale abbiano continuato ad esistere,
seppur a fini meramente descrittivi, anche all’indomani delle S.U. del 2008, per
individuare il pregiudizio di volta in volta preso in considerazione, non è certo una
novità. E a tal proposito la Corte Costituzionale ribadisce quanto già precisato
proprio dalle sentenze di S. Martino riguardo al fatto che il danno morale rientra
nell’area del danno biologico.
Più convincente, invece, sembra l’argomentazione che fa leva sulla distinzione tra
il sistema delle micropermanenti e quello delle macrolesioni.
Se nel micro-sistema esaminato dalla Consulta, la modesta entità della lesione, pur
nella particolarità del caso di specie, può giustificare la predeterminazione
dell’incremento risarcitorio, una diversa analisi deve essere compiuta nell’ambito
delle macrolesioni, ove sembra impossibile prevedere ex ante come e quanto la
lesione possa incidere sulla vita del danneggiato (v. sul punto, anche, FRIGERIO,
La legittimità costituzionale dell’art. 139 cod. ass., in Danno e responsabilità, 2014, 11,
1027, ove si rileva che le ragioni poste alla base delle argomentazioni e conclusioni
della Corte costituzionale in tema di micropermanenti dovrebbero poter valere
anche nell’ambito delle macrolesioni, pur rilevando che in quest’ultimo caso
occorre tener conto della gravità della lesione subita per predisporre un adeguato
sistema risarcitorio) ed, invero, i meccanismi unificanti tradizionalmente predicati
rischiano, talvolta, di oscurare voci di danno pienamente risarcibili.
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Proprio in questo aspetto sembra cogliersi la cd. fenomenologia del danno non
patrimoniale illustrata da Travaglino, che impone di considerare tutti i pregiudizi
nei quali, di volta in volta, si esplica la sofferenza umana.
Ciò, evidentemente, non significa che le singole voci di danno, seppur dotate di
un’ontologica autonomia, possano essere risarcite in assenza di un adeguato
supporto probatorio. Anzi, la S.C. ricorrendo a un esempio quasi provocatorio,
precisa che anche il dolore più grande che la vita può infliggere, quale quello
derivante dalla morte di un figlio, potrebbe non dare luogo a risarcimento laddove
venisse accertato che non vi era da tempo alcun legame affettivo tra la vittima e il
genitore. Nella fattispecie si tratterebbe di un’ipotesi ove le circostanze del caso
concreto portano a ridurre, se non azzerare, un risarcimento che nella maggior
parte dei casi viene riconosciuto (e anche in rilevante misura). I pregiudizi,
pertanto, vanno rigorosamente provati, come di fatto è avvenuto anche nel caso
esaminato dalla S.C. (la Cassazione, infatti, rileva espressamente, come il
danneggiato, in sede di merito, avesse ampiamente provato la gravità ed
eccezionalità dei postumi del sinistro, sia attraverso produzioni documentali, sia
attraverso l’espletata CTU).
Tuttavia, ciò non esclude che la prova possa essere fornita senza limiti e dunque
avvalendosi, se del caso, anche delle presunzioni e del notorio, come già precisato
dalle sentenze di S. Martino.
Orbene, la pronuncia qui annotata, che divide la dottrina sotto molteplici aspetti
(in senso favorevole, v., ad es., MONATERI, cit., 720-727; contra, nella stessa
rivista, come postfazione a Monateri, PONZANELLI, 727-728) apre
inevitabilmente nuovi scenari nel sistema risarcitorio del danno non patrimoniale e
impone di indagare ancora una volta l’efficienza e utilità del sistema tabellare per
la liquidazione del danno alla persona.
Invero, la portata innovativa di codesta decisione è meno ampia di quanto possa
sembrare, tenuto conto che in essa vengono “riordinate” molte delle
argomentazioni già contenute all’interno di altri arresti.
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Così già in Cass. Civ., 12 settembre 2011, n. 18641, sempre il Relatore Travaglino
aveva avuto modo di precisare l’autonomia concettuale del danno morale rispetto
alle altre voci di danno. A tal proposito si era evidenziato che anche il legislatore,
in epoca successiva alle sentenze di S. Martino, aveva consacrato l’autonomia del
pretium doloris attraverso i DPR nn.37/2009 e 181/2009 (quest’ultimo recante
addirittura una vera e propria definizione di danno morale) che, seppur riferiti ad
ipotesi settoriali, individuano un preciso impianto risarcitorio volto a riconoscere
piena ed autonoma rilevanza al patema d’animo.
Inoltre, in Cass. Civ., 20 novembre 2012, n. 20292 (testualmente richiamata dalla
pronuncia Cass. Civ., 3 ottobre 2013, n. 22585), il medesimo relatore aveva
chiarito che gli artt. 138-139 del Codice delle Assicurazioni offrono una
concezione di danno biologico idonea a contenere al suo interno (soltanto) il
danno esistenziale; ciò non solo perché il terzo comma di entrambe le norme
prevede un incremento collegato agli aspetti dinamico relazionali del soggetto, ma
anche perché, come già evidenziato, la definizione stessa di danno biologico ivi
enucleata presuppone un danno alla salute che incida negativamente sulle attività
quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali del danneggiato, sicché, in detto
micro-sistema, il danno esistenziale “si innesta” nel danno biologico. Altra e
diversa indagine, invece, dev’essere compiuta per la liquidazione del danno morale
(un’ulteriore conferma di tale impostazione si ritrova anche nella normativa sul
reato di atti persecutori di cui all’art. 612-bis c.p.).
Nella pronuncia qui annotata vengono poi riprese, in larga misura, le
argomentazioni già espresse da Cass. Civ., 9 giugno 2015, n. 11851 in merito
all’analisi fenomenologica del danno alla persona e alla doppia valutazione della
sofferenza, tanto interiore quanto esteriore.
Ma se codeste pronunce sono tutte riconducibili al medesimo relatore, occorre
dare atto del fatto che l’indirizzo giurisprudenziale qui esposto si inserisce nel
solco di un ben più ampio trend di decisioni, emesse sia dalla Suprema Corte (e
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redatte da diversi relatori), sia da numerose Corti di merito, che da alcuni anni
portano a ridisegnare i tratti del danno non patrimoniale, mettendo, di fatto, in
crisi alcuni dei principi “tradizionali” consacrati dalle S.U. del 2008.
Così, già all’indomani delle sentenze di S. Martino, numerosi arresti avevano
affermato l’autonomia ontologica del danno morale rispetto agli altri pregiudizi
non patrimoniali (v., ad es., Cass.Civ., 28 novembre 2008, n. 28407; Cass. Civ., 12
dicembre 2008, n. 29191; Cass. Civ., 20 maggio 2009 n. 11701; Cass. Civ., 10
marzo 2010, n. 5770).
Impostazione, questa, che è stata, anche di recente, confermata in diverse altre
occasioni.
Solo per citare qualche esempio, in Cass. Civ., 22 settembre 2015, n.18611, Rel.
Petti (in Giur. It., 2016, 3, 560-562 con nota di VALORE), la S.C. censura
aspramente la pronuncia di merito che non aveva compiuto un’adeguata
valutazione del danno morale e del danno esistenziale subiti dalla vittima in
ragione delle drammatiche circostanze del caso concreto. A tal proposito si precisa
che tali pregiudizi, lungi dal comportare duplicazioni risarcitorie, “meritano una
migliore attenzione rispetto al calcolo tabellare dove la personalizzazione è pro quota, mentre
deve essere ad personam”.
Ed ancora, in Cass. Civ., 20 novembre 2015, n. 23793 (Cons. Rel. Manna) si
richiama espressamente la pronuncia del Dott. Travaglino 11851/2015 per
condividerne l’assunto della “autonoma risarcibilità del danno morale – ove ricollegabile
alla violazione di un interesse costituzionalmente tutelato – distinto da quello biologico”
(sebbene si pervenga poi a una soluzione differente del caso concreto, ma solo
perché la fattispecie atteneva a lesioni micropermanenti).
Ancor più recente la pronuncia Cass. Civ., 4 febbraio 2016, n.2167, Rel. Scarano
(in Nuova Giur. Civ. Comm., 2016, I, 7-8, 1006-1012 con nota di PONZANELLI),
ove si ribadisce la diversità ontologica delle voci di cui si compendia la categoria
generale del danno non patrimoniale che, in quanto sussistenti e provate, devono
essere tutte adeguatamente risarcite. Si rimarca, in tal modo la reviviscenza del
danno morale e del danno esistenziale che, forzando il dettato delle S.U. di S.
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Martino, allontana sempre più spesso l’interprete dalla concezione unitaria e
onnicomprensiva di danno non patrimoniale.
Anche Cass. Civ., Sez. Lav., 15 gennaio 2016, n.583 (Rel. Bronzini), non chiude
alla possibilità di un ritorno alle sotto-categorie di danno autonomamente
risarcibili, purché adeguatamente provate e riferibili a pregiudizi differenti (per
non incorrere in duplicazioni risarcitorie). Viene in tal modo delineato il danno
non patrimoniale giuslavorista, che recupera pienamente la categoria di danno
esistenziale (fortemente ridimensionata dalle S.U. del 2008), in ragione di valori
del cittadino-lavoratore, tutelati dalle fonti costituzionali interne, ma non solo (v.
in proposito GIRAUDO, I confini del danno non patrimoniale rimangono sfumati, in
Giur. It. 2016, 7, 1591-1592).
In questa scia anche alcune Corti di merito hanno provveduto al riconoscimento
di importi risarcitori diversi e ulteriori rispetto al danno biologico, a titolo di
danno esistenziale e, più spesso, di danno morale (v., ex multis, Trib. L’Aquila, 17
giugno 2015, n. 568) facendo leva, nella maggior parte dei casi, proprio sulle
argomentazioni della sopracitata pronuncia del Dott. Travaglino Cass. Civ. n.
18641/2011 (rilevano tali aspetti PIZZO-RUSSO in La nuova frontiera della
liquidazione del danno biologico: gli aumenti personalizzati, quando, come, perché, in Danno e
Resp., 2016, 5, 480).
Un significativo esempio di questo filone giurisprudenziale si rinviene nel
campione di sentenze inserite nel database dell’Osservatorio sul Danno alla Persona dal
luglio 2013 al dicembre 2015, sebbene le motivazioni a supporto di tali
conclusioni non siano sempre le medesime (per un’attenta disamina di tali
pronunce v., ancora, PIZZO-RUSSO, cit., 480-482).
In tali ipotesi, infatti, si sono riconosciuti risarcimenti “ultratabellari” non
attraverso un “mero” incremento personalizzato del danno biologico, bensì
riconoscendo, ab initio, voci di danno diverse e autonomamente risarcibili (il punto
verrà ripreso anche infra).
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Orbene, l’impianto sistematico della pronuncia qui annotata, che come detto non
rappresenta un arresto isolato, appare senz’altro condivisibile là dove evidenzia
l’ontologica autonomia del danno morale e del danno esistenziale che, per usare le
parole del Relatore, sono “i due autentici momenti essenziali della sofferenza
dell’individuo”.
Del resto anche le S.U. del 2008 non hanno mai predicato un assorbimento del
danno morale nel danno biologico (il che avrebbe portato ad una sorta di tacita
abrogazione dello stesso), quanto piuttosto la necessità di procedere ad una
liquidazione unitaria per evitare duplicazioni risarcitorie (tale aspetto viene
evidenziato da Cass. Civ., 20292 /2012).
Allo stesso modo, il danno esistenziale deve poter recuperare la propria
autonomia rispetto al danno biologico, poiché quest’ultimo rappresenta solo una
delle modalità attraverso le quali può esplicarsi la sofferenza umana sul piano
esteriore, ma non l’unica.
Risulta, quindi, evidente che il rischio di duplicazioni risarcitorie non può
condurre a negare vere e proprie voci di danno risarcibili, quali quelle in esame.
Tuttavia, la “nuova” concezione di danno non patrimoniale, testé enunciata, porta
con sé alcuni rischi con i quali è necessario fare i conti.
Così, in primo luogo, sorge il problema di individuare il ruolo e la funzione delle
Tabelle del Tribunale di Milano per la liquidazione del danno non patrimoniale.
Difatti, se è vero che le tabelle milanesi non sono legge, è altrettanto vero che la
S.C., come noto, le ha elevate a vero e proprio parametro risarcitorio nazionale, al
fine di scongiurare il rischio di risarcimenti differenti per danni pressoché identici.
Più precisamente, con la nota pronuncia Cass. Civ. 7 giugno 2011, n. 12408
(pubblicata in diversi periodici, tra cui Danno e resp., 2011, 10, 939-958, con note di
HAZAN e PONZANELLI), la Cassazione aveva precisato come fosse
censurabile l’operato del giudice di merito che nella liquidazione del danno non
patrimoniale si fosse discostato dai parametri delle tabelle milanesi, prescelte dalla
S.C. come “unico valore medio di riferimento da porre a base del risarcimento del danno alla
persona, quale che sia la latitudine in cui si radica la controversia”. Pertanto, pur lasciando
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al giudice di merito la possibilità di modulare i risarcimenti in ragione delle
circostanze del caso concreto, adeguatamente motivate, la S.C. ha a suo tempo
riconosciuto la vocazione nazionale delle Tabelle predisposte dal Tribunale di
Milano, idonee a supplire alla mancanza di un’unica tabella nazionale per il
risarcimento del danno alla persona da macropermanenti.
Ora invece, nel sistema delineato da Travaglino, dove “non esiste una tabella universale
della sofferenza umana”, le tabelle milanesi rischiano di diventare un “mero”
parametro risarcitorio, senz’altro di ausilio per il giudicante ma senza alcun effetto
vincolante per lo stesso.
A ben vedere, il fatto che il danno non patrimoniale non sia inquadrabile entro
stringenti parametri tabellari non è certo una novità. Di questo erano consapevoli
anche gli stessi fautori delle tabelle milanesi che, nel quantificare il danno non
patrimoniale, inserirono adeguati meccanismi non solo per poter incrementare i
risarcimenti sulla base del caso concreto di volta in volta considerato (v., in
particolare, l’appesantimento del punto e la personalizzazione), ma anche per
consentire, in determinate circostanze, di andare oltre i limiti massimi ivi prefissati.
Difatti, con la nota esplicativa allegata alle Tabelle (consultabile sul sito
www.ordineavvocatimilano.it), l’Osservatorio per la Giustizia Civile di Milano ha avuto
cura di precisare che resta ferma “la possibilità che il giudice moduli la liquidazione oltre i
valori minimi e massimi, in relazione a fattispecie eccezionali rispetto alla casistica comune degli
illeciti”.
Pertanto, il problema che oggi si pone alla nostra attenzione non è tanto quello di
poter superare il “tetto” massimo di risarcimento prestabilito dalle Tabelle
milanesi (in ragione delle peculiarità del caso di specie), poiché sono le stesse
tabelle a consentire una personalizzazione oltre i limiti tabellari e, del resto, tale
facoltà viene esercitata, da diversi anni, in numerosi Tribunali (v., ancora, PIZZORUSSO, cit., 475).
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Piuttosto, il problema sta nel fatto che attribuire un’ontologica autonomia al
danno esistenziale e al danno morale significa, in concreto, mettere in discussione
l’intera struttura del danno non patrimoniale, così come enucleata dalle sentenze
di S. Martino, conducendo l’interprete verso un sistema risarcitorio radicalmente
diverso e che fa leva su differenti presupposti (e in particolare, con riferimento
proprio al danno estetico, il contrasto con le S.U. di S. Martino sembrerebbe
esplicito).
Si tratta, infatti, di un diverso impianto sistematico del risarcimento del danno alla
persona, che muove non più dalla mera “dilatazione” del danno biologico, ma
dalla presa in considerazione ab origine di autonome figure di danno non
patrimoniale, legate al doppio modo di manifestarsi della sofferenza umana,
all’interno dell’individuo e nei confronti del mondo esterno.
Quale può essere, dunque, la soluzione?
Nella sentenza in esame, una volta appurata l’inadeguatezza (almeno in parte) delle
tabelle milanesi, non risultano evidenti ictu oculi le concrete modalità da seguire per
procedere alla liquidazione del danno non patrimoniale.
Ad una prima lettura sembrerebbe che il Relatore voglia proporre un sistema
risarcitorio del danno non patrimoniale integralmente improntato a equità, e
questo è uno degli aspetti fortemente censurati da una parte della dottrina (v. per
tutti PONZANELLI, postfazione a Monateri, cit., 728).
In realtà, anche l’orientamento qui enunciato ribadisce la necessità di un
parametro unitario di riferimento per la liquidazione del danno alla persona.
Ciò emerge nitidamente dall’audizione del Dott. Travaglino del 7.9.2016, innanzi
alla Commissione Giustizia, nell’ambito di un’indagine conoscitiva in merito
all’esame della proposta di legge recante disposizioni concernenti la
determinazione e il risarcimento del danno non patrimoniale (visionabile sul sito
webtv.camera.it). In tale occasione, il Consigliere Travaglino, pur precisando che
“è un ossimoro ridurre a tabelle la sofferenza umana”, ha rimarcato la necessità di un
parametro unico di riferimento per la liquidazione di tutti i tipi di danno non
patrimoniale, e non solo per quelli riguardanti la lesione del diritto alla salute. Ed
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anzi, a tal proposito, il Dott. Travaglino suggerirebbe persino l’introduzione di
apposite tabelle dedicate specificamente al danno morale. Ciò al fine di evitare il
rischio che l’eccessiva discrezionalità per i giudici di merito determini dei veri e
propri arbitrii da parte degli stessi nella liquidazione del danno.
Difatti, se da un lato una simile impostazione potrebbe consentire di modulare
volta per volta il risarcimento in base alla fattispecie concreta, d’altro canto si
rischierebbe di generare vere e proprie disparità di trattamento da una Corte
all’altra, e ciò risulterebbe esattamente in contrasto con quanto si prefissava la
Cassazione nel 2011, quando individuava nelle tabelle di Milano il parametro
nazionale di riferimento proprio per scongiurare tale eventualità.
Senza contare che il nostro sistema della responsabilità civile, al di là di qualche
timida apertura verso i cd. danni punitivi (v. in proposito, tra le più recenti, Cass.
Civ., ord. 16 maggio 2016, n. 9978, in Nuova Giur. Civ. Comm., 2016, I, 10, 12851294, con nota di GAGLIARDI), contempla il risarcimento del danno come
riparazione e compensazione del pregiudizio subito, escludendo a priori un
possibile arricchimento del danneggiato.
Per quanto tale precisazione possa sembrare ovvia, il rischio di una “deriva” verso
i “punitive damages”, o comunque verso un sistema risarcitorio la cui funzione non è
più solo riparatoria ma anche sanzionatoria, si fa sempre più concreto, e rischia di
aprire la strada ad una sensibile alterazione dell’intero impianto risarcitorio.
Non v’è dubbio che il sistema tabellare presenti taluni limiti intrinseci, cui
difficilmente si può porre rimedio. Probabilmente, esso risulta pienamente
efficiente solo per il danno biologico, poiché nell’ambito del danno non
patrimoniale, gli interessi sottesi al quale sono intrinsecamente insuscettibili di
valutazione economica, è proprio il danno alla salute quello che meglio si presta
ad una quantificazione oggettiva, inquadrabile, in particolare, in un sistema
tabellare.
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Tuttavia, anche per gli altri pregiudizi non patrimoniali, un parametro unitario di
riferimento, seppur dalle maglie più larghe, sembra assolutamente necessario. Ciò
non solo per i giudici di merito che si trovano a dirimere controversie in sede
giudiziale, ma anche per gli altri operatori del diritto (avvocati e liquidatori
assicurativi in primis) che devono poter contare su una base comune di riferimento
su cui “lavorare” (anche in sede stragiudiziale). È, pertanto, evidente come, in
attesa dell’auspicato intervento normativo, la frattura apertasi in seno alla
Cassazione reclami di essere ripianata con un arresto chiarificatore, che non solo
definisca i “contorni” del danno non patrimoniale, ma anche individui
concretamente le modalità di liquidazione idonee a tutelare i diversi interessi in
gioco. In vista della predisposizione delle Tabelle Uniche nazionali per le
macrolesioni, occorrerà, dunque, implementare un parametro risarcitorio che
preveda l’adeguato ristoro del pregiudizio subito ma, al contempo, preservi quelle
esigenze di certezza necessarie a garantire alla collettività un sistema risarcitorio
uniforme ed efficiente.
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Questa Nota può essere così citata:
S. SCOLA, Il nuovo volto del danno non patrimoniale: rinascita del danno morale e
«fuga» dalle tabelle milanesi , in Dir. civ. cont., 1 febbraio 2017
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