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SAN DOMENICO SAVIO (1842-1857)
Testimone gioiso di santità
Tratto da A. SICARI, Ritratto di Santi, Jaka Book.
… Al tempo di Domenico, l’oratorio festivo di don Bosco radunava mezzo
migliaio di giovani schiamazzanti in un grande cortile. Di questi un centinaio circa
erano ospitati stabilmente in una casa annessa, dove i dormitori avevano per
pavimento il selciato e il refettorio era una tettoia. Don Bosco e Mamma
Margherita servivano a tavola, rammendavano le vesti e facevano i più umili
servizi di pulizia. Domenico Savio si presentò nel 1854: arrivava da Morialdo, era
di famiglia onesta e affettuosa, ma molto povera.
Il papà faceva il fabbroferraio, ma non era molto abile a tenersi i clienti.
La madre era più fine e delicata: faceva la sarta e il suo bambino si incantava a
guardarla maneggiare con amorosa attenzione la bella stoffa con cui
confezionava i vestiti.
Cosi, quando dal paese lo portarono all’oratorio per assicurargli la
possibilità di studiare a Torino, Domenico reagì felice a sentire don Bosco dirgli:
«Mi pare che in te ci sia una buona stoffa!». Disse: « Dunque io sono la stoffa e
lei il sarto! Mi prenda con lei e farà un bell’abito per il Signore”.
Quel santo prete, che di ragazzi ne riceveva a centinaia, intuì subito
l’eccezionale bontà del fanciullo, anche se gli parve troppo minuto e di poca
salute.
Di quel centinaio di ragazzi che abitavano stabilmente con lui, due terzi
facevano gli apprendisti, solo una trentina era in grado di studiare, ma non era
una vita facile.
Don Bosco prese un fascicolo delle Letture cattoliche (uno di quegli
opuscoli che egli stesso pubblicava per le famiglie), indicò al ragazzo una pagina
e gli disse: «Imparala. Domani me la ripeterai, e decideremo» . Dopo otto minuti
esatti il bambino era di nuovo di fronte a lui: «Se vuole, espongo adesso la mia
pagina» e la recitò interamente a memoria, mostrando d’aver capito
perfettamente ciò che aveva letto.
Minot - cosi chiamavano Domenico in famiglia - abbinava davvero una
bontà dolce ad una intelligenza luminosa.
Pochi anni dopo, il cappellano di Morialdo ricordava ancora quel
bambino di cinque anni che veniva a fargli da chierichetto al mattino presto, e Lo
descriveva cosi in una lettera a don Bosco: «Se arrivando alla chiesa la trovava
chiusa, succedeva un fatto molto bello. Invece di scorazzare e gridare, come
fanno i ragazzini alla sua età, veniva fin sulla soglia della chiesa, si metteva in
ginocchio vicino alla porta, chinava il capo, congiungeva le manine innocenti
davanti al .petto e pregava fervorosamente, fino al momento in cui veniva aperta
la Chiesa. Qualche volta per terra c’era del fanno, o pioveva o nevicava».
[…] E non è una pia ricostruzione, se è vero che i preti della parrocchia
decisero in consiglio di dargli la prima Comunione a sette anni, sebbene allora
l’età ammessa fosse quella tra gli undici e i dodici anni.
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Nell’occasione il bambino si fissò anche alcuni propositi, tratti dal libro di
preghiera che gli era stato donato, il più celebre dei quali è quel tradizionale «La
morte, ma non peccati» che doveva diventare quasi il suo messaggio. Sarà don
Bosco a diffonderlo e a fame un programma di vita per i suoi ragazzi.
E non si trattava di un programma negativo, basato sulla paura o sulla
timidezza, perché nella mente e nel cuore di Domenico "non far peccati"
equivaleva a fare tutto il bene possibile, compresa la fedeltà gioiosa al proprio
faticosissimo dovere.
A dirlo così sembra cosa facile, ma a spiegarlo può dar da pensare a
molti dei nostri ragazzi.
Continuare gli studi - ciò che Domenico desiderava ardentemente significava per lui frequentare le scuole municipali di Castelnuovo: un paese
distante da casa cinque chilometri. E poiché allora si faceva scuola sia al mattino
che al pomeriggio - da novembre a settembre -, questo voleva praticamente dire
per il bambino percorrere venti chilometri al giorno tra campi deserti, con il sole, o
la pioggia o la neve.
Il prete che gli faceva da maestro testimoniò:
«Portava a termine i suoi doveri scolastici, anche i più piccoli, con
impegno. Frequentava la scuola tutti i giorni, con costanza mirabile. Cosa degna
di ammirazione perché, per poterlo fare, doveva percorrere ogni giorno, tra
andata e ritorno, una strada lunga più di quattro chilometri, ed era debole di
salute. Tutto questo Domenico lo faceva con serenità tranquilla, anche durante il
freddo rigido dell’inverno, anche quando nevicava o pioveva. Per me era un
esempio raro e un merito grande”.
Superfluo aggiungere che, per tutto il tempo, il ragazzo meritò anche i
voti più alti.
Se riusciamo a sentire la forza d’animo che tutto ciò lascia intravedere
[…], allora non sorridiamo più nemmeno quando sentiamo raccontare che,
richiestogli se non provasse paura a camminare tutto solo per strade cosi lunghe
e deserte, Domenico rispondeva: “Non sono mai solo. Ho con me l’Angelo
custode!”).
Forse per vedere gli angeli, bisogna decidersi davvero a percorrere le
strade inflessibili del dovere e dell’amore.
Un terzo maestro che lo ebbe successivamente (che poi lo inviò a don
Bosco) scriveva: « In verità posso dire che in vent’anni dacchè attendo a istruire
ragazzi, mai ne ebbi alcuno che lo pareggiasse in pietà e che sebben giovane
fosse assennato al pari di Domenico Savio, diligente, studioso, affabile. Si
cattivava l’amore di tutti... Più volte ho detto tra me: ecco un’anima innocente che
abita col suo cuore tra gli angeli di Dio”.
In un contesto di tale serietà acquistano rilievo anche quegli episodi che
sembrerebbero appartenere soltanto ad una letteratura edificante: il silenzio
davanti alle accuse ingiuste, pur di coprire i compagni; la serenità nel sopportare
gli sgarbi dei prepotenti; la decisione nel ribellarsi al male e alle sue istigazioni.
Tale era già Domenico quando entrò nella casa e nel cuore di don
Bosco, divenendogli caro; e ancor più gli fu caro quando il Santo educatore si
accorse che quel bambino aveva percorso tutti quei chilometri, mattina e
pomeriggio, per recarsi a scuola, senza mai scoraggiarsi, con l’unico sogno di
poter, un giorno, diventare prete.
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Don Bosco ricordava con commozione il primo giorno in cui il ragazzo
era entrato nel suo ufficio e s’era subito accorto di un grande cartello ch’egli
teneva appeso alla parete.
C’era scritto: “Da mihi animas, coetera tolle”, un’espressione biblica un
po’ accomodata che, nell’intenzione del Santo, era una preghiera rivolta a Dio e
voleva dire: “O Signore, toglimi pure tutto il resto, ma dammi le anime (dei miei
ragazzi)”.
Cosi il piccolo Savio aveva compreso che in quella casa regnava un
solo interesse: "guadagnare anime" per Dio, anime di ragazzi di cui don Bosco
voleva essere custode.
“Spero che anche la mia anima sia guadagnata al Signore”, disse
Domenico, affidandogli tutta la sua vita.
Era il 1854, e mancavano pochi giorni alla solenne proclamazione del
Dogma dell’Immacolata. Anche questa coincidenza ci riporta al proposito di
Domenico che incantò subito don Bosco: «La morte, ma non peccati”. Ci sono
verità che per irradiare tutta la loro luce devono essere attentamente osservate e
gustate.
Nell’oratorio di don Bosco, il legame tra “morte” e «peccato” (o meglio:
tra vita e grazia di Dio, tanto che perder questa grazia è peggio che perdere la
vita) non era una pia formula, ma una esperienza che aveva scosso tutti in
maniera indicibile.
Ecco gli avvenimenti.
Nel luglio del 1854 il colera si avvicina alla città di Torino, dopo aver
fatto tremila vittime a Genova. I nobili (compresa l’intera casa regnante) fuggono
sulle loro carrozze. L’epidemia ha il suo epicentro proprio vicino a Valdocco,
dove si ammassano gli immigrati e i poveracci.
Ottocento colpiti nel primo mese, cinquecento morti. Servono volontari
per assistere i colerosi, a rischio mortale di contagio.
Il 5 agosto, festa della Madonna della Neve, don Bosco raduna i suoi
ragazzi più grandicelli e chiede loro di offrirsi: “Se voi vi mettete tutti in grazia di
Dio”, spiegò loro, «e non commettete alcun peccato mortale, io vi assicuro che
nessuno sarà colpito dal colera”.
Si offrirono una cinquantina di ragazzi, e don Bosco li divise in tre
squadre: i più grandi a tempo pieno nei lazzaretti e nelle case degli appestati; il
gruppo dei medi in giro per la città a cercare malati abbandonati, e i piccoli al
pronto intervento negli ambienti stessi dell’oratorio.
Unica precauzione: una bottiglietta di aceto a testa per lavarsi le mani,
dopo aver toccato i malati.
Mamma Margherita, intanto, distribuiva tutta la biancheria che c’era in
casa. Quando non ebbe più nulla, tolse la tovaglia dell’altare per mandarla a un
malato, privo d’ogni coperta. Disse: “Non credo che il Signore si lamenterà”.
In ottobre le prime piogge. A novembre l’emergenza fu dichiarata
superata. Su 2500 colpiti dal morbo, ne erano deceduti circa 1400. Nessun
ragazzo di don Bosco era stato toccato dal male!
Domenico Savio era arrivato esattamente in quei giorni.
Non è difficile ora capire come gli apparisse prezioso quel suo bel
proposito della prima Comunione (“La morte, ma non peccati!”) che la santità di
don Bosco aveva fatto gustare ai suoi ragazzi in una maniera nuova: «Restare in
grazia di Dio significava vivere!».
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In più stava per giungere proprio il giorno luminoso l’8 dicembre 1854 in cui il Papa avrebbe proclamato Maria immune da ogni macchia di peccato
originale.
Domenico si preparò per un’intera novena, offrendo ogni giorno un
nuovo e particolare "fioretto", e chiede a don Bosco il permesso, allora
straordinario, di poter ricevere la comunione ogni mattina.
La sera della festa, al termine delle celebrazioni, andò davanti all’altare
della Madonna, rinnovò le promesse fatte durante la prima Comunione e si
consacrò alla Vergine con questa formula: «Maria, vi dono il mio cuore. Fate che
sia sempre vostro. Gesù, Maria siate voi sempre i miei amici. Ma, per pietà,
fatemi morire piuttosto che mi accada la disgrazia di commettete un solo
peccato»
Fu da quel giorno che don Bosco cominciò ad osservarlo più
attentamente e ad annotare ciò che vedeva accadere in quell’anima di fanciullo.
E, ventidue anni dopo, egli racconterà ai suoi ragazzi della
indimenticabile sera in cui aveva discusso con Domenico su quella formula di
consacrazione, e dirà loro con le lacrime agli occhi: “Domenico Savio, miei cari
figlioli, era della vostra età, era di carne e di ossa come noi, aveva le medesime
cattive inclinazioni, ed era stato educato nel medesimo oratorio come voi,
studiava nello stesso studio e nelle stesse scuole, mangiava lo stesso pane che
mangiate voi: solamente era un po’ più buono di noi, e ci lasciò un buon
esempio”.
E i compagni stessi ricordavano.
Ricordavano quel giorno in cui Domenico aveva rifiutato di guardare
certe immagini e loro lo avevano deriso. «Che te ne fai degli occhi?», gli avevano
detto ridendo, ed egli aveva risposto: “Mi serviranno per guardare in faccia la
Madonna in paradiso”.
Ricordavano quel giorno in cui Domenico aveva impedito un duello tra
due compagni di scuola che avevano deciso di uccidersi a sassate: si era messo
in mezzo come un agnello, preferendo morire lui piuttosto che lasciare accadere
quell’orrore.
Ricordavano la sua abitudine, in oratorio, di far compagnia ai più
emarginati, ai ragazzi appena arrivati che soffrivano di nostalgia, a quelli che si
ammalavano, al punto che veniva considerato l’infermiere di tutti.
E don Bosco aggiungeva il ricordo di quel giorno in cui aveva fatto ai
ragazzi qualche esempio sull’etimologia delle parole e Domenico gli aveva
chiesto: “Che significa il mio nome?”. Gli aveva risposto: “Significa che sei "del
Signore"». “Allora, se sono del Signore, lei deve aiutarmi a farmi santo, aveva
concluso rapidamente il fanciullo con quella logica inesorabile che è solo delle
anime innocenti.
Anche mamma Margherita ricordava d’aver avvertito un giorno suo
figlio: «Hai molti buoni allievi, ma forse nessuno è come Domenico. Prega con
tanta devozione che pare un angelo, e talvolta si direbbe che vada in estasi...
Tienilo da conto». […]
Domenico frequentava ormai il ginnasio in una scuola privata di città
dove i "poveri ragazzi dell’oratorio" (accolti gratuitamente) si trovavano fianco a
fianco con i figli della nobiltà. Dovevano solo lasciare nell’atrio i loro cappotti
militari (regalati dal ministro della guerra a don Bosco) che sembravano coperte e
avevano un odore troppo acre. A ciascuno di loro l’insegnante consegnava
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periodicamente dei cartoncini colorati con un giudizio (scritto in latino) in modo
che don Bosco sapesse come andavano i suoi figlioli.
Cinque cartoncini di Domenico sono stati conservati. Il primo dice:
«Attestato di diligenza di Domenico Savio, di nobile sentire e di belle speranze”. Il
latino, dal tono particolarmente aulico, fa capire l’impressione che il ragazzo
destava in ogni ambiente dove lo si mandava. Negli anni non mancheranno nobili
piemontesi che si faranno un vanto d’averlo avuto compagno di scuola e
qualcuno di essi gli serberà questa lode inconsueta: “Tra noi era un vero
portatore di pace”.
Se di un ragazzo si può dire: «Era amico di tutti e non diede mai
dispiacere a nessuno», significa che ha lasciato il segno nella sua scuola. D’altra
parte egli era davvero in mano a un Santo - don Bosco - che era un prete che
aveva il coraggio di parlare ai suoi ragazzi, anche ai più riottosi e problematici, su
quando fosse facile e bello “diventare santi”.
Era il 24 giugno 1855: don Bosco - il papà, il Direttore - festeggiava
l’onomastico. Decise, dunque, di far lui un regalo ai suoi ragazzi. Disse loro:
“Ciascuno scriva su un bigliettino quello che desidera da me. Appena sarà
possibile, vi prometto che glielo procurerò.
Fu evidentemente sommerso di richieste, ma il biglietto che più gli toccò
il cuore fu ancora quello di Domenico che aveva scritto semplicemente: “Mi aiuti
a farmi santo”.
Era un desiderio accompagnato da felicità: cresceva in lui un desiderio
di purezza che lo portava a confessioni frequenti allo scopo di poter ricevere più
spesso la comunione. Se all’inizio poteva farla - secondo l’uso del tempo - una
volta al mese, ben presto ottenne di poterla ricevere quotidianamente.
Diceva: “Che cosa mi manca per essere felice? Mi manca solo di
andare a vedere Gesù con i miei occhi”.
Cresceva anche la sua devozione per la Vergine Santissima, al punto
che si dedico perfino, a fondare e ad animare nell’oratorio una Compagnia
dell’Immacolata». In essa si coltivava particolarmente la vita spirituale dei
membri, ma si chiedeva anche loro un preciso impegno di carità. Ognuno di essi,
infatti, di volta in volta si prendeva cura con vera gioiosa carità di qualche
compagno più disagiato o più a rischio, sia dal punto di vista umano che
spirituale, morale, o scolastico.
A volte era don Bosco stesso che indicava loro i ragazzi più difficili di cui
interessarsi.[…]
Dei discorsi "programmatici" che Domenico rivolgeva ai suoi compagni è
rimasto celebre quello in cui egli spiegava a un nuovo arrivato: “Devi sapere che
noi qui facciamo consistere la santità nell’essere molto allegri... Procuriamo
soltanto di evitare il peccato, il grande nemico che ci ruba l’amicizia di Dio e la
pace del cuore. E procuriamo di compiere esattamente i nostri doveri.
E lo esortava a cominciare scrivendo sul Diario il motto programmatico,
tratto dalla Bibbia: “Servite il Signore nella gioia”. Iniziative di un ragazzo
fervoroso e tutto intento alla vita dello spirito? Certo, ma anche avvenimento
storico di notevole portata se si pensa che da questa "Compagnia
dell’Immacolata" dovevano nascere numerosissime vocazioni, che avrebbero
dato origine alla Congregazione dei Salesiani. E chiunque deve qualcosa ai
Salesiani, deve anche qualcosa al mite Domenico Savio.
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La santità che Domenico cercava non era soltanto la cura della sua
persona, ma anche la preoccupazione missionaria per tutti i ragazzi con i quali
viveva.
Diceva: «Se potessi far diventare amici di Dio tutti i miei compagni, sarei
felice».
«Ma che t’importa di queste cose?», gli diceva qualcuno infastidito,
abitato da ben altre preoccupazioni. Rispondeva: «M’importa si, perché le anime
dei miei compagni sono costate il sangue di Cristo. Mi importa perché siamo tutti
fratelli e dobbiamo volerci bene e aiutarci a salvarci l’anima».
In quegli anni, nacquero nell’oratorio di don Bosco delle vere grandi
amicizie tra i giovani. Domenico le definiva “amicizie nelle cose dell’anima».
Il Santo educatore lo guardava con gioia ed apprensione. In quei tempi
di grande povertà e disagi, succedeva spesso che i ragazzi di salute più gracile
faticassero a superare le rigide stagioni invernali, e non c’era modo di aiutarli.
"Costipazioni" era il nome che si dava allora a insidiose malattie di
raffreddamento che non si riusciva a curare e spesso si concludevano in maniera
tragica.
Inoltre Domenico mostrava quasi l’atteggiamento di chi sa d’aver poco
tempo, e diceva spesso di dover fare presto a diventare santo. Sembrava
immergersi in una intimità mistica col suo Dio.
Non mancavano nemmeno episodi straordinari. […]
A volte segnalano a don Bosco che Domenico non si è visto ne a
colazione, ne a pranzo.
È già accaduto altre volte. Il Santo educatore non dice nulla: sa dove
trovarlo. Va in chiesa e lo trova in preghiera nascosto dietro l’altare, immobile,
con lo sguardo fisso al tabernacolo. Chiamato, non risponde. Bisogna scuoterlo
ripetutamente e, quando torna in se, si scusa d’essersi attardato “qualche
momento” per il ringraziamento, mentre sono ormai le due del pomeriggio (la s.
messa si celebrava molto presto la mattino).
Don Bosco lo rimanda con i compagni dicendogli: «Se gli altri ti
chiedono dove sei stato, rispondi che sei andato a fare una commissione per
me”.
E il Santo sa di non insegnare una bugia, ma una profondissima verità
dato che quel fanciullo sta attuando alla lettera tutti i suoi insegnamenti e i suoi
desideri di educatore.
Un giorno, mentre questi sta per uscire dalla sacrestia, sente un
bisbiglio dietro l’altare nel solito cantuccio preferito da Domenico. Il fanciullo e li,
solo, e sembra discutere animatamente con qualcuno. Don Bosco ode dalle
labbra di Domenico queste parole rivolte al suo invisibile interlocutore: «Si, mio
Dio, ve l’ho già detto tante volte e ve lo dico di nuovo: io vi amo e vi voglio amare
per tutta la vita. Se voi vedete che sto per offendervi, prendetevi la mia vita.
Preferisco morire che offendervi”.
È ancora quel proposito fatto il giorno della prima Comunione (“La
morte, ma non peccati”) che ora e divenuto preghiera e dialgo mistico con
Dio.[…]
Ormai don Bosco capiva che quel suo ragazzo aveva grazie
straordinarie.
Cosi non si meravigliò quando se lo vide dinanzi che gli chiedeva il
permesso eccezionale di recarsi in famiglia, al paese.
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Disse solo:
- Mia madre è malata.
- Come fai a saperlo?
- Lo so.
- Ti hanno scritto:?
- No, ma lo so.
Proprio in quelle ore, infatti, la madre correva un grave pericolo per un
parto difficile.
Quando fu davanti alla mamma, Domenico non disse nulla. Le si getto
addosso con impeto e l’abbracciò stretta stretta. Poi se ne andò tranquillo.
Dopo qualche ora il parto accadde con assoluta tranquillità, ma le donne
che l’assistevano videro che la puerpera aveva al collo un bell’abitino della
Madonna di cui non si erano accorte prima.
“Ora capisco che cosa è venuto a fare Domenico!”, disse la mamma.
Dopo qualche mese sarebbe toccato a lei assistere il figlio morente e, in quell’ora
estrema, Domenico le dirà come un testamento: “Vi ricordate, mamma, quando
sono venuto a trovarvi e vi ho lasciato al collo un abitino? É questo che vi ha fatto
guarire. Vi raccomando di conservarlo e di prestarlo, quando saprete che
qualche vostra conoscente si trovi in condizioni pericolose come la vostra
perché, come ha salvato voi, cosi salverà anche le altre”.
E l’abitino divenne un tesoro per tutto il paese. La levatrice del paese lo
portava con se quando andava ad assistere ai parti che si preannunciavano
difficili, e raccontava eventi mirabili. […]
La tosse era ostinata. Ma non era soltanto una questione fisica. Il
dottore diceva che quel ragazzo era logorato dalla grande sensibilità e dalla
tensione spirituale, al punto che il paradiso sembrava davvero un rimedio per lui.
Decisero, comunque, di fargli interrompere gli studi e di rimandarlo al
paese natio, pensando che l’ambiente familiare e le cure della mamma
avrebbero potuto giovargli.
[…] Nell’ultima sera della sua permanenza, il ragazzo lo colmava di
domande: “Qual è la cosa migliore che un ammalato può fare per piacere al
Signore?... Dal paradiso potrò vedere i miei compagni dell’oratorio e i miei
genitori? Potrò venire a trovare i miei amici?».
Sembrava - scrisse don Bosco - una persona che aveva già un piede in
paradiso e che, prima di entrare, volesse informarsi bene delle cose che avrebbe
trovato.”
A casa il medico di famiglia fece la sua diagnosi: "Infiammazione",
intendendo probabilmente polmonite o pleurite. E prescrisse il rimedio folle con
cui, in quei tempi, si pensava di guarire molti malati: la terapia dei salassi. Gliene
fecero dieci, benchè fosse così deperito!
Quando cominciarono a praticargli i taglietti nelle vene per estrarre il
sangue, il dottore lo preavvertì che ci voleva un po’ di coraggio. Domenico - che
in quel rimedio non aveva fiducia alcuna - si dispose al sacrificio, pensando “ai
chiodi piantati nelle mani e nei piedi di Nostro Signore”.
Dopo quattro giorni il medico sentenziò: «Il male è vinto. Abbiamo solo
bisogno di fare una giudiziosa convalescenza!”. In pratica lo aveva ucciso per
dissanguamento, ma tale era allora la scienza, se e vero che perfino Cavour
sarebbe morto qualche anno dopo allo stesso modo.
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Domenico, che si sentiva morire, ribattè - ma era fede, non ironia di cui
sarebbe stato incapace : «Il mondo è vinto. Ho soltanto bisogno di fare una
giudiziosa comparsa davanti a Dio”.
Volle il sacramento dell’Unzione degli infermi e i genitori gliela fecero
amministrare solo per non dargli un dispiacere, ma in cuor loro confidavano nelle
parole rassicuranti del signor dottore.
Il 9 marzo, dopo quattro giorni di malattia, il ragazzo era completamente
prostrato, anche se trovava ancora la forza di recitare, al Crocifisso che aveva
sulla parete della cameretta, una poesia che aveva sempre amato:
«Signor, la libertà tutta ti dono.
Ecco le mie potenze, il corpo mio!
Tutto vi dono, che tutto è tuo, o Dio,
E alla vostra volontà io m’abbandono».
Sulla sera, qualche ora prima della fine […] s’addormentò per un’ora,
poi si svegliò come per un appuntamento e si rivolse al papà: “Papà, è ora.
Prendete il mio libro di preghiere e leggetemi le preghiere della buona morte”.
Alle invocazioni tradizionali, il ragazzo rispondeva con infinita
devozione:
“Misericordioso Gesù, abbiate pietà di me”, e quando la preghiera
giunse alle parole “Mio Dio, ricevetemi nel seno amoroso della vostra
misericordia”, sospirò: “Questo e proprio quello che desidero!”.
Era il 9 marzo 1857 e Domenico non aveva ancora compiuto quindici
anni.
Erano invece passati proprio quindici anni dagli inizi dell’oratorio, e già
don Bosco poteva offrire a Dio e alla Chiesa, il suo primo ragazzo santo.
O meglio: era Dio che lo donava a don Bosco e alla Chiesa.
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