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Approfondimento
Documenta: storia di una rassegna
È il 1955 quando Arnold Bode (1900-1977),
architetto e artista originario di Kassel, organizza nella sua città natale la prima edizione di
Documenta. La città dell’Assia Settentrionale in
Germania è ancora ridotta a cumuli di macerie
dopo la Seconda Guerra Mondiale e solo pochi
edifici, come il Museo Fridericianum, ne ricordano la passata bellezza. Pochi anni prima, infatti,
la regione tedesca, scelta dal regime nazista
come sede delle industrie belliche, è obiettivo
di disastrosi raid aerei e la città di Kassel rimane quasi completamente distrutta in un pesante
bombardamento condotto dagli Angloamericani
nel 1943. Per Bode, Documenta diviene dunque
un modo per ripensare il passato della Germania tutta attraverso l’arte, e, non a caso, sarà
proprio il Fridericianum a ospitare il cuore della
manifestazione.
Concepita dal curatore come “un museo per
cento giorni”, la mostra dedicata all’arte del
XX secolo obbedisce a un triplice obiettivo. La
ristrutturazione del volto martoriato della città si
salda, infatti, da un lato, con la necessità collettiva di elaborare in modo consapevole la tragedia della guerra mondiale, e, dall’altro, con la
volontà del Paese di immaginare una possibilità
di guarigione dalla follia reazionaria nazista. Al
processo di ricostruzione urbanistica, simbolo
della timida rinascita culturale di un’intera nazione, corrisponde, inoltre, il recupero di quell’arte
etichettata come “degenerata”, ovvero di tutte
quelle espressioni artistiche avvertite dal regime
oscurantista come una minaccia alla preservazione dei valori tradizionali. Come chiaramente
esplicitato nel titolo, la mostra deve servire a documentare in modo trasparente l’evoluzione
storico-artistica del XX secolo e costituire un
invito a trarre insegnamento dalle espressioni estetiche contemporanee, specchio infallibile di un’epoca.
Le prime quattro edizioni (1955, 1959, 1964 e
1968, dunque a cadenza quadriennale) sono affidate tutte alla direzione artistica dello stesso
Bode, e hanno in comune l’obiettivo di creare
uno spazio condiviso per riflettere sullo stato
dell’arte moderna.
La mostra del 1955 fa luce in modo anacronistico sui movimenti d’Avanguardia (quegli
stessi sacrificati dal regime: Espressionismo,
Futurismo, Costruttivismo, Cubismo) e, pur
Figg. 1, 2, 3
Veduta aerea della città di Kassel, nella regione
di Hesse, dopo i ripetuti bombardamenti perpetrati
tra il 1942 e il 1945 dagli Alleati (in alto) e immagini
della prima Documenta 1955, con l’esterno
del Fridericianum (al centro) e l’allestimento
di una sala espositiva interna (sotto).
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© Istituto Italiano Edizioni Atlas
Sopra: Fig. 4
Documenta 1968.
L’installazione 5450 m
di Cubic Package
di Christo nel giardino
del Fridericianum.
mancando di includere alcune delle posizioni
più radicali (come il Dadaismo) attrae un pubblico di più di 130 000 visitatori. Quattro anni
dopo, la rassegna è già un’istituzione e vengono
esposte per la prima volta in Europa opere di
campioni dell’Espressionismo astratto americano. Con la sua enfasi eccessiva sugli sviluppi dell’Astrattismo in pittura, scultura e arte
grafica, l’edizione successiva sembra fatichi a
dipingere in modo efficace i fermenti contemporanei: l’operato di artisti come Joseph
Beuys (protagonista indiscusso di quasi tutte le
edizioni, in quanto tedesco e internazionalmente
riconosciuto), Yves Klein e Jean Tinguely è, ad
esempio, largamente celebrato, ma presentato
come indipendente da qualsiasi corrente artistica, e sono poi escluse completamente le manifestazioni del Realismo. Infine, sebbene non
si sottragga ai limiti già evidenziati dall’edizione
precedente (rimangono escluse espressioni
come l’Happening, la Performance e la Land
Art), l’ultimo appuntamento guidato da Bode fa
di Documenta un punto di riferimento internazionale e la consacra definitivamente come
istituzione principale per la presentazione, lo
studio e la ricezione dell’arte contemporanea.
Nel 1972 la quinta edizione costituisce un punto di svolta nell’organizzazione della rassegna:
da quel momento Documenta avrà luogo con
cadenza quinquennale, in spazi espositivi
sempre diversi e dislocati in vari punti della
città, e per la direzione artistica sarà individuato
ogni anno un curatore diverso, con la garanzia
di piena autonomia creativa, politica e amministrativa. Per la prima volta, inoltre, la mostra
(quell’anno diretta dall’acclamato curatore svizzero Harald Szeemann) avrà un focus specifico
e, prendendo le distanze dall’attenzione dedicata all’arte astratta, si concentrerà maggiormente
sull’analisi della realtà, attraverso manifestazioni
non convenzionali e “anti-mercato”.
La sesta e ottava edizione, entrambe curate in via eccezionale dal tedesco Manfred
Schneckenburger, interpretano poi in modo
particolare l’intenzione originaria di far luce sui
fermenti contemporanei: mentre la pittura è
confinata in una posizione marginale, assumono
peso rilevante i nuovi media e la performance.
In completa antitesi con il profilo politicamente
impegnato dei due eventi, la settima edizione curata da Rudi Fuchs sembra compiere,
però, un passo indietro: l’olandese rivendica
convintamente l’autonomia dell’opera d’arte
e, seguendo una virata conservatrice, si appella ai valori di “bellezza classica” e “tradizione”,
A lato: Fig. 5
Documenta 1972.
L’opera Oase Nr.7
di Haus-Rucker-Co,
emblematica del carattere
non convenzionale della
manifestazione del 1972.
A destra: Fig. 6
Documenta 1977.
L’opera Laser-Environment
di Horst Baumann, pensata
per rimanere oltre la fine
dell’esposizione come segno
duraturo nel paesaggio
urbano, secondo un uso che
diverrà elemento distintivo
della rassegna.
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© Istituto Italiano Edizioni Atlas
A lato: Fig. 7
Documenta 2002.
L’installazione
Bataille Monument
di Hirschorn, installato nel
2002, simbolo degli
interventi artistici che
animano sempre
più la città.
Sotto: Fig. 8, 9
Documenta 2012.
L’opera Untilled
di Pierre Huyghe.
escludendo quasi completamente le opere video e così l’attenzione prestata all’avvento delle
nuove tecnologie.
Nel 1992, per la nona edizione, il belga Jan
Hoet tenta la realizzazione rischiosa di una mostra enciclopedica che, attraverso commissioni specifiche agli artisti, si concentri sui
drammi di un’epoca, come la piaga dell’Aids,
le catastrofi nucleari e i disastri climatici. La presenza di artiste donne è tuttavia ancora minima
(bisognerà aspettare il 2007, perché i coniugi
Roger Buergel e Ruth Noack incrementino la
partecipazione femminile del 50%), e innegabile
è la prevalenza di artisti belgi.
Ad apportare cruciali cambiamenti all’impianto organizzativo della manifestazione sono piuttosto le
edizioni del 1997, 2002 e 2012, rispettivamente curate da Catherine David (francese e prima
donna a dirigere documenta), Okwui Enwezor
(curatore nigeriano e dunque primo direttore non
europeo) e Carolyn Christov-Bakargiev.
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Le tre edizioni condividono un approccio spiccatamente politico e critico e, a livelli diversi, sembrano concentrarsi tutte sul dibattito
post-coloniale, sulle omissioni perpetrate dalla
storia dell’arte Occidentale e dunque sugli effetti
della globalizzazione. Le ultime due, in particolare, affidano grande importanza alla diretta
collaborazione con gli artisti e dislocano alcune delle sedi della manifestazione anche in
altre città (Vienna, Berlino, Santa Lucia, Nuova
Dehli e Lagos con Enwezor; Kabul con ChristovBakargiev).
Coniugando la tendenza antropologica a documentare, ricostruire e quindi ripensare in modo
sempre critico gli sviluppi della storia, Documenta ha finito dunque per affermarsi come appuntamento imperdibile per riflettere sulla
produzione artistica internazionale e, più in
generale, per risultare in un tentativo unico di
interrogare l’arte, la contemporaneità e noi
stessi.
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