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Venerdì 27 Gennaio 2017
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Giornata della memoria: il ricordo per insegnare ai ragazzi a combattere i nuovi pericoli
Anche il bullismo è violenza
Rossana Ottolenghi racconta nelle scuole la strage di Maina
DI
CARLO VALENTINI
N
on solo nella giornata
della memoria. Lei
dedica tutto il tempo
libero a testimoniare
agli studenti le atrocità del
nazifascismo. Rossana Ottolenghi, 53 anni, psicologa,
milanese, è la figlia di Becky
Behar Ottolenghi, di origine
belga, che scampò miracolosamente (aveva 14 anni) a una
strage efferata, quella di Maina, e dopo ha dedicato la vita
a raccontare quel dramma. E
deceduta nel 2009 e il testimone è stato raccolto dalla figlia,
che al liceo Dante Alighieri di
Ravenna, in occasione delle
iniziative per la giornata della
memoria, ha rivissuto per l’ennesima volta quella tragedia.
Spiega: «Ai giovani dico che
l’importante è farsi domande.
Se qualcuno costruisce per
noi un nemico, attraverso pregiudizi o falsi storici, occorre
sempre andare a fondo, non
bisogna fidarsi mai di questa
lettura. Troppo facile creare
nemici, odio. Più difficile opporsi. E’ questa eredità che mia
madre sperava che i ragazzi
raccogliessero».
Quello di Maina, sul lago
di Como, fu il primo sterminio
in Italia della Leibstandarte
Adolf Hitler, la divisione SS
vanto e gloria del führer, scesa in Italia all’indomani dell’8
settembre 1943. 16 uomini e
donne, vecchi e bambini, ebrei,
fuggiti pensando di evitare le
deportazioni naziste, vennero arrestati e rinchiusi in un
albergo, quindi ammazzati e
buttati nel lago. La loro colpa?
Erano ebrei. Oltre agli elenchi
e alle schede tenute aggiornate
dai fascisti fin dal 1938, anno
di promulgazione delle leggi
razziali, a fornire alla SS tutti
i dati necessari per individuare
e catturare gli ebrei, si prestarono anche delatori e spie del
posto che, per lucro o per acquisire meriti di fronte ai nazisti,
«vendettero» gli ebrei e le loro
famiglie.
Quei 16 ebrei vennero
uccisi a colpi di rivoltella, le
correnti del lago fecero riaffiorare i cadaveri, le SS li straziarono con le baionette per
farli affondare. Altre stragi
(54 i morti accertati) avvennero nella zona, a Baveno, Arona e Stresa. Tutte commesse
freddamente e delle quali mai
sono stati condannati i colpevoli. Nel 1968 a Osnabrück, in
Germania, cinque appartenenti alla divisione Leibstandarte
Adolf Hitler finirono sul banco degli imputati. Tre di loro
ebbero l’ergastolo, due furono
condannati a tre anni. Ma nel
1970 una sentenza della Corte suprema di Berlino cancellò
tutto, perché i reati erano da
considerare prescritti.
Dice Rossana Ottolenghi:
«L’armistizio era avvenuto da
pochi giorni. Sul lago Maggiore, come in tutta Italia, la popolazione era felicissima e tutti
si erano illusi che la guerra finisse proprio in quel momento.
Ma tre giorni dopo l’armistizio i
tedeschi invasero tutta la zona
e si misero a caccia degli ebrei.
Agli studenti rammento che si
trattava di giovani ragazzi, con
un’assoluta fedeltà ideologica
al nazismo, e capaci di uccidere
con una rapidità spaventosa.
Una violenza inaudita, prima
della strage di Maina un soldato uccise con la baionetta
un cane e lo gettò nel lago. È
importante sapere, è un antidoto contro razzismo, discriminazione e bullismo, tuttora
presenti».
Finita la guerra Becky
Behar tornò in Italia e sposò Pier Paolo
Ottolenghi,
ingegnere di
origine ferrarese, già partigiano, a sua volta
fortunosamente scampato ai
rastrellamenti
grazie all’aiuto
di una famiglia
della provincia modenese,
grande amico
di Giorgio
Bassani, e da
lui ebbe due figlie, una delle
quali prematuramente scomparsa. L’altra,
Rossana, s’è
caricata ora dell’impegno a non
fare dimenticare quella strage
e più in generale la tragedia
dell’Olocausto.
L’accompagna spesso
nelle scuole il marito, Aldo
Luperini, biologo, ricercatore
del Cnr. «Questo mio faticoso
impegno nelle scuole – dice
Rossana Ottolenghi- ritengo
sia importante perché non si
tratta di un racconto che si
legge in un libro ma di una
vicenda raccontata da chi l’ha
sofferta e sempre vi è un col-
loquio coi ragazzi pieno di pathos e di voglia di conoscenza
da parte loro. Soprattutto è importante svelare che i meccanismi dell’odio che si costruisce
verso un nemico sono sempre
gli stessi, quindi non si tratta
solo di ricordare ma anche di
prendere consapevolezza di
questi pericoli. Il binomio indifferenza-emarginazione che
Vignetta di Claudio Cadei
ha condotto alla strage di Meina è purtroppo tema attuale. Io
sono viva perché qualcuno ha
detto no alla violenza e ha aiutato mia madre e mio padre a
nascondersi, lo dico guardando
in faccia i ragazzi. E’ un altro
modo di proporre ai giovani la
memoria».
Su quelle brutali violenze
dei nazisti Marco Nozza ha
scritto un libro (Hotel Meina,
Mondadori) e Carlo Lizzani
ha realizzato (nel 2007) un film
con lo stesso titolo. Entrambi
sono il frutto anche della determinazione della madre di
Rossana di tenere viva la memoria (alcune parti del film di
Lizzani sono state però criticate). Dell’eccidio scrisse anche
Giorgio Bocca nella Storia
dell’Italia partigiana: «Dopo
Meina si dà la caccia all’ebreo
in tutte le provincie italiane. I
tedeschi occupanti non hanno
bisogno di un’istruzione particolare: il
generale SS, Karl
Wolff ha partecipato alla strage in
Polonia, il suo braccio destro generale
Wilhelm Harster
ha eliminato i giudei in Olanda, a
Trieste c’è Odilo
Globocnik, colui
che ha insegnato a
Adolf Eichmann, il
grande organizzatore dell’eccidio, come
si possono usare le
camere a gas».
Conclude Rossana Ottolenghi:
«Dobbiamo ricordare
quello che è successo
nel cuore dell’Europa: un male
assoluto che chiama in causa
tutti. Bisogna creare anticorpi,
non si può essere indifferenti,
altrimenti iniziano i guai. Se
qualcuno è testimone di episodi
di violenza o bullismo deve intervenire, denunciare. Non per
odiare ma per correggere. Ne
parlavo spesso con la mamma
e lei rispondeva che l’odio non
serve a nessuno. Occorre lavorarci sopra e far riflettere».
Twitter: @cavalent
© Riproduzione riservata
SOSPESO L’ACCESSO AL CAMPO DI CONA (VENEZIA) PER I RIFUGIATI CHE GIOCANO IN DUE SQUADRE
Uno stadio è stato chiuso ai profughi
Genitori inviperiti temevano malattie per i loro figli piccoli
DI
H
FILIPPO MERLI
anno tolto il pallone ai profughi. «Per ovvie ragioni
d’igiene e sanità pubblica,
è stato sospeso l’accesso a
questo impianto sportivo a tutte le
persone accolte nel campo base di
Cona che sono in attesa di essere
sottoposte ai previsti controlli sanitari e vaccinazioni».
Il cartello è stato affi sso sui
muri degli spogliatoi dello stadio
don Mario Zanin di Cona, la piccola
località in provincia di Venezia che,
nelle scorse settimane, era fi nita
sulle prime pagine dei giornali dopo
l’insurrezione di alcuni migranti in
seguito alla morte di una ragazza
ivoriana, Sandrine Bakayoko.
Un episodio che, a livello nazionale, aveva riaperto il dibattito del
mondo politico sui Centri d’identificazione ed espulsione (Cie).
A sospendere l’accesso al
campo di calcio è stata la socie-
tà dell’Asd Pegolotte, che ha preso
provvedimenti dopo che i genitori
dei bambini che giocano nelle squadre giovanili, per paura di malattie e contagi, hanno minacciato
di ritirare i loro figli se i rifugiati
avessero continuato a utilizzare gli
impianti del centro sportivo.
Secondo la ricostruzione della Nuova di Venezia, un ragazzo
bengalese di 19 anni, ospitato nel
campo della frazione di Conetta,
era finito in ospedale per sospetta
meningite. Una diagnosi che, dopo
gli accertamenti, è stata smentita.
Il responso dei medici, però, non ha
fatto cambiare idea ai genitori.
Due giovani profughi tesserati col Pegolotte non potranno più
giocare, mentre un’altra squadra,
il Campo Cona, composta interamente da migranti, sarà costretta
a cambiare stadio per le partite casalinghe. Eppure, sempre secondo
la testata veneziana, tutti i richiedenti asilo sono stati regolarmente
vaccinati e nessuno di loro è risultato essere malato.
Nicola Botton è un consigliere
comunale di Cona, ma in passato
ha ricoperto la carica di presidente
del Pegolotte. È stato lui, la scorsa
settimana, a intervenire per primo
sulla questione. «Non vorrei che
passasse il messaggio che siamo
una società razzista», ha spiegato.
«La verità è che non abbiamo avuto
scelta: se la situazione si chiarirà,
sarò il primo ad andare alla base a
invitare quei ragazzi a tornare».
«Abbiamo ascoltato le preoccupazioni dei genitori dei nostri
atleti più piccoli», ha proseguito
Botton. «Quando è scoppiato il caso
della meningite, o quel che era, tutti si sono preoccupati, e hanno detto chiaramente che, se i profughi
avessero continuato a frequentare
il nostro impianto, avrebbero ritirato i loro bambini».
«Ho fatto tutto il possibile
per informare i miei concittadi-
ni sulla situazione sanitaria nella
base di Conetta», ha sottolineato il
sindaco di Cona, il civico Alberto
Panfi lio. «I medici hanno fornito
ampie assicurazioni, ma non hanno neppure nascosto le criticità.
Nonostante le rassicurazioni, mi
pare che stia prevalendo la paura,
che mi pare eccessiva. Sono pronto,
se me lo chiederanno, a riprendere
contatti con l’Usl per organizzare
nuove occasioni d’incontro e d’informazione».
L’allenatore del Campo Cona,
Gino Mez, ha parlato invece della
reazione dei profughi. «Non tutti
i ragazzi hanno capito quel che è
accaduto, ma i due che ancora militano nel Pegolotte lo sanno bene.
Quando gliel’ho detto, si sono intristiti molto. Purtroppo o per fortuna,
sono abituati a subire grandi e piccole ingiustizie, e sanno che devono
continuare nella loro strada». Anche
senza pallone.
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