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Transcript di - Storia In Rete

numero 43
Maggio 2009
€ 6,00
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PAGGI IN CARRIERA
STRAGE A VIA FRACCHIA
Nel Seicento, alla corte
dei Medici a Firenze,
intrighi, sesso e scienza
Genova 1980: perché i carabinieri Amori noti e inediti
irrompono in un covo delle Br
in Casa Mussolini: spie,
e non fanno nessun prigioniero? diplomatici e comunisti
EDDA E PAPA’
RICOSTRUZIONI
ALL’ITALIANA
Chi l’ha detto che non sappiamo reagire dopo un terremoto?
Ecco come nei secoli, dopo catastrofi peggiori di quella
d’Abruzzo, è risorta un’Italia migliore. E più bella…
I cover storia 43 ok.indd 1
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COPERTINA
CATACLISMI&RIMEDI: SE «ALL’ITALIANA» È MEGLIO
Si ricostrui
quando si s
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va MEGLIO
tava PEGGIO
Chi l’avrebbe mai detto? Spagnoli e Borbone che di fronte
a cataclismi ben peggiori di quello d’Abruzzo risolvono
brillantemente la situazione. L’Italietta di inizio Novecento
e quella in piena crisi del ’29 che soccorrono e riedificano
velocemente secondo norme antisismiche all’avanguardia.
Non è un racconto di fantascienza o di «storia virtuale»:
è la storia vera di un Italia capace di funzionare presto e bene
sotto la guida di uomini in gamba e dimenticati. I «Bertolaso»
del passato si chiamavano nel ‘600 Giuseppe Lanza di Camastra,
nel ‘700 Giuseppe Pignatelli, nel ‘900 Araldo di Crollalanza…
Q
di Emanuele Mastrangelo
uando non esistevano le «norme
CEE» c’era comunque la «regola
d’arte». Gli italiani, popolo e governanti, nei secoli hanno saputo affrontare le molte catastrofi
che ciclicamente flagellano la
Penisola proprio ricorrendo alla
«regola d’arte». Terremoti, maremoti, inondazioni sono il prezzo
che l’Italia paga da sempre per
la sua bellezza naturale, ma gli italiani di ieri e di oggi
non hanno reagito solo con il fatalismo (che consente a
furbi e furbetti di ingrassarsi alle spalle degli altri), ma
anche rimboccandosi le maniche, e compiendo opere di
ricostruzione e di miglioramento che alla luce del recente
disastro in Abruzzo dovrebbero rappresentare un esempio. Dunque, non solo Belice o Irpinia. Scorrendo a ritroso
la secolare storia dei disastri naturali in Italia si ritrovano
a decine i casi di ricostruzione coronati da successo, dove
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l’intervento dello Stato (o degli Stati prima dell’Unità) e il
lavoro degli uomini hanno avuto ragione della violenza
della natura. La gara che molti media fanno per elencare
solo gli insuccessi, i ritardi, le vergogne nazionali fornisce
scuse preventive a chi già – forse – ha in mente di ingrassarsi con una replica squallida del Belice o dell’Irpinia. Un
metter le mani avanti per poter dire fin da subito «l’Italia
è questa, non si può pretendere che le cose vadano diversamente». E invece, diversamente, le cose sono andate, e
molte volte pure bene. Ma per dimostrarlo bisogna andare
indietro negli anni…
Sono decine le circostanze nelle quali sovrani e ministri fino all’ultimo contadino analfabeta, si sono rimboccati le maniche e – «cofana e cucchiara» alla mano
– hanno rimesso in piedi a regola d’arte ciò che la natura
aveva diroccato, lasciando ai figli un mondo migliore di
quello che avevano ricevuto dai padri. Come quando, nel
‘600, la Sicilia fece quello che negli anni Sessanta del se-
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Nella storia italiana sono innumerevoli le volte
nelle quali dai sovrani e ministri, fino all’ultimo contadino
analfabeta, ci si è rimboccati le maniche e –
«cofana e cucchiara» alla mano – si è rimesso
in piedi a regola d’arte ciò che la natura aveva diroccato
colo scorso non si è fatto in Belice.
In un secolo di invasioni, pestilenze,
terremoti, proprio da uno di questi sismi, quello spaventoso del 1693, che
uccise oltre 60 mila siciliani, l’Italia
fece nascere uno dei fenomeni artistici più prodigiosi e ammirati dell’era
moderna: il barocco siciliano. Le sera
di venerdì 9 gennaio 1693 una prima
scossa colpì violentemente la Sicilia
sudorientale, causando già le prime
migliaia di vittime. Due giorni dopo
una vera e propria apocalisse – un
sisma del settimo grado della scala
Richter – si abbatté su tutta la regione, provocando anche un maremoto.
Da Messina e Reggio fino a sud, a Pachino, e all’interno fino a Caltagirone, città, paesi e contrade furono letteralmente cancellate dalla faccia della terra. Catania ebbe uccisi i quattro
quinti degli abitanti; a Ragusa di Si-
cilia, Lentini e Occhiolà peri metà della popolazione. Un terzo dei cittadini
scomparve invece sotto le macerie di
Siracusa, Palazzolo Acreide e Buscemi. Tutti gli altri abitati dell’area ebbero comunque a lamentare centinaia di morti e distruzioni immani. Aiuti vennero inviati dal viceré spagnolo
dell’isola Francesco Paceco, duca di
Uzeda, ma le scarse vie di comunicazione dell’epoca e i porti rovinati
dal maremoto resero l’opera di soccorso straordinariamente difficile. La
reazione dei siciliani però, narrano
le cronache, fu eccezionale: disciplinati e tenaci, ad esempio, i catanesi
si strinsero attorno ai pochi nobili e
notabili ancora in vita. Uomini come
il canonico Cilestri, che riuscì a porre
in salvo le reliquie di Santa Agata e
a dare conforto alla popolazione orribilmente scossa da tanta rovina e lut-
Una ricostruzione del terremoto della Sicilia del 1693: sullo sfondo l’Etna,
che in realtà non eruttò in quei giorni, ma che comunque aveva flagellato
Catania negli anni precedenti, arrecando gravi danni alla città
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ti. O il medico Niccolò Trezzano, che
immediatamente costituì un ospedale di fortuna per soccorrere i feriti, e
che – incredibilmente – dopo appena
poche settimane riprese anche a dare
lezioni ai pochi studenti universitari
sopravvissuti. Fra le macerie si scavò
per giorni e giorni: alcuni fortunati
vennero tratti in salvo addirittura un
mese dopo, i viveri sepolti sotto le rovine riuscirono a dare sostentamento
ai molti che avrebbero voluto abbandonare le città. Da tutto il regno di
Sicilia giunsero aiuti (assieme agli
avventurieri e agli sciacalli che non
mancano mai in questi frangenti, ma
che all’epoca rischiavano una fine
veramente brutta se colti sul fatto).
Il viceré di Sicilia inviò come vicario reale con poteri assoluti Giuseppe Lanza duca di Camastra (16301708), un benefattore del popolo
non nuovo a questi incarichi. Il duca
aveva infatti ricostruito agli stefanesi
il loro borgo, cancellato nel 1682 da
Giuseppe Lanza duca di Camastra
(1630-1708), Uomo integerrimo,
abile e risoluto, ricostruì le città
della Sicilia devastate dal sisma
del 1693. Di lui le cronache non
narrano altro che virtù, ma
oggi questo grande italiano
è ingiustamente dimenticato
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Il duomo di Sant’Agata a Catania. Fu riedificato sulle macerie della precedente chiesa
cattedrale, sotto le quali erano periti centinaia - forse migliaia - di fedeli in preghiera
durante il sisma del 1693. Il progetto è opera dell’architetto Gian Battista Vaccarini
una frana, tanto che – ma solo nel
1812 - per gratitudine il loro paese
sarà ribattezzato Santo Stefano di
Camastra. L’aristocrazia siciliana, che
non era ancora evidentemente quella
de «il Gattopardo», si adoperò nella
ricostruzione delle città devastate:
come i principi di Biscari, Ignazio e
quindi suo figlio Vincenzo, succeduto
al padre appena quindicenne e subito
impegnato nell’opera di riedificazione di Catania. Addirittura nella città
etnea il barone di Massa iniziò a ricostruire il proprio palazzo ancor prima
dell’arrivo del duca di Camastra. Alla
ricostruzione di alta qualità parteciparono architetti come Alonzo di Benedetto (1664-1729) e Francesco Battaglia (1701-1788) i quali portarono
il Barocco in Sicilia, ma lo interpreta-
rono secondo il raffinatissimo gusto
locale. Il risultato è tutt’oggi sotto
gli occhi del mondo, tanto che le città della Val di Noto sono considerate
Patrimonio dell’Umanità.
Il duca di Camastra agì risolutamente. Era un vero uomo del destino, e di lui le cronache non tramandano infatti che virtù: integerrimo
La reazione dei siciliani nel 1693 fu eccezionale:
disciplinati e tenaci i catanesi si strinsero attorno ai pochi
nobili e notabili ancora in vita. Uomini come il canonico
Cilestri, che pose in salvo le reliquie di S. Agata e diede
conforto alla popolazione scossa da tanta rovina e lutti
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Il duca di Camastra agì risolutamente. Era un vero
uomo del destino e di lui le cronache non tramandano
infatti che virtù: integerrimo fino al centesimo, puntuale
nelle promesse, caritatevole col popolo, religioso
e pio, spietato verso sciacalli e saccheggiatori
fino al centesimo, puntuale nelle
promesse, caritatevole col popolo,
religioso e pio, spietato verso sciacalli e saccheggiatori. Distribuì
immediatamente viveri e denaro ai
sinistrati. Amministrò la giustizia
severamente. Fece demolire quanto restava di Catania (qui, invero,
suscitando qualche mugugno) e
la riprogettò assieme all’ingegnere militare Carlo di Grunemburg
(originario dei Paesi Bassi e già autore della pianificazione di Santo
Stefano) con criteri razionali: vie
ampie, spaziose e ad angolo retto,
quartieri ben definiti. Conscio dell’importanza dei gesti simbolici,
tracciò il corso dei due assi principali della nuova Catania con una
cerimonia solenne, procedendo a
cavallo seguito dai nobili, fra due
ali di gente plaudente. Qualche attrito Camastra lo ebbe col vescovo
Andrea Riggio – altra personalità
dominante dell’epoca – ma fu uno
scontro «al rialzo». Entrambi i due
personaggi erano infatti convinti
di fare il meglio per la città, e il
compromesso che ne risultò fu comunque positivo per Catania: Riggio aveva un carattere sanguigno e
determinato, tanto da ottenere da
Roma i fondi per la ricostruzione
dei beni ecclesiastici. Non dimentichiamo quali potentissimi simboli
possedeva la fede religiosa in quel
secolo, in grado di confortare gli
animi e infondere nuova energia
anche nella disperazione più nera:
senz’altro le reliquie di Sant’Agata
furono utili tanto quanto il denaro
e i viveri del Camastra nel tenere
viva e compatta la popolazione di
Catania. Riggio sfidò con successo
il governo spagnolo, in quel periodo intento a ridurre la Chiesa
in Italia sotto il proprio potere. In
breve l’intera città fu un cantiere,
e tutti i catanesi, popolani e nobili, fecero a gara nel ricostruire più
belle le loro case.
Camastra incontrò invece qualche problema altrove: anche la
città di Noto doveva essere totalmente ricostruita. Non godendo
di una posizione strategica come
Catania, Camastra decide di riedificarla poco distante, ma questo provocò dissapori e litigi fra cittadini,
nobili e il clero. La ricostruzione
– pianificata dall’architetto gesuita Angelo Italia con uno schema
a scacchiera – richiederà ben nove
anni, ma l’opera di architetti quali Rosario Gagliardi, Paolo Labisi,
Vincenzo Sinatra e Antonio Mazza, coadiuvati da uno stuolo di
artigiani di primissim’ordine, darà
Prima le ostie, poi il pane
L
a pìetà delle popolazioni italiane del 1600 e del 1700 era
tale che anche di fronte alle
catastrofi più apocalittiche, la religione era un punto di riferimento
irrinunciabile e in grado di ridare
conforto. A Militello colpita dal sisma del 1693 - narrano le cronache
- venne mandato un rappresentante del principe di Butera il quale
«fattosi consignare li denari approntati per pagare la tanda [taglia
o imposta regia NdR] maturata a
primo gennaro di detto anno 1693
(...) cominciò subito in primo loco
a far grande spese per ritrovarsi
l’ostie sacro-sancte sotto le rovine
delle chiese demolite e seppellire li
cadaveri, fece poi erigere due baracche per rimetterci dentro il santissimo Sacramento, tanto della
Madre chiesa sotto titolo di Santo
Nicolò quanto delle parrocchiale di
Sancta Maria della Stella, fece parimente sbarazare tutte le strade e
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sfabricare le mura cadenti per potersi caminare in essa città. Di più
fece fabricare due barrache per habitarci le moniali delli dui monastery di S. Agatha e S. Giovanni Battista e due altre fece inalzare per gli
P.P. Cappuccini e P.P. Conventuali.
Similmente con tutta sollecitudine
e premura fece accomodare e acconciare li molini per rendersi atti
a macinare e fabricare molti forni;
fece venire un chirurgo forastiero
nominato Don Francesco Sigismundo milanese per medicare li sudetti
feriti e stroppiati (...) e finalmente
diede un sostentamento universale
al popolo che si moriva della fame
con far venir fuori frumento, pane,
farina comestibile di maniera tale
che se non s’havesse operato con
tanta carità non havrebbe restata
persona viva in questa città». (da
«Regione Sicilia - Note storiche» su
http://gndt.ingv.it/Pubblicazioni/
Lsu_96/vol_2/sic_n.PDF) n
Mileto di Calabria, le rovine
lasciate dal terremoto del 1783
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Ferdinando IV di Napoli in un
ritratto ottocentesco. Quando
il terremoto del 1783 sconvolse
la Calabria Ulteriore e Messina
inviò immediatamente il principe
Pignatelli dotandolo di pieni poteri
un risultato estetico eccezionale.
Anche Ragusa ebbe lo stesso problema: restaurare il vecchio o riedificare ex novo? Si risolse con un
compromesso: accanto alla città
vecchia fu edificata una città nuova, sempre dal Grunemburg, per
accontentare la parte della popolazione che non intendeva lasciare
le proprie case, ancorchè diroccate.
A Occhiolà invece la ricostruzione
procedette spedita: la città vecchia
venne abbandonata e riedificata su
progetto di Grunemburg col nuovo
nome di Grammichele, e per opera
del feudatario locale Carlo Maria
Carafa e Branciforte sorse anche un
teatro ed una tipografia. Per Grammichele si ideò una pianta stellare,
a sei punte, rapidamente realizzata
sotto la supervisione dell’architetto Michele da Ferla. Così fu, una
per una, tutte le altre città siciliane
distrutte: 77 in tutto quelle comprese
nel decreto vicereale: ricostruite ed
oggi Patrimonio dell’Umanità.
E dunque nobili e popolo nella Sicilia orientale, annientata dal terremoto del 1693, riuscirono nel miracolo di
farne nuovamente una delle terre più
belle del mondo. Novant’anni dopo,
poco più a nord, un altro cataclisma
si abbattè sul Mezzogiorno d’Italia,
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schiantando addirittura montagne
e deviando fiumi. Il terremoto di
Reggio sconvolse l’intera Calabria
Ulteriore, ossia le odierne province di Catanzaro, Crotone, Reggio e
Vibo Valentia (allora Monteleone).
Le scosse e i maremoti durarono
quasi due mesi, dal 5 febbraio al 28
marzo 1783 e provocarono oltre 29
mila morti dalla Sella di Catanzaro
a Messina, superando per potenza
il 7° Richter e raggiungendo coi loro
effetti il 10° della scala Mercalli.
Alcuni paesi – come Oppido Mamertina e Borrello – non furono più
ricostruiti. In altri, come a Scilla, le
vittime furono oltre il 70% degli abitanti. Lo sconvolgimento idrografico provocò la formazione di decine
di paludi, che in breve infestarono
la regione di zanzare anofele che
decimarono i superstiti con la malaria, provocando altri cinquemila morti. L’intervento del sovrano
di Napoli, Ferdinando di Borbone,
fu immediato e tempestivo, anche
considerati i mezzi di trasporto del
tempo e le difficoltà nelle vie di comunicazione calabresi (che tutt’oggi perdurano quasi identiche). Il
re inviò già il 15 febbraio il conte
Francesco Pignatelli quale plenipotenziario, dotato di centomila ducati di pronta cassa, medicinali, viveri
e truppe, oltre che carta bianca. Pignatelli giunse il 22 e stabilì il suo
quartier generale in un accampamento di tende a Monteleone, dove
abitò per i quattro anni successivi,
presiedendo prima ai soccorsi e poi
alla ricostruzione. Ma anche la popolazione delle Due Sicilie non fu meno
generosa: ad esempio i lavoratori
del porto di Napoli non vollero ricevere paga per il lavoro di carico delle navi destinate ai porti disastrati.
La regina Maria Carolina – sorella
della regina di Francia Maria Antonietta – fu così colpita dal disastro
e dal dolore del suo popolo da paragonarlo alla morte del suo bambino, avvenuta proprio in quelle
stesse nefaste settimane del 1783.
Provveduto con l’aiuto dell’Armata napoletana ai primi aiuti alle
popolazioni disastrate, presto ci si
accorse che i danni erano così in-
Maria Carolina d’Austria, moglie
di Ferdinando IV. Paragonò il dolore
per il terremoto di Calabria del 1783
alla morte di suo figlio Giuseppe, il
terzo bambino che la regina aveva
perduto in quell’anno infausto
genti che occorreva reperire i fondi
necessari alla ricostruzione attraverso mezzi straordinari: fu così
creata per regio decreto la Cassa
Sacra, un istituto – presieduto dal
Pignatelli stesso – che avrebbe dovuto liquidare e gestire i beni del
clero calabrese, con previsione di
restituzione dei beni in futuro e a
rate. Comunque fin dal giorno successivo all’arrivo a Napoli della terribile notizia, re Ferdinando aveva
riunito il consiglio dei ministri, e
questo aveva proposto immediatamente provvedimenti radicali a
favore delle «classi lavoratrici» e a
discapito di quelle «oziose». Ossia
– allora – il clero e i feudatari.
Pignatelli si adoperò immediatamente rastrellando denaro da tutta
la Calabria. Fondi giunsero anche
dal vicerè di Sicilia, sebbene anche Messina fosse stata fortemente
danneggiata dal sisma. Navi cariche di merci furono dirottate verso
i porti di Reggio e Pizzo nonostante il mare scosso per la stagione e
dai continui maremoti: giunsero
comunque medicinali, viveri, tende (l’Armata napoletana ne montò
oltre 2.500) ma anche pece, per la
triste incombenza di dover cremare
i cadaveri, nell’impossibilità di sep-
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19 STORIA IN RETE
E a l’Aquila si salva solo l’architettura del Ventennio
Il conte Francesco Pignatelli
(1734–1812), si occupò dei soccorsi
e della ricostruzione della Calabria
devastata. Fu uomo probo ed
estremamente fedele al suo
sovrano Ferdinando IV di Borbone
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CC 2.5 BY SA Freegiampi
A
ll’Aquila, come chiunque ha potuto constatare attraverso giornali e televisioni, è venuto giù quasi
tutto. Villette di periferia costruite da una manciata di anni in (teorico) cemento armato, palazzi del
Settecento, chiese del Trecento, campanili ottagonali di
trenta metri, mura medievali restaurate di recente, case
popolari degli anni Sessanta, silos di acciaio nella zona
industriale… eccetera eccetera. Con una sola vistosa eccezione: le opere dell’architettura fascista. Basta una breve passeggiata nel martoriato centro storico della città
per trovare tanti esempi. Ne scegliamo qualcuno quasi a
caso. Iniziando dalla piazza della Fontana Luminosa. Ebbene, qui, a testimonianza della solidità delle costruzioni,
addirittura i due comandi mobili dei Vigili del Fuoco, che
provvedono a organizzare per gli sfollati le «incursioni
protette» nelle case per il recupero di oggetti preziosi e
vestiario, sono addossati a una sede della Carispaq e a
una palazzina di studi professionali e uffici (compresa la
locale redazione de «Il Messaggero»), entrambe risalenti agli anni Trenta. A
poche decine di metri, oltre il circolo del
tennis, la coeva Piscina comunale, una
delle prime piscine
coperte d’Italia, è
intatta.
Nemmeno
una scalfittura sulle
pareti esterne. Nella zona dell’ormai
famigerata via XX
settembre, dal lato
della Villa comunale,
ecco quindi la chiesa
del Cristo Re, con la
sua bella datazione
al 1934 in numeri
La Fontana Luminosa de
romani. Si è rotto un
L’Aquila, realizzata nel 1938 da
unico piccolo vetro,
Nicola D’Antino (1880-1966)
come se invece di un
tremendo terremoto avesse
subito la pallonata di un ragazzino. Accanto, la vecchia
sede dell’ISEF (ex GIL - Gioventù Italiana del Littorio
NdR), con qualche segno e
screpolatura, epperò agibile. Se poi passiamo alle abitazioni private, l’intero quartiere della Banca d’Italia,
realizzato prima della Seconda guerra mondiale per i dipendenti delle Officine Carte
e Valori, è perfettamente integro. Non è saltato neppure
un mattone del rivestimento. Stesso discorso per le
case dell’INCIS in via Duca
degli Abruzzi (la stessa in Adelchi Serena (1895cui si è sbriciolato l’omoni- 1970), podestà de L’Aquila
mo hotel), dove abitava an- dal 1926-1934 e quindi
che - da adolescente - il gior- ministro dei Lavori
nalista Bruno Vespa. Sotto Pubblici dal 1939 al 1940
il regime, evidentemente, i
controlli funzionavano e le cose erano fatte per durare.
Ogni edificio doveva essere, per dirla con il poeta latino Orazio, un monumentum aere perennius. Non solo
i luoghi istituzionali, ma anche le abitazioni destinate ai
semplici cittadini. A questo punto, almeno, si spera che
non venga più in mente a nessuno di contestare, come è
stato varie volte fatto in passato (il diessino Fabio Mussi
chiese persine l’intervento censorio di Silvio Berlusconi),
l’intitolazione della piscina comunale ad Adelchi Serena (1895-1970), ex podestà dell’Aquila dal 1926 al 1934,
quindi vicesegretario nazionale del PNF e ministro dei Lavori pubblici. Quando c’era lui, se non altro, le costruzioni
venivano fatte bene. Con quello che si vede in questi giorni, e dinanzi alla «madre di tutte le inchieste» annunciata
dal procuratore capo Alfredo Rossini, non è poco. (Miska
Ruggeri, da «Libero» del 16 aprile 2009) n
pellirli in fretta prima che potessero
diffondere pestilenze. Appena possibile furono riedificati i mulini e i
forni per dare pane ai terremotati,
sebbene lo sciame sismico perdurasse ancora per un mese, mietendo
altre vittime, frustrando il lavoro di
ricostruzione e rendendo rischioso
quello di salvataggio e di sgombero. Poiché spesso e volentieri alle
calamità naturali l’uomo aggiunge
del suo, Pignatelli emanò decreti
draconiani contro sciacalli e profittatori e predispose stretti pattugliamenti delle coste per respingere
eventuali incursioni dei pirati barbareschi. Inoltre – ben conoscendo
l’avidità di certi suoi pari – su consiglio del ministro reale marchese di
Sambuca dispose «che i prepotenti
e facoltosi, così nei contratti come
in ogni occasione, non facessero
servire le pubbliche calamità per
istrumenti alle loro iniquità, come
la Storia ce ne ha conservati degli
esempi troppo inumani avvenuti in
simili o quasi eguali circostanze».
Come in altre fortunate ricostruzioni (l’ultima delle quali, quella del
Friuli, è ancora viva nella memoria,
e non la tratteremo qui), si provvide «prima al posto di lavoro, poi
alle case, infine alle chiese» (anche
se – come in Sicilia un secolo prima – il primissimo conforto al popolo addolorato venne proprio dai
sacerdoti, che su altari di fortuna
celebrarono la messa e tennero uni-
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21 STORIA IN RETE
Messina-Reggio: ricostruzione in due tempi. Poi, nel 1943, di nu
I
l sisma di Messina e Reggio del 28 dicembre 1908 è
ricordato come una delle peggiori catastrofi che abbia mai colpito l’intero continente europeo. Le due
città dello Stretto furono letteralmente cancellate dalla
faccia della terra e si lamentarono oltre centomila morti: alla furia del sisma, che provocò danni all’interno della Sicilia fino a Caltagirone, si aggiunsero un maremoto
e gli incendi causati dalle tubature del gas interrotte.
Lo tsunami che seguì il terremoto ebbe conseguenze
se possibili ancora peggiori, perchè molta gente s’era
riversata sulle spiagge per allontanarsi dalle città in
rovina o in fiamme, e là venne travolta da onde alte
come palazzi di quattro piani che improvvisamente si
sollevarono dallo Stretto. I soccorsi immediati giunsero
dal mare: si trattava di navi russe ed inglesi, che immediatamente si prodigarono al limite delle possibilità, e
da quattro navi della Regia Marina di stanza nel porto
di Messina. A terra le vie di comunicazione stravolte resero difficoltoso l’arrivo dei soccorritori, che giunsero
inizialmente solo in piccoli drappelli: ad esempio alcune centinaia di soldati ed un gruppo di operai volontari
raggiunse Reggio il giorno dopo il sisma, ma fino al 30
nessun altro aiuto giunse alla città calabrese. Il governo
presieduto da Giovanni Giolitti si riunì il 29, dopo che le
prime notizie riuscirono a giungere a Roma. Immediatamente venne dirottata per lo Stretto una divisione navale che incrociava nelle acque sarde, e la stessa coppia
reale si imbarcò su una nave da guerra per raggiungere
le città disastrate il 30 dicembre. Russi e inglesi - i primi
ospiti della rada di Augusta, i secondi in crociera nelle
acque siciliane - attraccarono in quello che restava del
porto di Messina. Risoluto, l’ammiraglio russo dispose i
suoi uomini a terra, tanto per aiutare i soccorsi, quanto per mantenere l’ordine pubblico, ed ordinò anche la
fucilazione degli sciacalli. La flotta italiana, più lontana
dai porti colpiti, raggiunse le città dello Stretto solo in
seconda battuta. Pochi giorni dopo giunsero in gara di
solidarietà anche vascelli tedeschi, spagnoli, francesi e
greci. Girò anche voce che in quel frangente i comandi austroungarici (e segnatamente l’arcinemico d’Italia
generale Conrad) avessero consigliato all’Imperatore
Francesco Giuseppe di attaccare l’Italia di sorpresa. Ma
il vecchio Asburgo, nonostante 60 anni di regno passati
in buona parte in guerra contro gli italiani non ritenne di
dover dar ascolto a questi suggerimenti maramaldeschi
e - noblesse oblige - si unì alla solidarietà internazio-
Soldati impegnati a scavare
fra le macerie in Calabria
Il duomo di Messina in rovine
dopo il terremoto del 1908
te le comunità). Pignatelli fece ricostruire l’industria tessile calabrese e
i frantoi, a volte anticipando il denaro del proprio patrimonio personale.
Fece bonificare le paludi malariche
riaprendo il corso dei torrenti sconvolti da frane e sommovimenti del
terreno. Nuove strade furono aperte
e i porti e i magazzini rimessi in funzione. Almeno trentatrè paesi furono
ricostruiti altrove, cercando di seguire criteri moderni, con strade ampie
e ad angolo retto, e furono emanate
le prime norme antisismiche, come
l’obbligo di inserire travi in legno
all’interno della muratura. Una ordi-
nanza che – purtroppo – non venne
però sempre seguita, coi risultati che
furono tragicamente chiari nel 1908.
Ferdinando inviò in Calabria
un gruppo di ingegneri militari col compito di risanare le zone
disastrate. Le prescrizioni regie im-
Il re inviò Francesco Pignatelli quale plenipotenziario, dotato
di centomila ducati di pronta cassa, medicinali, viveri
e truppe, oltre che di carta bianca. Pignatelli stabilì
il suo quartier generale in un accampamento di tende
a Monteleone, dove abitò per i quattro anni successivi
STORIA IN RETE
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ovo macerie per le bombe angloamericane
nale. Sugli aiuti e l’efficienza delle nostre Forze Armate
si scatenò nei mesi successivi una forte polemica sulla
stampa, anche se - come spesso accade - col tempo molte delle accuse si rivelarono ingigantite e strumentali.
Quello che invece lasciò abbastanza a desiderare fu la ricostruzione successiva: lo Stato, infatti, ritenne di poter
limitare il proprio intervento all’essenziale, secondo le
teorie liberali del laissez faire. Terminata la costruzione
dei baraccamenti e la ricostruzione di parte delle opere
pubbliche necessarie, Roma lasciò ad enti locali e privati
l’incombenza della ricostruzione. Ma nel 1911 scoppiò
la guerra in Libia, e nel 1915 l’Italia entrava nella Grande Guerra. E la ricostruzione restò lettera morta. Così
per 15 anni i cittadini di Messina e Reggio restarono in
gran parte nelle baracche, in condizioni miserande. Nel
1924, compresa finalmente la necessità dell’intervento
diretto ed energico dello Stato ci si iniziò a muovere.
In meno di trenta mesi, dal 1924 al 1927, entrambe le
città dello Stretto furono letteralmente rivoluzionate:
sorsero nuovi quartieri popolari, edifici pubblici monumentali e strutture logistiche. Nella sola Reggio, a fronte
di una spesa di 20 milioni di lire in sedici anni (dal 1909
al 1925) nei due anni successivi furono costruite opere
pubbliche e case popolari per 147 milioni. Al termine del
primo periodo di ricostruzione - il 31 agosto 1927 - si
stimava in soli 35 milioni e mezzo la spesa per le opere
restanti. Messina e Reggio uscirono da questo periodo
completamente ricostruite secondo criteri moderni. Le
baracche sparirono quasi del tutto (quelle mostrate nei
telegiornali in questi giorni, infatti, non risalirebbero al
terremoto, bensì ai bombardamenti del 1943). Reggio
soprattutto fu molto ingrandita, arrivando ad includere
nel proprio comune anche gli abitati vicini, e nel 1932
vi fu inaugurato anche il Museo Nazionale della Magna
Grecia, tutt’ora uno dei maggiori musei archeologici del
mondo. Sfortunatamente però quando la natura sta con
le mani in mano, ci pensa l’uomo a disfare il lavoro di decenni: con la Seconda guerra mondiale Messina e Reggio furono sottoposte a pesantissimi bombardamenti
aerei e d’artiglieria durante il 1943, e ne uscirono nuovamente rase al suolo. Ancora oggi si vedono a Messina i vuoti lasciati dalle bombe alleate nella fila di edifici
monumentali che fra 1910 e 1943 aveva preso il posto
della celebre Palazzata seicentesca, infelicemente riempiti nel dopoguerra da sgraziati condomini di dieci e più
piani. n
Anni Venti: si ricostruisce «la Palazzata»
messinese, in stile Novecento
pongono la larghezza delle strade, la
costruzione di piazze in ogni paese,
proporzionate alla popolazione, per il
mercato e per la chiesa locale. Gli ingegneri inoltre sono imbevuti di cultura
illuministica: sognano di ricostruire in
Calabria delle città ideali con passeggiate, strade ampie e trionfali, parchi e
giardini, quartieri centrali per i nobili
e periferici per i contadini, fognature e
fontane pubbliche. Spesso queste ambizioni sono al di là delle possibilità
di una terra povera ed aspra, dove lo
stesso terreno non consente la realizzazione di impianti urbanistici simmetrici e lineari. In alcuni casi, tuttavia, la
ricostruzione ebbe esiti mirabili, come
nella città di fondazione di Filadelfia
Calabra (presso Vibo). Nata dalle ceneri
di Castelmonardo – totalmente raso al
suolo – Filadelfia prese il nome che
in greco vuol dire «fraterna dilezione»
per celebrare la concordia delle classi sociali (ancorché solo nobili e cle-
Fin dal giorno successivo all’arrivo a Napoli della terribile
notizia, re Ferdinando aveva riunito il consiglio dei ministri,
e questo aveva proposto immediatamente provvedimenti
radicali a favore delle «classi lavoratrici» e a discapito
di quelle «oziose». Ossia – allora – il clero e i feudatari
Maggio 2009
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23 STORIA IN RETE
Araldo di Crollalanza fu investito di poteri speciali e grazie
alle leggi del ‘26-’27, il suo ministero aveva a disposizione
tabelle di mobilitazione aggiornate, con le quali Crollalanza
riuscì in poche ore a impegnare il personale del Genio
militare e civile e a dispiegarlo nelle zone disastrate
ro avessero diritto di voto), e nel suo
blasone furono rappresentate due mani
che si stringono, una delle quali guantata: ossia, popolo e classi dirigenti. La
città fu pianificata secondo la struttura
romana, a castrum, e le case costruite
secondo i criteri più moderni dell’epoca e rispettando le norme prescritte dal
Pignatelli. Tuttavia, alcune opere restarono incompiute, anche per gli sconvolgimenti politici che la Rivoluzione Francese portò di lì a poco in tutta Europa.
La Calabria non fu l’unica regione
a beneficiare del rapidissimo intervento dei reali di Napoli. Il Mezzogiorno è
sempre stato funestato da ogni sorta
di calamità sismica ed idrogeologica.
Come nel 1851, quando una scossa
di quasi 40 secondi di durata devastò
Il busto dedicato ad Araldo di
Crollalanza (1892–1986) a Bari.
Podestà del capoluogo pugliese
e ministro dei Lavori Pubblici, é
uno dei pochissimi esponenti del
Fascismo al quale sono stati dedicati
monumenti e strade nel dopoguerra
STORIA IN RETE
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Melfi e la valle del Vulture. Immediatamente Ferdinando II di Borbone, il nipote del Ferdinando che era sul trono
alla vigilia della Rivoluzione francese,
si mosse da Napoli di persona, per andare a soccorrere le popolazioni, con
un’opera così rapida che in un anno
– raccontano le cronache – già i paesi
erano ricostruiti. Tuttavia il melfitano
venne colpito da un nuovo sisma ottant’anni dopo, con esiti disastrosi: infatti, vanificando le leggi di Ferdinando II, molti cittadini avevano scavato
grotte e gallerie sotterranee, minando
letteralmente alla base la solidità delle
loro case. Inoltre col cambio di regime e
l’annessione del Regno delle Due Sicilie all’Italia riunificata, molte delle leggi e dei decreti borbonici o furono aboliti o caddero in disuso, specialmente
in quei territori funestati dalla lunga
guerra civile del Brigantaggio. Questa
negligenza fu caramente pagata dalle
popolazioni del Mezzogiorno, che dovettero subire gravi guasti. Il terremoto
di Melfi del 23 luglio 1930 pretese il
tributo di ben 15 mila vittime. L’intera
area del basso Sannio fu devastata orribilmente da una forza del 6.5 grado
della scala Richter. Questa tragedia è
praticamente stata cancellata dalla storia d’Italia: il motivo? Secondo l’architetto e storico Filippo Giannini («Quel
terremoto politicamente scorretto» su
www.tuttostoria.net), perché i soccorsi
e la ricostruzione che seguirono furono talmente efficienti da far arrossire
di vergogna ogni episodio analogo del
dopoguerra. E dato l’anno – assolutamente in «tempi sospetti» – si capisce
bene come i paragoni risultino quantomeno scomodi per ogni altra ricostruzione fatta durante l’Italia unita, da
quelle liberali [vedi box sul terremoto
di Messina e Reggio alle pagine precedenti NdR] a quelle dell’Italia democratica. Le comunicazioni giunsero a
Roma in nottata e immediatamente ed
automaticamente l’allora ministro dei
Lavori Pubblici Araldo di Crollalanza
(in carica da nemmeno sei mesi) fu investito di poteri speciali, secondo i regi
decreti legge del 1926 e del 1927. Grazie a queste leggi, il ministero aveva a
disposizione tabelle di mobilitazione
aggiornate, con le quali Crollalanza
riuscì in poche ore a impegnare il personale del Genio militare e civile e a dispiegarlo nelle zone disastrate. Lo stesso ministro, con un treno speciale che
veniva sempre tenuto pronto a Roma,
si recò immediatamente a Melfi e – seguendo l’esempio del Pallavicini – praticamente vi restò fino a ricostruzione
conclusa, salvo i viaggi di servizio verso la capitale e verso le Marche, colpite
anch’esse nell’ottobre di quell’anno da
un sisma.
Il Regio Esercito e la Milizia intervennero immediatamente: i soldati e le camicie nere sgombrarono
le macerie, salvando decine di persone sepolte dai crolli, predisposero baraccamenti antisismici per
alloggiare gli sfollati, fornirono
viveri e medicinali. Due mesi dopo
le commissioni di studi del Genio
Civile e del Regio Ufficio Geologico
avevano già concluso le loro ricerche sull’area, scoprendo che gran
parte dei guasti provocati dal sisma
si sarebbero potuti evitare se il terreno sotto le città non fosse stato
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Maggio 2009
Mussolini elogiò pubblicamente l’opera di ricostruzione
in Irpinia con queste parole: «Eccellenza di Crollalanza,
lo Stato italiano la ringrazia non per aver ricostruito
in pochi mesi, perché ciò era suo preciso dovere, ma la
ringrazia per aver fatto risparmiare all’erario 500 mila lire»
Noto: la ricostruzione della ricostruzione
L
a cattedrale di Noto è uno
dei simboli della rinascita della Sicilia orientale nel 1700.
Continuamente danneggiata dai
vari terremoti che hanno flagellato
la Sicilia, resta uno dei capolavori
assoluti del barocco mondiale. Nel
1990 l’ennesimo sisma le arreca
danni gravi, a seguito dei quali
si decide di chiudere la chiesa in
attesa di iniziare dei restauri. Ma
l’attesa è lunga. Troppo. E l’incuria
pretende il suo tributo pesantissimo: la cattedrale rovina quasi completamente la sera del 13 marzo
1996, con l’intera navata destra, la
navata centrale, il transetto destro,
l’arco trionfale e quasi tutta la cupola. Nel 2000, dopo quattro anni
di studi, si ricomincia finalmente
a ricostruire. Il lavoro stavolta è
filologico e metodico. Negli anni
precedenti, infatti, la cattedrale
aveva subito interventi a dir poco
La cattedrale di Noto, uno
dei capolavori del Barocco
mondiale. Nel 1996 crollò
rovinosamente a causa di
un difetto strutturale, ma
fu ricostruita in sette anni
cialtroneschi, come la sostituzione
negli anni Cinquanta del Novecento della copertura a falde con una
in cemento armato notevolmente
più massiccia e pesante. Inoltre
durante i lavori di sbancamento
delle macerie si scoprì che i quattro pilastri che reggevano la navata centrale erano stati riempiti con
sassi di fiume invece che con conci
in pietra squadrati, come vorrebbe
la regola d’arte: evidentemente
quando vennero costruiti, nella
prima metà del Settecento, l’epoca
d’oro di onestà e serietà del duca
di Camastra era già solo un lontano
ricordo. Il peso maggiore del tetto
e l’usura dei secoli ha fatto il resto.
I lavori di ricostruzione e restauro,
tuttavia, sono ritornati sugli errori
del passato, risolvendoli. Oggi la
cattedrale, inaugurata nuovamente il 18 giugno 2007, è tornata al
suo antico splendore. n
traforato da innumerevoli grotte artificiali e se le case fossero state edificate con criteri migliori. E così fu fatto:
le abitazioni e gli edifici monumentali
recuperabili furono restaurati, mentre
ciò che non era salvabile fu demolito
senza rimpianti. Al suo posto, e più
spesso in nuove aree, sorsero edifici
moderni, ad uno o due piani. Con una
legge apposita (RDL 632\30) fu prevista una più rigida applicazione delle
norme sulle nuove costruzioni e sui restauri, poi si procedette al riempimento
delle caverne e alla sistemazione delle
aree franose. Borgate rurali furono
predisposte per accogliere definitivamente gli sfollati – vere e proprie «new
town», come si dice oggi – scegliendo
i siti accuratamente, in zone ben esposte e soprattutto già servite da strade
o ferrovie (e qui s’impone l’impietoso
confronto coi moderni quartieri dei
«palazzinari», dove prima si costruiscono i condomini e poi – forse – le
strade per raggiungerli). Già tre mesi
dopo il sisma le prime «casette asismiche» venivano consegnate agli sfollati.
Un anno e mezzo dopo le città erano
pressoché ricostruite: 3.746 erano le
nuove case, 5.190 quelle restaurate.
Incredibilmente per un lavoro pubblico (discorso valido erga omnes e non
solo per l’Italia: ovunque nel mondo i
lavori pubblici costano sempre più di
quanto preventivato), la ricostruzione
della valle del Vulture e di Melfi costò
allo Stato meno delle cifre stanziate.
Per questo di Crollalanza riceverà plausi e riconoscimenti ovunque: Mussolini lo elogiò pubblicamente con queste
parole: «Eccellenza di Crollalanza, lo
Stato italiano la ringrazia non per aver
ricostruito in pochi mesi perché era
suo preciso dovere, ma la ringrazia per
aver fatto risparmiare all’erario 500
mila lire». La Società delle Nazioni
lo insignì d’un encomio solenne.
Emanuele Mastrangelo
Maggio 2009
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25 STORIA IN RETE