Ciò a cui siamo rimasti ieri pare non lasciarci strade

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Transcript Ciò a cui siamo rimasti ieri pare non lasciarci strade

DAL TEETETO ALLA SESTA RICERCA LOGICA
Ciò a cui siamo rimasti ieri pare non lasciarci strade d’uscita.
Da un lato abbiamo l’attualità e l’ideosincrasia della sensazione, oltre che la possibilità
che la doxa non solo all’inattuale ma anche al non-essente, e dall’altro abbiamo la pretesa
che per conoscere qualcosa è necessario avere un’idea dei koinà, degli elementi comuni o
impropri ai sensibili.
Il logos nemmeno aveva risolto la questione, perché comunque sia, o espressione
linguistica, o afferramento delle differenze o ancora coglimento dei caratteri specifici, del
segno che fa la differenza, non ci aiuta certo a rimediare all’impasse.
Badate che nel logos bisognerebbe riuscire a cogliere e ad esprimere ciò che fa di
quell’oggetto, proprio quello e non un altro, ma questo non ci è nemmeno garantito dalla
semplice comparazione interna, dal dialogo interno che abbiamo con noi stessi, dalla
dianoia, che al massimo riuscirebbe a farci notare tutte quante le tracce che l’oggetto
avrebbe lasciato nella nostra sensibilità.
Per giunta, il presupposto implicito sarebbe che si riuscisse ad afferrare ciò che fa di
qualcosa questo e non altro questo già assicurerebbe la verità della conoscenza così
acquisita.
Ma stanno così le cose? Conoscere davvero qualcosa significa conoscerla per quello che
è? Ma che cosa è una cosa, allora? Abbiamo iniziato a domandarci della conoscenza e ora
ci troviamo a postulare come suo metro l’essere di ciò che è! C’è qualcosa che non torna:
difatti, se avessimo saputo in anticipo già che cos’è l’essere di ciò che è, nemmeno
avremmo iniziato a fare domande sulla conoscenza.
Non dico che questa circolarità non possa funzionare; anzi!
L’antica teoria dell’adaequatio – antica ma non quanto Platone – in fondo non fa altro che
questo. E di adaequatio, come vedrete, parleremo anche leggendo la Sesta ricerca. Ma in che
senso? Possiamo anche con Husserl affermare che sapendo che cos’è ciò che è, su
questo possiamo valutare se la conoscenza è riuscita o no, se è giusta o no, se è vera o
no?
In fondo il giro lungo che stiamo facendo serve anche a farci avvertiti una volta che
arriveremo ad affrontare il senso dell’idea husserliana di adaequatio.
Torniamo indietro. Stando a come Platone mette le cose nel Teeteto o non c’è nessuna
strada o ce ne sono troppe.
Facciamo che il problema è trovare un modo per cogliere i koinà. Sappiamo che i sensi
non sono sufficienti (essendo attuali, istantanei e ideiosincratici); per giunta, e forse è
quello che più conta, i sensi si attivano causalmente. Così agisce un’impronta.
Un’impronta è un fenomeno fisico e così, sembrerebbero anche i sensi. Ma i koinà non
si imprimono in nessuno dei sensibili: i koinà sono impropri. E nemmeno la dianoia si
mostra sufficiente, perché passa in rassegna, confronta, procede per inferenze.
Intendiamoci: la dianoia non è sufficiente, a meno che non affermiamo che i koinà sono i
risultati di inferenze che hanno come loro premesse i dati sensibili.
Ho detto che da una tale situazione o non c’è via d’uscita o troppe.
Difatti, pur tradendo la lettera di Platone e prendendone solo il modello problematico, ai
koinà potremmo giungere
a) per astrazione dalla sensibilità,
b) per costruzione attraverso inferenze,
c) per trasformazione e immaginazione attraverso la coniazione di nomi, oppure
attraverso un’intuizione che però non sia sensibile.
Questo intendevo parlando del modello di Platone. Mettendo insieme tutte queste
possibilità riusciamo a vedere tutte le vene aurifere del pensiero occidentale.
E Husserl si trova proprio alla foce di quelle vene. Ho sempre creduto che per
introdurre alla fenomenologia bastasse conoscere Platone e Hume. Il Platone a cui
abbiamo accennato e lo Hume che comprende meglio di chiunque altro che il ricorso
ontologico nella gnoseologia è un pezzo fuor d’opera, è una strategia rassicurante, ma
che sfugge al problema. Quello Hume che prova a radicare la possibilità d’intendere i
koinà (le relazioni, ciò che è improprio ai sensibili) nella medesima struttura
dell’esperienza. In una psicologia sperimentale, per così dire.
In fondo non era stato lo stesso Platone a dire che i koinà li afferrava la psiche: quindi è
affare di psicologia!
La situazione in cui si trovò Husserl, al principio del secolo scorso (e noi non stiamo
messi molto diversamente), era quella in cui la psicologia empirica, oramai sviluppatasi
nella sua metodologia scientifico-naturale e nei suoi risultati, pretendeva non solo di
risolvere il problema dei koinà, ma anche delle forme più astratte del pensiero che
generalizzavano, in fondo, i koinà. Se allora per dire, in maniera sensata, che cos’è una
scrivania e perché non è una sedia basta attingere per astrazione e comparazione dai
sensi, riuscirà possibile anche trarre, per generalizzazione, i significati appropriati delle
articolazioni logiche e grammaticali che stavano lì sopite e implicite negli enunciati che
abbiamo appena formulato.
E quindi l’“è” ovvero la copula, lo “una” un quantificatore, il “perché” una congiunzione
inferenziale, il “non” una particella disgiuntiva che ci avviserebbe solo che dell’insieme
comparativo “scrivania” non fa parte l’elemento “sedia”.
Tutte queste particelle sarebbero null’altro che invenzioni linguistiche, di per se stesse
senza significato proprio, che simbolizzano altrettante operazioni che hanno origine
nella mera sensibilità fisica e causale.
La logica sarebbe così null’altro che “la fisica del pensiero” (ovvero la descrizione di
operazioni sensibili) oppure un’“etica del pensiero” (ovvero un insieme di correttivi che
le convenzioni umane impongono per la possibilità di comunicare il decorso
dell’esperienza sensibile).
Per quanto la strada da Platone a questi risultati sembri lunga, e lo è, pare abbastanza
dritta.
La fenomenologia quando nasce lo fa per fare i conti proprio con la psicologia empirica.
Ma non solo con questa. Anche con un altro tipo di psicologia che aveva visto la luce sul
finire dell’Ottocento, proprio come reazione al positivismo della psicologia empirica,
ovvero la psicologia descrittiva o comprendente.
Già solo il termine fenomenologia ha questo sfondo.