La chiusura non è progresso

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Transcript La chiusura non è progresso

L’Osservatore
Romano
il Settimanale
Città del Vaticano, giovedì 2 febbraio 2017
anno LXX, numero 5 (3.878)
La chiusura
non è progresso
In allegato il mensile «donne chiesa mondo»
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 febbraio 2017
#editoriale
2
El Greco, «Guarigione del cieco»
(particolare)
N
ell’ambito del corso che ho tenuto quest’anno
per gli studenti dell’École Normale Supérieure, ho affrontato la questione del costruttivismo: le soglie simboliche su cui si sono finora
fondate le società umane (la distinzione uomo/animale, la differenza tra i sessi, l’ordine
delle generazioni) sono puramente costruite?
Oppure si fondano su qualcosa di reale? La
moda intellettuale vuole che tutto sia culturale, senza riferimento alla natura o a un ordine
delle cose. Non si nasce donna o uomo, lo si
diviene, almeno se lo si desidera. E la differenza dell’essere umano dalle altre specie si deve
soltanto a un orgoglio fuori luogo. Ma, come
ho detto ai miei studenti, può anche darsi che
il reale esista. Io posso rifiutare di essere un
ragazzo, anzi un essere umano, ma comunque
rifiuto qualcosa. Qualcosa che mi precede, con
cui devo fare i conti. È proprio perché nasco
donna che posso poi rifiutare di esserlo e che
posso, al contrario, in un gesto di accoglienza,
Rendere
giustizia al reale
di MARTIN STEFFENS
imparare ad accettarlo. È perché ricevo il mio
corpo che posso leggerlo come un fardello da
negare o risolverlo come un dono da scoprire.
Sapevo bene che il mio discorso andava
contro lo spirito dei tempi. Ho osato comunque dire la verità, per quanto possa apparire
banale. Perciò me lo aspettavo: gentilmente,
ma con fermezza, una delle mie allieve mi ha
suggerito che, se la penso così, è perché sono
cattolico. E quindi reazionario. Molti oggi
percorrono questa scorciatoia. Ci si può preoccupare per questo tipo di attacchi, ci si può
indignare e protestare. Ma l’angoscia, l’esasperazione o la smania di vincere non sono atteggiamenti che fanno avanzare il Regno. È meglio riflettere. E far notare, a chi vuole ascoltare, che essere cattolici permette non solo di
non abbracciare acriticamente tutte le mode
del tempo, ma anche e soprattutto di coltivare
la pace e l’attenzione alle sfumature persino
nel dissenso e nello scontro. Personalmente, se
non fossi cattolico sarei peggiore! Non solo mi
sembrerebbe aberrante che si possa negare il
reale, ma tale “negazionismo” mi esaspererebbe. Non avrei allora altra scelta che additare
con rabbia la follia dei miei contemporanei o
diventare io stesso folle.
Ma Gesù ci dice: «abbiate fiducia; io ho
vinto il mondo!» (Giovanni, 16, 33). Un cristiano ha il dovere della verità. Ma, da una parte
è la verità di una Buona Novella: se si può
rendere giustizia al reale è prima di tutto perché Dio è Creatore e buono; dall’altra, contrariamente al fanatico, il cristiano non nutre la
paura di credere che l’accettazione della verità
dipenda interamente dal suo annuncio. Non
ne fa una malattia se l’annuncio non sortisce
effetto.
La mia allieva non ha dunque torto: diventando cattolico, ho smesso di pensare la mia
libertà come potere di scegliere, a partire dal
nulla, ciò che sono. Ma se non fossi cattolico,
la cecità degli altri mi farebbe venir voglia di
cavare loro gli occhi, e non di farli aprire loro, con amore e pazienza, consapevole anche
dei miei propri limiti. Combattere per la verità come cristiano è combattere con ancor più
dinamismo e coraggio in quanto v’investe la
sua reputazione, a volte persino la sua persona, ma al contempo, essendo la guerra già
vinta, la sua gioia e il suo amore per il prossimo. Il cristiano s’impegna tanto più volentieri
nella lotta in quanto, essendo questo mondo
già salvato, vi lascerà sì delle piume, ma non
certo quelle che gli consentono di volare.
Sul costruttivismo
e l’essere cattolici
L’OSSERVATORE ROMANO
Unicuique suum
Non praevalebunt
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il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 febbraio 2017
#internazionale
3
Uomini fermati dalla polizia
nell’ambito
della «crociata nazionale
contro la droga» intrapresa
dal presidente filippino (Ap)
Filippine
e pena di morte
I
di VINCENZO
FACCIOLI PINTOZZI
l presidente filippino Rodrigo Duterte va
avanti nella sua campagna per «la pulizia morale e fisica» delle Filippine ignorando i ripetuti appelli della Chiesa locale a trovare forme
più umane di cooperazione civile. È quanto
denunciano a più riprese i vescovi e i fedeli
dell’unico paese asiatico a maggioranza cattolica — con l’eccezione di Timor Est — che seguono con apprensione l’andamento della
campagna presidenziale a favore del ripristino
della pena di morte. A questa si aggiunge poi
il progetto di modificare la Costituzione per
dare «maggiori poteri» al presidente.
Duterte aveva annunciato il ripristino della
pena di morte in più occasioni durante la sua
campagna elettorale, salvo poi metterlo da
parte una volta eletto per dare priorità alla sua
«crociata nazionale contro la droga». Quest’operazione si è trasformata in una caccia
all’uomo senza alcun rispetto per lo stato di
diritto, che in circa sei mesi ha provocato la
morte di settemila fra presunti spacciatori e
consumatori di droga.
I vescovi filippini hanno condannato l’iniziativa senza mezzi termini, parlando di «una
pena di morte di fatto senza neanche la garanzia di un giusto processo». I vescovi hanno
quindi «implorato» la polizia e le forze di sicurezza di «ritrovare il lume della ragione» e
deporre le armi. Alcuni giorni fa, il sovrintendente generale della polizia nazionale delle Filippine Ronald dela Rosa ha annunciato che
«la guerra è finita» e che ora «è arrivato il
momento di fare pulizia all’interno dei ranghi
stessi della polizia». Ma questo è accaduto
non per motivi morali o per un ripensamento
etico: il cambio di rotta è stato deciso dallo
stesso Duterte dopo la morte brutale di un industriale sudcoreano, un fatto che ha provocato le ire di Seoul e creato un dannosissimo
corto circuito economico e diplomatico con la
Corea del Sud. Per non perdere la faccia davanti ai propri sostenitori, il leader nazionale
ha dunque rispolverato il tema della pena di
morte (attraverso fucilazione) e ha chiesto al
parlamento di iniziare il prima possibile l’iter
per la costruzione di un apparato giurisprudenziale che la reintroduca dopo i duri anni
della dittatura Marcos.
Riuniti nella capitale Manila per la consueta
assemblea plenaria, i presuli delle Filippine
hanno risposto con un comunicato finale in
cui si ricorda senza mezzi termini che «affrontare la violenza con la violenza non risolverà
nulla». Il presidente della Conferenza episcopale, Socrates Villegas, scrive nel testo:
«Quando condanniamo la violenza, non possiamo divenire violenti a nostra volta. Se condanniamo l’omicidio, non possiamo commetterlo: e non importa quali siano le vestigia legali o giudiziarie. Il mondo cammina contro
l’abolizione della pena di morte, e comunque
le Filippine hanno siglato accordi internazionali che vietano il ripristino di questa forma di
punizione».
L’appello della Conferenza episcopale ha
scatenato un aspro dibattito sulla stampa vicina al governo. Alcuni quotidiani hanno chiesto — sempre “con rispetto” — ai vescovi filippini di «badare più alle anime e meno ai corpi
di chi avvelena i nostri giovani», citando
«l’enorme sostegno popolare» alle iniziative
presidenziali. «Le soluzioni facili e le posizioni
forti — nota un sacerdote del sud del paese —
piacciono ai filippini, che pensano di risolvere
i problemi del paese con una vigorosa dimostrazione di forza. Non capiscono che questo
modo di fare implica la fine innanzi tutto proprio della loro libertà».
Parole che riecheggiano nel comunicato finale della plenaria: «Continuiamo e continueremo a mantenere una costante vigilanza contro chiunque tenti di eliminare dalla Costituzione le norme che ci salvaguardano dalla dittatura e dalla legge marziale». Proprio la Carta fondamentale, sottolinea Villegas, «è il documento cardine della democrazia del paese,
un testo che deve interessare tutti i filippini.
Non lasciatevi abbindolare da chi promette soluzioni facili, e rimanete sentinelle vigili della
nostra democrazia».
Vescovi critici
sulle decisioni
del presidente
Duterte
il Settimanale
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giovedì 2 febbraio 2017
#ilpunto
4
di LUCIANO
VIOLANTE
C
harles Kupcha, stretto collaboratore di Obama, ha denunciato, dopo la vittoria di Trump,
«un cambiamento sistemico dei valori occidentali... È dal primo Novecento — ha continuato
— che non si registrava una tale ondata di
odio e di populismo». In questo mutamento
di valori rientrano i muri e il filo spinato in
Ungheria e Polonia, l’elogio della tortura fatto
dal presidente Trump, la depenalizzazione, approvata recentemente dal Parlamento russo,
delle violenze in famiglia commesse dal maschio, marito o padre, nei confronti della moglie o dei figli. Più in generale stanno cambiando le condizioni di vita: le guerre, i terrorismi, le grandi migrazioni, il livello delle ingiustizie sociali fanno sì che una parte piccola
della popolazione del mondo viaggia in jet e
una parte assai grande arranca su zattere.
C’è un rapporto tra le osservazioni di Kupcha e il cambiamento d’epoca di cui ha parlato il Papa? Probabilmente sì. Sta finendo il
mondo confezionato in base ai principi dell’illuminismo e la ragione rischia di essere travolta da una visione egoistica e conflittuale dei
rapporti umani. L’illuminismo ha avuto due
facce. Una prima ha applicato meccanicamente il principio hegeliano per il quale ciò che è
razionale è reale e ha cercato di imporre modelli di società derivanti da un modello puramente astratto. È il caso dei sistemi sovietici,
naufragati per l’impossibilità di applicare a società sempre più complesse modelli che prescindono dalle persone in carne e ossa e dalle
loro aspirazioni. L’altra versione dell’illuminismo, l’illuminismo dolce, ha fatto ricorso alla
ragione come criterio per la civilizzazione delle comunità umane: diritti fondamentali della
Come gattini
ciechi
persona, inclusione, abolizione della pena di
morte, scuola, salute, casa, occupazione per
tutti, uguaglianza. Perché e quando questi
processi sono entrati in crisi? La globalizzazione ha prodotto milioni di vincitori e miliardi
di sconfitti. Le classi dirigenti pro-global, tanto liberaldemocratiche quanto socialdemocratiche, hanno commesso due errori. Hanno confuso la civilizzazione con il politically correct e
non hanno capito i livelli di esasperazione cui
erano arrivate le classi povere. Queste ultime a
loro volta non comprendono per quale motivo
nei discorsi contro le diseguaglianze che fanno
socialdemocratici e liberaldemocratici entrino
le donne, i gay, i neri, gli immigrati e non entrino le loro famiglie e i loro figli. Le politiche
contro le diseguaglianze sono sacrosante, ma
devono riguardare tutte le diseguaglianze; altrimenti, paradossalmente, diventano piedistalli di nuove inaccettabili discriminazioni. Di
qui l’avversione di gran parte delle classi deboli, i forgotten come li ha chiamati Trump, nei
confronti delle politiche antidiscriminatorie e
il loro consenso per la scorrettezza politica del
candidato repubblicano. Per affrontare le difficoltà del suo blocco sociale Trump propone il
protezionismo; in Europa sembra prendere
piede il reddito di cittadinanza, che però non
si sa bene come finanziare. Ma il problema di
fondo non riguarda le regole, riguarda i valori
senza dei quali le regole si muovono come gattini ciechi in direzioni disordinate e conflittuali. Alcuni pilastri ideali che sembravano incrollabili stanno cedendo perché nessuno ne ha
fatto una equa manutenzione. Il mondo no
global, nelle sue diverse articolazioni, offre ai
problemi posti dalla immigrazione, dalla discriminazione e dalla disoccupazione soluzioni
dure e quindi rassicuranti, indipendentemente
dalla loro efficacia. Chi non crede in queste
soluzioni ha il dovere di riprendere in mano il
tema dei valori, della civilizzazione delle comunità umane, grandi e piccole, e di una nuova stagione, più responsabile, dell’illuminismo.
Le ingiustizie
sociali fanno sì
che una piccola
parte
della popolazione
del mondo
viaggi in jet
e una parte
assai grande
arranchi su zattere
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giovedì 2 febbraio 2017
#culture
5
Scelti da tutto
il mondo
I
l concistoro del 19 novembre 2016, con il quale
sono entrati nel collegio dei cardinali 17 nuovi
membri, ha riacceso l’attenzione su questo singolare organismo che da oltre nove secoli elegge il papa. Caratteristico della Chiesa romana,
l’istituto cardinalizio viene fatto risalire all’età
tardoantica. In quest’epoca il termine latino
cardinalis aveva un’accezione prevalentemente
liturgica, ed era usato per i membri del clero
legati alle principali chiese di Roma, poi anche per alcuni ecclesiastici in altre diocesi, e
non solo in Italia.
In realtà la storia del cardinalato inizia ad
assumere vera rilevanza dopo il Mille, con il
movimento di riforma generato da un forte
impulso della sede romana. Nel 1059 l’elezione
papale, in cui per secoli erano intervenute diverse componenti della Chiesa romana, viene
infatti riservata ai cardinali vescovi e solo molto più tardi, nel 1179, si estende agli altri ordini di cardinali, cioè ai cardinali preti e ai cardinali diaconi. Non è dunque forse un caso
che la prima attestazione dell’espressione sacrum collegium compaia tra queste due date, in
un documento sinodale francese del 1148.
Entrata presto nell’uso corrente, molti secoli
dopo la definizione di “sacro collegio” viene
ratificata nel Codex iuris canonici del 1917, con
un’aggiunta: i cardinali costituiscono «il senato del romano pontefice». Le due espressioni
non verranno tuttavia recepite nel codice riformato dopo il Vaticano II e promulgato nel
1983, dove l’istituto è descritto più sobriamente come peculiare collegium, che “particolare” lo
è davvero.
Proprio negli anni in cui al collegio ormai
denominato “sacro” veniva riservata l’elezione
del papa, Bernardo da Chiaravalle, nel celebre
De consideratione, rivolgendosi a Eugenio III,
suo antico discepolo divenuto successore
dell’apostolo Pietro, dedica un capitolo alla
scelta dei cardinali, e si chiede “se non debbano essere scelti da tutto il mondo quelli che il
mondo giudicheranno” (an non eligendi de toto
orbe orbem iudicaturi). Bernardo è dunque il
primo a porre la questione dell’internazionaliz-
zazione, come oggi si direbbe; una questione
che verrà poi dibattuta soprattutto a partire
dagli inizi del Trecento, quindi negli anni del
conciliarismo quattrocentesco e infine in età
contemporanea, mentre con il trascorrere del
tempo andrà sempre più a incrociarsi con le
vicende e il nodo del potere papale.
All’ecclesiologia medievale risale infatti la
singolare definizione di “parte del corpo del
papa” (pars corporis papae) per indicare l’insieme dei cardinali: è appunto il pontefice a sceglierli, anzi a crearli, termine tecnico che intende proprio sottolineare questa prerogativa
sovrana — ma spesso condizionata da non poche variabili — nella selezione dei più stretti
collaboratori del papa nel governo della Chiesa. E nel cuore del medioevo il sacro collegio
si afferma come un organismo ristretto e influente che nel 1289 riesce a ottenere dal pontefice la metà delle entrate della sede romana.
Non interessati anche per questo motivo ad
aumentare di numero, i cardinali governano
realmente insieme al pontefice grazie ai frequentissimi concistori.
Tra alterne vicende, tuttavia, sin dagli inizi
del Cinquecento questa forma particolare di
esercizio della collegialità si stempera, per l’aumento progressivo del collegio e quindi per la
parallela perdita d’importanza dei concistori a
vantaggio delle congregazioni romane. Questa
doppia tendenza viene sancita dalle decisioni
di Sisto V, che nel 1586 per il sacro collegio fissa il limite di settanta membri, mantenuto per
quasi quattro secoli, e due anni più tardi riforma la curia romana, stabilendo un assetto rimasto di fatto inalterato sino al radicale aggiornamento voluto da Pio X nel 1908.
La questione posta invece già all’esordio
dell’istituzione cardinalizia da Bernardo da
Chiaravalle comporta vari aspetti, di ordine
politico e teologico, che convergono sulla questione decisiva del potere papale e sulle possibilità di condizionarlo, e non solo al momento
dell’elezione in conclave. Così nel medioevo si
discute sull’opportunità di creare cardinali tedeschi, ammessa con difficoltà e di fatto non
verificatasi per oltre due secoli tra Duecento e
Quattrocento. Sono più rari di un corvo bianco, si scrive nel 1519, e questo a causa di una
sorta di bilanciamento visto come necessario
tra imperium, appannaggio della nazione germanica, e sacerdotium, da lasciare quindi ad altre nationes. Nel 1294 si registra invece il più
pesante intervento di un potere laico in tutta
la storia del sacro collegio per l’influenza angioina sull’unica creazione cardinalizia effettuata da Celestino V nel suo brevissimo e infelice pontificato.
Le trasformazioni
del collegio
cardinalizio
il Settimanale
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#culture
6
Non è poi certo un caso che una prima internazionalizzazione del sacro collegio intervenga nell’età del conciliarismo con Eugenio
IV, ovviamente ristretta in larghissima prevalenza ai diversi stati italiani, alla Francia e alla
Spagna. Questa tendenza sarà poi mantenuta
per tutta l’età moderna: in quest’epoca «la stabile maggioranza italiana nel collegio dei cardinali era una condizione indispensabile della
libertà d’azione del papa» grazie a nomine
«più affidabili di quelle straniere, che erano
forzate», sintetizzerà senza giri di parole lo
storico anglicano Owen Chadwick nel suo The
Popes and the European Revolution. E l’allusione dello studioso è naturalmente alle creazioni
volute dalle corone, soprattutto tra Cinquecento e Settecento. Si spiega così la schiacciante
prevalenza degli italiani, in particolare di quelli provenienti dallo stato pontificio, nella scelta dei cardinali, tenacemente perseguita dai
papi e garanzia, implicita o almeno sperata,
per un governo meno influenzato da forze
esterne.
Bisogna però arrivare al lunghissimo pontificato di Pio IX perché il numero dei cardinali
italiani cominci a decrescere. Se infatti dei 205
creati tra il 1800 e il 1846 dai suoi quattro predecessori ben 160 sono gli italiani (il 78 per
cento), la percentuale con Mastai Ferretti scende al 58 per cento (71 su 123), e viene mantenuta da Leone XIII (85 su 147), per abbassarsi
ancora al 53 per cento (83 su 158) con i loro
tre successori tra il 1903 e il 1937, anno dell’ultima creazione cardinalizia di Pio XI. Ratti nel
1924 tiene un piccolo concistoro per due soli
cardinali, ma entrambi statunitensi, ed è questa la prima creazione, sia pure minuscola,
senza europei. Questa particolarità verrà ripetuta soltanto dall’ultimo concistoro di Benedetto XVI, alla fine del 2012, quando i sei cardinali non europei mostreranno la necessità di
bilanciare il precedente concistoro tenuto
all’inizio dello stesso anno, dove ben due terzi
dei 18 nuovi cardinali erano europei (tra loro,
sette italiani).
La rivoluzione in questo ambito avviene pochi mesi dopo la conclusione della seconda
guerra mondiale, quando il 24 dicembre 1945
Pio XII annuncia il suo primo concistoro per la
creazione di cardinali, il più numeroso fino ad
allora registrato e che il papa tiene il 18 febbraio: gli ecclesiastici rivestiti della porpora romana da Pacelli sono ben 32, di cui soltanto
quattro italiani. «Un’immagine viva dell’universalità della Chiesa» sottolinea il papa in
quella vigilia di Natale, perché «come abbiamo veduto negli anni trascorsi del nostro pontificato confluire nell’eterna città, nonostante
la guerra, uomini di ogni nazione e delle più
lontane regioni, così avremo ora, cessato il
conflitto mondiale, la consolazione — piacendo
al Signore — di veder affluire intorno a noi
nuovi membri del sacro collegio provenienti
dalle cinque parti del mondo». E, quasi a prevenire le critiche per la drastica riduzione degli italiani, Pacelli aggiunge che l’Italia non
«ne rimarrà diminuita, ché anzi splenderà agli
occhi di tutti i popoli come partecipe» della
grandezza e dell’universalità della Chiesa che
l’ultimo papa romano definisce «soprannazionale»: madre che «non appartiene né può appartenere esclusivamente a questo o a quel popolo» e che «non è né può essere straniera in
alcun luogo». Così, dopo un secondo concistoro nel 1953, alla fine del pontificato di Pio
XII i cardinali italiani crolleranno al 27 per
cento (14 su 52) mentre gli europei scenderanno sotto i due terzi.
È dunque questo il vero inizio dell’internazionalizzazione del sacro collegio, continuata
in proporzioni diverse dai suoi successori. Nelle creazioni di Giovanni XXIII — che oltrepassa
il numero dei cardinali fissato da Sisto V quasi
quattro secoli prima e moltiplica le nazionalità
— gli italiani risalgono infatti al 42 per cento
(22 su 52) e gli europei ben oltre i due terzi.
Al pari di Pacelli, a innovare incisivamente per
quanto riguarda il sacro collegio è Paolo VI,
che crea ben 143 cardinali: tra loro 38 italiani,
che tornano così a scendere e non superano il
27 per cento; ma soprattutto a calare in maniera sensibile, sotto i due terzi, sono gli europei.
All’inizio degli anni settanta a Montini —
che secondo John F. Broderick dichiara pubblicamente i criteri delle sue creazioni cardinalizie come nessun altro predecessore aveva fatto — risalgono altre due misure radicalmente
innovative nella storia del sacro collegio:
l’esclusione dei cardinali ultraottantenni dal
diritto di voto attivo in conclave e l’innalzamento del limite degli elettori, fissato a 120.
Nei due conclavi del 1978 entrano così 111 elettori, e sono 115 in quello del 2005, con una sostanziale parità numerica — nei tre conclavi —
tra europei e non europei, mentre in quello del
2013 tra gli elettori vi è un leggero aumento
dei cardinali europei (60 su 115), conseguente
alle scelte di Benedetto XVI.
Primo papa non europeo da quasi tredici secoli, Francesco ha creato 44 cardinali elettori:
tra loro, meno di un terzo sono europei, e cioè
14 (metà dei quali italiani, circa il 16 per cento). Così, all’indomani della terza creazione
cardinalizia di Bergoglio, il 29 novembre 2016,
gli elettori erano 120, cioè il numero massimo
previsto dalla riforma di Paolo VI e solo episodicamente oltrepassato dai suoi successori. Tra
i cardinali elettori i 66 non europei erano ormai in una maggioranza — già registrata per
brevi periodi nell’ultimo quarantennio, ma più
accentuata e destinata ad aumentare — a fronte
dei 54 europei (tra questi, ben 25 italiani). Nel
complesso, un quadro molto variegato e che
anche nella composizione del collegio cardinalizio rispecchia ed esprime davvero, come ha
detto il pontefice settant’anni dopo il primo
concistoro di Pio XII, l’universalità della Chiesa. (g.m.v.)
il Settimanale
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#catalogo
7
di DARIO
FERTILIO
D
In scena a Milano
il capitolo
più misterioso
dei «Fratelli
Karamazov»
i diavoli, si sa, teatro, cinema e letteratura ne
producono in abbondanza; eppure, ad ogni
loro nuovo apparire, il pubblico invariabilmente risponde. Quasi che il signore delle tenebre,
confinato nella psicoanalisi o sbeffeggiato con
ironia nel discorso diurno, colga le sue rivincite durante quello artistico e notturno.
Prendiamo la nuova rappresentazione dei
dostoevschiani Fratelli Karamazov, un adattamento di Alberto Oliva e Mino Manni andato
in scena al Teatro Parenti di Milano. Qui non
si affronta l’intero, sterminato romanzo di idee
che conclude l’epopea narrativa di Dostoevskij, ma soltanto il suo capitolo più misterioso:
la visita privata del demonio all’occhialuto,
ateo e cerebrale Ivan, prototipo dell’intellettuale freddo e spietato che pochi anni più tardi assumerà in Russia le sembianze di homo
bolscevicus.
La stanza sporca e degradata dove si svolge
il dialogo — ci sono una vasca da bagno scrostata, libri polverosi, il vaso con lo sciacquone,
uno specchio, un logoro asciugamano — materializzano la solitudine disperata di Ivan, che
protende tutto se stesso alla ricerca di una
spiegazione razionale in grado di offrirgli il
dominio della realtà.
L’ingresso in scena del bravo Mino Manni
nei panni buffoneschi del demonio spezza il
suo soliloquio, e coinvolge il pubblico con un
funambolismo grottesco da commedia nera. È
confortante, in fondo, la comparsa del soprannaturale, quando movimenta il nostro mondo
troppo razionale: così il duetto pare quasi rassicurante. Se il diavolo è soltanto un prodotto
della mente sovraeccitata di Ivan, al limite del
delirio, allora ci troviamo nel campo delle psicopatologie nervose, e la tesi freudiana del demoniaco come rimozione dei nostri lati oscuri
e distruttivi può apparire pienamente confermata. Il giovane, nello spettacolo del Parenti
come nel romanzo originale, continua a insultare il diavolo, a provocarlo, rinfacciandogli di
essere soltanto un parto della sua fantasia.
L’altro lo stuzzica, arrivando ad assecondare
il suo scetticismo pur di indurlo a consegnarsi
a lui. In questa versione teatrale, Ivan svela
addirittura un inaspettato lato buono, se non
buonista: dichiara di rifiutare l’idea di un
mondo creato da Dio perché ciò significherebbe anche giustificare la sofferenza degli innocenti, e dei bambini. Qui, nella incomunicabilità fra i due interpreti. e nella pazzia incombente di Ivan, si arresta il dramma messo in
scena.
Nel romanzo, invece, il diavolo dichiara
apertamente che, se Dio non esiste, tutto è
possibile, e il male terrestre è perfettamente
compatibile con l’auto divinizzazione dell’uomo. Subito dopo un’ombra cupa avvolge Ivan,
allorché gli viene comunicato che è stato appena commesso un suicidio per causa sua. Come, del resto, il suo soprannaturale visitatore
aveva preannunciato un attimo prima.
Gli interrogativi più inquietanti dell’opera
di Dostoevskij, nell’ultima versione teatrale
milanese, vengono dunque lasciati sullo
Un momento
dello spettacolo al teatro Parenti
Quel diavolo
di Dostoevskij
sfondo. Ma di certo si riproporranno dal 7
marzo, giorno in cui nel cartellone del Parenti
è prevista la rappresentazione integrale di Delitto e Castigo. Facile prevedere un nuovo successo di pubblico: troppe domande sulla natura del male, relativo o assoluto, sorgono spontaneamente e angosciosamente in noi, perché
non si colga l’occasione di metterle a punto —
magari nella speranza di esorcizzarle — sulla
scena.
il Settimanale
L’Osservatore Romano
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#confronti
8
Il film di Scorsese
«Silence» sta
suscitando dibattiti
per la ricchezza
dei temi affrontati
Riguarda
il Giappone
del Seicento
ma propone anche
interrogativi
a cui non eravamo
più abituati
a rispondere
I
l film di Scorsese sta suscitando ampi dibattiti,
dentro e fuori del mondo cattolico, proprio a
motivo della ricchezza dei temi che affronta.
Riguarda il Giappone del Seicento, ma anche
l’oggi, tempo di persecuzione dei cristiani per
la loro fede, e propone una serie di domande
alle quali da tempo non eravamo più abituati
a rispondere.
La prima, sicuramente, è quella cruciale: ha
senso morire per Dio? Oggi e ieri questa
domanda scuote fin nel profondo il senso della fede, e il valore che diamo alla vita, la vigliaccheria e il coraggio, la speranza e la disperazione. La risposta dei contadini giapponesi suggerisce che è più facile avere il coraggio di morire ù se sappiamo di andare in paradiso dove staremo molto meglio che nel mondo in cui viviamo ù per chi in questo mondo
vive in situazioni di oppressione e di fatica
estrema.
Ma questa non è l’unica scossa che il film
procura alla coscienza dello spettatore: altre
D omande
dimenticate
di LUCETTA
SCARAFFIA
tre sono le questioni gravi che pone il film.
Una riguarda le possibilità di inculturazione
della fede cristiana: i contadini giapponesi che
soffrono sotto le terribili persecuzioni sono veramente cristiani o hanno costruito una religione sincretistica, alla quale credono sì ciecamente, ma che alla fine poco ha a che vedere
con la tradizione cristiana?
La risposta di Ferreira a questa domanda è
negativa: i cristiani giapponesi non sono veri
cristiani, tutta l’opera di conversione in cui
tanti si sono impegnati fino a perdere la vita è
stata un fallimento. E in questo trova la giustificazione della sua apostasia. Ma alle radici
dell’apostasia dei due gesuiti sta un’altra ragione: la sofferenza che il loro rifiuto arrecava
a dei contadini inermi. Un cristiano è padrone
di donare la sua vita, ma non quella di un altro. Ed è attraverso questo scambio di destino
che i giapponesi riescono a provocare la resa
dei due missionari. Ma accettare di rinnegare
il cristianesimo per salvare altri da orribili torture, per dei veri credenti significa perdere la
propria anima: ha un senso dannarsi l’anima
per gli altri? Non è questo forse il supremo sacrificio che Cristo richiede ai due gesuiti? Non
è questo l’atto di carità suprema, e non un tradimento? La questione in un certo senso rimane aperta, ma la fedeltà a Gesù di Rodrigues è
testimoniata dal piccolo crocifisso che la moglie giapponese gli mette in mano dopo la
morte. Una sepoltura buddista, ma in mano
l’obolo per il paradiso cristiano...
Ma la questione che ha più intrigato i commentatori laici ù in primo luogo il filosofo Roberto Esposito ù è il silenzio di Dio, dal quale
prende il nome il romanzo e poi il film. Il silenzio di Dio che è stato al centro delle riflessioni e dell’esperienza di mistici e filosofi, e si
è posto come questione drammaticamente attuale dopo la tragedia della Shoah.
Una risposta possibile, suggerita dal filosofo, è che questa eclissi di Dio nel momento
più drammatico lascerebbe l’uomo libero di
decidere, e quindi anche di scoprire che non
hanno alcun valore le differenze religiose,
quindi non sarebbe un peccato l’apostasia.
Questa interpretazione mi lascia molto perplessa: nel film di Scorsese il continuo riferimento alla passione di Cristo suggerisce invece
che la via dell’apostasia per salvare gli altri è
una via di amore simile a quella del crocefisso.
La complessità della questione, o per meglio
dire delle questioni, che il film propone costituiscono il centro del suo interesse e quindi la
ragione principale dell’interesse e del dibattito
che sta suscitando.
La scena
del martirio
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 febbraio 2017
#confronti
9
Già Charles Péguy
avvertiva
dei pericoli insiti
nel trasformare
la mistica
in politica
e nell’avvolgere
i nostri pregiudizi
ideologici
in alibi religiosi
M
di JUAN MANUEL
PRADA
DE
entirei se affermassi che mi hanno sorpreso le
esecrazioni e gli anatemi che ha ricevuto Silence, l’ultimo film di Scorsese, da certi ambiti
cattolici. Mentirei anche se dicessi che mi ha
scandalizzato il fatto che, per denigrarlo, siano
stati usati metodi scorretti, divulgando interpretazioni false e strampalate del film. Ma
mentirei pure se, come artista, nascondessi che
tali esecrazioni mi hanno costernato e ferito
profondamente. Perché queste reazioni dimostrano nuovamente l’incomprensione che da
certi ambiti cattolici si professa per ogni arte
che non sia schematica o dottrinaria, ma complessa e problematica (ossia autentica arte).
Fenomeno che, a mio giudizio, costituisce una
delle prove più tristi della decadenza di molta
cultura cattolica.
Che in certi ambiti cattolici esista una franca ostilità verso l’arte è un’evidenza innegabile. Come lo è anche, naturalmente, che tale
ostilità sia a volte la reazione logica verso
un’arte nichilista, espressione di un’epoca che
odia la bellezza e pugnala la nostra sensibilità.
Ma questa ostilità si rivolge anche di frequente a opere di grande valore che, semplicemente, non si inquadrano in un sentimentalismo devoto. La verità è che molte vette
dell’arte cattolica sono state realizzate proprio
da artisti dai costumi licenziosi ed eterodossi,
da Caravaggio a Pasolini, passando per Lope
de Vega o Oscar Wilde. Ed è perché la grazia
ù come c’insegna ancora Péguy ù molte volte
utilizza la porta di ingresso del peccato per
benedire i suoi prediletti. Dio sceglie spesso
quanti sono caduti e sporchi come depositari
dell’arte più alta e sublime; e il rifiuto degli
artisti “reprobi” è in fondo il rifiuto della grazia divina. Questo rifiuto ha provocato una
triste decadenza dell’arte cattolica, oggi naufraga nella più assoluta irrilevanza, che, mentre espelle artisti come Martin Scorsese, accoglie opere inani, sdolcinate, pacchiane e affettate, pura arte dis-graziata nel senso più stretto
del termine.
Senza rendercene conto, noi cattolici cominciamo ad assomigliare a quegli eretici iconoclasti dei primi secoli bizantini, che proclama-
vano orgogliosi il loro odio per l’espressione
sensibile della divinità. L’unione del creatore
con la creatura non si ferma, per il cattolico,
all’essere razionale dell’uomo, ma abbraccia
anche il suo essere corporale e, per suo tramite, la natura materiale dell’intero universo.
A questa tentazione iconoclasta si somma
una certa infezione di radice puritana, che rifiutando il dogma del peccato originale nega
la possibilità del “dramma”, che è il fulcro costitutivo della vera arte. Sopprimendo il peccato originale, si negano le conseguenze del male sulla natura umana; e tale negazione ha dato luogo in ambiti anticattolici a un’arte frivola in cui le categorie morali si confondono fino a diventare interscambiabili, o meglio
un’arte cinica dove il male diventa fatidicamente invincibile e dove si nega la capacità
dell’uomo di combatterlo e sconfiggerlo. Ma
in ambito cattolico questa infezione puritana
ha avuto anche conseguenze funeste, conferendo legittimità a un’arte infantilizzata che nega
L’arte
e i cattolici
il principio della felix culpa e la natura drammatica della vita umana, quella “libertà imperfetta” che caratterizza la lotta dell’uomo in
cerca di redenzione.
Per secoli, l’arte cattolica è stata un’arte piena di grazia perché ha saputo addentrarsi nel
“territorio del Nemico” e far luce sul conflitto
che si scatena nelle zone di penombra del cuore umano.
Gli attori Andrew Garfield
e Shinya Tsukamoto
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 febbraio 2017
#dialoghi
10
di ZOUHIR
LOUASSINI
N
on c’è niente da fare. Ho un vero
debole per la musica arabo andalusa, quella molto vicina al flamenco.
So che all’orecchio “occidentale”
suona monotona e un po’ noiosa,
ma per me rimane la musica
dell’adolescenza, la sola a consolare
le mie delusioni d’amore. Questione di gusti!
In quell’epoca nasceva a Tangeri
una Radio dedicata al Mediterraneo. Quella musica ne era il tappeto sonoro. Per tutto il corso della
giornata vi risuonavano ritmi provenienti da
Algeria, Tunisia e Marocco. Le voci sublimi
dei cantanti ti facevano viaggiare in un mondo
di armonia tra culture diverse: ebrea, cristiana
e musulmana. Quei suoni provenivano dal IX
Secolo, l’epoca dell’emirato di Abderrahman
II. Erano le armonie dell'Andalus di Ziryab, il
musicista persiano considerato come l’iniziatore del genere.
Molti artisti magrebini hanno permesso la
sopravvivenza di questa musica che continua
ancora oggi a raccogliere seguaci e appassionati. Tra tutti mi limiterò a citare Salim Halali,
non solo per la sua maestria e capacità musicali, ma per un episodio della sua vita che mi
sembra opportuno raccontare a ridosso della
giornata della memoria.
Quando
la musica unisce
Halali, il cui nome era Simon prima di scegliere un nome d’arte, era di origini algerine:
cantante e suonatore di liuto, darbuka e violino. Nato a luglio del 1920 vicino ad Annaba,
nel seno di una famiglia di musicisti ebrei.
Suo padre era di origini turche, sua madre era
berbera.
Nel 1937, Halali è a Parigi, dove inizia a raccogliere consensi e apprezzamenti. Il suo in-
contro con il musicista algerino Mohamed el
Kamel è decisivo: è lui che scrive tutti i primi
successi discografici di Halali.
Tutto fila liscio fino all’occupazione tedesca.
Le origini ebree di Salim diventano un pericolo per la sua vita. La storia (e qualsiasi enciclopedia) ci racconta come fu salvato dal fondatore e primo rettore della moschea di Parigi.
Si Kaddour Benghabrit, così si chiamava, gli
procurò documenti falsi perché risultasse un
musulmano, arrivando a scolpirne la “prova” —
il nome del padre defunto — su una tomba
anonima del cimitero musulmano di Bobigny
(Seine-Saint-D enis).
Sì Kaddour Benghabrit era nato a Sidi Bel
Abbes, Algeria, nel 1868. Era un intellettuale
con al suo attivo numerosi libri, oltre ad essere
un amante della musica, suonatore di oud e di
violino. Fu lui a convincere Salim Halali a
cantare nel caffè moresco appartenente alla
moschea, in cui si sarebbe poi esibito in compagnia di grandi artisti come Ali Sriti e
Ibrahim Salah.
Dopo l’interruzione dovuta alla guerra, Halali torna al successo suscitando l’ammirazione
persino della grande diva egiziana Umm Kulthum. Si trasferisce poi a Casablanca, in Marocco, dove inizia a esplorare gli ibridi ritmi
giudeo-arabi come la famosa canzone A yidishe
mame (una madre ebrea). Nel 1970 acquista
una casa discografica e si dedica a produrre i
lavori di musicisti magrebini.
In Marocco è ricordato ancora per la sua
grande generosità. Aiutava molti poveri soprattutto nei periodi delle feste islamiche. È
commemorato anche per aver devoluto in beneficenza la totalità dei diritti delle sue canzoni.
A chi continua a fomentare l’odio ovunque:
perché storie del genere non vi interessano?
Suonatore di liuto
in un manoscritto arabo
della fine del XII secolo
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 febbraio 2017
#copertina
11
Dopo gli ordini
esecutivi
del presidente
statunitense
La chiusura
non è progresso
S
di GIUSEPPE
FIORENTINO
ono perfettamente in linea con le promesse
fatte durante la campagna elettorale gli ordini
esecutivi che Donald Trump ha firmato appena assunta la presidenza degli Stati Uniti. Del
muro al confine con il Messico ha fatto il suo
cavallo di battaglia nei mesi che hanno preceduto la vittoria su Hillary Clinton. E anche la
promessa di limitare l’immigrazione dai paesi
a maggioranza islamica è stata tra i punti fondanti del programma. In molti avevano considerato tali proposte irrealizzabili o le avevano
classificate come esagerazioni tipiche del clima
pre-elettorale. E forse anche per questo tutti i
sondaggi, senza alcuna eccezione, avevano dato fino all’ultimo giorno Clinton per vincitrice.
Invece a vincere è stato Trump. Ma non bisogna pensare che il suo trionfo sia dovuto ai
progetti di chiusura. Il candidato repubblicano
è potuto entrare nello studio ovale perché ha
saputo occupare uno spazio che la classe politica di Washington — non a caso indicata da
Trump come il nemico numero uno — non ha
saputo sfruttare. Ha elaborato cioè un programma il cui punto qualificante è il recupero
della produzione industriale in territorio statunitense, come risposta all’impoverimento causato dalla globalizzazione.
Solo un’analisi superficiale può tuttavia far
pensare che la lotta alle storture di una globalizzazione mal gestita vada di pari passo con
la chiusura dei confini o l’edificazione di muri.
A dimostrarlo è la stessa storia degli Stati Uniti che hanno costruito la loro potenza economica, e quindi la loro influenza politica, grazie
al lavoro degli immigrati. Che, peraltro, sono
ancora una risorsa preziosa, come testimoniano le reazioni di molti esponenti di spicco del
nuovo capitalismo a stelle e strisce di fronte
alla decisione di limitare l’immigrazione.
Da Tim Cook di Apple (Steve Jobs era di
origine siriana) a Mark Zuckerberg di Facebook, la presa di distanza dall’iniziativa di
Trump è stata unanime. Ma se non è una sorpresa che la silicon valley della California post-hippie sia lontana dal nuovo presidente, certamente inedito è l’atteggiamento di giganti
della finanza come Goldman Sachs, che annovera alcuni suoi uomini di spicco all’interno
della nuova amministrazione. Ciò nonostante
un messaggio è stato inviato a tutti i dipendenti per sottolineare che l’istituto «non sostiene queste politiche».
Tali prese di posizione si spiegano con la
constatazione che chiudere le porte significa
privare il paese di risorse. E bisogna ricordare
che l’iniziativa del presidente riguarda le persone provenienti da sette Stati considerati a rischio terrorismo, con l’esclusione di quelli che
intrattengono rapporti economici più stretti
con gli Stati Uniti. Certo è molto presto per
parlare di un Trump isolato, e lo stesso presidente — secondo cui il blocco parziale dell’aeroporto di New York non è stato dovuto alle
proteste ma a un problema al sistema della
Delta Airlines — si è affrettato a sottolineare
che la maggioranza degli statunitensi sta con
lui. Ma Trump dovrà tenere conto delle reazioni della società civile, giunte anche da parte
cattolica, verso un’iniziativa che può non solo
rivelarsi nociva per la sfera economica, ma
che, per quanto concerne il rifiuto dell’accoglienza dei profughi, sembra andare contro la
tradizione statunitense di tutela dei diritti.
Durissime anche le condanne degli ambienti
politici internazionali. Dall’Onu all’Ue il coro
è stato unanime. Ma in un mondo che tollera
la persecuzione dei cristiani in Medio oriente,
la tragedia dei rohingya o i fili spinati nel cuore dell’Europa nessuno può dirsi innocente.
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 febbraio 2017
#copertina
12/13
Foto aerea scattata con un drone il 26 gennaio sul confine
tra Stati Uniti e Messico presso la periferia di Tijuana (Afp)
Dall’episcopato statunitense
un appello alla difesa della dignità
Un appello in difesa della dignità umana
è stato lanciato dai vescovi statunitensi,
che sono tornati a criticare il
provvedimento restrittivo deciso dalla
Casa Bianca sull’accoglienza dei profughi
provenienti da sette paesi a maggioranza
musulmana. In una dichiarazione a firma
del presidente e del vicepresidente della
Conferenza episcopale, rispettivamente il
cardinale Daniel N. DiNardo e
l’arcivescovo José Horacio Gómez, si
invitano tutti i fedeli cattolici a unire la
voce «in difesa della dignità umana». Per
i presuli non si tratta di un’intromissione
in uno dei momenti più delicati della
scena pubblica — «il nostro desiderio non
è quello di entrare nell’arena politica» —
quanto di ribadire il contenuto centrale
del vangelo, perché «accogliere lo
straniero non è un’opzione tra le tante
nella vita cristiana». Citando la
dichiarazione conciliare Nostra aetate, i
vescovi sottolineano come il legame tra
I vescovi messicani
chiedono rispetto per i migranti
«Esprimiamo il nostro dolore e rifiuto per
la costruzione di questo muro, e
invitiamo rispettosamente a fare una
riflessione più approfondita sui modi
attraverso i quali si può garantire la
sicurezza, lo sviluppo, la creazione di
posti di lavoro e altre misure, necessarie
ed eque, senza causare ulteriori danni a
coloro che già soffrono, i più poveri e i
più vulnerabili»: lo ha scritto la
Conferenza episcopale messicana nel
comunicato intitolato «Valor y respeto al
migrante», diffuso in seguito alla
decisione del presidente statunitense
Trump, di costruire un muro al confine
per frenare l’immigrazione illegale. Nel
documento si sottolinea che la Chiesa in
Messico continuerà a «sostenere in modo
stretto e solidale i tanti nostri fratelli che
vengono dal Centro e dal Sud America e
che attraversano il paese verso gli Stati
Uniti». Si invitano inoltre le autorità
messicane a continuare nella ricerca di
cristiani e musulmani si fondi «sulla forza
indistruttibile della carità e della
giustizia», ribadendo altresì che «la
Chiesa non rinuncia alla difesa dei nostri
fratelli e sorelle di tutte le fedi che
soffrono per mano di persecutori
spietati». In questo senso, viene ricordato
che quanti scappano dallo stato islamico
e dalla furia di altre forze estremiste
«stanno sacrificando tutto» quello che
hanno di più caro «nel nome della pace e
della libertà». Si tratta di persone e di
famiglie che «sono alla ricerca di
sicurezza e protezione per i loro figli».
Da qui dunque un rinnovato appello
all’accoglienza. Occorre sempre vigilare
sul pericolo di possibili infiltrazioni
terroristiche ma «la nazione — sostengono
— deve dare loro il benvenuto come
alleati in una lotta comune contro il
male». E assicurano che, dove ci sono
persone rifiutate e abbandonate,
leveranno la voce «in loro nome».
dialogo e di accordi con gli Stati Uniti,
affinché «siano salvaguardati la dignità e
il rispetto» di persone che cercano solo
migliori opportunità di vita. «Rispettiamo
il diritto del governo degli Stati Uniti di
proteggere le sue frontiere e i suoi
cittadini, ma non crediamo che
un’applicazione rigorosa e intensiva della
legge sia la maniera giusta per
raggiungere i propri obiettivi, e che al
contrario tali azioni originano allarme e
paura fra i migranti, disintegrando molte
famiglie, senza ulteriore considerazione».
Nel testo viene messo in rilievo il lavoro
ventennale portato avanti dai vescovi
della frontiera settentrionale del Messico
con i vescovi di quella meridionale degli
Stati Uniti, che ha permesso la creazione
di comunità di fede seguite da diocesi
confinanti. «Molte persone legate da
relazioni familiari, di fede, lavoro o
amicizia saranno bloccate ancora di più»
da questa decisione, avvertono i presuli.
La tratta di esseri umani un mercato come gli altri
E
di CHARLES
PECHPEYROU
DE
se, invece della droga o delle armi, fosse stata trovata una merce
più redditizia e più facile da trasportare da un continente all’altro, dai paesi più poveri del mondo verso la vecchia Europa? E se
si trattasse di esseri umani, pur considerati sacri? Questo ragionamento, che sembra da incubo, è stato già applicato da numerosi
trafficanti in diversi punti del mondo durante quest’ultimo decennio, deplora Loretta Napoleoni in «Mercanti di uomini» (Milano,
Rizzoli, 2016, pagine 350, euro 18,50), libro-inchiesta pubblicato a
gennaio. L’autrice denuncia inoltre l’ingenuità, o meglio la complicità dell’Occidente nei confronti di questo “commercio”, finanziato in gran parte dal terrorismo, e che a sua volta lo finanzia.
Un commercio dove un prezzo viene dato, come accade per tutti
i mercati, alla merce, che qui sono gli esseri umani.
Come spesso accade, a dare l’avvio è stato il boom dei prezzi:
citando fonti dell’Interpol, chi controllava il racket dell’immigrazione in Costa d’Avorio quindici anni fa guadagnava tra 50 e 100
milioni di dollari l’anno. Nel 2015, solo in Libia la tratta dei migranti ha fruttato circa 300 milioni di euro netti. «Allo stesso modo, oggi è più semplice e lucroso organizzare i viaggi dei Siriani
in fuga che sequestrare gli occidentali», afferma Loretta Napoleoni, che ha raccolto tante testimonianze, spesso agghiaccianti, per
arricchire la sua argomentazione. Tragicamente, nello stesso modo
in cui, qualche anno fa, il fiorente mercato dei rapimenti classificava gli ostaggi in base a criteri ben precisi, «compreso l’impatto
del rapimento sull’opinione pubblica», oggi un prezzo viene assegnato a ogni profugo, questa volta dai trafficanti. Tuttavia, se da
un lato i governi occidentali erano pronti a sborsare milioni di
euro per far tornare un volontario dal Sahel o un soldato dall’Afghanistan, basterà qualche centinaio di dollari a un trafficante per
comprare un migrante abusivamente imprigionato, dal quale poi
estirpare denaro.
A causa della situazione politica internazionale propizia, questo
mercato è diventato più glocal, in mano a tribù o gruppi jihadisti,
nota Napoleoni, che da anni studia i legami tra economia e terrorismo. «Sempre più persone fuggono dagli stati falliti e dai territori sotto controllo islamista, dunque la tratta di migranti è diventata un’attività illecita tentacolare», denuncia la ricercatrice. Rapitori e trafficanti si sono concertati su modelli economici localizzati. «Pirateria e jihadismo criminali sono fioriti in aree, omogenee
sul piano culturale e storico, che un tempo facevano parte di nazioni coloniali o post-coloniali».
Ma la colpa va attribuita anche ai paesi occidentali, secondo
l’autrice: oltre al fatto di aver sovralimentato il mercato dei rapimenti di concittadini pagando somme ingenti — senza mai ricono-
scerlo ufficialmente — essi hanno permesso ai trafficanti non europei di «esportare nell’Unione europea il modello criminale del
“pagamento alla consegna” anche perché è il più funzionale ed
efficace per i migranti». Siamo di fronte a un triste esempio di
«impollinazione incrociata» tra criminalità europea e non. Tanto
che le migrazioni di clandestini all’interno dell’Europa non funzionano molto diversamente da quelle in mezzo al deserto libico
o tra Siria e Turchia. «Ricco o povero che sia, il migrante non
può fare a meno di rivolgersi a un trafficante», riassume Napoleoni, «anche quando, nell’estate del 2015, l’Unione europea ha aperto momentaneamente i confini, queste figure erano indispensabili
per raggiungere gli stati membri». Ovviamente, i trafficanti adattano prezzi e servizi al potere d’acquisto di chi fugge: fino a
10.000 euro per volare tra Turchia e Europa, 1000 dollari per
viaggiare in camion tra Bulgaria e Germania.
Poi, ultimamente, un altro fattore si è introdotto nel mercato di
uomini, sempre più lucrativo: il cosiddetto stato islamico. Lungo
la rotta centro-mediterranea, oramai meno affollata di quella che
passa per Turchia e Grecia, l’Is ha stabilito nuove regole. Ai trafficanti viene richiesto il 50 per cento del guadagno in cambio del
diritto di navigazione. Pertanto, l’Is in questo modo fa sì che i
contrabbandieri non possano riscuotere dai passeggeri una somma ogni volta maggiore. Un “merito” agli occhi dei migranti, e
una “garanzia”, esercitata dai gruppi terroristici, che inoltre non
mancano di fare proselitismo durante le permanenze dei migranti
sulle coste libiche, aggiunge l’autrice.
Ora, dopo questa dettagliata e argomentata descrizione di un
complesso processo economico che si è sviluppato tra traffico di
droga, sequestri di stranieri e infine gestione di flussi migratori, il
lettore si chiede: cosa bisogna fare per arginare questo dramma?
«All’orizzonte non si profilano soluzioni semplici», si rammarica
Loretta Napoleoni, ritenendo che «l’apertura dei confini si è rivelata disastrosa per via dell’enorme numero di rifugiati e migranti
in ingresso».
In Siria, mettere fine ai bombardamenti non impedirà alle persone di fuggire dalle proprie case. Secondo l’Ue, ribadisce l’autrice, l’unica soluzione possibile consiste nel «bloccare i migranti alle porte dell’Europa con l’aiuto di una nazione amica, la Turchia». «Erdoĝan farà per l’Unione europea ciò che Gheddafi ha
fatto per l’Italia e l’Ue fino a qualche anno fa?», si chiede l’autrice. Con il timore comunque che i campi profughi in Turchia diventino vivai di nuovi rapitori, jihadisti e criminali, pronti a entrare nei ranghi del califfato.
8 febbraio
Non più schiavi
Ogni due minuti, una
bambina o bambino è
vittima dello sfruttamento
sessuale. Nel mondo, più di
200 milioni di minori
lavorano, 73 milioni dei
quali hanno meno di 10
anni. Di questi piccoli, ogni
anno ne muoiono 22 mila a
causa di incidenti di lavoro.
Negli ultimi trent’anni, si
calcola che siano stati circa
30 milioni i bambini
coinvolti nella tratta. Per
ricordarli tutti sarà celebrata
il prossimo 8 febbraio la
terza giornata Giornata
mondiale di preghiera e
riflessione contro la tratta di
persone (Gmpt), che avrà
come tema «Sono bambini!
non schiavi!». Nel giorno
della memoria liturgica di
santa Giuseppina Bakhita —
che conobbe nella vita le
sofferenze della schiavitù —
l’iniziativa è promossa da
Talitha Kum, la Rete
internazionale attivata dalle
Unioni delle superiore
generali (Uisg) e dei
superiori generali (Usg) in
coordinamento con la
Congregazione per gli
istituti di vita consacrata, e
altre realtà cattoliche. Alla
giornata è dedicato il sito
preghieracontrotratta.org
dove si trovano dati,
iniziative e testimonianze.
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 febbraio 2017
#copertina
T
el Abbas, Nord Libano. Hyam ha tredici anni.
Fino a tre anni fa viveva con sua madre, suo
padre e i suoi due fratelli a Qusayr, città siriana a ridosso del confine libanese e molto importante negli equilibri della guerra per la presenza della milizia libanese sciita di Hezbollah. Una mattina una bomba uccide il padre
di Hiyam. Il destino di quello che resta della
sua famiglia è il destino comune agli altri
quattro milioni di profughi siriani: l’esodo.
Da allora Hyam vive a Tel Abbas, nella regione di Akkar, tra le montagne libanesi al
confine con la Siria, in una delle migliaia di
quelle tendopoli dimenticate che sono diventate parte integrante del territorio del paese, nascoste tra le valli o in mezzo alle campagne, e
in pieno inverno, sepolte dalla neve. Hiyam ha
gli occhi pieni di speranza e un grande zaino
verde al bordo del materasso su cui dorme.
Vorrebbe fare la psicologa da grande «per aiutare i bambini traumatizzati dalla guerra», di-
Generazione
perduta
da Tel Abbas
FRANCESCA MANNO CCHI
ce. Traumatizzati come lei. Quando racconta
la guerra, la piccola Hyam lo fa con i particolari della vita quotidiana, perché per i bambini
siriani la guerra è stata questo: un elemento
tra tanti nella vita di ogni giorno. «Ero in casa
con la mamma che stava cucinando i maqi (involtini siriani) ma non avevamo abbastanza ceci così chiesi a mia madre se potessi uscire a
comprarli, ma mia madre era contraria, perché
sentiva il rumore dei bombardamenti e aveva
14
paura. Ho insistito così tanto che mi ha fatto
uscire. “Corri” mi ha detto, “corri più che puoi
e torna subito a casa”». Hyam racconta di
aver incontrato il cugino lungo la strada e di
essersi fermata con lui a guardare le mucche in
un campo, a salutare la zia, che abitava in una
casa poco distante dalla piccola bottega di alimentari. Ma al negozio di alimentari, Hyam
non è arrivata mai. «Improvvisamente abbiamo visto un aereo sulla nostra testa e abbiamo
capito. Io ho tappato le orecchie con le mani
con tutta la forza che avevo. Del dopo ricordo
solo il sangue sul mio braccio e la pelle che
non c’era più». Quel giorno una bomba è caduta poco distante da Hyam e da suo cugino,
le schegge hanno colpito il braccio della bambina, che nonostante le molte operazioni subite in Libano, non potrà mai più distenderlo
completamente. La lunga cicatrice che parte
dalla spalla e arriva al polso è il segno che per
tutta la vita farà di Hyam una dei milioni di
bambini siriani che portano sulla pelle il trauma della guerra.
A Qusayr Hyam era la più brava della classe: diligente, curiosa, costante. Racconta che a
scuola aveva un piccolo armadietto di colore
rosso in cui teneva tutti i libri... Aveva grandi
sogni, studiare medicina e poi specializzarsi.
La sua era una famiglia benestante, avevano
una casa a due piani. D’estate il padre portava
lei e i suoi fratelli lungo il fiume Oronte e
ognuno di loro esprimeva i propri sogni.
Oggi Hyam frequenta una scuola informale
in Libano, cioè una struttura in cui operatori e
volontari di varie ong (libanesi e internazionali) mettono a disposizione il proprio tempo
per dare nozioni fondamentali ai bambini rifugiati, impegnare il loro tempo e impedire che
diventino vittime di matrimoni precoci, sfruttamento lavorativo e soprattutto reclutamento
da parte di gruppi fondamentalisti. Ma le
scuole informali non hanno curricula riconosciuti dalla scuola pubblica libanese.
Hyam è una dei trecentomila bambini siriani che in Libano sono esclusi dal sistema scolastico.
Una bambina siriana ritratta
da Muhammed Muheisen (Ap)
La storia
di Hyam
rifugiata siriana
che vorrebbe
aiutare i bambini
traumatizzati
dalla guerra
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 febbraio 2017
#francesco
P
Il Pontefice ricorda
i cristiani
perseguitati
e condanna
l’estremismo
fondamentalista
apa Francesco è tornato a invocare «la fine dei
conflitti» nei paesi insanguinati dalla violenza
e dall’estremismo fondamentalista, assicurando
di avere particolarmente «a cuore i vescovi, i
sacerdoti, i consacrati e i fedeli, vittime di rapimenti crudeli, e tutti coloro che sono stati
presi in ostaggio o ridotti in schiavitù». L’appello del Pontefice è risuonato durante
l’udienza ai membri della commissione mista
internazionale per il dialogo teologico tra la
Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse orientali, ricevuti in Vaticano venerdì 27 gennaio,
giornata in cui in tutto il mondo sono state
commemorate le vittime della Shoah. Un ricordo a cui ha voluto unirsi anche Francesco,
che in mattinata ha incontrato una delegazione dell’European Jewish Congress. «Oggi desidero fare memoria nel cuore di tutte le vittime dell’olocausto. Le loro sofferenze, le loro
lacrime non siano mai dimenticate» ha poi
scritto in un tweet sull’account @Pontifex.
Nel discorso rivolto alla commissione mista
tra cattolici e ortodossi il Pontefice ha fatto riferimento alle situazioni di «tragica sofferenza» in cui vivono le comunità religiose delle
regioni orientali: situazioni che, ha spiegato,
«si radicano più facilmente in contesti di povertà, ingiustizia ed esclusione sociale, dovute
anche all’instabilità generata da interessi di
parte, spesso esterni, e da conflitti precedenti,
che hanno prodotto condizioni di vita miserevoli, deserti culturali e spirituali nei quali è facile manipolare e istigare all’odio».
«Ogni giorno — ha sottolineato — le vostre
Chiese sono vicine alla sofferenza, chiamate a
seminare concordia e a ricostruire pazientemente la speranza, confortando con la pace
che viene dal Signore, una pace che insieme
siamo tenuti a offrire a un mondo ferito e lacerato».
In proposito il Papa ha ricordato il sacrificio
dei martiri cattolici e ortodossi «che hanno dato coraggiosa testimonianza a Cristo e hanno
raggiunto la piena unità». Proprio le loro vicende dimostrano che «laddove violenza chiama violenza e violenza semina morte», la ri-
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sposta dei credenti dev’essere «il puro fermento del Vangelo, che, senza prestarsi alle logiche della forza, fa sorgere frutti di vita anche
dalla terra arida».
In questo senso, i martiri «ancora una volta
ci indicano la via: quante volte il sacrificio della vita ha portato i cristiani, altrimenti divisi in
molte cose, a essere uniti». Anche se appartenenti a tradizioni ecclesiali diverse, essi «sono
già in Cristo una sola cosa». La loro offerta è
una chiamata «a camminare più speditamente
sulla strada verso la piena unità». E come nella Chiesa primitiva «il sangue dei martiri fu
seme di nuovi cristiani», così oggi «il sangue
di tanti martiri — è stato l’auspicio di Francesco — sia seme di unità fra i credenti, segno e
strumento di un avvenire in comunione e in
pace».
All’inizio dell’udienza il metropolita egiziano Bishoy di Damiette, co-presidente della
commissione, ha assicurato gratitudine a Papa
La via
dei martiri
Francesco «per la premura e gli sforzi con cui
mantiene e preserva la presenza cristiana nel
Medio oriente». Bishoy ha anche espresso
preoccupazione «di fronte all’emigrazione
forzata, agli spostamenti, ai rapimenti di
membri del clero e della popolazione civile,
all’uccisione di gruppi di cristiani in questa regione storica per la cristianità», auspicando
che l’impegno per la pace nella regione continui.
L’icona del sangue di Cristo
che rivela la redenzione
dal grembo della Madonna,
donata dal metropolita egiziano
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 febbraio 2017
#francesco
«I
mmersi nella cosiddetta cultura del frammento, del provvisorio, che può condurre a vivere
“à la carte” e a essere schiavi delle mode», la
vita consacrata sta subendo una “emorragia”
«che indebolisce la stessa Chiesa». Per questo
occorre valorizzare la vita fraterna in comunità, offrendo al mondo una testimonianza di
«speranza e gioia». È quanto ha raccomandato Papa Francesco ai membri della plenaria
della Congregazione per gli istituti di vita
consacrata e le società di vita apostolica, ricevuti sabato 28 nella sala Clementina.
Preoccupato perché «le statistiche dimostrano» un numero crescente di “abbandoni” nelle
congregazioni religiose», il Pontefice ha elencato i «fattori che condizionano la fedeltà in
questo cambio di epoca, in cui risulta difficile
assumere impegni seri e definitivi». E ha ricordato la vicenda di «un bravo ragazzo impegnato in parrocchia» che voleva «diventare
prete, ma per dieci anni». Ecco allora come «il
No alla cultura
del provvisorio
primo fattore che non aiuta a mantenere la fedeltà» sia «il contesto sociale» odierno segnato dalla «cultura del provvisorio», la quale
«induce il bisogno di avere sempre delle “porte laterali” aperte su altre possibilità». Inoltre,
ha aggiunto il Papa, «viviamo in società — ha
commentato — dove le regole economiche sostituiscono quelle morali, dettano leggi e impongono sistemi di riferimento»; società in cui
regna «la dittatura del denaro».
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Il secondo elemento individuato dal Pontefice riguarda «il mondo giovanile» considerato
«non negativo», ma comunque «complesso,
ricco e sfidante. Non mancano — ha spiegato
— giovani generosi, solidali e impegnati». Però
anche tra loro «ci sono molte vittime della logica della mondanità». Il terzo fattore indicato
invece «proviene dall’interno della vita consacrata, dove accanto a tanta santità, non mancano situazioni di contro-testimonianza». Tra
queste «la routine, la stanchezza, le divisioni
interne, la ricerca di potere — gli arrampicatori
— un servizio dell’autorità che a volte diventa
autoritarismo e altre un “lasciar fare”».
Ma il Papa non si è limitato a criticare, ha
anche suggerito un itinerario incentrato sulla
speranza e sulla gioia. Perché, ha aggiunto a
braccio, è questo che «ci fa vedere come va
una comunità. C’è speranza, c’è gioia? Va bene. Ma quando viene meno la speranza e non
c’è gioia, la cosa è brutta». Da qui l’invito a
curare la vita fraterna in comunità, dal cui rinnovamento dipendono «il risultato della pastorale vocazionale e la perseveranza dei fratelli e delle sorelle giovani e meno giovani».
Infine il Papa ha rimarcato l’importanza
dell’accompagnamento, suggerendo di investire «nel preparare accompagnatori qualificati».
E in proposito ha sottolineato come «il carisma dell’accompagnamento, della direzione
spirituale» sia “laicale”. «Prendetevi cura voi —
ha esortato i presenti — dei membri della vostra congregazione. È difficile mantenersi fedeli camminando da soli, o camminando con la
guida di fratelli e sorelle che non siano capaci
di ascolto, o che non abbiano un’adeguata
esperienza. Mentre — ha concluso — dobbiamo
evitare qualsiasi modalità di accompagnamento che crei dipendenze, che protegga, controlli
o renda infantili, non possiamo rassegnarci a
camminare da soli, ci vuole un accompagnamento vicino, frequente e pienamente adulto».
Paolo Veronese, «Le nozze
di Cana» (particolare)
Ai consacrati
il Papa chiede
di valorizzare
la vita fraterna
in comunità
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 febbraio 2017
#7giorniconilpapa
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Dio desidera che tutti gli uomini
si riconoscano fratelli
e vivano come tali, formando la grande famiglia umana
nell’armonia delle diversità
”
(@Pontifex 1° febbraio)
MERCOLEDÌ 25
L’omelia dei secondi vespri
nella basilica di San Paolo
«Imparare gli uni dagli altri»: è il cammino di
riconciliazione tra i cristiani indicato dal Papa
nella solennità della conversione di san Paolo.
A conclusione della settimana ecumenica,
com’è consuetudine, il Pontefice ha presieduto
la celebrazione dei secondi vespri nella basilica
ostiense intitolata all’apostolo. E con il bacio
dato, al momento del congedo, alle croci pettorali del metropolita ortodosso e dell’arcivescovo anglicano presenti, Francesco ha voluto
imprimere al rito il sigillo ecumenico di un
pontificato tutto teso a costruire ponti di riconciliazione. Anche all’omelia il Papa aveva
insistito sulla necessità di proclamare il vangelo di riconciliazione, soprattutto dopo secoli di
divisioni. Ma — ha spiegato — «la riconcilia-
taquattresima edizione, il Papa ha dato il proprio “caloroso” sostegno. In un messaggio a
firma del cardinale Parolin ha affermato: «È
così grande il valore di una vita umana ed è
così inalienabile il diritto alla vita del bambino
innocente che cresce nel seno di sua madre,
che in nessun modo è possibile presentare come un diritto sul proprio corpo la possibilità
di prendere decisioni nei confronti di tale vita,
che è un fine in se stessa e che non può mai
essere oggetto di dominio da parte di un altro
essere umano». Francesco si è detto «fiducioso
che questo evento, in cui molti cittadini americani manifestano a favore dei più indifesi dei
nostri fratelli e sorelle, possa contribuire a una
mobilitazione delle coscienze in difesa del diritto alla vita e a misure efficaci per garantire
la sua adeguata protezione».
D OMENICA 29
zione in Cristo non può avvenire senza sacrificio. Similmente, gli ambasciatori di riconciliazione sono chiamati a dare la vita».
VENERDÌ 27
Nel giorno della memoria delle vittime della
Shoah, il Papa ha ricevuto una delegazione di
cinque membri dell’European Jewish Congress, accompagnati dal salesiano Norbert
Hofmann, segretario della Commissione per i
rapporti religiosi con l’ebraismo. Il religioso
ha poi riferito che durante l’incontro il Pontefice ha ricordato come la sua famiglia, in Argentina, spesso ricevesse visite di ebrei. Una
consuetudine amichevole che egli poi mantenne personalmente. Il Papa ha anche detto che
la giornata della memoria è una ricorrenza importante per tutti, e non solo per gli ebrei, affinché una tragedia come quella della Shoah
non si ripeta mai più.
Nello stesso giorno decine di migliaia di
americani hanno preso parte a Washington, alla March for life. Ai partecipanti alla quaran-
Un nuovo appello per «le popolazioni
dell’Italia centrale che ancora soffrono le conseguenze del terremoto e delle difficili condizioni atmosferiche» è stato lanciato dal Papa
al termine dell’Angelus. In particolare il Pontefice ha auspicato che non vengano a mancare «il costante sostegno delle istituzioni e la
comune solidarietà» e che «qualsiasi tipo di
burocrazia non faccia aspettare e ulteriormente
soffrire» queste persone, alle quali ha voluto
rinnovare la propria vicinanza. In precedenza
il Pontefice aveva commentato il vangelo domenicale, incentrato sulle beatitudini (Matteo
5, 1-12a). Definendo «il grande discorso detto
“della montagna”, la “magna charta” del Nuovo testamento», il Papa ha spiegato che in esso «Gesù manifesta la volontà di Dio di condurre gli uomini alla felicità». Dopo la recita
della preghiera mariana, Francesco ha ricordato la giornata mondiale dei malati di lebbra e
ha salutato i gruppi presenti, tra cui i ragazzi
dell’Azione cattolica della diocesi di Roma,
due dei quali si sono affacciati con lui e hanno
letto un breve messaggio di pace.
L’Angelus
in piazza San Pietro
Nella settimana scorsa il Papa
ha ricevuto in udienza due
conferenze episcopali in visita «ad
limina»: giovedì 26 quella di
Cambogia e Laos (a sinistra), e
lunedì 30 quella internazionale
Santi Cirillo e Metodio (sopra)
che riunisce i vescovi di Serbia,
Montenegro, Kosovo ed ex
Repubblica Jugoslava di
Macedonia.
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#catechesi
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Sharon Cummings, «Hope»
N
elle scorse catechesi abbiamo iniziato il nostro
percorso sul tema della speranza rileggendo in
questa prospettiva alcune pagine dell’Antico
Testamento. Ora vogliamo passare a mettere
in luce la portata straordinaria che questa virtù
viene ad assumere nel Nuovo Testamento,
quando incontra la novità rappresentata da
Gesù Cristo e dall’evento pasquale: la speranza cristiana. Noi cristiani, siamo donne e uomini di speranza.
È quello che emerge in modo chiaro fin dal
primo testo che è stato scritto, vale a dire la
Prima Lettera di San Paolo ai Tessalonicesi.
Nel passo che abbiamo ascoltato, si può percepire tutta la freschezza e la bellezza del primo
annuncio cristiano. Quella di Tessalonica è
una comunità giovane, fondata da poco; eppure, nonostante le difficoltà e le tante prove, è
radicata nella fede e celebra con entusiasmo e
con gioia la risurrezione del Signore. [...]
Realtà
certa
Per questo, l’Apostolo cerca di far comprendere tutti gli effetti e le conseguenze che questo evento unico e decisivo, cioè la risurrezione del Signore, comporta per la storia e per la
vita di ciascuno. In particolare, la difficoltà
della comunità non era tanto di riconoscere la
risurrezione di Gesù, tutti ci credevano, ma di
credere nella risurrezione dei morti. Sì, Gesù è
risorto, ma la difficoltà era credere che i morti
risorgono. In tal senso, questa lettera si rivela
quanto mai attuale. Ogni volta che ci troviamo
di fronte alla nostra morte, o a quella di una
persona cara, sentiamo che la nostra fede viene messa alla prova. Emergono tutti i nostri
dubbi, tutta la nostra fragilità, e ci chiediamo:
«Ma davvero ci sarà la vita dopo la morte...?
Potrò ancora vedere e riabbracciare le persone
che ho amato...?». Questa domanda me l’ha
fatta una signora pochi giorni fa in un’udienza, manifestando un dubbio: «Incontrerò i
miei?». Anche noi, nel contesto attuale, abbiamo bisogno di ritornare alla radice e alle fondamenta della nostra fede, così da prendere
coscienza di quanto Dio ha operato per noi in
Cristo Gesù e cosa significa la nostra morte.
Tutti abbiamo un po’ di paura per questa incertezza della morte. Mi viene alla memoria
un vecchietto, un anziano, bravo, che diceva:
«Io non ho paura della morte. Ho un po’ di
paura a vederla venire». [...]
Paolo, di fronte ai timori e alle perplessità
della comunità, invita a tenere salda sul capo
come un elmo, soprattutto nelle prove e nei
momenti più difficili della nostra vita, «la speranza della salvezza». È un elmo. Ecco cos’è
la speranza cristiana. Quando si parla di speranza, possiamo essere portati ad intenderla
secondo l’accezione comune del termine, vale
a dire in riferimento a qualcosa di bello che
desideriamo, ma che può realizzarsi oppure
no. Speriamo che succeda, è come un desiderio. Si dice per esempio: «Spero che domani
faccia bel tempo!»; ma sappiamo che il giorno
dopo può fare invece brutto tempo... La speranza cristiana non è così. La speranza cristiana è l’attesa di qualcosa che già è stato compiuto; c’è la porta lì, e io spero di arrivare alla
porta. Che cosa devo fare? Camminare verso
la porta! Sono sicuro che arriverò alla porta.
Così è la speranza cristiana: avere la certezza
che io sto in cammino verso qualcosa che è,
non che io voglia che sia. Questa è la speranza
cristiana. La speranza cristiana è l’attesa di
una cosa che è già stata compiuta e che certamente si realizzerà per ciascuno di noi. Anche
la nostra risurrezione e quella dei cari defunti,
All’udienza generale
il Papa parla
della speranza
nella vita
dopo la morte
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#catechesi
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quindi, non è una cosa che potrà avvenire oppure no, ma è una realtà certa, in quanto radicata nell’evento della risurrezione di Cristo.
Sperare quindi significa imparare a vivere
nell’attesa. Imparare a vivere nell’attesa e trovare la vita. Quando una donna si accorge di
essere incinta, ogni giorno impara a vivere
nell’attesa di vedere lo sguardo di quel bambino che verrà. Così anche noi dobbiamo vivere
e imparare da queste attese umane e vivere
nell’attesa di guardare il Signore, di incontrare
il Signore. Questo non è facile, ma si impara:
vivere nell’attesa. Sperare significa e Questo
però implica un cuore umile, un cuore povero.
Solo un povero sa attendere. Chi è già pieno
di sé e dei suoi averi, non sa riporre la propria
fiducia in nessun altro se non in sé stesso. [...]
Per avere un po’ di forza vi invito ad dirlo
tre volte con me: «E così per sempre saremo
con il Signore». E là, con il Signore, ci incontreremo.
Il coro cattolico coreano
Fiat Domini
Per la cura della casa comune
Hanno voluto incontrare il Papa nell’aula Paolo VI,
all’udienza generale di mercoledì 1° febbraio, «per
informarlo sul grande movimento che l’enciclica
Laudato si’ sta suscitando nelle comunità cattoliche di
tutto il mondo e sui canali di dialogo che si stanno
aprendo con tutti coloro che hanno a cuore la
nostra casa comune». È Tomás Insua direttore
esecutivo del Movimento cátolico mundial por el
clima, fondato due anni fa, a raccontare al Pontefice
i progetti per mettere in pratica i contenuti
dell’enciclica. «Rete mondiale di preghiera e
raccolte di firme vedono lavorare insieme
quattrocento organizzazioni cattoliche — spiega
Insua — e presto organizzeremo un grande incontro
mondiale in Asia per proporre la Laudato si’ come
risposta al grido dei poveri e alle gravi crisi
planetarie che stiamo vivendo». E Francesco, da
parte sua, li ha ringraziati «per l’impegno a curare
la nostra casa comune in questi tempi di grave crisi
socio-ambientale», incoraggiandoli «a continuare a
tessere le reti affinché le Chiese locali rispondano
con determinazione al grido della terra e al grido
dei poveri». Per presentare al Pontefice le iniziative
contro le mutilazioni genitali femminili era invece
presente all’udienza Ann-Marie Wilson, fondatrice e
direttrice esecutiva dell’associazione inglese 28 Too
Many. Il numero, spiega, si riferisce ai paesi africani
dove «tantissime ragazze subiscono ancora queste
pratiche, con rischi gravi e irreversibili per la loro
salute, oltre a pesanti conseguenze psicologiche». Si
stima che «nel mondo il numero di donne che
convivono con una mutilazione genitale siano circa
centoventicinque milioni e, secondo gli attuali trend
demografici, circa tre milioni di bambine sotto i
quindici anni si aggiungono ogni anno a queste
statistiche». Sono state tradotte in polacco le omelie
tenute da Papa Francesco nelle celebrazioni
mattutine nella cappella della Casa di Santa Marta,
da marzo 2014 a giugno 2015. Ed è stata la
traduttrice Anna Kowalewska a offrire al Pontefice
il volume, pubblicato dalla casa editrice Znak di
Cracovia. Fútbol con Alma è l’eloquente titolo del
libro che César Mauricio Velásquez Ossa ha scritto
per rilanciare, soprattutto nei paesi latinoamericani,
il ruolo del calcio come strumento di educazione e
di cultura per i giovani e anche motore di progetti
sociali. L’autore ha consegnato il volume nelle mani
del Papa, anche perché il libro si apre proprio con
le parole da lui dedicate ai valori che dovrebbero
sempre caratterizzare lo sport più popolare. A
sostegno dei suggerimenti del Papa ci sono le
significative testimonianze degli ex calciatori
Alfredo Di Stefano, Javier Zanetti, Emilio
Butragueño, Paco Gento, Amancio Amato e Andrés
Escobar.
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 febbraio 2017
#santamarta
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27 GENNAIO
Anime ristrette
VENERDÌ
Il vestito del cristiano deve essere cucito con
«memoria, coraggio, pazienza e speranza» per
resistere anche alle piogge più intense. Èd è
dal «peccato della pusillanimità» — ossia «avere paura di tutto» e diventare «anime ristrette
per conservarsi» — che il Papa ha messo in
guardia nella sua omelia, ricordando come Gesù abbia ammonito che «chi vuol conservare la
propria vita, senza rischiare e appellandosi
sempre alla prudenza, la perderà».
Per la meditazione Francesco ha preso le
mosse dalle prima lettura, tratta dalla lettera
agli Ebrei (10, 32-39), che contiene «un’esortazione a vivere la vita cristiana, con tre punti di
riferimento temporali: il passato, il presente e
il futuro». Perché il passato è un invito «a fare
memoria» e «non si può vivere cristianamente
speranza di incontrare il Signore «è una vita
in tensione, tra la memoria e la speranza, il
passato e il futuro».
Il terzo punto «è nel mezzo: è oggi, cioè il
presente». Un oggi fra il passato e il futuro. E
il consiglio per viverlo è continuare con l’atteggiamento dei primi cristiani, fatto di coraggio, di pazienza, di andare avanti. Perché «il
cristiano vive il presente — tante volte doloroso
e triste — coraggiosamente o con pazienza». È
vero, ha riconosciuto Francesco, che tutti siamo peccatori, «chi prima e chi dopo, ma andiamo avanti; non restiamo fermi, perché questo non ci farà crescere». Così dunque, ha detto il Pontefice, «è la nostra vita cristiana» e
«la liturgia ci esorta a viverla con grande memoria del cammino vissuto, con grande speranza di quel bell’incontro che sarà una bella
sorpresa». Infine «c’è una piccola cosa» — ha
evidenziato il Papa — sulla quale la lettera agli
Ebrei «attira l’attenzione: un peccato». Un
peccato «che non fa avere speranza, coraggio,
pazienza e memoria: la pusillanimità». Si tratta, ha spiegato, di «un peccato che non lascia
essere cristiano, che non lascia andare avanti
per paura». Per questa ragione «tante volte
Gesù diceva: “Non abbiate paura”». Tanto
che, ha affermato il Papa, uno può anche seguire «tutti i comandamenti; ma questo ti paralizza, ti fa dimenticare tante grazie ricevute,
ti toglie la memoria, ti toglie la speranza». E
«il presente di un cristiano, di una cristiana, è
così come quando uno va per la strada e viene
una pioggia inaspettata e il vestito non è tanto
buono e si restringe la stoffa: anime ristrette».
James B. Janknegt
«Il più piccolo seme del mondo»
(particolare)
LUNEDÌ 30 GENNAIO
Se il martire non fa notizia
Dopo la messa di lunedì 30,
il Papa si è intrattenuto
con il cardinale Lacroix,
arcivescovo di Québec,
assicurando preghiere
per le vittime della strage
nella moschea della città
canadese, dove la sera precedente
erano stati uccisi sei fedeli
musulmani. Il Pontefice
ha sottolineato l’importanza
di restare in questi momenti tutti
uniti e ha anche inviato
un telegramma di cordoglio
senza memoria». Si tratta, ha affermato, della
«memoria della salvezza di Dio nella vita».
Perciò «la memoria è una grazia da chiedere:
“Signore, che io non dimentichi il tuo passo
nella mia vita”». Dunque, «il cristiano è un
uomo di memoria» e «i profeti sempre ci fanno guardare indietro». Perché «la vita cristiana
non incomincia oggi, continua oggi». E «fare
memoria è saggezza». Così «io vado davanti a
Dio ma con la mia storia, non devo nasconderla». Ed ecco che «l’esortazione per vivere
bene una vita cristiana incomincia con questo
punto di riferimento: la memoria». Poi, ha
proseguito il Papa, l’autore della lettera agli
Ebrei «fa capire che siamo in cammino, e in
attesa di qualcosa; in attesa di arrivare o di incontrare». Vuol dire «arrivare a un punto» a
«un incontro; incontrare il Signore». Difatti,
ha spiegato Francesco, «così come non si può
vivere una vita cristiana senza la memoria dei
passi fatti, non si può vivere una
vita cristiana senza guardare il futuro con la speranza dell’incontro
con il Signore». Del resto «la vita
è un soffio, passa». Dunque la
Per «i martiri di oggi», per i cristiani perseguitati e in carcere, per le Chiese senza libertà,
con un pensiero particolare a quelle più piccole: è questa l’intenzione con cui il Papa ha offerto la messa. Nella consapevolezza che «una
Chiesa senza martiri è una Chiesa senza Gesù», il Pontefice ha riaffermato che sono i
martiri a sostenere e portare avanti la Chiesa.
E se anche «i media non lo dicono» oggi
«tanti cristiani nel mondo sono beati perché
perseguitati, insultati, carcerati soltanto per
portare una croce o per confessare Gesù».
Dunque, quando ci si lamenta «se ci manca
qualcosa», bisognerebbe pensare «a questi fratelli e sorelle che oggi, in numero più grande
dei primi secoli, soffrono il martirio». Per la
meditazione il Pontefice ha rilanciato alcuni
contenuti della lettera agli Ebrei. Che «verso
la fine — ha affermato — fa un appello alla memoria per aiutare a fare più salda la speranza:
ricordare meglio per sperare meglio». Proprio
«la memoria delle cose che il Signore ha fatto
— ha spiegato Francesco — ci dà il fiato per
andare avanti».
«Poi, oggi, ci sono due memorie» ha fatto notare ancora il Pontefice citando espressamente il
passo della lettera proposto dalla
liturgia (11, 32-40). Anzitutto quel-
Le omelie
del Pontefice
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 febbraio 2017
#santamarta
«Apertura del quinto sigillo»
(miniatura da un commentario
all’Apocalisse di Beato
di Liébana, XI secolo)
In basso a destra: Anthony Falbo
«Chi mi ha toccato?»
(particolare)
21
la «delle grandi gesta del Signore, fatte da uomini e donne» come Gedeone, Barak, Sansone, Iefte, Davide: «gente che ha fatto grandi
gesta nella storia di Israele». Insomma «la memoria dei nostri eroi del popolo di Dio». E «il
terzo gruppo» — il primo «era quello di coloro
che sono stati docili alla chiamata», il secondo
«di coloro che hanno fatto grandi cose» — richiama «la memoria di quelli che hanno sofferto e hanno dato la vita come Gesù». In una
parola è la «memoria dei martiri». E la Chiesa
è proprio «questo popolo di Dio che è peccatore ma docile, che fa grandi cose» e testimonia Cristo fino al martirio.
Oggi, ha insistito Francesco, «ce ne sono
tanti in carcere: questa è la gloria della Chiesa». E ha rievocato la «testimonianza di quel
sacerdote e quella suora nella cattedrale di Tirana: anni e anni di carcere, lavori forzati,
umiliazioni, i diritti umani non esistono per
loro». Era il 21 settembre 2014 quando gli vennero presentate le toccanti esperienze di due
sopravvissuti alle persecuzioni del regime contro i cristiani: suor Maria Kaleta e don Ernest
Simoni, che poi Francesco ha creato cardinale
nel concistoro del 19 novembre scorso.
Così Francesco ha invitato a pregare «per i
nostri martiri che soffrono tanto, per quelli
che sono stati e che sono in carcere, per quelle
Chiese che non sono libere di esprimersi: loro
sono il nostro sostegno, loro sono la nostra
speranza». E per questa ragione, appunto, il
Papa ha voluto offrire la «messa per i martiri,
per quelli che adesso soffrono, per le Chiese
che soffrono, che non hanno libertà», ringraziando «il Signore di essere presente con la
fortezza del suo Spirito in questi fratelli e sorelle che oggi danno testimonianza di lui».
31 GENNAIO
In mezzo alla folla
MARTEDÌ
Gesù non guarda le «statistiche» ma ha attenzione per «ognuno di noi». Lo «stupore
dell’incontro» con lui è stata descritta dal Papa che sullo «sguardo» di Gesù ha incentrato
la propria meditazione. Prendendo le mosse
dal brano della lettera agli Ebrei (12, 1-4) —
nel quale l’autore invita «Corriamo con perseveranza, tenendo fisso lo sguardo su Gesù» —
il Pontefice ha esaminato il vangelo del giorno
(Marco, 5 21-43) per vedere «cosa fa Gesù». Il
particolare più evidente è che «è sempre in
mezzo alla folla». E non si tratta di un ordinato «corteo di gente», piuttosto è una folla che
avvolge Gesù e «lo stringe».
Eppure Gesù volge lo sguardo non tanto
«sulla gente, sulla moltitudine» ma «su ognuno». Perché questa è la peculiarità del suo
sguardo «non massifica la gente: Gesù guarda
ognuno».
Il racconto evangelico continua con l’episodio di Giàiro, al quale dicono che
la figlia è morta. Gesù lo rassicura: «Non temere! Soltanto abbi
fede!», così come in precedenza
alla donna aveva detto: «La tua
fede ti ha salvata!». Anche in questa situazione Gesù si ritrova in mezzo alla folla, alla quale dice: «State tranquilli. La bambina dorme».
Anche i presenti, ha detto il Papa, forse
«avranno pensato: “Ma questo non ha dormito bene!”» tant’è che «lo deridevano». Ma
Gesù entra e «resuscita la bambina». La cosa
che salta agli occhi, è che Gesù in quel trambusto, con «le donne che urlavano e piangevano», si preoccupa di dire «al papà e alla mamma “Datele da mangiare!”». È l’attenzione al
«piccolo» è «lo sguardo di Gesù sul piccolo».
E così, ha ripreso il ragionamento il Papa
con un’immagine più attuale, in barba alle
«statistiche che avrebbero potuto dire: “Continua il calo della popolarità del Rabbi Gesù”»
il Signore predicava per ore e «la gente lo
ascoltava, lui parlava ad ognuno». E come
«sappiamo che parlava ad ognuno?» si è chiesto il Pontefice. Perché si è accorto, ha osservato, che la bimba «aveva fame» e ha detto:
«Datele da mangiare!».
Il Pontefice ha continuato negli esempi citando l’episodio di Naim. Anche lì «c’era la
folla che lo seguiva». E Gesù «vede che esce
un corteo funebre: un ragazzo, figlio unico di
madre vedova». Ancora una volta il Signore si
accorge del «piccolo». In mezzo a tanta gente
«va, ferma il corteo, resuscita il ragazzo e lo
consegna alla mamma».
E ancora, a Gerico. Quando Gesù entra nella città, c’è la gente che «grida: “Viva il Signore! Viva Gesù! Viva il Messia!”. C’è tanto
chiasso... Anche un cieco si mette a gridare; e
lui, Gesù, con tanto chiasso che c’era lì, sente
il cieco». Il Signore, ha sottolineato il Papa,
«si accorse del piccolo, del cieco».
Tutto questo per dire che «lo sguardo di
Gesù va al grande e al piccolo». Egli, ha detto
il Pontefice, «guarda a noi tutti, ma guarda
ognuno di noi. Guarda i nostri grandi problemi, le nostre grandi gioie; e guarda anche le
cose piccole di noi, perché è vicino. Così ci
guarda Gesù».
Riprendendo a questo punto le fila della
meditazione, il Papa ha ricordato come l’autore della lettera agli Ebrei suggerisca «di correre con perseveranza, tenendo fisso lo sguardo
su Gesù». Ma, si è chiesto, «cosa ci succederà,
a noi, se faremo questo; se avremo fisso lo
sguardo su Gesù?». Ci accadrà, ha risposto,
quanto è capitato alla gente dopo la resurrezione della bambina: «Essi furono presi da
grande stupore». Accade infatti che «io vado,
guardo Gesù, cammino davanti, fisso lo sguardo su Gesù e cosa trovo? Che lui ha fisso il
suo sguardo su di me». E questo mi fa sentire
«grande stupore. È lo stupore dell’incontro
con Gesù». Per sperimentarlo, però, non bisogna avere paura, «come non ha avuto paura
quella vecchietta di andare a toccare l’orlo del
manto».
Da qui l’esortazione finale del Papa: «Non
abbiamo paura! Corriamo su questa strada,
sempre fisso lo sguardo su Gesù. E avremo
questa bella sorpresa: ci riempirà di stupore.
Lo stesso Gesù ha fisso il suo sguardo su di
me».
il Settimanale
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giovedì 2 febbraio 2017
#meditazione
22
di ENZO
BIANCHI
«Ma io
vi dico...»
D
12 febbraio
VI domenica
del Tempo
ordinario
Matteo 5, 17-37
opo le beatitudini (Matteo 5, 1-12) e la definizione di chi le vive come sale della terra e luce
del mondo (Matteo 5, 13-16), ecco il corpo del
«discorso della montagna»: tre capitoli nei
quali Matteo ha innanzitutto raccolto parole
di Gesù riguardanti la Legge data a Dio attraverso Mosè e il discepolo che vuole veramente
viverla secondo l’intenzione del Legislatore,
Dio. Nella parte restante del quinto capitolo
Gesù crea sei contrapposizioni tra lo “sta scritto” tramandato di generazione in generazione
e ciò che egli vuole annunciare, come un’interpretazione della Torah più autorevole e autentica di quella fornita dalla tradizione dei maestri.
Gesù comincia con l’assicurazione di non
essere venuto ad abrogare la Torah, a toglierle
autorità, bensì a “compierla”, a svelarne il senso racchiuso, realizzandolo in primo luogo
nella sua persona e rivelandone il pieno significato. Anche per Gesù resta vero che «Mosè
ricevette la Torah sul Sinai, la trasmise a Giosuè, Giosuè la trasmise agli anziani e gli anziani ai profeti» (Mishnah, Avot I, I); ma proprio
in nome della sua autorità messianica egli ne
dà l’interpretazione ultima e definitiva, dopo
la quale non ce ne saranno altre. Matteo è stato molto intrigato dal rapporto fra tradizione e
novità del Vangelo, perché si indirizzava a comunità cristiane di Siria e Palestina, nelle quali erano presenti numerosi giudeo-cristiani, che
si interrogavano su cosa potesse essere tralasciato delle minuziose prescrizioni rabbiniche.
Vi erano allora, come ancora oggi, conflitti fra
tradizionalisti e innovatori, fra zelanti della
Legge fino al legalismo e cristiani più sensibili
al mutamento dei tempi e della cultura.
Secondo il primo vangelo, Gesù resta fedele
alla Torah, non la sostituisce con un insegnamento altro, ma con exousía, con autorevolezza, rivela, alza il velo sulla Legge e ne svela la
giustizia profonda, perché sia possibile al discepolo una sua osservanza autentica. Per Gesù non è sufficiente l’osservanza indicata dai
teologi del tempo, interpreti ufficiali delle
Scritture (gli scribi), né quella propria dei cre-
denti impegnati e osservanti, associati nei movimenti (i farisei): vuole una giustizia superiore, più abbondante (verbo perisséuo), che superi quella indicata dalle scuole rabbiniche e fissate nella casistica. Gesù vuole inoltre che
quella giustizia predicata sia osservata, vissuta
da parte di chi la indica agli altri, perché proprio da questo vissuto dipendono lo stile e il
contenuto di ciò che si predica agli altri.
Ecco allora la prima delle quattro antitesi
proposte dal brano liturgico: «Avete inteso
che fu detto agli antichi: “Non ucciderai”
(Esodo 20, 13; Deuteronomio 5, 17)... Ma io vi
dico: chiunque si adira con il proprio fratello
dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi
dice al fratello: “Stupido”, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: “Pazzo”, sarà
destinato al fuoco della Geenna». Innanzitutto, cosa chiede veramente Dio al credente in
alleanza con lui? Solo di non uccidere? Questo il detto tramandato, ma il non-detto è svelato da Gesù: in tutte le relazioni umane occorre frenare l’aggressività, spegnere la collera
prima che diventi violenza, fermare la lingua
che può uccidere con la parola. Prima di diventare azione, la violenza cova nel cuore
umano, e a questo istinto occorre fare resistenza. L’astenersi dalla violenza è più decisivo di
Miki De Goodaboom
«Souls in Hell»
il Settimanale
L’Osservatore Romano
giovedì 2 febbraio 2017
#meditazione
un’azione di culto fatta a Dio, il quale vuole la
riconciliazione tra noi fratelli prima della riconciliazione con lui; anche perché la riconciliazione con lui che nessuno vede è possibile
solo per chi sa riconciliarsi con il fratello che
ciascuno vede (cfr. 1 Giovanni 4, 20).
Eppure noi sentiamo il bisogno di scaricare
il male che ci abita, dicendo poco o tanto male di qualcuno. Usiamo la parola come una
pietra scagliata, dicendo: «Quello è uno stupido, uno scemo!», e così autorizziamo chi ci
ascolta a ritenere una persona da evitare colui
che abbiamo definito tale. Del resto, già i rabbini dicevano che «chi odia il suo prossimo è
un omicida». Ecco dunque svelata la profondità del comandamento: «Non ucciderai», che
significa anche «Sii mite, dolce, e sarai beato»
(Matteo 5, 5).
Dopo la violenza viene la sessualità, materia
della seconda e della terza antitesi. Si comincia con: «Non commetterai adulterio» (Esodo
20, 14; Deuteronomio 5, 18). Ma per Gesù questo non è sufficiente. Occorre fare i conti con
il desiderio che abita il cuore umano: se infatti
uno desidera il possesso, se con il suo sguardo
cerca di possedere l’altro, se con la sua brama
non vede più la persona, ma solo una cosa di
cui impadronirsi, allora anche se non arriva a
consumare il peccato è già adultero nel suo
cuore. Se si fa attenzione, qui Gesù sposta la
colpa dalla donna sedotta, giudicata sempre
lei come peccatrice e causa di peccato, a chi
seduce e non sa resistere al desiderio. Tutto il
corpo, e soprattutto i sensi attraverso i quali
viviamo le relazioni con gli altri, devono essere
dominati, ordinati e anche accesi dalla potenza
dell’amore, non dall’eccitazione delle passioni.
Certamente non è facile questa vigilanza e
questa disciplina del cuore, ma non è possibile
scindere la mente, il cuore e i sensi dalla sessualità. Proprio per questo Gesù ribadisce (e
lo farà più ampiamente in Matteo 19, 1-9) che
Dio non vuole il ripudio, l’infrazione dell’alleanza nuziale, non vuole la contraddizione alla storia d’amore sigillata nella pur faticosa avventura della vita.
La quarta antitesi riguarda la verità nei rapporti tra le persone. È l’ottavo comandamento
dato al Sinai: «Non dirai falsa testimonianza»
(Esodo 20, 16; Deuteronomio 5, 20). Gesù conosce bene quello che gli esseri umani vivono:
incapaci di vivere la fiducia nelle relazioni reciproche, giungono a giurare, a chiamare Dio
come testimone (cfr. Esodo 20, 7; Levitico 19,
12; Deuteronomio 23, 22). Così avviene nel
mondo, così fan tutti, ma ecco la radicalità di
Gesù: «Io vi dico di non giurare mai, né per il
cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra,
perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re».
Alla casistica della tradizione Gesù oppone la
semplicità del linguaggio, la verità delle parole: Gesù invita alla responsabilità della parola. Il
parlare di ciascuno dev’essere talmente limpido da non aver bisogno di chiamare Dio o le
realtà sante a testimone di ciò che si esprime.
Non sono necessari garanti della verità che si
esprime, e invocare il castigo, la sanzione di
Dio per ciò che si è detto come non vero o
per ciò che non si è realizzato, è temerario.
Dio non è al nostro servizio e non interviene
certo a punire le nostre menzogne, almeno durante la nostra vita.
E allora quando uno dice sia “sì”, sia “sì”, e
quando dice “no”, sia “no”, perché il di più
viene dal Maligno, che «è menzognero e padre della menzogna» (Giovanni 8, 44). Nessun
“cuore doppio” (Salmo 12, 3), nessuna possibilità di simulazione per il discepolo di Gesù,
nessun tentativo di dire insieme “sì” e “no”.
Non è forse Gesù stesso «l’Amen di Dio» (cfr.
Apocalisse 3, 14), il “Sì” di Dio alle sue
promesse, come predica Paolo (cfr. 2 Corinzi 1,
23
19-20)? L’essere umano rispetto agli animali ha
il privilegio della parola, ma questo mezzo così umanizzante per sé e per gli altri è uno
strumento fragile... Il dominio della parola è
davvero alla base della sapienza umana.
Quella di Gesù non è dunque una «nuova
legge», una «nuova morale», ma è l’insegnamento di Dio dato a Mosè, interpretato con
autorità, risalendo all’intenzione del Legislatore stesso. Solo Gesù, il Figlio di Dio, poteva
fare questo.
Marc Chagall, «Mosè riceve
le tavole della legge» (1966)
#controcopertina
Quanti sono stati chiamati a professare
i consigli evangelici
con la loro testimonianza di vita
possano irradiare nel mondo
l’amore di Cristo e la grazia del Vangelo
(per la festa della Presentazione del Signore)