La memoria oltre l`oblio Se questo è un uomo: narrare per

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La memoria oltre l’oblio
Se questo è un uomo: narrare per sopravvivere
Il bambino con gli occhi neri mi ricorda Eli,
il ragazzino del ghetto di Leopoli.
Aveva sei anni, e grandi occhi interrogativi.
Occhi che non capivano perché.
Occhi che accusavano.
Occhi che non dimenticano.
S. Wiesenthal, Il girasole
L’opera di Primo Levi non riveste una rilevanza solo letteraria ma assume
un’importanza fondamentale anche per il diritto che, come la letteratura e la poesie,
si avvale delle parole.
Levi descrive senza morbosità, ma con efficacia moltiplicata, con l’uso di
parole accorte e chiare, una realtà indicibile, indescrivibile, inimmaginabile.
Le parole sono importanti; possono rilevare, mistificare, occultare, consolare
e, persino violentare. La potenza delle parole, di certe parole, è un’arma a doppio
taglio, costringe lo scrittore, come il giurista, ad assumersi una responsabilità nei
confronti della collettività e con se stessi. Lo scrittore, infatti è responsabile della
verità dei fatti che narra. Verità che, seppur entro certi limiti, è l’oggetto e la finalità
anche del processo penale 1.
La responsabilità è tanto più grande se ad essere narrati, dal giurista e lo
scrittore, sono le immani tragedie dell’umanità come la Shoah.
1
A. PROVERA, Primo Levi testimone processuale, La lingua letteraria come lingua giuridica, in Giustizia e
Letteratura II, (a cura di) Gabrio Forti, Claudia Mazzucato, Arianna Visconti, Con il Gruppo di Ricerca del
Centro Studi "Federico Stella" sulla Giustizia penale e la Politica criminale, Vita e Pensiero, 2014, p. 591.
1
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Non senza una ragione, Primo Levi, per lo studioso del diritto, può essere
considerato una sorta di dantesco Virgilio 2, una guida lungo un irto percorso in cui
si snoda un’esperienza che non conosce precedenti nella storia dell’umanità.
Leggere e studiare un’opera come Se questo è un uomo significa assistere ad
una lezione di criminologia, vittimologia e filosofia del diritto penale al massimo
livello 3. Un fondamentale momento di un confronto serrato con una la realtà
indicibile, che attraverso la sua coraggiosa narrazione, trova la sua esatta
rappresentazione in un’immagine della giustizia che fatica a trionfare.
La letteratura accostata al diritto, dunque: un rapporto “sinallagmatico” 4 del
tutto peculiare. Una vecchia storia. Forse la più vecchia di tutte 5. Tra giustizia e
letteratura c’è un rapporto antico, non sempre lineare, a volte addirittura
conflittuale, ma pur sempre fecondo, una sorta di ponte che unisce due sponde di
due mondi solo apparentemente distanti: quello dei letterati e quello dei giuristi6.
A questa regola non si sottrae, a rigore, l’opera di Primo Levi.
Grazie alla narrazione, alla precisione del ricordo e alla certezza del pensiero,
l’opera di Levi, in questo studio, è un formidabile strumento di giustizia, una fonte
privilegiata, una testimonianza preziosa proveniente dalla voce di chi il crimine lo
ha vissuto personalmente e non de relato.
2
C. MAZZUCATO, L’accusatore narrante, in in Giustizia e Letteratura II, (a cura di) Gabrio Forti, Claudia
Mazzucato, Arianna Visconti, Con il Gruppo di Ricerca del Centro Studi "Federico Stella" sulla Giustizia
penale e la Politica criminale, Vita e Pensiero, 2014, p. 579.
3
Ibidem.
4
Cfr. Mi sia consentito il rinvio a M. P. DI B LASIO, Diritto e letteratura: un inedito rapporto sinallagmatico.
Il ruolo della letteratura nella formazione del giurista, in Rivista giuridica Diritto e Giurisprudenza
commentata, sezione Saggi, DIKE Giuridica Editrice Roma, n. 6/2015, p. 167. La definizione del rapporto tra
Diritto e Letteratura, come legame avvinto da sinallagma, è frutto della straordinaria intuizione di Claudio
Brancati, Avvocato e, prima ancora, sensibile e sopraffine poeta.
5
Perché il rapporto tra Diritto e Letteratura inizia più o meno quando inizia la nostra civiltà. I miti e il teatro
dell’antica Grecia sono le basi fondanti della storia letteraria occidentale, ma anche dell’idea di diritto, di
giustizia. Antigone, per fare un esempio, è un’opera letteraria che affronta il problema del rapporto tra
individuo e potere ed è costruita come un processo, con tanto di introduzione preliminare che spiega
l’antefatto, con la difesa, l’accusa e addirittura con l’opinione pubblica.
6
Ricordiamo che Cicerone e Seneca erano avvocati; filosofi, letterati ed uomini di stato come Tommaso
Moro, Bacone e Montesquieu avevano una preparazione giuridica. Dickens fece il garzone di studio (e poi il
cronista giudiziario); nel novecento Jorge Amado, un poeta come Wallace Stevens, John Luther Long o
Bernardo Guimaraes, il creatore della Schiava Isaura, erano tutti giuristi. Ed ancora, tra Duecento e Trecento
numerosi sono gli scrittori italiani che sono anche o innanzitutto giuristi: si va dal caposcuola dei Siciliani,
Jacopo da Lentini detto appunto il Notaro, a Pier delle Vigne, a Guido Guinizelli, a Cino da Pistoia. Cfr. G.
Forti – A. Visconti. - C. Mazzucato (a cura di), Giustizia e letteratura II, con il Gruppo di Ricerca del Centro
Studi “Federico Stella” sulla Giustizia penale e la Politica criminale, Vita Pensiero, Milano 2014, p. 39.
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2
Se questo è un uomo comincia con il racconto della deportazione ad
Auschwitz con due importanti avvertimenti ai lettori:
Questo mio libro non è stato scritto per formulare nuovi capi di
accusa; potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato
di alcuni aspetti dell’animo umano 7.
Levi chiede giustizia, è parte offesa nel processo contro il genocidio. Come
tante altre vittime, la sua è un’offesa che toglie all’essere umano «tutto,
letteralmente tutto», la sua casa, i suoi «abiti, le scarpe, anche i capelli» e, di più,
le «piccole abitudini quotidiane», «gli oggetti che il più umile mendicante
possiede: un fazzoletto, una vecchia lettera, una fotografia di una persona cara»8.
Un sopruso, crudele, gratuito, inutile, vessatorio, umiliante, dove la mostruosità
del male si spinge fino a forzare le leggi della natura, costringendo l’essere umano
a sopravvivere oltre i limiti della sua umana biologia 9.
In Se questo è un uomo Levi consegna un’esperienza umana travolta dagli
orrori nazisti, invita a riflettere sui fatti che si sono susseguiti per anni, giorno
dopo giorno, in una normalità e ripetitività impressionanti.
Ma quel che più conta, suggerisce di andare oltre l’atrocità e di chiedersi
come sia stato possibile che accadesse quanto è accaduto e, soprattutto, sollecita
ciascuno a scendere negli abissi dell’animo umano e, lì, osservare il magma del
male.
Un folle progetto ha pervaso la mente di uomini che hanno pensato alla
cancellazione di un popolo caricandolo delle colpe del mondo e realizzare questo
disegno ricorrendo a un «esercizio di ingegneria sociale gigantesca»10.
Interessante in proposito appare l’analisi di Bauman, scomparso di recente,
del fattore razziale come origine ideologica che porta alla selezione della specie e
7
P. LEVI, Se questo è un uomo, Einaudi Editore, Torino 1994, p. 2.
P. LEVI, Se questo è un uomo, cit., p. 35.
9
Si pensi alla sete forzata, all’esposizione al freddo, ai divieti di assolvere le funzioni fisiologiche.
10
Z. BAUMAN, Modernità e Olocausto, trad. it., di M. Baldini, Il Mulino, Bologna 1992, p. 101.
8
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3
alla campagna contro gli ebrei. Sembra dirimente e, altresì illuminante riportarne
un passo.
Così Scrive:
Il razzismo acquista i suoi caratteri specifici solo nel contesto
fornito dal progetto di una società perfetta e dall’intenzione di
realizzarlo attraverso sforzi pianificati e coerenti. Nel caso
dell’Olocausto il progetto era costituito dal Reich millenario, il
regno dello Spirito tedesco liberato. In esso vi era posto
unicamente per quest’ultimo. Certamente non per gli ebrei,
poiché essi non potevano essere spiritualmente convertiti e
abbracciare lo spirito del popolo tedesco. Questa incapacità
spirituale era spiegata come attributo dei caratteri ereditari o del
sangue, elementi che, almeno a quell’epoca, incarnavano l’altra
faccia della cultura, il terreno che essa non poteva sognare di
coltivare […]11.
Sui lager Levi scrive:
E’ il prodotto di una concezione del mondo portata alle sue
conseguenze con rigorosa coerenza: finché la concezione
sussiste, le conseguenze ci minacciano. La storia dei campi di
distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro
segnale di pericolo12.
Lo scrittore è ben consapevole di come la storia sia una catena di sinistri
segnali di pericolo, può testimoniare come l’incredulità sia la prima reazione di
fronte al male estremo, sempre ritenuto razionalmente impossibile in nome di una
naturale bontà dell’animo umano e perché si è portati a dubitare dei racconti
sconvolgenti di fronte ai quali non si sa quanto agisca la fantasia, l’esagerazione,
11
12
Ibidem.
P. LEVI, Se questo è un uomo, cit., p. 2.
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la soggettività, e quanto invece siano espressione di una realtà effettiva e
descrizione di accadimenti inimmaginabili ma purtroppo veri.
Per Primo Levi la questione della giustizia riveste un ruolo fondamentale,
sebbene non sia prioritario. Chiede giustizia, la chiede in ogni pagina. Ma, come
molte vittime preferisce non doversi caricare anche della giustizia giuridica.
Levi afferma:
preferisco nei limiti del possibile, delegare punizioni, vendette e
ritorsioni alla legge13.
In realtà la memoria, è per Levi, questione di assoluta urgenza, un bisogno
dell’anima. Nella coscienza del reduce, l’istintivo necessità di raccontare si spinge
oltre: prevale la volontà di comprendere più che giudicare.
Nelle sue opera, Levi segue una logica giuridica e scientifica allo stesso
tempo: individua puntualmente le cause e le conseguenze degli accadimenti dando
vita ad un’immagine che è l’esatta ricostruzione del fatto storico, fondamento per il
giudizio e per la relativa attribuzione di responsabilità. La sua ricostruzione non si
limita nella mera distinzione tra le categorie concettuali di colpevoli da un parte e
vittime dall’altra. Sarebbe riduttivo, semplicistico, troppa facile e, soprattutto, in
molti casi, non corrispondente al vero.
A ben ricordare anche alcune vittime usano violenza contro altre vittime, come
ad esempio, il caposquadra di Levi, Lessing. Come tra i carnefici ve ne sono alcuni
che mostrano tratti maggiormente umani, altri che sembrano avvinti da mera
ignoranza ma non certo di malvagità.
L’opera di minuziosa ricostruzione dei fatti serve non solo a non dimenticare
o, se si vuole, a ricordare ma anche per attribuire con certezza, a ciascuno, le
relative responsabilità. E, a tale scopo, non v’è dubbio alcuno che la narrazione è un
indispensabile strumento per il processo. Da questo angolo prospettico, il
13
P. LEVI, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 110.
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5
linguaggio letterario e quello tipicamente processuale sono, in questo raro caso, del
tutto coincidenti.
Né può stupire che deposizioni testimoniali di Levi abbiano le stesse
caratteristiche della sua prosa.
Nelle sue testimonianze Levi ripercorre i principali avvenimenti della
prigionia, dall’arresto in Valle d’Aosta fino alla liberazione da parte dei russi e al
viaggio di ritorno verso l’Italia. Rammenta le vicende trascorse pacatamente, senza
odio. Colpisce la modalità della narrazione, molto simile ad un controesame in sede
di dibattimento. L’autore, infatti, circostanzia sempre le affermazioni, riporta il
motivo per cui è a conoscenza di alcuni fatti, ne individua precisamente gli autori,
ammette, in alcuni casi marginali, di non ricordare con certezza.
L’opera di ricostruzione del fatti di Levi, dunque, costituisce un esempio di
quel che potrebbe definirsi una buona deposizione processuale, attendibile, credibile
e inconfutabile.
Alcuni studiosi hanno posto l’accento proprio sulla struttura linguistica di
queste testimonianze, che sembrano essere mosse da un estremo bisogno di
personalizzazione 14, di ricerca dell’umano e della sua individualità, bisogno che
viene soddisfatto proprio ricorrendo anche alla narrazione come testimonianza forte
degli avvenimenti storici da lui vissuti e subiti. Infatti, Levi non parla mai al plurale
per attribuire responsabilità. La condanna al nazifascismo è chiara ma non è questo
l’oggetto e la finalità ultima del raccontare e raccontarsi.
Levi cerca e individua i responsabili della sua prigionia e lo fa indicando con
estrema precisione nomi, numeri e giorni.
L’opera di Levi è una vera e propria cartina di tornasole per comprendere un
progetto tanto assurdo quanto incredibile, tanto crudele quanto ingiusto, capace di
toccare il più profondo stadio dell’Animo umano. Se questo è un uomo ha la
capacita di restituire e, a volte donare, un volto alle vittime, le salva dall’oblio,
recupera la loro identità che i loro carnefici hanno follemente e crudelmente
14
A. PROVERA, Primo levi testimone processuale, La lingua letteraria come lingua giuridica, in Giustizia e
Letteratura II, (a cura di) Gabrio Forti, Claudia Mazzucato, Arianna Visconti, Con il Gruppo di Ricerca del
Centro Studi "Federico Stella" sulla Giustizia penale e la Politica criminale, Vita e Pensiero, 2014, p. 594.
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cancellare. Lo sterminio del popolo ebraico è raffigurato in tutta la sua autentica
drammaticità.
Non ci sono scusanti, non possono essere applicate esimenti o cause di
giustificazione. La Shoah non è prodotto di cause astratte, ma è l’opera di singoli
uomini.
L’evidenza della colpa è soverchiante: ad Auschwitz l’uomo è stato annientato
e annichilito. Si è infranto qualsiasi regola, calpestato tutti i diritti individuale, si è
andato oltre qualsiasi senso umana dignità,
La tensione alla comprensione diventa così l’unica forma di resistenza al male.
In ciò si rinviene un parallelismo con quanto sostenuto da Hannah Arendt in
Responsabilità e giudizio, secondo cui il male non si origina dalla malvagità degli
uomini, ma dall'assenza o dall’inadeguatezza del giudizio che non impedisce
soltanto di attribuire le responsabilità altrui, ma anche di comprendere e di
assumersi le proprie 15.
Appare, dunque, in tutta la sua evidenza, l’essenzialità dell’opera leviana per il
diritto ed i suoi studiosi, anche perché sottolinea un aspetto fondamentale per
qualsiasi ordinamento, specialmente per quello penale: la necessità di accertare ed
attribuire a ciascuno, in base alla propria condotta, omissiva o commissiva che sia,
la responsabilità individuale, senza appiattirsi su presunzioni o affidarsi a categorie
generalizzanti.
Levi, infatti, non cade nella tentazione di offrire un quadro stereotipato delle
vittime e dei colpevoli. Il centurione fascista più che malvagio è un ignorante e un
impreparato, a differenza del kapò Lessing, carnefice e vittima al contempo e uomo
di estrema malvagità.
Anche tra i compagni di prigionia Levi opera delle distinzioni, come per
Arturo Foà, del quale si mette in rilievo l'ambigua contiguità con i fascisti. Anche
nell'assunzione della prova testimoniale, Levi scandaglia sempre la c.d. «zona
grigia» di cui si occupa nei Sommersi e i salvati.
15
H. ARENDT, Responsabilità e giudizio,(a cura di) Jerome Kohn, trad. it. di D. Tarizzo, Torino 2010.
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Il crimine non è mai monodimensionale, il male non è mai perpetrato da uno
solo, non è mai opera di una sola persona. Il malefico è sempre frutto
dell'ingegneria distruttiva di più menti. Il male ha sempre più volti e molteplici
caratteristiche: a volte è banale, altre volte è malvagio e molto spesso è
semplicemente stupido o ignorante.
Per Levi la Shoah ha cause ben precise, è frutto di scelte umane e di singole
responsabilità.
Il capitolo centrale di Se questo è un uomo comprende, nella parte che tratta
dei «salvati», alcune riflessioni sui funzionari del campo che gettano le basi sul
discorso sulla «zona grigia» elaborato quarant’anni più tardi 16.
Di grande impatto emotivo il seguente passo:
si offra ad alcuni individui in stato di schiavitù una posizione
privilegiata, un certo agio e una buona probabilità di
sopravvivere, esigendone in cambio il tradimento della naturale
solidarietà coi loro compagni, e certamente vi sarà chi
accetterà17.
La categoria concettuale della «zona grigia» delinea uno spazio intermedio che
divide oppressi e oppressori, una sorta di «terra di nessuno» del diritto, dove
l’esercizio del giudicare è messo a dura prova. Il grigio, metafora della difficoltà di
valutare le azioni, le omissione, le reticenze e le decisioni anche quando i fatti
appaiono chiari e netti e ad essere offuscati è soltanto la capacità di giudizio.
La «zona grigia» rappresenta uno degli aspetti più agghiaccianti del libro.
L’autore svela come l’animo umano, davanti a un attacco esterno di dimensioni
annientanti come fu quello nazista, non scelse l’unione contro l’aguzzino, ma la
lotta l’uno contro l’altro.
16
17
Ivi, p. 537
P. LEVI, Se questo è un uomo, Einaudi Editore, Torino 1994, p. 93.
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8
L’autore descrive così l’arrivo ad Auschwitz:
Si entrava sperando almeno nella solidarietà dei compagni di
sventura, ma gli alleati sperati, salvo casi speciali, non c’erano;
c’erano invece mille monadi sigillate, e fra queste una lotta
disperata, nascosta e continua. Questa rivelazione brusca, che si
manifestava fin dalle prime ore di prigionia, spesso sotto la
forma immediata di un’aggressione concentrica da parte di
coloro in cui si sperava di ravvisare i futuri alleati, era talmente
dura da far crollare subito la capacità di resistere. Per molti è
stata mortale, indirettamente o anche direttamente: è difficile
difendersi da un colpo a cui non si è preparati18.
Ad Auschwitz il potere di vita sull’uomo era senza limiti; immenso il divario
di condizione tra oppressi e oppressori; l’acquisizione di un privilegio, quale che
fosse, costituiva non di rado l’unica speranza di sopravvivenza. Si pensi alle
squadre speciali, gli addetti ai forni crematori e alle camere a gas, non solo delegati
e luogotenenti degli aguzzini, ma loro intimi sodali. Qui un giudizio individuale non
è nemmeno possibile.
E’ uno degli aspetti più subdoli della persecuzione nazista: negare alle vittime
la possibilità di serbarsi giusti. Costringere gli stessi prigionieri a rivestire i panni
dei carnefici significa spostare sulle vittime il peso della colpa, defraudandole
persino dell’innocenza. Un perverso cortocircuito accomuna così i signori della vita
e della morte alle vittime cui veniva negato il diritto a esistere.
I pochi che riescono a scampare alla strage ne rimangono segnati in maniera
indelebile. Essere riusciti a salvarsi, anche senza essersi resi complici dei
persecutori, anche solo grazie ad un caso fortuito, significa, a fronte di una
moltitudine di vittime, di «sommersi», portare su di sé l’impressione, abbastanza
forte da assomigliare ad una responsabilità, essere in qualche modo sopravvissuto al
posto di un altro e, magari, a spese di un altro.
18
P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, p. 14.
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Da questo punto di vista trova conferma l’assunto di partenza: ciò che non si
può comprendere può e si deve narrare. Questo principio, per traslato, vale anche
per il giudizio. Ciò che non è possibile giudicare deve essere narrato: il racconto e la
memorie sono chiamati a preservare, a beneficio delle future generazioni le tracce di
eventi non risarcibili, non emendabili.
La memoria è una sensibilità personale che riveste una dimensione
comunitaria. La memoria non è un’esclusiva prerogativa individuale ma ha confini
più ampi, vive e si muove in un contesto di relazioni sociali. La memoria è
prerogativa di un popolo. E’ il deposito genetico di ogni generazione, il fattore che
agisce nel tempo e che, perdurando, è in grado di generare nuova cultura 19.
Se questo è un uomo costringe ad uno sforzo di memoria, a ricordare il senso
della storia. La storia richiede un rapporto dialettico e un’ininterrotta interazione
con chiunque sia interessata a capire il significato delle cose e di quel che accade o
è accaduto e che potrebbe sempre riaccadere.
Interrogarsi costituisce la prima operazione ermeneutica, la prima azione di
responsabilità del processo di conoscenza. Non far cadere la domanda diventa un
impegno con se stessi e con gli altri affinché gli insegnamenti del passato siano un
fattore costitutivo del presente un ponte per il futuro ancora da costruire.
Il riaffiorare dei ricordi di ciò che è accaduto, narrarli, è un’operazione
ermeneutica urgente, satisfattiva, non più rinviabile, pone un argine alla deriva
dell’oblio.
Levi, con il suo racconto, ricostruisce uno spaccato dei fatti storici; lui stesso,
ne è stato testimone, fino alla sua morte. Ha delineato quel sistema così abilmente
progettato e attuato con lucida follia, un sistema aberrante che, in nome della razza,
ha praticato lo sterminio. La sua esistenza di salvato si trasforma in una narrazione
19
G. SANTAMBROGIO, Storia, memoria, identità. Narrare per sopravvivere, raccontare per affermare la
giustizia, in in, Giustizia e Letteratura II, (a cura di) Gabrio Forti, Claudia Mazzucato, Arianna Visconti, Con
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Pensiero, 2014, p. 564.
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dell’abisso umano, in un corpo a corpo con le politiche che negano l’uomo,
praticano la violenza, predicano la morte 20.
La memoria può fungere da esercizio per la sopravvivenza, e questo Levi lo sa
bene. Appena libero, è urgenza raccontare la vita dell’uomo e il destino di un
popolo affinché non cada l’oblio su alcuni aspetti dell’animo umano.
E’ la memoria dell’offesa: raccontare significa innanzitutto sopravvivere
perché ci si libera del peso dei ricordi e della solitudine che generano le esperienze
estreme.
Narrare significa anche denuncia e impegno morale, un dovere verso se stessi
e verso l’umanità perché i lager e la testimonianza di chi ci è passato entrino a far
parte del grande deposito della memoria, il lascito che la storia consegna ad ogni
nuova generazione.
Ma la memoria può cadere nel vuoto e non sempre essere riconosciuta nella
sua interezza e di questo ne è consapevole lo stesso Levi.
Infatti, nella conclusione a I sommersi e i salvati così scrive Levi:
L’esperienza di cui siamo portatori noi superstiti dei lager
nazisti è estranea alle nuove generazioni dell’Occidente, e
sempre più estranea si va facendo a mano a mano che passano
gli anni…Per noi, parlare con i giovani è sempre più difficile.
Lo percepiamo come un dovere, ed insieme come un rischio: il
rischio di apparire anacronistici, di non essere ascoltati21.
Giova, per completezza ricordare quanto Levi scrisse nel primo capitolo, La
memoria dell’offesa, in cui esprime tutta la sua preoccupazione riguardo al ricordo
della Shoah; poiché la memoria umana tende ad eliminare o modificare i ricordi con
20
G. SANTAMBROGIO, Storia, memoria, identità. Narrare per sopravvivere, raccontare per affermare la
giustizia, in in, Giustizia e Letteratura II, (a cura di) Gabrio Forti, Claudia Mazzucato, Arianna Visconti, Con
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Pensiero, 2014, p. 555.
21
P. LEVI, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, pp. 163.
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il passare del tempo, il terrore dell’autore è che anche la tragedia dei Lager possa,
un giorno, essere dimenticata:
La memoria umana è uno strumento meraviglioso ma fallace. È
questa una verità logora, nota non solo agli psicologi, ma anche
a chiunque abbia posto attenzione al comportamento di chi lo
circonda, o al suo stesso comportamento. I ricordi che giacciono
in noi non sono incisi sulla pietra; non solo tendono a
cancellarsi con gli anni, ma spesso si modificano, o addirittura
si accrescono, incorporando lineamenti estranei22.
Dunque, Primo Levi è per il giurista, avvocato o giudice che sia, una sorta di
dantesco Virgilio, guida nell’inferno del genocidio dal cui drammatico
attraversamento è possibile trarre significativi insegnamenti e forse, cogliere spunti
per l’elaborazione di una teoria della giustizia e della risposta al reato, oltre che per
una migliora assistenza alle parti offese.
22
Ivi, p. 51.
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