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San Francesco di Sales, Vescovo e dottore della Chiesa
24 gennaio
Nato a Thorens il 21 agosto 1567, concluse a Lione i suoi giorni, consunto dalle fatiche apostoliche, il 28 dicembre del 1622, l’anno della canonizzazione di San Filippo Neri, che Francesco conosceva attraverso la Vita scritta dal Gallonio, a lui inviata dall’amico Giovanni Giovenale
Ancina. Iscritto nell’albo dei Beati nel 1661, fu canonizzato nel 1665 e proclamato Dottore della
Chiesa nel 1887 da Leone XIII.
Francesco di Sales si formò alla cultura classica e filosofica alla scuola dei Gesuiti, ricevendo al
tempo stesso una solida base di vita spirituale. Il padre, che sognava per lui una brillante carriera
giuridica, lo mandò all’università di Padova, dove Francesco si laureò, ma dove pure portò a maturazione la vocazione sacerdotale. Ordinato il 18 dicembre 1593, fu inviato nella regione del
Chablais, dominata dal Calvinismo, e si dedicò soprattutto alla predicazione, scegliendo non la
contrapposizione polemica, ma il metodo del dialogo.
Per incontrare i molti che non avrebbe potuto raggiungere con la sua predicazione, escogitò il
sistema di pubblicare e di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti in agile stile
di grande efficacia. Questa intuizione, che dette frutti notevoli tanto da determinare il crollo
della “roccaforte” calvinista, meritò a S. Francesco di essere dato, nel 1923, come patrono ai
giornalisti cattolici.
A Thonon fondò la locale Congregazione dell’Oratorio, eretta da Papa Clemente VIII con la Bolla
“Redemptoris et Salvatoris nostri” nel 1598 “iuxta ritum et instituta Congregationis Oratorii de
Urbe”. Il suo contatto con il mondo oratoriano non riguardò tanto la persona di P. Filippo, quanto quella di alcuni tra i primi discepoli del Santo, incontrati a Roma quando Francesco vi si recò
nel 1598-99: P. Baronio, i PP. Giovanni Giovenale e Matteo Ancina, P. Antonio Gallonio.
L’impegno che Francesco svolse al servizio di una vastissima direzione spirituale, nella profonda
convinzione che la via della santità è dono dello Spirito per tutti i fedeli, religiosi e laici, fece di
lui uno dei più grandi direttori spirituali. La sua azione pastorale - in cui impegnò tutte le forze
della mente e del cuore - e il dono incessante del proprio tempo e delle forze fisiche, ebbe nel dialogo e nella dolcezza, nel sereno ottimismo e nel desiderio di incontro, il proprio fondamento,
con uno spirito ed una impostazione che trovano eco profondo nella proposta spirituale di San
Filippo Neri, la quale risuona mirabilmente esposta, per innata sintonia di spirito, nelle principali
opere del Sales - “Introduzione alla vita devota, o Filotea”, “Trattato dell’amor di Dio, o Teotimo” - come pure nelle Lettere e nei Discorsi.
Fatto vescovo di Ginevra nel 1602, contemporaneamente alla nomina dell’Ancina, continuò con
la medesima dedizione la sua opera pastorale. Frutto della direzione spirituale e delle iniziative
di carità del Vescovo è la fondazione, in collaborazione con S. Francesca Fremiot de Chantal,
dell’Ordine della Visitazione, che diffuse in tutta la Chiesa la spiritualità del S. Cuore di Gesù,
soprattutto attraverso le Rivelazioni di Cristo alla visitandina S. Margherita Maria Alacocque,
con il conseguente movimento spirituale che ebbe anche in molti Oratori, soprattutto dell’Italia
Settentrionale, centri di convinta adesione.
Conversione di San Paolo Apostolo
25 gennaio
La festa liturgica della "conversiti sancti Pauli", che appare già nel VI secolo, è propria della
Chiesa latina. Poiché il martirio dell'apostolo delle Genti viene commemorato a giugno, la celebrazione odierna offre l'opportunità di considerare da vicino la poliedrica figura dell'Apostolo
per eccellenza, che scrisse di se stesso: "Io ho lavorato più di tutti gli altri apostoli", ma anche:
"io sono il minimo fra gli apostoli, un aborto, indegno anche d'essere chiamato apostolo".
Adduce egli stesso le credenziali che gli garantiscono il buon diritto di essere considerato apostolo: egli ha visto il Signore, Cristo Risorto, ed è, perciò, testimone della risurrezione; egli pure
è stato inviato direttamente da Cristo, come i Dodici: visione, vocazione, missione, tre requisiti
che egli possiede, per i quali quel miracolo della grazia avvenuto sulla via di Damasco, dove Cristo lo costringe a una incondizionata capitolazione, sicché egli grida: "Signore, che vuoi che io
faccia?". Nelle parole di Cristo è rivelato il segreto della sua anima: "Ti è duro ricalcitrare contro
il pungolo". E’ vero che Saulo cercava "in tutte le sinagoghe di costringere i cristiani con minacce
a bestemmiare", ma egli lo faceva in buona fede e quando si agisce per amore di Dio, il malinteso non può durare a lungo. Affiora l'inquietudine, cioè "il pungolo" della grazia, il guizzo della
luce di verità: "Chi sei tu, Signore?"; "Io sono Gesù che tu perseguiti". Questa mistica irruzione di
Cristo nella vita di Paolo è il crisma del suo apostolato e la scintilla che gli svelerà la mirabile verità della inscindibile unità di Cristo con i credenti.
Questa esperienza di Cristo alle porte di Damasco, che egli paragona con l'esperienza pasquale
dei Dodici e con il fulgore della prima luce della creazione, sarà il "leit motiv" della sua predicazione orale e scritta. Le quattordici lettere che ci sono pervenute, ognuna delle quali mette a
nudo la sua anima con rapide accensioni, ci fanno intravedere il miracolo della grazia operato
sulla via di Damasco, incomprensibile per chi voglia cercarne una spiegazione puramente psicologica, ricorrendo magari all'estasi religiosa o, peggio, all'allucinazione.S. Paolo trarrà dalla sua
esperienza questa consolante conclusione: "Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, dei
quali io sono il primo. Appunto per questo ho trovato misericordia. In me specialmente ha voluto Gesù Cristo mostrare tutta la sua longanimità, affinché io sia di esempio per coloro che nella
fede in Lui otterranno d'ora innanzi la vita eterna".
Santi Timoteo e Tito, Vescovi
26 gennaio
I due Santi sono frutto prezioso della predicazione e dell'opera del grande apostolo delle genti.
Paolo li ha convertiti, se li è allevati con amore cristiano e paterno e ne ha fatto dei fari luminosi
e delle guide per l'umanità.
Paolo incontra il giovane Timoteo per la prima volta a Listri; egli è figlio di una ebrea e di un pagano; è stato educato nel culto delle Sacre Scritture. Ascoltando l'apostolo e vedendo le opere
straordinarie da lui compiute,
Timoteo si converte e viene battezzato da Paolo che lo prende con sé. Tutta la sua vita di giovane e di uomo sarà associata a quella di Paolo, di cui diventerà figlio, collaboratore, compagno di
viaggio, confidente, amico, erede.
Tito è di famiglia greca, ancora pagana, ed è convertito dall'apostolo in uno dei suoi viaggi apostolici; viene ben presto scelto da Paolo come collaboratore, compagno e fratello nell'apostolato.
Attraverso Timoteo e Tito l'apostolo ha potuto incarnare quello che è il centro della sua particolare predicazione: la fede in Cristo libera dalla legge, anche se la salvezza viene dai giudei, dalla
stirpe di Davide. Ciò che fa la vera elezione è una buona coscienza e la fede in Dio realizzata con
le opere della carità. È un concetto ignoto al mondo pagano e ignorato dagli ebrei che fanno dipendere la salvezza dalla circoncisione prescritta da Mosè.
Paolo circoncide il discepolo Timoteo e non circoncide l'altro discepolo Tito, che pure porta con
sé a Gerusalemme davanti al Concilio degli apostoli. Così nei suoi due collaboratori Paolo circoncisione e gli uomini della non-circoncisione; gli uomini della legge e gli uomini della fede.
Paolo ha scritto due Lettere a Timoteo e una a Tito quando questi discepoli erano uno vescovo
di Efeso e l'altro di Creta. Sono le uniche Lettere della Scrittura indirizzate a un individuo, con
annotazioni molto personali, ricche di ripetizioni e di abbandono, quasi che il vecchio Paolo,
mentre istruisce, si confidi e si compiaccia dei giovani rampolli; i quali non l'hanno deluso, fedeli
nel servizio, attingendo forza nella grazia che è in Cristo Gesù, rimanendo saldi in quello che avevano imparato e di cui erano convinti, ben sapendo da chi l'avevano appreso.
Sant' Angela Merici Vergine, fondatrice
27 gennaio
Sant’Angela Merici visse in quel sofferto e nel contempo magnifico periodo storico, conosciuto
come “Rinascimento”; periodo che va dalla fine del XIV a tutto il XVI secolo, e che fu l’inizio della civiltà moderna.
E se da un lato vi erano agitazioni e guerre, come quelle dell’imperatore Carlo V (1500-1568),
che squassavano l’Europa e che portarono al tristemente famoso ‘Sacco di Roma’ del 6-17 maggio 1527, ad opera dei Lanzichenecchi, soldataglia agli ordini di Carlo V; dall’altro vi era tutto un
fiorire di arte, con i più grandi artisti delle varie specialità, come Michelangelo, Raffaello Sanzio,
Masaccio, Donatello, Brunelleschi, ecc.
Ma in quel felice periodo, in cui si manifestava l’umanesimo con la necessità della scoperta del
mondo e dell’uomo, in seno alla cristianità ci fu un desiderio di riforma interiore e di rinascita,
con il sorgere di numerose congregazioni religiose.
Come i Gesuiti nel 1534 ad opera di s. Ignazio di Loyola; i Fatebenefratelli fondati nel 1540 da s.
Giovanni di Dio; i Somaschi nel 1528 fondati da s. Girolamo Emiliani; i Filippini o Preti
dell’Oratorio di s. Filippo Neri (1515-1595), ecc. e sfociando, dopo lo sconquasso creato dalla Riforma Protestante di Martin Lutero († 1545), nel grande e basilare Concilio Ecumenico di Trento
(1545-1563).
In questo quadro di grande movimento educativo e spirituale, per lo più rivolto però alla formazione della parte maschile della società del tempo, s’inserì l’opera di Angela Merici, che si prefiggeva un impegno particolare per la formazione sistematica delle ragazze; nel campo morale,
integrando l’educazione ricevuta nelle famiglie, nel campo spirituale, alimentando quella già ricevuta nei monasteri, ma specialmente in campo intellettuale.
Origini, adolescenza
Angela Merici nacque il 21 marzo 1474 a Desenzano sul Garda (Brescia), allora territorio della
Repubblica di Venezia, suo padre Giovanni Merici e la madre, appartenente alla distinta famiglia
dei Biancosi di Salò, ricavavano il necessario per il sostentamento della famiglia, che comprendeva oltre Angela, una sorella più grande e sembra uno o più fratelli, dall’allevamento del bestiame e dalla coltivazione di qualche terreno.
Il padre Giovanni, “cittadino bresciano”, alquanto istruito, amava leggere alla moglie ed ai figli i
primi libri di devozione stampati a Venezia; probabilmente la “Legenda aurea”, celebre raccolta
di vite di santi e martiri, scritta dal domenicano Jacopo da Varazze (1220-1298).
E fu in quelle serate, trascorse ad ascoltare la detta lettura, che Angela conobbe e cominciò ad
amare due sante martiri, che divennero i suoi punti di riferimento, santa Caterina d’Alessandria
e sant’Orsola con le compagne.
Verso i 15 anni, dopo aver perso prematuramente la sorella, le morirono entrambi i genitori,
pertanto Angela si trasferì nella vicina Salò, accolta nella casa di uno zio materno, uomo di un
certo prestigio.
Gli anni trascorsi a Salò furono preziosi per Angela, perse quell’aria di contadinella ritrosa incantata dalla visione del lago di Garda, ma frequentando le giovani della città, acquistò la naturalezza nell’agire, che le consentirà in futuro di stare alla pari con le dame della borghesia e della
nobiltà.
Disapprovava la rilassatezza dei costumi esistente anche a Salò e fu forse in questo periodo che
divenne Terziaria Francescana, per avere una vita più austera e penitenziale, secondo i suoi desideri.
A 20 anni, dopo una permanenza di circa cinque anni a Salò, le morì lo zio e quindi ritornò a Desenzano sul Garda, alla cascina delle “Grezze”, impegnata nelle faccende domestiche, dedicandosi alle opere di misericordia spirituali e corporali secondo le necessità e circostanze e vivendo
la sua spiritualità evangelica.
La giovinezza – Le visioni della “scala celeste”
Nella cascina partecipò anche ai lavori dei campi, e fu in questa occupazione solitaria, che Angela ebbe la consolazione di una visione celestiale.
Il primo a raccontarla, fu padre Francesco Landini in una sua lettera del 1566; era il primo pomeriggio di un caldo giorno d’estate, ed Angela, che come al solito durante l’intervallo che si faceva
in attesa di una calura più sopportabile, si ritirava in disparte a pregare; si sentì improvvisamente rapita in Dio e vide il cielo aprirsi con una processione di angeli e vergini a coppie alternate, gli
angeli suonavano, le vergini cantavano; nella sfilata vide la sorella defunta, che le preannunciava che sarebbe stata la fondatrice di una Compagnia di vergini.
L’iconografia della santa, ha rappresentato la visione come una scala fra terra e cielo, simile a
quella di Giacobbe, con la processione delle vergini e degli angeli che la percorreva.
Nel 1516 i superiori francescani da cui Angela dipendeva come Terziaria, le proposero di trasferirsi a Brescia, per assistere la vedova Caterina Patendola, rimasta anche senza figli. Angela Merici obbedì docilmente, certa che il Signore in qualche modo le avrebbe indicato la sua futura
strada.
Intanto la tradizione popolare indica, che una seconda visione avvenne in località Brudazzo, sulle colline fra Desenzano e Padenghe, e anche qui vi fu una lunga teoria di angeli e vergini, fra le
quali Angela riconobbe una sua amica da poco morta in giovane età. La voce misteriosa questa
volta precisava che la Compagnia sarebbe dovuta sorgere a Brescia, ordinandole di farlo “prima
di morire”; infatti Angela Merici indugerà fino ai sessant’anni prima di fondare la Compagnia,
impresa di cui avvertiva tutte le difficoltà.
Nella casa ospitale di Caterina Patendola, in cui portò la sua parola calda, vibrante, confortevole, riuscì a placare l’immenso dolore della vedova che aveva perso anche i due figli; qui conobbe
anche Girolamo, nipote dei Patendola, che sarà il futuro fondatore dell’Ospedale degli Incurabili
di Brescia, inoltre Giacomo Chizzola e Agostino Gallo, anch’essi impegnati nell’organizzazione
dello stesso ospedale.
Angela instaurò con loro un’amicizia che durerà tutta la vita; diventando l’animatrice spirituale
di un laicato impegnato in opere e iniziative di carità, a cui lei apporterà il contributo della sensibilità femminile.
I primi gruppi femminili - I suoi viaggi e pellegrinaggi
Suor Angela, come si faceva chiamare indossando l’abito del Terz’Ordine francescano, dopo
qualche mese lasciò la casa dei Patendola e man mano fu ospitata in altre case private di Brescia, fra cui quella di Antonio Romano in via S. Agata.
Si guadagnava da vivere con il proprio lavoro di cucito e di filatura e con i servizi domestici; lavori umili tali da non essere stati annotati da testimoni diretti, perché usuali per le donne di modesta condizione del tempo.
A Brescia poteva frequentare più assiduamente le chiese, accostarsi di più ai Sacramenti, coltivare il numero sempre crescente di amicizie femminili; intorno a lei ormai si radunavano gentildonne e popolane, attratte dalla sua saggezza e disposte a collaborare alle opere di bene, specie
a favore della gioventù femminile.
È di questo periodo, la parentesi dei suoi viaggi e dei pellegrinaggi fatti a piedi o con i mezzi precari del tempo, l’iconografia più diffusa la ritrae infatti con l’abito e il bastone da pellegrina.
Il primo fu quello compiuto a Mantova nel 1522, per venerare la tomba della beata Osanna Andreasi da lei molto ammirata; poi salì una prima volta al Sacro Monte di Varallo; nel 1524 in
compagnia del signor Romano che l’ospitava e di un cugino, raggiunse Venezia e qui s’imbarcò
per la Terra Santa, meta indispensabile per quanti, desiderosi d’intraprendere una strada di perfezione e carità, volevano attingere forza ed emozioni, alle sorgenti del Cristianesimo.
Ma in quell’occasione si verificò un fatto straordinario, Angela Merici mentre la nave si approssimava alla meta, fu colpita da una malattia agli occhi che le fece perdere improvvisamente la
vista.
Poté vedere il Paese di Gesù solo con gli occhi dell’anima, infatti riacquisterà la vista soltanto
nel viaggio di ritorno, davanti ad un crocifisso a Creta; Angela prese questa malattia che l’aveva
impedita di vedere i Luoghi Santi, per i quali aveva intrapreso il lungo e disagevole viaggio, come un segno della Provvidenza che conduce le anime per vie imperscrutabili.
Sbarcata a Venezia preceduta dalla sua fama, si voleva trattenerla per il bene degli ospedali e
orfanotrofi della Serenissima, ma lei intenzionata più che mai a realizzare a Brescia il comando
celeste ricevuto nelle visioni, quasi se ne scappò per ritornare nella città d’origine.
Anche nel 1525, quando si recò a Roma per il Giubileo e fu ricevuta da papa Clemente VII che voleva trattenerla a Roma, suor Angela dovette ritornarsene in tutta fretta per evitare l’ordine del
pontefice.
Nel 1529 si trasferì momentaneamente a Cremona, ospite della famiglia Gallo, che l’aveva invitata per sfuggire all’eventuale assedio delle truppe di Carlo V, che due anni prima avevano devastato Roma; nel 1533, ritornata a Brescia, trovò ospitalità in una casetta di proprietà dei
Canonici Lateranensi, presso la Chiesa di Sant’Afra; nello stesso 1533 compì un secondo pellegrinaggio al Sacro Monte di Varallo, concludendo la serie dei suoi viaggi.
La fondazione della ‘Compagnia’
Dopo tante riflessioni, ormai era giunto per lei il tempo di operare, già nel 1532 Angela di Salò,
come si firmava, chiedeva alla Santa Sede di essere esonerata dalla sepoltura in una chiesa francescana come tutte le Terziarie, optando per quella di Sant’Afra martire.
Non era un rinnegare l’appartenenza al Terz’Ordine francescano, tanto che ne porterà l’abito fino alla morte e con esso verrà sepolta, ma volle prendere per sé e soprattutto per le sue figlie
spirituali che l’affiancavano, una certa distanza, in prospettiva di una futura vita consacrata organizzata autonomamente, che sentiva ormai di costituire per il gruppo.
Angela aveva colto nei suoi tanti incontri, un’esigenza particolare delle giovani, che aspiravano
ad una totale consacrazione, ma fuori dello schema del tradizionale chiostro, e il Terz’Ordine
Francescano, non contemplava l’impegno della verginità a vita, né poteva tutelarle dalle pressioni dei parenti che volevano maritarle, né dei padroni presso i quali molte di loro lavoravano.
Occorreva allora una “Compagnia”, nome in uso a quel tempo, indicante qualsiasi associazione
religiosa di laici o laiche e anche di sacerdoti, che senza entrare in un Ordine religioso, si univano
tra loro, impegnandosi a vivere integralmente il Vangelo e a servire il prossimo in particolari opere di carità.
Così nello stesso anno 1533, Angela Merici a quasi 60 anni, costituì la “Compagnia delle dimesse
di Sant’Orsola”; si dicevano “dimesse” perché non vestivano l’antico e nobile abito delle monache; e “di Sant’Orsola”, perché, non avendo esse la protezione delle mura di un convento, dovevano vivere nel mondo e restare fedeli a Cristo, proprio come la giovane principessa della
Britannia, uccisa dai pagani insieme alle numerose compagne e il cui culto era molto vivo anche
a Brescia.
Così Angela e le prime dodici collaboratrici, Simona, Laura, Peregrina, Barbara, Chiara, ecc. presero a riunirsi nell’oratorio fatto restaurare e messo a disposizione da Elisabetta Prato, nella sua
casa vicino al Duomo di Brescia.
Angela dal canto suo continuò a condurre una vita di penitenza, dormiva per terra su una stuoia,
che di giorno conservava arrotolata in un angolo, usando un pezzo di legno per guanciale; si nutriva di legumi e frutta, mangiava il pane due volte la settimana, mai la carne, beveva un po’ di
vino solo a Natale e Pasqua.
La sua fama di santità cresceva enormemente e a lei per consigli e spiegazioni sul Vecchio e
Nuovo Testamento, si rivolgevano sacerdoti, religiosi, predicatori e teologi.
Il 25 novembre 1535, festa di un’altra santa da lei amata fin dall’infanzia, s. Caterina
d’Alessandria, le prime 28 giovani, furono ammesse nella “Compagnia delle dimesse di
Sant’Orsola”, la cui Regola scritta da Angela Merici, fu approvata dal vicario generale del vescovo di Verona l’8 agosto 1536.
Successivamente nel 1544 papa Paolo III ne approvava la Regola, elevando la Compagnia a Istituto di diritto pontificio, permettendola così di uscire dai confini diocesani.
Nel 1537, la Compagnia aveva eletto, prima superiora a vita, maestra e tesoriera, la fondatrice
Angela Merici, la quale oltre la Regola, aveva dettato al fedele Gabriele Cozzano, cancelliere
della Compagnia, altre due brevi opere, i “Ricordi” per le ‘colonnelle’ cioè per le superiore di
quartiere e il “Testamento” per le nobili matrone, dette anche ‘governatrici’, che avevano la
funzione di amministrare e proteggere l’Istituto.
La sua morte – L’eredità spirituale
Nel 1539 Angela fu colpita da una malattia, che fra alti e bassi la condusse alla morte il 27 gennaio 1540; per trenta giorni, i canonici di Sant’Afra e quelli del Duomo, si contesero l’onore di seppellire nella propria chiesa, l’ex contadinella di Desenzano; la spuntarono quelli di sant’Afra e
oggi la chiesa, dove riposano le sue spoglie, si chiama Santuario di Sant’Angela, meta di continui pellegrinaggi provenienti specialmente dal mondo orsolinico; la chiesa, distrutta in gran parte dai bombardamenti del 1945, è stata ricostruita nel 1953.
Nel testamento spirituale, Angela tratteggiò le linee essenziali del suo metodo educativo, basato tutto nel rapporto di sincero amore tra educatore ed educando e sul pieno rispetto delle libertà altrui.
Così lasciò scritto alle sue Orsoline: “Vi supplico di voler ricordare e tenere scolpite nella mente e
nel cuore, tutte le vostre figliole ad una ad una; e non solo i loro nomi, ma ancora la condizione e
indole e stato e ogni cosa loro. Il che non vi sarà difficile, se le abbracciate con viva carità… Impegnatevi a tirarle su con amore e con mano soave e dolce, è non imperiosamente e con asprezza, ma in tutto vogliate essere piacevoli.
Soprattutto guardatevi dal voler ottenere alcuna cosa per forza; perché Dio ha dato a ognuno il
libero arbitrio e non vuole costringere nessuno, ma solamente propone, invita e consiglia…”.
Sugli altari
Nel 1568 furono raccolte le deposizioni di quattro testimoni che avevano conosciuto Angela, ma
dovettero trascorrere altri due secoli, prima che un’orsolina claustrale di Roma, si facesse postulatrice della causa di beatificazione, ottenendo il decreto di conferma del culto come Beata, il 30
aprile 1768, da parte di papa Clemente XIII.
Il 24 maggio 1807, Angela Merici fu proclamata Santa da papa Pio VII e papa Pio IX nel 1861, ne
estese il culto a tutta la Chiesa universale.
Una statua scolpita nel 1866 dallo scultore Pietro Galli, la ricorda nella Basilica di S. Pietro in Vaticano. Nella liturgia ebbe varie date di celebrazione, prima il 31 maggio, poi dal 1955 il 10 giugno e infine il 27 gennaio, giorno della sua morte.
La Congregazione delle Orsoline
La “Compagnia delle dimesse di sant’Orsola”, prima congregazione secolare femminile sorta
nella Chiesa, con la sua Regola fu l’origine di varie congregazioni religiose.
Già in vita, Angela vedendo aumentare attorno a sé una famiglia così numerosa e avendo un desiderio grande di servire Cristo in ogni bisognoso, fondò ben 24 rami di Orsoline, dette poi anche
‘Angeline’, che dopo la sua morte furono raggruppate in tre soli settori: le “Orsoline secolari”
che vivono nelle famiglie proprie e si dedicano ad ogni opera di misericordia nelle parrocchie in
cui vivono; le “Orsoline collegiali” che conducono vita comune e si dedicano all’istruzione della
gioventù, gestendo appunto dei collegi; le “Orsoline claustrali” che sono di vita contemplativa.
Tra le Congregazioni sorte sull’esempio della Compagnia di Sant’Orsola, ma con abiti e costumi
diversi, ne ricordiamo alcune: Orsoline di San Carlo, sorte a Milano nel 1566; Orsoline di
Sant’Orsola, più rami fondati in Francia tra il 1612 e 1632; Orsoline di Maria Immacolata, fondate a Piacenza nel 1649; Orsoline di Gesù o Figlie dell’Incarnazione, fondate in Vandea nel 1802;
Orsoline Gerosolimitane di Maria Immacolata, sorte a Bergamo nel 1818; Orsoline Figlie di Maria Immacolata, sorte presso Acqui nel 1854; Orsoline del Sacro Cuore di Gesù Agonizzante fondate nel 1920; Orsoline del Sacro Cuore fondate a Parma nel 1575; Orsoline dell’Unione Romana
sorte nel 1878; e tante altre anche di più recente fondazione.
San Tommaso d'Aquino, Sacerdote e dottore della Chiesa
28 gennaio
Quando papa Giovanni XXII nel 1323, iscrisse Tommaso d’Aquino nell’Albo dei Santi, a quanti
obiettavano che egli non aveva compiuto grandi prodigi, né in vita né dopo morto, il papa rispose con una famosa frase: “Quante preposizioni teologiche scrisse, tanti miracoli fece”.
E questo, è il riconoscimento più grande che si potesse dare al grande teologo e Dottore della
Chiesa, che con la sua “Summa teologica”, diede sistematicamente un fondamento scientifico,
filosofico e teologico alla dottrina cristiana.
Origini, oblato a Montecassino, studente a Napoli
Tommaso, nacque all’incirca nel 1225 nel castello di Roccasecca (Frosinone) nel Basso Lazio, che
faceva parte del feudo dei conti d’Aquino; il padre Landolfo, era di origine longobarda e vedovo
con tre figli, aveva sposato in seconde nozze Teodora, napoletana di origine normanna; dalla loro unione nacquero nove figli, quattro maschi e cinque femmine, dei quali Tommaso era l’ultimo
dei maschi.
Secondo il costume dell’epoca, il bimbo a cinque anni, fu mandato come “oblato” nell’Abbazia
di Montecassino; l’oblatura non contemplava che il ragazzo, giunto alla maggiore età, diventasse necessariamente un monaco, ma era semplicemente una preparazione, che rendeva i candidati idonei a tale scelta.
Verso i 14 anni, Tommaso che si trovava molto bene nell’abbazia, fu costretto a lasciarla, perché
nel 1239 fu occupata militarmente dall’imperatore Federico II, allora in contrasto con il papa
Gregorio IX, e che mandò via tutti i monaci, tranne otto di origine locale, riducendone così la
funzionalità; l’abate accompagnò personalmente l’adolescente Tommaso dai genitori, raccomandando loro di farlo studiare presso l’Università di Napoli, allora sotto la giurisdizione
dell’imperatore.
A Napoli frequentò il corso delle Arti liberali, ed ebbe l’opportunità di conoscere alcuni scritti di
Aristotele, allora proibiti nelle Facoltà ecclesiastiche, intuendone il grande valore.
Domenicano; incomprensioni della famiglia
Inoltre conobbe nel vicino convento di San Domenico, i frati Predicatori e ne restò conquistato
per il loro stile di vita e per la loro profonda predicazione; aveva quasi 20 anni, quando decise di
entrare nel 1244 nell’Ordine Domenicano; i suoi superiori intuito il talento del giovane, decisero
di mandarlo a Parigi per completare gli studi.
Intanto i suoi familiari, specie la madre Teodora rimasta vedova, che sperava in lui per condurre
gli affari del casato, rimasero di stucco per questa scelta; pertanto la castellana di Roccasecca,
chiese all’imperatore che si trovava in Toscana, di dare una scorta ai figli, che erano allora al suo
servizio, affinché questi potessero bloccare Tommaso, già in viaggio verso Parigi.
I fratelli poterono così fermarlo e riportarlo verso casa, sostando prima nel castello paterno di
Monte San Giovanni, dove Tommaso fu chiuso in una cella; il sequestro durò complessivamente
un anno; i familiari nel contempo, cercarono in tutti i modi di farlo desistere da quella scelta, ritenuta non consona alla dignità della casata.
Arrivarono perfino ad introdurre una sera, una bellissima ragazza nella cella, per tentarlo nella
castità; ma Tommaso di solito pacifico, perse la pazienza e con un tizzone ardente in mano, la
fece fuggire via. La castità del giovane domenicano era proverbiale, tanto da meritare in seguito
il titolo di “Dottore Angelico”.
Su questa situazione i racconti della ‘Vita’, divergono, si dice che papa Innocenzo IV, informato
dai preoccupati Domenicani, chiese all’imperatore di liberarlo e così tornò a casa; altri dicono
che Tommaso riuscì a fuggire; altri che Tommaso ricondotto a casa della madre, la quale non
riusciva ad accettare che un suo figlio facesse parte di un Ordine ‘mendicante’, resistette a tutti i
tentativi fatti per distoglierlo, tanto che dopo un po’ anche la sorella Marotta, passò dalla sua
parte e in seguito diventò monaca e badessa nel monastero di Santa Maria a Capua; infine anche la madre si convinse, permettendo ai domenicani di far visita al figlio e dopo un anno di
quella situazione. lo lasciò finalmente partire.
Studente a Colonia con s. Alberto Magno
Ritornato a Napoli, il Superiore Generale, Giovanni il Teutonico, ritenne opportuno anche questa volta, di trasferirlo all’estero per approfondire gli studi; dopo una sosta a Roma, Tommaso
fu mandato a Colonia dove insegnava sant’Alberto Magno (1193-1280), domenicano, filosofo e
teologo, vero iniziatore dell’aristotelismo medioevale nel mondo latino e uomo di cultura enciclopedica.
Tommaso divenne suo discepolo per quasi cinque anni, dal 1248 al 1252; si instaurò così una feconda convivenza tra due geni della cultura; risale a questo periodo l’offerta fattagli da papa Innocenzo IV di rivestire la carica di abate di Montecassino, succedendo al defunto abate Stefano
II, ma Tommaso che nei suoi principi rifuggiva da ogni carica nella Chiesa, che potesse coinvolgerlo in affari temporali, rifiutò decisamente, anche perché amava oltremodo restare
nell’Ordine Domenicano.
A Colonia per il suo atteggiamento silenzioso, fu soprannominato dai compagni di studi “il bue
muto”, riferendosi anche alla sua corpulenza; s. Alberto Magno venuto in possesso di alcuni appunti di Tommaso, su una difficile questione teologica discussa in una lezione, dopo averli letti,
decise di far sostenere allo studente italiano una disputa, che Tommaso seppe affrontare e svolgere con intelligenza.
Stupito, il Maestro davanti a tutti esclamò: “Noi lo chiamiamo bue muto, ma egli con la sua dottrina emetterà un muggito che risuonerà in tutto il mondo”.
Sacerdote; Insegnante all’Università di Parigi; Dottore in Teologia
Nel 1252, da poco ordinato sacerdote, Tommaso d’Aquino, fu indicato dal suo grande maestro
ed estimatore s. Alberto, quale candidato alla Cattedra di “baccalarius biblicus” all’Università di
Parigi, rispondendo così ad una richiesta del Generale dell’Ordine, Giovanni di Wildeshauen.
Tommaso aveva appena 27 anni e si ritrovò ad insegnare a Parigi sotto il Maestro Elia Brunet,
preparandosi nel contempo al dottorato in Teologia.
Ogni Ordine religioso aveva diritto a due cattedre, una per gli studenti della provincia francese e
l’altra per quelli di tutte le altre province europee; Tommaso fu destinato ad essere “maestro
degli stranieri”.
Ma la situazione all’Università parigina non era tranquilla in quel tempo; i professori parigini del
clero secolare, erano in lotta contro i colleghi degli Ordini mendicanti, scientificamente più preparati, ma considerati degli intrusi nel mondo universitario; e quando nel 1255-56, Tommaso divenne Dottore in Teologia a 31 anni, gli scontri fra Domenicani e clero secolare, impedirono che
potesse salire in cattedra per insegnare; in questo periodo Tommaso difese i diritti degli Ordini
religiosi all’insegnamento, con un celebre e polemico scritto: “Contra impugnantes”; ma furono
necessari vari interventi del papa Alessandro IV, affinché la situazione si sbloccasse in suo favore.
Nell’ottobre 1256 poté tenere la sua prima lezione, grazie al cancelliere di Notre-Dame, Americo
da Veire, ma passò ancora altro tempo, affinché il professore italiano fosse formalmente accettato nel Corpo Accademico dell’Università.
Già con il commento alle “Sentenze” di Pietro Lombardo, si era guadagnato il favore e
l’ammirazione degli studenti; l’insegnamento di Tommaso era nuovo; professore in Sacra Scrittura, organizzava in modo insolito l’argomento con nuovi metodi di prova, nuovi esempi per arrivare alla conclusione; egli era uno spirito aperto e libero, fedele alla dottrina della Chiesa e
innovatore allo stesso tempo.
“Già sin d’allora, egli divideva il suo insegnamento secondo un suo schema fondamentale, che
contemplava tutta la creazione, che, uscita dalle mani di Dio, vi faceva ora ritorno per rituffarsi
nel suo amore” (Enrico Pepe, Martiri e Santi, Città Nuova, 2002).
A Parigi, Tommaso d’Aquino, dietro invito di s. Raimondo di Peñafort, già Generale dell’Ordine
Domenicano, iniziò a scrivere un trattato teologico, intitolato “Summa contra Gentiles”, per dare un valido ausilio ai missionari, che si preparavano per predicare in quei luoghi, dove vi era una
forte presenza di ebrei e musulmani.
Il ritorno in Italia; collaboratore di pontefici
All’Università di Parigi, Tommaso rimase per tre anni; nel 1259 fu richiamato in Italia dove continuò a predicare ed insegnare, prima a Napoli nel convento culla della sua vocazione, poi ad
Anagni dov’era la curia pontificia (1259-1261), poi ad Orvieto (1261-1265), dove il papa Urbano
IV fissò la sua residenza dal 1262 al 1264.
Il pontefice si avvalse dell’opera dell’ormai famoso teologo, residente nella stessa città umbra;
Tommaso collaborò così alla compilazione della “Catena aurea” (commento continuo ai quattro
Vangeli) e sempre su richiesta del papa, impegnato in trattative con la Chiesa Orientale, Tommaso approfondì la sua conoscenza della teologia greca, procurandosi le traduzioni in latino dei
padri greci e quindi scrisse un trattato “Contra errores Graecorum”, che per molti secoli esercitò
un influsso positivo nei rapporti ecumenici.
Sempre nel periodo trascorso ad Orvieto, Tommaso ebbe dal papa l’incarico di scrivere la liturgia e gli inni della festa del Corpus Domini, istituita l’8 settembre 1264, a seguito del miracolo
eucaristico, avvenuto nella vicina Bolsena nel 1263, quando il sacerdote boemo Pietro da Praga,
che nutriva dubbi sulla transustanziazione, vide stillare copioso sangue, dall’ostia consacrata
che aveva fra le mani, bagnando il corporale, i lini e il pavimento.
Fra gli inni composti da Tommaso d’Aquino, dove il grande teologo profuse tutto il suo spirito
poetico e mistico, da vero cantore dell’Eucaristia, c’è il famoso “Pange, lingua, gloriosi Corporis
mysterium”, di cui due strofe inizianti con “Tantum ergo”, si cantano da allora ogni volta che si
impartisce la benedizione col SS. Sacramento.
Nel 1265 fu trasferito a Roma, a dirigere lo “Studium generale” dell’Ordine Domenicano, che
aveva sede nel convento di Santa Sabina; nei circa due anni trascorsi a Roma, Tommaso ebbe il
compito di organizzare i corsi di teologia per gli studenti della Provincia Romana dei Domenicani.
La “Summa theologiae”; affiancato da p. Reginaldo
A Roma, si rese conto che non tutti gli allievi erano preparati per un corso teologico troppo impegnativo, quindi cominciò a scrivere per loro una “Summa theologiae”, per “presentare le cose
che riguardano la religione cristiana, in un modo che sia adatto all’istruzione dei principianti”.
La grande opera teologica, che gli darà fama in tutti i secoli successivi, fu divisa in uno schema a
lui caro, in tre parti: la prima tratta di Dio uno e trino e della “processione di tutte le creature da
Lui”; la seconda parla del “movimento delle creature razionali verso Dio”; la terza presenta Gesù
“che come uomo è la via attraverso cui torniamo a Dio”. L’opera iniziata a Roma nel 1267 e continuata per ben sette anni, fu interrotta improvvisamente il 6 dicembre 1273 a Napoli, tre mesi
prima di morire.
Intanto Tommaso d’Aquino, per i suoi continui trasferimenti, non poteva più vivere una vita di
comunità, secondo il carisma di s. Domenico di Guzman e ciò gli procurava difficoltà; i suoi superiori pensarono allora di affiancargli un frate di grande valore, sacerdote e lettore in teologia, fra
Reginaldo da Piperno; questi ebbe l’incarico di assisterlo in ogni necessità, seguendolo ovunque, confessandolo, servendogli la Messa, ascoltandolo e consigliandolo; in altre parole i due
domenicani vennero a costituire una piccola comunità, dove potevano quotidianamente confrontarsi.
Nel 1267, Tommaso dovette mettersi di nuovo in viaggio per raggiungere a Viterbo papa Clemente IV, suo grande amico, che lo volle collaboratore nella nuova residenza papale; il pontefice lo voleva poi come arcivescovo di Napoli, ma egli decisamente rifiutò.
Per tre anni di nuovo a Parigi e poi ritorno a Napoli
Nel decennio trascorso in Italia, in varie località, Tommaso compose molte opere, fra le quali,
oltre quelle già menzionate prima, anche “De unitate intellectus”; “De Redimine principum”
(trattato politico, rimasto incompiuto); le “Quaestiones disputatae, ‘De potentia’ e ‘De anima’”
e buona parte del suo capolavoro, la già citata “Summa teologica”, il testo che avrebbe ispirato
la teologia cattolica fino ai nostri tempi.
All’inizio del 1269 fu richiamato di nuovo a Parigi, dove all’Università era ripreso il contrasto fra i
maestri secolari e i maestri degli Ordini mendicanti; occorreva la presenza di un teologo di valore per sedare gli animi.
A Parigi, Tommaso, oltre che continuare a scrivere le sue opere, ben cinque, e la continuazione
della Summa, dovette confutare con altri celebri scritti, gli avversari degli Ordini mendicanti da
un lato e dall’altro difendere il proprio aristotelismo nei confronti dei Francescani, fedeli al neoplatonismo agostiniano, e soprattutto confutò alcuni errori dottrinari, dall’averroismo, alle tesi
eterodosse di Sigieri di Brabante sull’origine del mondo, sull’anima umana e sul libero arbitrio.
Nel 1272 ritornò in Italia, a Napoli, facendo sosta a Montecassino, Roccasecca, Molara; Ceccano;
nella capitale organizzò, su richiesta di Carlo I d’Angiò, un nuovo “Studium generale”
dell’Ordine Domenicano, insegnando per due anni al convento di San Domenico, il cui Studio
teologico era incorporato all’Università.
Qui intraprese la stesura della terza parte della Summa, rimasta interrotta e completata dopo la
sua morte dal fedele collaboratore fra Reginaldo, che utilizzò la dottrina di altri suoi trattati,
trasferendone i dovuti paragrafi.
L’interruzione radicale del suo scrivere
Tommaso aveva goduto sempre di ottima salute e di un’eccezionale capacità di lavoro; la sua
giornata iniziava al mattino presto, si confessava a Reginaldo, celebrava la Messa e poi la serviva al suo collaboratore; il resto della mattinata trascorreva fra le lezioni agli studenti e segretari
e il prosieguo dei suoi studi; altrettanto faceva nelle ore pomeridiane dopo il pranzo e la preghiera, di notte continuava a studiare, poi prima dell’alba si recava in chiesa per pregare, avendo l’accortezza di mettersi a letto un po’ prima della sveglia per non farsi notare dai confratelli.
Ma il 6 dicembre 1273 gli accadde un fatto strano, mentre celebrava la Messa, qualcosa lo colpì
nel profondo del suo essere, perché da quel giorno la sua vita cambiò ritmo e non volle più scrivere né dettare altro.
Ci furono vari tentativi da parte di padre Reginaldo, di fargli dire o confidare il motivo di tale
svolta; solo più tardi Tommaso gli disse: “Reginaldo, non posso, perché tutto quello che ho
scritto è come paglia per me, in confronto a ciò che ora mi è stato rivelato”, aggiungendo:
“L’unica cosa che ora desidero, è che Dio dopo aver posto fine alla mia opera di scrittore, possa
presto porre termine anche alla mia vita”.
Anche il suo fisico risentì di quanto gli era accaduto quel 6 dicembre, non solo smise di scrivere,
ma riusciva solo a pregare e a svolgere le attività fisiche più elementari.
I doni mistici
La rivelazione interiore che l’aveva trasformato, era stata preceduta, secondo quanto narrano i
suoi primi biografi, da un mistico colloquio con Gesù; infatti mentre una notte era in preghiera
davanti al Crocifisso (oggi venerato nell’omonima Cappella, della grandiosa Basilica di S. Domenico in Napoli), egli si sentì dire “Tommaso, tu hai scritto bene di me. Che ricompensa vuoi?” e
lui rispose: “Nient’altro che te, Signore”.
Ed ecco che quella mattina di dicembre, Gesù Crocifisso lo assimilò a sé, il “bue muto di Sicilia”
che fino allora aveva sbalordito il mondo con il muggito della sua intelligenza, si ritrovò come
l’ultimo degli uomini, un servo inutile che aveva trascorso la vita ammucchiando paglia, di fronte alla sapienza e grandezza di Dio, di cui aveva avuto sentore.
Il suo misticismo, è forse poco conosciuto, abbagliati come si è dalla grandezza delle sue opere
teologiche; celebrava la Messa ogni giorno, ma era così intensa la sua partecipazione, che un
giorno a Salerno fu visto levitare da terra.
Le sue tante visioni hanno ispirato ai pittori un attributo, è spesso raffigurato nei suoi ritratti,
con una luce raggiata sul petto o sulla spalla.
Sempre più ammalato; in viaggio per Lione
Con l’intento di staccarsi dall’ambiente del suo convento napoletano, che gli ricordava continuamente studi e libri, in compagnia di Reginaldo, si recò a far visita ad una sorella, contessa
Teodora di San Severino; ma il soggiorno fu sconcertante, Tommaso assorto in una sua interiore
estasi, non riuscì quasi a proferire parola, tanto che la sorella dispiaciuta, pensò che avesse perduto la testa e nei tre giorni trascorsi al castello, fu circondato da cure affettuose.
Ritornò poi a Napoli, restandovi per qualche settimana ammalato; durante la malattia, due religiosi videro una grande stella entrare dalla finestra e posarsi per un attimo sul capo
dell’ammalato e poi scomparire di nuovo, così come era venuta.
Intanto nel 1274, dalla Francia papa Gregorio X, ignaro delle sue condizioni di salute, lo invitò a
partecipare al Concilio di Lione, indetto per promuovere l’unione fra Roma e l’Oriente; Tommaso volle ancora una volta obbedire, pur essendo cosciente delle difficoltà per lui di intraprendere
un viaggio così lungo.
Partì in gennaio, accompagnato da un gruppetto di frati domenicani e da Reginaldo, che sperava sempre in una ripresa del suo maestro; a complicare le cose, lungo il viaggio ci fu un incidente, scendendo da Teano, Tommaso si ferì il capo urtando contro un albero rovesciato.
Giunti presso il castello di Maenza, dove viveva la nipote Francesca, la comitiva si fermò per
qualche giorno, per permettere a Tommaso di riprendere le forze, qui si ammalò nuovamente,
perdendo anche l’appetito; si sa che quando i frati per invogliarlo a mangiare gli chiesero cosa
desiderasse, egli rispose: “le alici”, come quelle che aveva mangiato anni prima in Francia.
La sua fine nell’abbazia di Fossanova
Tutte le cure furono inutili, sentendo approssimarsi la fine, Tommaso chiese di essere portato
nella vicina abbazia di Fossanova, dove i monaci cistercensi l’accolsero con delicata ospitalità;
giunto all’abbazia nel mese di febbraio, restò ammalato per circa un mese.
Prossimo alla fine, tre giorni prima volle ricevere gli ultimi sacramenti, fece la confessione generale a Reginaldo, e quando l’abate Teobaldo gli portò la Comunione, attorniato dai monaci e
amici dei dintorni, Tommaso disse alcuni concetti sulla presenza reale di Gesù nell’Eucaristia,
concludendo: “Ho molto scritto ed insegnato su questo Corpo Sacratissimo e sugli altri sacramenti, secondo la mia fede in Cristo e nella Santa Romana Chiesa, al cui giudizio sottopongo
tutta la mia dottrina”.
Il mattino del 7 marzo 1274, il grande teologo morì, a soli 49 anni; aveva scritto più di 40 volumi.
Il suo insegnamento teologico
La sua vita fu interamente dedicata allo studio e all’insegnamento; la sua produzione fu immensa; due vastissime “Summe”, commenti a quasi tutte le opere aristoteliche, opere di esegesi biblica, commentari a Pietro Lombardo, a Boezio e a Dionigi l’Areopagita , 510 “Questiones
disputatae”, 12 “Quodlibera”, oltre 40 opuscoli.
Tommaso scriveva per i suoi studenti, perciò il suo linguaggio era chiaro e convincente, il discorso si svolgeva secondo le esigenze didattiche, senza lasciare zone d’ombra, concetti non ben definiti o non precisati.
Egli si rifaceva anche nello stile al modello aristotelico, e rimproverava ai platonici il loro linguaggio troppo simbolico e metafisico.
Ciò nonostante alcune tesi di Tommaso d’Aquino, così radicalmente innovatrici, fecero scalpore
e suscitarono le più vivaci reazioni da parte dei teologi contemporanei; s. Alberto Magno intervenne più volte in favore del suo antico discepolo, nonostante ciò nel 1277 si arrivò alla condanna da parte del vescovo E. Tempier a Parigi, e a Oxford sotto la pressione dell’arcivescovo di
Canterbury, R. Kilwardby; le condanne furono ribadite nel 1284 e nel 1286 dal successivo arcivescovo J. Peckham.
L’Ordine Domenicano, si impegnò nella difesa del suo più grande maestro e nel 1278 dichiarò il
“Tomismo” dottrina ufficiale dell’Ordine. Ma la condanna fu abrogata solo nel 1325, due anni
dopo che papa Giovanni XXII ad Avignone, l’aveva proclamato santo il 18 luglio 1323.
Il suo culto
Nel 1567 s. Tommaso d’Aquino fu proclamato Dottore della Chiesa e il 4 agosto 1880, patrono
delle scuole e università cattoliche.
La sua festa liturgica, da secoli fissata al 7 marzo, giorno del suo decesso, dopo il Concilio Vaticano II, che ha raccomandato di spostare le feste liturgiche dei santi dal periodo quaresimale e
pasquale, è stata spostata al 28 gennaio, data della traslazione del 1369.
Le sue reliquie sono venerate in vari luoghi, a seguito dei trasferimenti parziali dei suoi resti, inizialmente sepolti nella chiesa dell’abbazia di Fossanova, presso l’altare maggiore e poi per alterne vicende e richieste autorevoli, smembrati nel tempo; sono venerate a Fossanova, nel
Duomo della vicina Priverno, nella chiesa di Saint-Sermain a Tolosa in Francia, portate lì nel
1369 dai Domenicani, su autorizzazione di papa Urbano V, e poi altre a San Severino, su richiesta dalla sorella Teodora e da lì trasferite poi a Salerno; altre reliquie si trovano nell’antico convento dei Domenicani di Napoli e nel Duomo della città.
A chiusura di questa necessariamente incompleta scheda, si riporta il bellissimo inno eucaristico, dove san Tommaso profuse tutto il suo amore e la fede nel mistero dell’Eucaristia.