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Processo penale e giustizia n. 1 | 2017
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DECISIONI IN CONTRASTO
di Giada Bocellari
L’ART. 131-BIS C.P. NON È INVOCABILE DAVANTI AL GIUDICE DI PACE: LA SUPREMA CORTE TORNA SUL
PRINCIPIO DI SPECIALITÀ PER COLMARE LE DIFFICOLTÀ DI COORDINAMENTO IN TEMA DI TENUITÀ DEL
FATTO
(Cass., sez. V, 2 novembre 2016, n. 45996)
Con la pronuncia in commento, la Suprema corte si inserisce nell’ormai prevalente orientamento giurisprudenziale che nega l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. al procedimento davanti al giudice di pace.
La particolare tenuità del fatto, introdotta nel codice penale con il d.lgs. n. 28 del 2015, non aveva,
invero, mancato di suscitare perplessità in ordine alle potenziali interferenze con l’art. 34 del d.lgs. n.
274 del 2000, già nella fase preparatoria, quando la Commissione Giustizia aveva invitato il Governo a
valutare l’opportunità di coordinare le discipline: sollecitazione, a suo tempo, respinta, ma solo perché
ritenuta estranea alle indicazioni della legge delega.
Era chiaro, dunque, che il problema avrebbe interessato l’interprete e gli orientamenti giurisprudenziali rintracciabili, oltre che le argomentazioni ad essi sottese, non fanno altro che dimostrare l’esistenza
di una reale lacuna legislativa, ma soprattutto di una concreta difficoltà di coordinamento.
Secondo la pronuncia in esame, che rispecchia l’orientamento prevalente (Cass., sez. I, 14 luglio
2016, n. 37551; Cass., sez. V, 27 maggio 2016, n. 44632; Cass., sez. V, 2 febbraio 2016, n. 13093; Cass., sez.
VII, 4 dicembre 2015, n. 1510; Cass., sez. fer., 20 agosto 2015, n. 38876; Cass., sez. IV, 14 luglio 2015, n.
31920), l’inapplicabilità dell’art. 131-bis c.p. si desume dai profili di specialità – su tutti, il ruolo della
persona offesa – che connotano l’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, la quale norma, anche in virtù dell’art. 16
c.p., non può ritenersi tacitamente abrogata dalla novella del 2015, non sussistendo, peraltro, alcun presupposto per ritenerla incompatibile con quella di nuova introduzione.
Se, dunque, già l’art. 16 c.p. esclude, sul terreno sostanziale, l’applicabilità della norma codicistica ai
reati di competenza del giudice di pace, la conclusione, secondo la Suprema corte, risulta, comunque,
coerente con l’interpretazione sistematica orientata a valorizzare il favor per la conciliazione tra le parti
che ispira la giurisdizione penale del giudice di pace: è proprio la facoltà “inibitoria” attribuita dall’art.
34 alla persona offesa – facoltà che non si rinviene, invece, nell’art. 131-bis c.p. –, a giustificare e fondare
l’inapplicabilità dell’istituto codicistico davanti al giudice di pace.
Di diverso avviso l’orientamento minoritario (Cass., sez. IV, 29 settembre 2016, n. 40699), che, traendo argomenti dal carattere assolutamente generale dell’istituto di cui all’art. 131-bis (sottolineato, per
incidens, anche da Cass., sez. un., 6 aprile 2016, n. 13681), ne ha legittimato l’applicabilità anche al procedimento davanti al giudice di pace: considerato che nessuna indicazione normativa conforta la tesi
negativa e sottolineate proprio le differenze tra i due istituti che consentono di individuare una disciplina di maggior favore nell’art. 131-bis c.p., i giudici di legittimità si son convinti dell’applicabilità della norma a tutti i reati, compresi quelli di competenza del giudice di pace, fermi i limiti edittali espressamente indicati nel testo della disposizione; hanno ritenuto, peraltro, del tutto irrazionale non consentire di invocare una disposizione (di maggior favore) proprio davanti al giudice competente per i reati
(di regola, più “tenui”) cui la norma codicistica si ispira.
La questione, dunque, è senz’altro controversa e, da tale punto di vista, non può che auspicarsi un
sollecito intervento legislativo; resta il fatto che, sino ad oggi, nessuna delle argomentazioni convince
fino in fondo, soprattutto alla luce della natura dell’istituto di cui all’art. 131-bis c.p.
Il confronto tra fattispecie, sotteso all’invocato principio di specialità e necessario presupposto per la
sua configurabilità, presuppone, infatti (e quantomeno), una identità di natura degli istituti, che difetta,
invece, nel caso che occupa: mentre l’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000 risulta strutturato come “causa di
esclusione della procedibilità” (C. cost., 3 marzo 2015, n. 25), l’art. 131-bis c.p. è concepito, anche nel § 6
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della Relazione allo schema di decreto legislativo, oltre che nella stessa giurisprudenza di legittimità
(Cass., sez. III, 15 aprile 2015, n. 15449), quale “causa di non punibilità” (tanto da esserne pacificamente
riconosciuta l’applicabilità anche ai procedimenti in corso, in virtù dell’art. 2 c.p.). Ne deriva, da un lato, l’erroneità del riferimento operato dalla pronuncia in commento all’art. 16 c.p. – laddove l’istituto
codicistico diverrebbe inapplicabile solo ove ne fosse rintracciabile uno “speciale” di egual natura – e,
dall’altro, l’applicabilità della causa di non punibilità in relazione a qualsiasi reato, purché nei limiti
edittali consentiti, a meno di non voler far aleggiare ingiustificate ineguaglianze, per di più a sfavore di
imputati per reati puniti con pene meno gravi (contra, Cass., sez. V, 27 maggio 2016, n. 44632 che, pur
riconoscendo la diversa natura dell’art. 131-bis c.p. e dell’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, applica egualmente il principio di “specialità”).
Tale circostanza fa, dunque, propendere per la più condivisibile tesi che afferma il carattere generale
dell’istituto di nuovo conio, laddove l’opinione contraria non convince nemmeno nella parte in cui si
focalizza sulla natura conciliativa del procedimento davanti al giudice di pace – atteso che anche quello
a citazione diretta davanti al tribunale monocratico, in cui l’art. 131-bis c.p. risulta senza dubbio applicabile anche per identità di limiti edittali, prevede la fase conciliativa –, né nella parte in cui, assumendo
una identità di natura tra istituti, esclude irragionevolmente una disciplina di maggior favore per i reati
meno gravi, richiedendo (solo per questi) il consenso della parte offesa.
Resta, comunque, imprescindibile la necessità di un intervento legislativo, atteso che anche l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. al procedimento davanti al Giudice di pace può generare difficoltà di coordinamento con le disposizioni contenute nel d.lgs. n. 274 del 2000, soprattutto nelle fasi antecedenti a
quella del giudizio in senso stretto.
* * * È POSSIBILE LA REVISIONE DELLA SENTENZA DI PROSCIOGLIMENTO CHE CONTENGA LA SOLA CONDANNA
SULLE STATUIZIONI CIVILI: L’ENVIRONMENT GIURISPRUDENZIALE CHE ESTENDE LA PORTATA DELL’ART.
629 C.P.P.
(Cass., sez. V, 3 ottobre 2016, n. 46707)
La pronuncia in esame costituisce un primo importante precedente in tema di ammissibilità della richiesta di revisione della sentenza definitiva di proscioglimento quando non sia pienamente liberatoria,
come nel caso in cui, rilevata l’estinzione del reato agli effetti penali, il giudice dell’impugnazione si
pronunci o confermi le statuizioni civili adottate in primo grado.
La giurisprudenza di legittimità, sin dai primi anni di applicazione del nuovo codice di rito, si era attestata su di un orientamento diametralmente opposto, da ritenersi del tutto consolidato e mai smentito, sino alla pronuncia in commento, da alcuna diversa sentenza (Cass., sez. II, 23 febbraio 2016, n. 8864;
Cass., sez. III, 3 marzo 2011, n. 24155; Cass., sez. V, 2 dicembre 2010 n. 2393; Cass., sez. V, 24 febbraio
2004, n. 15973; Cass., sez. VI, 30 novembre 1992, n. 4231; Cass., sez. I, 15 maggio 1992, n. 1672).
L’impossibilità di immaginare una revisione di una sentenza di proscioglimento, ancorché pregiudizievole sotto il profilo civilistico, è sempre stata fermamente statuita invocando il principio di tassatività di cui all’art. 568, comma 1 c.p.p., valevole anche per le impugnazioni straordinarie: atteso l’esclusivo
richiamo contenuto nell’art. 629 c.p.p. alle sentenze di condanna e a quelle di patteggiamento, oltre che
ai decreti penali, non possono che ritenersi escluse anche quando la pronuncia sia relativa all’estinzione
del reato ed abbia confermato le statuizioni civili di una precedente sentenza, giacché, in tali casi, non si
ha una “condanna penale” (Cass., sez. VI, 30 novembre 1992 n. 4231, in un caso di proscioglimento perché il reato è estinto per amnistia, con conferma della condanna civile; Cass., sez. III, 3 marzo 2011, n.
24155, in un caso di sentenza di non luogo a procedere; allo stesso modo, in un caso di dichiarata prescrizione in appello: Cass., sez. V, 2 dicembre 2010, n. 2393).
Né tale conclusione è mai parsa scalfita dalla pronuncia additiva della Corte costituzionale (n. 113
del 2011), per effetto della quale è stata introdotta una nuova fattispecie di revisione in riferimento alla
possibile violazione delle norme della Convenzione EDU, in quanto – si è osservato – oggetto della revisione restano pur sempre le sentenze o i decreti penali di condanna e non già di proscioglimento
(Cass., sez. III, 3 marzo 2011, n. 24155).
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La pronuncia in esame, pur senza mai sconfessare la natura straordinaria della revisione né mettere
in discussione la piena operatività del principio di tassatività, è, invece, addivenuta ad una contraria
statuizione di principio, ove le argomentazioni sviluppate – certamente più condivisibili – si connotano
per una pronunciata tensione verso un sistema in grado di porre rimedio a qualsiasi conseguenza pregiudizievole, ancorché di natura civilistica, che risulti necessario rimuovere, in tempi sopravvenuti al
“giudicato”.
Pare dirimente, sotto tale profilo, la considerazione svolta circa l’impraticabilità della strada della
revocazione civile di cui all’art. 395 c.c. per il soggetto che sia stato prosciolto, ma ingiustamente condannato agli effetti civili: posto che difetta una espressa previsione normativa in tal senso e non pare
comunque consentito che un giudice civile possa revocare una sentenza del giudice penale, quel soggetto rimarrebbe, di fatto, privo di tutela, laddove gli fosse precluso anche il rimedio straordinario tipico previsto dal codice di procedura penale.
A tale rilievo si accompagna una lettura più oggettiva delle norme di interesse, laddove si evidenzia
come l’art. 629 c.p.p. indichi letteralmente tra i possibili oggetti della revisione “le sentenze di condanna” e l’art. 632 c.p.p., nell’individuare i soggetti legittimati a proporre tale impugnazione, si riferisca in
maniera generica al “condannato”, senza altro precisare. Non risulta, quindi, necessario ricorrere all’analogia secondo la Suprema corte, dal momento che l’imputato può anche essere “condannato” alle
restituzioni e al risarcimento del danno, risultando tale pronuncia veicolata da un accertamento (a volte
solo implicito) della colpevolezza dell’imputato per il fatto di reato: tale situazione comporta una “ontologica identità di diritti processuali”, la quale non può essere negata, tanto più quando l’ordinamento
non consenta di ricavare qualsiasi incompatibilità logica o strutturale della norma a consentire la revisione al soggetto che sia stato condannato solo per gli interessi civili e senza che possano ricavarsi indicazioni contrarie nell’ordinamento stesso, nemmeno nella legge delega del nuovo codice di procedura
penale.
Sempre in un’ottica di sistema incentrata sugli indici normativi, i giudici di legittimità si soffermano,
altresì, sul carattere autonomo dell’impugnazione della parte civile di cui all’art. 576 c.p.p. rispetto al
proscioglimento agli effetti penali (che può anche essere divenuto definitivo, in assenza di impugnazione da parte del pubblico ministero), nonché sui poteri che, in tali casi, incombono sul giudice
dell’appello, il quale ben potrebbe pronunciarsi, per la prima volta, a favore della parte civile: tale sistema si riflette anche sull’accesso alla revisione, poiché, in tali casi, il rimedio verrebbe esperito non
contro una sentenza di proscioglimento, ma esclusivamente di “condanna”, salvo che non si consideri
questa alla stregua di un tertium genus, di cui però non vi è traccia nel lessico codicistico.
Ulteriore spunto viene, infine, tratto dalle analoghe considerazioni svolte dalle Sezioni Unite (Cass.,
sez. un., 21 giugno 2012, n. 28719) per affermare la legittimazione del prosciolto, condannato agli effetti
civili, ad esperire il ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p., norma che evoca, al pari di quella di cui
all’art. 629 c.p.p., la figura del semplice “condannato”: non si rinviene motivo, secondo i giudici di legittimità, per non applicare tali principi anche con riferimento alla possibilità di presentare richiesta di revisione ex art. 629 c.p.p.
Se sulla questione vi è da attendersi un intervento chiarificatore da parte delle stesse Sezioni Unite,
non può intanto farsi a meno di plaudire ad una pronuncia ben motivata in diritto e, soprattutto, ragionevole nelle conclusioni.
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