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N°51 – GENNAIO 2017
L’asse franco-australiano nello scacchiere
indo-pacifico: problematiche e prospettive
(viste da Parigi)
www.bloglobal.net
OPI Research Paper
Osservatorio di Politica Internazionale (OPI)
© BloGlobal – Lo sguardo sul mondo
Milano, gennaio 2017
ISSN: 2284-0362
Autore
Simone Vettore
Adjunct Fellow. Dottore in Storia con indirizzo contemporaneo presso l’Universita di Padova, con una tesi in Storia militare dal titolo La terza dimensione nelle marine militari fino alla Grande Guerra; nel 2007 e Dottore magistrale con lode in Gestione dei beni archivistici e librari, discutendo presso il medesimo ateneo una tesi intitolata
Archivi e biblioteche ed il modello di Rete.
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Parti di questa pubblicazione possono essere riprodotte, a patto di fornire la fonte nella seguente forma:
S. Vettore, L’asse franco-australiano nello scacchiere indo-pacifico: problematiche e prospettive (viste da Parigi),
Osservatorio di Politica Internazionale (OPI), Research Paper N°51, Milano, gennaio 2017.
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I porti di Chabahar e Gwadar al centro dei “grandi giochi” tra Asia Centrale e Oceano Indiano, Osservatorio di Politica Internazionale (Bloglobal – Lo sguardo sul mondo), Milano 2014, www.bloglobal.n
INTRODUZIONE
Il 26 aprile scorso il Primo Ministro australiano, il liberale Malcom Turnbull, annunciava che il gruppo francese DCNS [1], con i suoi Barracuda, era l’aggiudicatario
dell’importante commessa per la realizzazione della nuova classe di sottomarini
(AFS, Australian Future Submarine) destinata a sostituire gli ormai superati Collins
di derivazione svedese (classe Vastergotland). La proposta di DCNS, stando sempre
alle parole di Turnbull, si imponeva rispetto a quelle presentate della tedesca TKMS
(Thyssen-Krupp Marine Systems) e da un consorzio giapponese con Mitsubishi
Heavy Industries nel ruolo di capofila, non solo per la validità tecnica del progetto
proposto [2] ma anche per gli importanti risvolti economico-industriali: analogamente a quanto accaduto negli anni Ottanta, allorquando i Collins non vennero costruiti presso i cantieri svedesi della Kockums bensì presso quelli australiani della
Australian Submarine Corporation (oggi ASC Pty Ltd), la realizzazione dei 12 Barracuda previsti nella commessa avrà luogo sempre in Australia e per la precisione
presso i cantieri navali di Adelaide, assicurando la creazione di circa 1.100 posti di
lavoro direttamente interessati dai lavori di costruzione e di altri 1.700 nell’indotto
[3]. Inoltre, aspetto non secondario, anche tutte le attività di manutenzione, assistenza ed upgrade si svolgeranno in loco, garantendo ulteriore lavoro alle maestranze australiane per oltre quarant’anni: infatti, in base all’accordo siglato,
l’assistenza si protrarrà sino al 2060 [4].
Appare dunque evidente come ci troviamo dinanzi ad un deal nel quale, al di là degli equilibrismi linguistici tipici dei comunicati stampa e delle dichiarazioni ufficiali, le
considerazioni di carattere strategico-militari si fondono inestricabilmente con quelle
di tipo politico: emblematiche in tal senso le dichiarazioni del Premier australiano, il
quale da una parte ha affermato come la proposta francese abbia prevalso grazie
alla «superior sensor performance and stealth characteristics, as well as range and
endurance similar to the Collins Class submarine» dei Barracuda, ma dall’altra ha
gram execution, through-life support and Australian industry involvement» [5]. Le
parole di Turnbull, in buona sostanza, confermano come da una parte la scelta australiana sia stata dettata da considerazioni tecniche per quanto possibile “oggettive”, dall’altra da valutazioni di natura economico-industriale all’interno delle quali, a
cascata, le positive ricadute in termini occupazionali (ed i conseguenti ritorni elettorali) sono state ovviamente tenute in massima considerazione.
Inoltre per Turnbull appoggiare la proposta francese equivaleva a lanciare un chiaro
messaggio sul fronte politico interno, smarcandosi definitivamente dalla linea trac-
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ribadito come «the Government’s considerations also included cost, schedule, pro-
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ciata dal suo predecessore Tony Abbott (sfiduciato dal suo stesso partito a seguito
di una fronda interna guidata proprio da Turnbull), che si era apertamente espresso
a favore del progetto giapponese e non solo per motivazioni prettamente tecniche.
Infatti per l’Australia, a livello di equilibri geostrategici e geoeconomici, far ricadere
la propria scelta sulla proposta nipponica avrebbe consentito di raggiungere un duplice obiettivo: sfruttare la collaborazione tra i rispettivi apparati militar-industriali
come premessa per rinsaldare in chiave anti-cinese l’alleanza con Tokyo, allontanando nel contempo il Paese del Sol Levante della Russia, che con le sue enormi riserve di gas fa concorrenza proprio all’Australia (che, per inciso, figura a sua volta
tra i primi prima esportatori mondiali di gas naturale liquido) nell’ambìto mercato
giapponese. In un simile scenario, a chiudere il cerchio, proprio la difesa della nuosportano, avrebbe rappresentato uno dei principali motivi che ha spinto Canberra a
rinnovare la propria flotta di sottomarini. Ovviamente quella appena presentata non
è l’unica chiave di lettura possibile: ad esempio non sono mancati, all’indomani
dell’annuncio dell’aggiudicazione, i commentatori che hanno insinuato come la proposta giapponese, tecnicamente superiore (e sponsorizzata pure da Washington),
sia stata scartata dal governo australiano per non indispettire Pechino, che si sarebbe vista “chiusa” dall’ulteriore rafforzamento dell’asse Tokyo-Canberra e che, per
ripicca, avrebbe potuto introdurre qualche misura di stampo protezionista a discapito dell’export australiano in Cina [6].
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va ricchezza australiana, e delle rotte percorse dalle gigantesche gasiere che lo tra-
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Similmente, sono circolate ipotesi alternative anche in merito alle motivazioni che
hanno indotto Canberra a decidere di rinnovare la componente subacquea della
Royal Australian Navy (RAN), raddoppiandone il numero; una teoria particolarmente
quotata vi ha visto il tentativo australiano di accrescere il proprio ruolo come partner strategico degli Stati Uniti in un frangente storico in cui Washington, a causa
dell’uscita dal servizio di molti mezzi, si vedrà costretta a ridurre progressivamente
il numero di sottomarini di stanza nel Pacifico. In sostanza i 12 Barracuda della
RAN, in un’ideale staffetta con l’US Navy, consentirebbero di mantenere, a livello di
alleanza, a distanza di sicurezza una Cina fortemente impegnata a ridurre anche nel
campo della guerra subacquea l’esistente gap quantitativo e qualitativo [7].
Tale tesi, per quanto particolarmente interessante, contiene però in sé almeno due
elementi di debolezza che vale la pena di approfondire in quanto funzionali al successivo sviluppo del nostro ragionamento.
In primo elemento di debolezza è che non viene tenuto sufficientemente conto dei
lunghi tempi di realizzazione: il programma, come si è detto, si protrarrà per oltre
50 anni e la concreta entrata in servizio dei Barracuda avverrà progressivamente
nell’arco dei primi 25. Dunque, al di là dei numeri sulla carta, solo verso il 2037 si
potrà effettivamente affermare di disporre di sei sottomarini in più e di aver grossomodo preservato il margine di vantaggio sulla People’s Liberation Army Navy
(PLAN) – la marina militare cinese –; nel frattempo bisognerà fare i conti, oltre che
con la progressiva radiazione dei Collins australiani, con il calo dei Los Angeles e dei
Virginia statunitensi (da 55 a 42 nel giro dei prossimi 15 anni) così come con la radiazione, tra il 2026 ed il 2028, dei quattro sottomarini lanciamissili nucleari attualmente in servizio nel Pacifico, senza che vi siano all’orizzonte programmi per
rimpiazzarli. In sostanza attorno al 2030 la componente subacquea schierata unitariamente da Australia e Stati Uniti nel teatro indo-pacifico potrebbe accusare un
saldo negativo di 10-15 unità rispetto ad oggigiorno mentre la Cina continuerebbe a
varare nuove unità e ad attrezzarsi in generale per la guerra sottomarina sviluppando le proprie capacità AntiSom Warfare (ASW).
Va peraltro sottolineato come in questa analisi meramente quantitativa si dà per assodato che tutto fili per il verso giusto (tale considerazione vale naturalmente per
nei programmi di durata decennale, le difficoltà tecniche, industriali e finanziarie
sono sempre dietro l’angolo. In altri termini è tutt’altro che scontato che venga rispettata la timeline prevista.
Il secondo elemento di debolezza, che come anticipato è strettamente collegato al
primo, riguarda l’evoluzione dello scenario operativo ed i conseguenti limiti tecnici
dai quali potrebbe essere affetto il programma. Benché sia esplicitamente previsto
che, proprio alla luce dei lunghi tempi richiesti prima che tutti i sottomarini siano
realizzati, i Barracuda australiani siano man mano aggiornati in base all’evoluzione
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qualsiasi programma navale): l’esperienza purtroppo insegna che, in special modo
delle minacce ed alla maturazione delle tecnologie [8], il rischio che ci si trovi tra le
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mani uno strumento bellico, se non obsoleto, comunque non più adatto alle mutate
esigenze strategiche e di difesa e/o incapace di eseguire appieno le missioni per le
quali era stato progettato, esiste.
Secondo qualificati autori infatti l’evoluzione tecnologica nei prossimi decenni favorirà la difesa rispetto all’attacco; per costoro infatti fattori quali l’aumentata potenza
di calcolo nel campo dell’informatica (che consente di distinguere dal rumore di fondo anche le segnature più deboli), l’integrazione tra sensori sparsi anche in aree
molto vaste resa ora possibile dalle migliorie nelle reti di comunicazione,
l’accresciuta larghezza di banda (che rende il trasferimento di enormi volumi di dati
dai sensori che li rilevano ai processori che li elaborano più veloce) così come la
presenza di sistemi subacquei autonomi e/o controllati da remoto dotati di
un’accresciuta potenza di calcolo e della capacità di trasmettere i dati raccolti a
punti centralizzati di elaborazione, produrranno come risultato finale una «revolution in anti-submarine warfare» che renderà particolarmente dura la vita dei sottomarini [9].
La soluzione da essi individuata per far fronte a tali accresciute minacce, che mettono a serio repentaglio la sopravvivenza del sottomarino, consisterebbe nel pensare a questi ultimi non più come a mezzi d’attacco diretto bensì come a piattaforme
“dedicate” con il compito di rilasciare, a distanza di sicurezza, sottosistemi quali
Unmanned Underwater Vehicle (UUV) d’attacco, mine subacquee “intelligenti”, sensori, decoy per la guerra elettronica, etc.
Allo stato attuale è difficile dire se i Barracuda (per carico pagante, raggio d’azione
ed autonomia, caratteristiche stealth) potranno evolvere in qualcosa di simile, e se
sì con quali costi ed in che tempi, ma quasi sicuramente le ottimistiche previsioni di
coloro che già se li immaginavano ad incrociare nelle profondità del mar Cinese Meridionale a fianco dei sottomarini alleati sono destinate a rimanere puri vagheggi; è
infatti assai più verosimile che i futuri sottomarini della RAN, in linea con la teoria
dell’offshore control elaborata in ambito statunitense, cooperino con gli alleati
nell’imposizione (evidentemente nei confronti della Cina) di quel “blocco navale a
distanza” ottenibile presidiando gli stretti dell’arcipelago indonesiano ed alcuni settori dell’Oceano Indiano (in particolare il passaggio a sud delle Andamane).
serisce la Francia, che in definitiva la commessa se l’è pur aggiudicata, in questo
gioco indo-pacifico in cui a prevalere è il dualismo tra Cina e Stati Uniti mentre tutti
gli altri attori dell’area, Australia inclusa, paiono piuttosto dei comprimari? Perché
l’Australia, per le proprie esigenze di difesa, ha guardato a Parigi anziché a Washington diversamente da quanto fatto dal secondo dopoguerra in poi?
La risposta a tali quesiti è assai semplice: in primo luogo perché agli Stati Uniti, in
definitiva, un maggior coinvolgimento di Parigi nello scacchiere indo-pacifico può rivelarsi utile, tanto più che gli obiettivi strategico-militari perseguiti da Parigi – come
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Giunti a questo punto, ci si starà probabilmente ponendo una domanda: come si in-
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avremo modo di vedere meglio più avanti – collimano in larga parte sia con quelli di
Washington che con quelli di Canberra; in secondo luogo perché gli Stati Uniti un
ruolo nell’affare Barracuda ce l’avranno ugualmente, spettando ad essi la fornitura
di tutti i sistemi di combattimento ed i relativi armamenti [10].
Non paiono pertanto condivisibili le affermazioni di quanti, come Julian Kerr, ritengono che il governo australiano, optando per la proposta francese, «appears to have focused firmly on capability rather than geostrategic issues» [11]. Al contrario,
siamo convinti che tale scelta abbia permesso al governo australiano di consolidare
sensibilmente la già esistente entente con Parigi spingendola ulteriormente più a
fondo sul terreno della cooperazione militare in virtù di esigenze strategiche in larga
parte sovrapponibili.
Non ci resta dunque che indagare sulle motivazioni dell’interesse francese per
l’area, cercando di capire quale sia il “gioco” di Parigi in questo scacchiere e quale la
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funzione che l’alleanza con l’Australia può svolgere.
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PARTE I
LA STRATEGIA FRANCESE
NELL’AREA DELL’INDO-PACIFICO
Ci forniscono una prima, importante traccia da seguire le parole del Ministro della
Difesa francese, Jean-Yves Le Drian, poste ad introduzione di un recente documento
pubblicato dal Quai d’Orsay nel quale viene esplicitata la politica di difesa e sicurezza di Parigi nell’area dell’Oceano Indiano e del Pacifico: premesso che l’entità geopolitica comprendente l’Asia continentale ed il bacino indo-pacifico «is a seat of
economic dynamism, demographic growth and technological innovation», Le Drian
sottolinea come alla regione debba essere garantita la necessaria sicurezza attraverso il dialogo ed un approccio multilaterale [12] che, aggiungiamo noi, deve come
logico corollario vedere la partecipazione di tutti gli attori – Francia inclusa – presenti nell’area.
Al riguardo, il Ministro rimarca prontamente come la Francia sia de iure uno Stato
tanto dell’Oceano Indiano quanto dell’Oceano Pacifico [13] e, in quanto tale, vanti
durature relazioni diplomatiche con Australia, India, Giappone e Stati Uniti; in questo contesto il capo della diplomazia francese non può astenersi dal sottolineare
come «The historic choice made by Australia in favour of France for building its future 12 submarines marks a decisive progress in the strategic partnership of our
two countries» [14].
L’alleanza con l’Australia viene dunque assai significativamente definita come “strategica” e le motivazioni vengono esplicitate nel prosieguo del documento con insolita chiarezza: «France has started to rebalance its strategic centre of gravity towards the Indo-Pacific, where it is a neighbouring power. Rooted in the southern
part of the Indian Ocean with the islands of Mayotte and La Réunion, the Scattered
Islands and the French Southern and Antarctic Territories, France is also anchored
in the Pacific Ocean with its territories in New Caledonia, Wallis and Futuna, French
permanent military basing in the Indian and the Pacific oceans confer to France a
presence which is unique among European countries. The reinforcement of defence
relations between France and Australia is built on increasingly converging interests
and shared democratic values. It will translate into strategic, operational and industrial terms» [15].
Si tratta di un passaggio di fondamentale importanza per la nostra analisi, giacché
in esso viene esplicitato senza ambiguità il nesso esistente tra il rafforzamento delle
relazioni bilaterali con l’Australia e il più amplio processo di riposizionamento fran-
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Polynesia, and Clipperton Island. Our armed forces stationed overseas and our
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cese nell’area. Si rende pertanto opportuna l’analisi di ciascuno dei tre periodi, corrispondenti ad altrettanti blocchi logico-contenutistici, che lo costituiscono.
Nel primo blocco si offre una sommaria descrizione dei possedimenti francesi, suddividendoli con criterio geografico tra quelli presenti sull’Oceano Indiano e quelli sull’Oceano Pacifico. Nel primo Oceano vengono citati i dipartimenti d’oltremare (DOM) di Mayotte e La Reunion nonché quell’eterogeneo
insieme di isole ed isolotti che amministrativamente ricadono all’interno delle
Terres Australes et Antarctiques Françaises (TAAF) [16], nel secondo la collettività di Wallis e Futuna, quella della Nuova Caledonia ed il Territorio della
Polinesia Francese, al quale fa capo pure l’isola di Clipperton, situata oltre
6.000 Km ad est di Tahiti (geograficamente dunque assai più vicina alle coste del Messico, che distano “appena” 1.300 Km). Soffermandosi ora sulle
sole isole pacifiche, l’apporto in termini demografici e di ZEE è, in proporzione ai luoghi, di tutto rispetto: complessivamente circa 525.000 abitanti sparsi su 22.915 Km² di terre emerse (per dare un termine di paragone si tratta
di un territorio vasto poco meno della Toscana, estendendosi quest’ultima su
una superficie di 22.994 Km²) ed una ZEE di oltre 4 milioni di Km² (quasi
una volta e mezza il Mar Mediterraneo) [17]. Ma l’importanza attribuita da
Parigi a questi suoi possedimenti extraeuropei non si basa su meri aspetti
numerici (che, si ribadisce, rapportati in un contesto qual è quello del Pacifico – caratterizzato da bassa densità demografica, grandi spazi, etc. – sarebbero di per sé più che sufficienti per sancirne lo status di potenza regionale),
bensì deriva dal ruolo ad essi assegnato all’interno della ben più complessa
ed ambiziosa strategia indo-pacifica francese. La Francia, infatti, pur essendo pienamente consapevole della posizione defilata dei propri possedimenti
nell’area [18], li ritiene ugualmente fondamentali per la propria politica estera: in particolare i Département e le Collectivité qui presenti rivestono un
imprescindibile valore “strumentale” giacché, per il semplice fatto di esistere, consentono al Quai d’Orsay, il quale deve premurarsi di garantire i buoni
rapporti di vicinato con gli Stati confinanti, di agire diplomaticamente in questo scacchiere. È proprio sulla scorta di tale attività che sono state sviluppate ed approfondite le due relazioni bilaterali “privilegiate” che attualmente
costituiscono i pilastri della politica estera francese nell’area, vale a dire
quella con l’India nell’Oceano Indiano e quella, al centro di questa analisi,
con l’Australia nell’Oceano Pacifico. È peraltro interessante notare come anche con New Delhi il modus operandi adottato da Parigi vede i diversi piani
(politico, economico-industriale e militare) strettamente interconnessi tra di
loro, al punto da rendere del tutto plausibile l’ipotesi per cui la partnership
con l’India abbia funto da modello per quella con l’Australia [19]. Del resto la
prima rappresenta l’imprescindibile premessa strategica per la seconda giacché, in assenza di un accordo franco-indiano per il “condominio” sull’Oceano
Indiano, mantenere aperti i collegamenti con i possedimenti del Pacifico sarebbe compito assai improbo. Ecco dunque che arriviamo ad affrontare quel-
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lo che abbiamo individuato come secondo “blocco”, ovvero quello relativo
allo schieramento militare francese nel teatro indo-pacifico.
La volontà francese di giocare un ruolo di primo piano nel teatro indopacifico non può evidentemente prescindere dallo schieramento di cospicue
forze militari; prima di descriverne sommariamente la consistenza (operazione non fine a se stessa ma al contrario utile per comprenderne gli obiettivi tattico-operativi), è però opportuno tratteggiarne il posizionamento alla
luce della presenza francese nell’area. L’analisi di quest’ultimo, a sua volta,
ci fornisce l’ulteriore riprova di come i due teatri, indiano e pacifico, siano visti da Parigi in maniera strettamente interdipendente: difatti, a partire dalle
basi presenti nel settore nord-occidentale dell’Oceano Indiano, ovverosia a
Gibuti e negli Emirati Arabi Uniti, la presenza militare francese si dipana (attraverso Mayotte e la Reunion) verso l’Oceano Indiano meridionale; di qui,
facendo perno sui numerosi possedimenti amministrativamente ricompresi
nelle Terre Australi ed Antartiche, essa si proietta, lungo un corridoio che
corre nell’estremo sud dell’Oceano Indiano, verso l’Australia e, oltrepassata
quest’ultima, fino ai Dipartimenti e Collettività qui presenti: Nuova Caledonia, Wallis e Futuna, Polinesia Francese sino alla sperduta Clipperton Island.
Balza immediatamente agli occhi di come si tratti di un dispositivo alquanto
fragile per almeno due aspetti: 1) il fulcro, che consente il collegamento con
la Francia metropolitana, gravita sulle uniche basi ospitate in territori stranieri, ovverosia su quella gibutiana e quelle negli Emirati Arabi Uniti; 2) le
distanze sono notevolissime e, di fatto, non esiste una continuità tra i territori sull’Oceano Indiano e quelli sul Pacifico. Cerchiamo di approfondire un
po’ entrambi i punti. Relativamente alle basi permanenti ospitate a Gibuti e
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negli Emirati Arabi Uniti [20] va osservato come esse da un lato fungano da
vero e proprio access point nell’Oceano Indiano, ovvero elemento fondamentale per attuare la grand strategy di Parigi, dall’altro come strumento per
perseguire obiettivi tattici/di teatro. Nella fattispecie Gibuti consente di controllare la vitale rotta per Suez, tenendo nel contempo sotto controllo l’intera
Africa Orientale, mentre le basi negli Emirati Arabi Uniti permettono di proteggere il regolare flusso di risorse energetiche dalla Penisola Arabica e nello
stesso tempo di estendere l’influenza francese sul Medio Oriente e
sull’Oceano Indiano settentrionale. Circa il secondo punto va rilevato come la
Francia tenti per certi versi di “tamponare” le lacune derivanti da un’infelice
posizione geografica dispiegando strumenti militari in grado, se necessario,
di fornire un adeguato collegamento tra i propri territori; in tal senso un ruolo chiave è chiamato a ricoprirlo il gruppo navale incentrato sulla portaerei
De Gaulle, la quale grazie alla propulsione nucleare ed al supporto logistico
ottenibile presso la nuova base di Mina Zayed, può affrontare lunghe crociere in mare aperto [21].
Il riferimento, cui si è appena fatto cenno, alla possibile funzione “di collegamento” svolta dalla Marine ci porta dritti ad affrontare l’altro grande nucleo di questo secondo blocco, ovvero la consistenza e tipologia dello schieramento militare francese nell’area. Premesso che le cifre a disposizione talvolta si discostano leggermente le une dalle altre [22], attualmente la Francia schiera nell’Oceano Indiano circa 4.000 soldati ed altri 2.800 nel Pacifico.
Entrando maggiormente nel dettaglio zona per zona, le Forze Francesi negli
Emirati Arabi Uniti (FFEAU) sono costituite da 700 soldati, 6 caccia di ultima
generazione Rafale ed un velivolo da trasporto tattico C135 di stanza presso
la base di al-Dhafra; a tale contingente vanno aggiunti ulteriori 400 marinai
(cifra indicativa) impiegati presso la base navale di Mina Zayed. Di tutto rispetto anche il contingente schierato a Gibuti (Forces Françaises à Djibouti,
FFDj): 1.350 soldati, 4 caccia Mirage 2000, un trasporto tattico (verosimilmente un C160) ed 8 elicotteri tra Puma (multiruolo) e Gazelle (d’attacco).
Le Forces Armées dans la Zone Sud de l’Océan Indien (FAZSOI) possono invece contare su 1.900 uomini suddivisi tra La Reunion (qui, a Port de la
Pointe des Galets, ha sede la Marine) e Mariotte e su un relativamente conave da sbarco leggera), 2 aerei da trasporto tattico CASA CN-235 e due elicotteri (ovvero i due Panther multiruolo imbarcati nelle fregate). Spostandosi
nel Pacifico la componente aeronavale pre-posizionata, com’è lecito attendersi, si fa ancor più cospicua: le forze poste a presidio della Nuova Caledonia (Forces armées en Nouvelle-Calédonie, FANC, con competenza anche
sulla Collectivité di Wallis e Futuna) possono contare, oltre che su 1.800 soldati, su 4 navi (di cui una fregata) basate a Noumea, 4 aerei e 4 elicotteri
[23]. Leggermente inferiori, per concludere, le forze poste a difesa della Po-
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spicuo dispositivo interforze: 5 unità navali (2 fregate, 2 pattugliatori ed una
linesia francese: 1.000 uomini, tre navi (di cui una fregata) basate a Papee9
te, 5 velivoli (3 pattugliatori marittimi Falcon D20 e 2 trasporti CASA CN235) e 3 elicotteri (un vecchio S316 Alouette III e 2 SA 365 Dauphin). A tali
forze vanno infine aggiunti sia il personale (per quanto si tratti di presidi di
poche unità) ed i mezzi, solitamente dual use civile/militare, in servizio nei
Territori Antartici ed Australi sia quelli della Guardia Costiera (pattugliatori
navali, velivoli di sorveglianza, etc.); in particolare a quest’ultima spetta un
ruolo fondamentale nell’implementazione della strategia nazionale volta ad
ottenere la sicurezza delle aree marittime di “competenza” francese, mediante azioni di contrasto ai traffici di droga, di migranti, di armi, alla pesca
illegale ed in generale allo sfruttamento da parte di terzi delle risorse ricadenti nella propria ZEE così come operazioni di tutela dell’ambiente, di protezione delle principali rotte marittime (anche da minacce specifiche quali la
pirateria), etc. [24]. Relativamente al dispositivo poc’anzi descritto alcune
osservazioni sono d’obbligo. In primo luogo risulta lampante come, qualitativamente e quantitativamente, i principali asset siano schierati a presidio degli access point situati nell’Oceano Indiano settentrionale: solo in quest’area,
giusto per segnalare il dato più macroscopico, troviamo i caccia Mirage e Rafale e sempre attorno a questa zona staziona più o meno stabilmente la
squadra navale incentrata sulla portaerei Charles De Gaulle (che imbarca ulteriori 40 mezzi tra aeroplani ed elicotteri). Inoltre è esplicitamente previsto
che tali forze, già cospicue, possano essere rapidamente potenziate “scalando” verso nord quelle presenti più a sud (FAZSOI), dove spicca la componente navale/anfibia.
In altri termini l’obiettivo prioritario è quello di mantenere aperta la via di
collegamento, attraverso Suez, con la Francia metropolitana [25]; ottenuto
ciò, a cascata, risulta praticabile anche la via più diretta verso i Territori e le
Collettività dell’Oceano Indiano e dell’Oceano Pacifico. Riguardo a questi ultimi è già stato sottolineato come siano presidiati da un dispositivo militare
in cui a spiccare è la componente aeronavale, l’unica in grado di fornire una
mobilità intra ed extrateatro tale da consentire il reciproco aiuto tra le forze
di stanza nella Nuova Caledonia e nella Polinesia Francese. Anche l’assenza
di aerei da caccia appare, considerata la consistenza delle forze armate degli
Stati vicini nonché le buone relazioni diplomatiche esistenti con gli stessi, del
nord) una grave minaccia, i Territori e le Collettività francesi
del Pacifico
fungerebbero piuttosto da retrovia logistico/linea di collegamento secondaria, mentre il peso del conflitto verrebbe sostenuto dalla squadra navale imperniata sulla Charles De Gaulle nonché dalla componente subacquea la
quale, essendo formata da sottomarini a propulsione nucleare, è in grado di
operare anche in teatri così lontani rispetto alle proprie basi [26].
In conclusione il giudizio sul dispositivo militare francese è complessivamente positivo: è sicuramente adeguato rispetto alle attuali minacce (e soprat-
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tutto ragionevole: del resto, qualora dovesse profilarsi (verosimilmente da
tutto, aspetto non secondario, potenziabile in tempi celeri qualora dovesse
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rendersi necessario), è idoneo a svolgere il ruolo di supporto/collegamento
richiesto ed infine è sufficientemente omogeneo in termini di materiali [28],
il che ne agevola il sostegno logistico e la deployability da un teatro all’altro.
Pur tuttavia, nonostante la grande attenzione profusa per garantire elevata
mobilità ed i necessari collegamenti tra territori indiani e pacifici, questi non
sembrano essere sufficienti, motivo per cui la funzione di trait d’union svolta
dall’Australia, che con la sua massa si interpone anche fisicamente, risulta
cruciale. Ma con questo siamo già arrivati al terzo ed ultimo “blocco”.
Nelle pagine precedenti si è più volte avuto modo di sottolineare come l’accordo per
la fornitura di sottomarini all’Australia rappresenti, per durata, oggetto ed importo
della commessa, un fondamentale snodo della politica estera francese. Si è altresì
rilevato come quest’ultima, negli ultimi 10-15 anni, sia stata portata avanti, con
coerenza e la necessaria dose di pazienza, puntando sulla creazione di rapporti privilegiati con l’India e, per l’appunto, con l’Australia. Parigi infatti considera il bacino
indo-pacifico alla stregua di un unico, grande scacchiere [28] nel quale, in considerazione del flusso di merci, risorse energetiche e reti di comunicazioni che vi transitano, si giocano gli equilibri planetari attuali e futuri. Ma qual è dunque, nel concreto, il valore aggiunto che può fornire il deal con l’Australia?
1. In primo luogo esso comporta, per entrambe le parti, un netto miglioramento della rispettiva situazione strategica: per la Francia in particolare l’Australia
costituisce l’anello di collegamento, finora mancante, nella sua catena di possedimenti che, come ampiamente descritto, si snodano su distanze di migliaia di
chilometri lungo l’asse ovest-est nell’Oceano Indiano meridionale prima ed in
quello Pacifico poi. Infatti, per quanto non ci risulti esistere alcuna clausola
nell’accordo siglato che preveda l’eventuale uso da parte francese di porti australiani, il solo fatto di poter contare sulla presenza di un Paese e di una flotta
amica, è condizione sufficiente per Parigi per poter ritenere sicura la rotta meridionale. Analogamente, per l’Australia, in special modo nell’ipotesi in cui le tensioni nel Mar Cinese Meridionale dovessero acuirsi [29] mettendo a rischio le
Sea Lines Of Communications (SLOC) ivi transitanti, l’alleanza con la Francia
assicura la disponibilità di vie di comunicazione praticabili – per quanto defilate
– sia verso occidente (Suez e/o Capo di Buona Speranza) che verso oriente, in
sabitata e priva di infrastrutture) a fungere quasi da sentinella al canale di Panama [30].
2. Un secondo vantaggio consiste nel fatto che, nel momento in cui si rafforza
militarmente l’Australia fornendole la nuova classe di sottomarini, la posizione
di Parigi diviene parallelamente più sicura; in particolare la capacità dei Barracuda di effettuare missioni oceaniche della durata di parecchie settimane va a
supportare la Royal Australian Air Force (RAAF) in quello che è uno dei suoi
compiti primari, ovverosia quello di controllare le rotte di approccio all’Australia,
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direzione del continente americano, con Clipperton (per quanto attualmente di-
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qualunque ne sia la provenienza: dall’Oceano Indiano, dal Mar di Giava oppure
dal Pacifico Centrale [31]. Il controllo degli “accessi” all’Australia è infatti funzionale all’obiettivo, al contempo tattico e strategico, di preservare la massa
continentale australiana, l’unica che, in caso di discesa da nord di una potenza
ostile, è in grado di fungere da retrovia logistico per l’intero scacchiere del Pacifico meridionale (Dipartimenti e Collettività francesi inclusi) fornendogli nel contempo la necessaria profondità difensiva. Superfluo evidenziare come le forze
navali francesi potrebbero tranquillamente inserirsi in questo dispositivo militare, in virtù non solo della stretta collaborazione – industriale ma anche in termini di trasferimento di know-how e di pratiche operative – che necessariamente deriverà dal fatto di lavorare fianco a fianco sul progetto Barracuda, ma anche del fatto che la Francia è già direttamente coinvolta in molti dossier riguardanti la sicurezza e la difesa.
3. Infatti il terzo elemento che balza agli occhi è l’ulteriore rafforzamento politico della Francia, la quale come poc’anzi anticipato risulta ben inserita nei principali meccanismi di cooperazione/dialogo regionali. Tra questi sono da ricordare almeno i seguenti: a) il FRANZ, che vede Francia, Australia e Nuova Zelanda
impegnati nello scambio di informazioni per meglio utilizzare asset e mezzi in
caso di cicloni ed altri disastri naturali; b) il Quadrilateral Defence Coordinating
Group Talks (QUAD), che riunisce, oltre ai tre Paesi partecipanti al FRANZ, anche gli Stati Uniti con l’obiettivo di coordinare gli sforzi relativamente alla sicurezza ed alla sorveglianza marittima; c) il Pacific Island Forum (PIF), organismo
che riunisce 16 Stati sovrani del Pacifico (ma anche, con lo status di membri
associati, la Nuova Caledonia e la Polinesia francese) ed ha come fine statutario
quello di «stimulate economic growth and enhance political governance and security for the region, through the provision of policy advice; and to strengthen
regional cooperation and integration» [32]; d) l’Inter-American Tropical Tuna
Commission (IATTC), al quale compete la definizione delle politiche di conservazione e gestione delle (enormi) risorse ittiche e marine del Pacifico orientale.
Appare superfluo rilevare come Parigi, in virtù di una visione strategica convergente
e dei comuni interessi politici, economici e militari esistenti con Canberra, possa
ambire a far valere di più il proprio peso come “potenza” del Pacifico; inoltre il rafvore gli equilibri esistenti in seno ai numerosi organismi multilaterali presenti
nell’area ed in particolare, tra quelli citati, FRANZ e QUAD. A tal riguardo fondamentale, in quanto ago della bilancia, sarà l’atteggiamento che verrà assunto nei prossimi anni dalla Nuova Zelanda: infatti qualora il governo di Wellington dovesse a
sua volta rinsaldare i propri legami con quelli francese ed australiano, il quadro
strategico complessivo di questi tre Stati ne trarrebbe gran beneficio, in virtù da un
lato del positivo apporto di “massa critica” fornito dalla Nuova Zelanda, dall’altro
dell’ulteriore protezione delle più volte ricordate linee di comunicazione [33]. Non
Research Paper, N°51– gennaio 2017
forzamento dell’asse franco-australiano potrebbe consentire di mutare a proprio fa-
meno rilevante sarebbe l’accresciuta influenza nel Pacifico centrale giacché è pro12
prio qui che le Collectivité ed i Department francesi, insieme ai possedimenti neozelandesi, si andrebbero a saldare a quelli statunitensi che, a partire dalle isole Samoa, si snodano verso nord (dove nell’ordine incontriamo le isole Jarvis, Baker ed
Howland, l’atollo Johnston e l’isola di Midway [34]) andando a realizzare una sorta
di cintura “contenitiva” nei confronti delle ambizioni oceaniche cinesi. Riguardo a
queste ultime bisogna infatti ricordare come presso i teorici militari cinesi sia prevalente la tesi che l’area entro la quale la marina militare cinese (PLAN) debba esercitare la sua strategia dell’offshore defence sia delimitata da quella che viene definita
la second island chain, vale a dire quella linea immaginaria costituita nell’ordine,
procedendo da nord verso sud, dagli arcipelaghi delle Bonin, delle Marianne,
dall’isola di Guam e delle Caroline [35]. Ebbene, uno sguardo alla carta geografica è
sufficiente per individuare proprio nei possedimenti francesi, ed in particolare nella
Nuova Caledonia ed in Wallis e Futuna, il perno dell’intera impalcatura: ad ovest sta
l’Australia, a nord si sviluppa la cintura difensiva sopra descritta, a sud in funzione
di retrovia troviamo la Nuova Zelanda. Ancora una volta dunque emerge il ruolo
della Francia come imprescindibile player regionale, alla quale non solo l’Australia
ma anche gli Stati Uniti devono guardare.
Non resta pertanto che formulare, alla luce dei ragionamenti sin qui fatti, un giudizio in merito alla politica indo-asiatica della Francia con un occhio di riguardo alla
Research Paper, N°51– gennaio 2017
special relationship instaurata con l’Australia ed alle sue molteplici implicazioni.
13
PARTE II
EQUILIBRI E CORSA AL RIAMO
NELL’AREA DELL’INDO-PACIFICO
Sicuramente si può affermare, ragionando a livello generale, che la scelta di puntare su alleanze bilaterali “mirate” con l’India e con l’Australia sta dando i suoi frutti in
termini non solo di ritorni economici e di influenza politica ma anche di miglioramento della propria situazione strategica in uno scacchiere peraltro in rapido mutamento.
La manifestazione più tangibile di tale trasformazione è, oggigiorno, rappresentata
dalla corsa al riarmo (in special modo nel settore navale [36]) che sta coinvolgendo
praticamente tutti gli Stati dell’area. È assai arduo, allo stato attuale, prevedere se
tale fenomeno sia contingente e si fermerà una volta ritrovato un nuovo balance of
power o se, al contrario, diventerà permanente e come tale fonte di tensioni e di
crisi. Ciò che è certo è che esso farà ulteriormente aumentare, nel breve e medio
periodo, l’importanza della Francia come alleato chiave per i propri partner regionali. Numeri alla mano, però, l’apporto di Parigi, per quanto rilevante, non pare essere
risolutivo: ad esempio l’analisi degli stanziamenti per il 2015 nel settore difesa attesta in modo incontrovertibile che la somma dei budget francese (47 miliardi di dollari), indiano (48 miliardi) ed australiano (23 miliardi) è pari a 118 miliardi di dollari, cifra ben lontana dai 145 miliardi stanziati dai cinesi ed a distanza a dir poco siderale dagli Stati Uniti, primi a 597 miliardi. In altri termini, posto che si prenda la
Cina come competitor di riferimento, si rende giocoforza necessario, in prospettiva,
o trovare nuovi alleati oppure, accantonando l’approccio di tipo bilaterale sin qui
privilegiato dal Quai d’Orsay, rispolverare quello multilaterale.
Dovesse essere intrapresa questa seconda strada, fermo restando il ruolo imprescindibile della talassocrazia statunitense, potrebbero dunque rientrare nella partita
Tokyo, come noto, ha accusato il colpo per il mancato affidamento da parte australiana alle proprie industrie del programma AFS ma è chiaramente nell’interesse di
tutte le parti ricucire velocemente lo strappo. Un buon punto di contatto potrebbe
essere rappresentato dalle recenti iniziative avviate dal paese del Sol Levante nel
Pacifico Centrale: qui infatti Tokyo ha attivato con gli Stati dell’area programmi di
cooperazione nello specifico ambito della polizia marittima con obiettivi in larga parte sovrapponibili a quelli ricercati, più a sud, nell’ambito del QUAD; ecco dunque
che, secondo alcuni analisti, si potrebbe ipotizzare di riunire gli sforzi, senza escludere futuri sviluppi in chiave più strettamente militare [37]. Del resto del Giappone,
Research Paper, N°51– gennaio 2017
altri importanti attori regionali come il Giappone e la più volte citata Nuova Zelanda.
14
con i suoi 41 miliardi di dollari di budget destinati alla difesa [38] (una buona parte
dei quali indirizzati al potenziamento della componente d’altura della propria flotta)
e la sua posizione geografica, a sorvegliare gli sbocchi settentrionali della Cina, è
impensabile poter fare a meno [39].
Venendo alla Nuova Zelanda, bisogna ammettere che l’apporto di Wellington, sia in
termini di asset militari conferiti sia di budget destinato alla funzione difesa, sarebbe assai limitato [40]; piuttosto, come si è già avuto modo di evidenziare,
l’importanza assunta dalla Nuova Zelanda risulta accresciuta, agli occhi di Parigi, in
virtù della sua posizione geografica e del modo pressoché naturale con il quale essa
si
inserirebbe
nel
dispositivo
di
sicurezza
francese
nel
Pacifico.
Inoltre
l’impostazione strategica neozelandese è in larga parte sovrapponibile a quella del
Quai d’Orsay: nel Libro Bianco della Difesa 2016, il governo di Wellington afferma a
chiare lettere come il proprio core sia il sud del Pacifico ma senza precludere interventi più a nord, ed in generale nell’area dell’Asia-Pacifico, qualora venissero minacciati gli interessi nazionali; sé infatti pienamente consapevoli del fatto che gran parte della propria prosperità economica deriva dalla crescita dell’Asia, per la quale il
permanere di condizioni di pace e stabilità rappresenta un prerequisito essenziale, e
che oltre la metà del proprio commercio marittimo transita per il Mar Cinese Meridionale [41].
Un ulteriore elemento che dovrebbe, o perlomeno potrebbe, indurre Parigi a rispolverare l’approccio multilaterale è la constatazione che quello bilaterale presenta, a
fianco di innegabili vantaggi, anche dei costi.
Ad esempio spingendo ulteriormente a fondo nei rapporti bilaterali con Australia e
Nuova Zelanda, tanto più se con il fine ultimo di orientare a proprio favore strutture
di cooperazione e dialogo multilaterali quali le citate FRANZ e QUAD, si corre il rischio di scatenare ripercussioni impreviste su altre rodate strutture regionali di cooperazione militare, ANZUS in primis, con conseguente deterioramento della qualità
dei rapporti con gli Stati Uniti, della cui potenza navale è impensabile, allo stato attuale, poter fare a meno.
Analogamente è da chiedersi se il rafforzamento dell’asse franco-australiano, così
tenacemente perseguito, possa portare ad un deterioramento dei rapporti con il Repulati il 2 novembre 2010 da Nicolas Sarkozy e David Cameron con l’obiettivo di
approfondire e rafforzare le rispettive politiche di difesa e di sicurezza mediante
l’utilizzo congiunto di mezzi, infrastrutture e uomini [42].
La questione non è secondaria in quanto da essa dipendono non solo i futuri equilibri nel Pacifico ma anche quelli in Europa, ed impone pertanto di scendere nel dettaglio.
Research Paper, N°51– gennaio 2017
gno Unito, affossando i cosiddetti Lancaster House Treaties, due distinti trattati sti-
15
Il primo trattato mira a costruire «a long-term mutually beneficial partnership in
defence and security» mediante la cooperazione delle rispettive industrie, il trasferimento di tecnologie classificate, l’utilizzo congiunto di uomini, basi e mezzi (in
particolare del fondamentale carrier battle group ovvero del gruppo da battaglia
imperniato sulla portaerei), mentre il secondo si incentra soprattutto sulla cooperazione nel settore nucleare tramite l’utilizzo congiunto dei due centri nazionali di ricerca e sviluppo, vale a dire quello francese di Valduc e quello inglese di Aldermaston. Benché nelle premesse di tali trattati si indichino, come cornici di riferimento,
l’Alleanza Atlantica e l’Unione Europea, anche alla luce delle non celate ambizioni
globali di Londra e Parigi [43], non erano mancati i commentatori che avevano evidenziato come, mettendo insieme le rispettive basi, Regno Unito e Francia venissero a realizzare una catena globale di installazioni militari seconda solo a quella degli
Stati Uniti. Soffermandosi ora esclusivamente sull’area indo-pacifica qui oggetto di
analisi, balza agli occhi come l’apporto britannico sarebbe, per la Francia, estremamente importante: il Regno Unito dispone infatti di basi in Kenya, nel Bahrain e nel
sultanato del Brunei, ai quali vanno aggiunti il Territorio Britannico dell’Oceano Indiano (ovvero l’arcipelago delle Chagos, con l’importante isola-base di Diego Garcia) ed il British Overseas Territory delle Pitcairn [44]. Balza agli occhi come tali basi siano collocate in punti perfettamente funzionali alla strategia di Parigi:
1) la base kenyota di Nanyuki rafforza la presenza nell’Africa Orientale (dove
già si può disporre della base di Gibuti), così come quella navale in Bahrain
(HMS Jufair) fa il paio con quelle francesi negli Emirati Arabi Uniti (al-Dhafra e
Mina Zayed); nel complesso questo primo blocco garantisce adeguata ridondanza di truppe ed asset militari in prossimità del vitale access point gravitante
su Suez;
2) la base di Diego Garcia (dove, come noto, è ospitata pure una importantissima base dell’USAAF) contribuisce a “presidiare” il settore centrale dell’oceano
Indiano, collegandosi alle francesi Reunion e Mayotte;
3) la base interforze britannica (BFB) presente nel Brunei, nei pressi della città
di Seria, assume un ruolo non meno cruciale costituendo essa, dopo il ritorno di
Hong Kong alla Cina (1997), non solo l’estremo avamposto della presenza milinel quale si intersecano le linee di comunicazione che si sviluppano lungo l’asse
est-ovest, in direzione dell’Europa, e lungo quello nord-sud, verso l’Australia
(ed i possedimenti francesi).
4) persino il Territory delle Pitcairn, situato nel Pacifico a circa 2.000 Km ad est
della Polinesia Francese, acquisisce una certa importanza se inserito in una comune catena anglo-francese; esso infatti da elemento completamente scollegato dagli altri territori britannici qual è attualmente [46], diviene di colpo la naturale prosecuzione della catena francese, aumentandone in modo sensibile la
Research Paper, N°51– gennaio 2017
tare britannica in Oriente [45] ma anche un fondamentale presidio in un punto
proiezione in direzione dell’America del Sud.
16
I vantaggi, si badi, sulla carta sono reciproci: infatti se è vero che a) la catena britannica mette a disposizione della Francia una serie di basi e punti d’appoggio nella
ben più trafficata e contesa parte settentrionale dell’Oceano Indiano e che b) essi
fungono nel contempo da schermo protettivo per la “meridionale” catena francese,
non va dimenticato che anche Londra ha, in caso di emergenza, tutto l’interesse di
poter contare su una rotta protetta, per quanto periferica, come quella portata in
dote da Parigi per mantenere aperti i collegamenti, oltre che con le Pitcairn, con i
propri vecchi dominion australiani e neozelandesi.
Appare dunque assai singolare che, nei documenti ufficiali francesi citati in questa
analisi (tutti successivi alla stipula), non si faccia alcun riferimento ai Lancaster
House Treaties, quasi che si voglia evitare di menzionarli.
L’impressione che si ricava da tale atteggiamento è quella di una diffidenza di natura squisitamente politica; del resto va ricordato come da subito vi erano stati coloro
che avevano evidenziato come numerosi fossero gli elementi di debolezza presenti
nei trattati, indicando, quali elementi di reciproca sfiducia, da parte inglese la diffidenza per le mire francesi sull’Unione Europea (acuite dal ritorno di Parigi a pieno
titolo all’interno delle strutture militari della NATO), da parte francese il mai tramontato sospetto che il Regno Unito altro non fosse che il cavallo di Troia di Washington per indebolire dall’interno l’Unione e che Londra fosse stato indotta a
stringere gli accordi di cooperazione militare con Parigi solo perché “costretta” dalle
ristrettezze di bilancio in un momento storico in cui Washington aveva iniziato a disimpegnarsi dall’Europa [47].
Tali spiegazioni contengono probabilmente tutte un fondo di verità ma a nostro modo di vedere il nodo della questione, tale da rendere i trattati deboli, è che essi sono
sì correttamente incentrati sulle capacità ma senza che, a monte, vi sia una visione
strategica in comune che vada al di là dei canonici richiami alla democrazia, ai valori Occidentali da difendere ed all’oramai secolare durata dell’alleanza anglofrancese. In definitiva per il Regno Unito oggigiorno il Pacifico non è una priorità,
come dimostrato dal fatto che le principali forme di cooperazione militare con
l’Australia e la Nuova Zelanda (che, sia detto incidentalmente, nonostante la loro
appartenenza al Commonwealth, a partire dal secondo dopoguerra per le proprie
le attivate nell’ambito del ricordato FPDA, il cui centro di gravità è molto più a nord,
nelle acque del Mar Cinese Meridionale e dello Stretto di Malacca. Al contrario per la
Francia il Pacifico, seppur come abbiamo visto all’interno di una concezione “integrata” con l’Oceano Indiano, è uno scacchiere di primaria importanza, motivo per
cui l’alleanza con il Regno Unito, perlomeno a queste latitudini, è sacrificabile in favore di più stretti legami con l’Australia e, in prospettiva, con la Nuova Zelanda.
Research Paper, N°51– gennaio 2017
esigenze di difesa hanno guardato a Washington piuttosto che a Londra) siano quel-
17
PARTE III
CONCLUSIONI
La sensazione, in altri termini, è che allo stato attuale la Francia continuerà nel suo
approccio bilaterale nonostante esso implichi una maggior frammentazione, che a
sua volta si traduce in debolezza, del complessivo quadro strategico-militare
dell’area Asia-Pacifico rispetto a quello multilaterale, che al contrario permetterebbe
di riunire coerentemente l’asse est-ovest (ruolo del Regno Unito) con quello nordsud (apporto del Giappone). Solo un forte shock esterno, come potrebbe essere una
grave crisi nel Pacificio settentrionale (Cina o Corea del Nord) oppure un radicale
cambio della politica estera statunitense, che come visto finora ha tenuto un atteggiamento neutro se non addirittura benevolo nei confronti della Francia, potrebbe
modificare tale quadro.
Nel frattempo la Francia può iniziare a raccogliere i frutti di quanto sin qui seminato; al riguardo segnaliamo i tre seguenti punti:
1) a Parigi oggigiorno conviene massimizzare i benefici derivanti dalla sua salda
presenza nello scacchiere indo-pacifico estromettendo, nei limiti del possibile,
qualsiasi altro competitor del Vecchio Continente; l’obiettivo è quello di farsi
portavoce unico degli ingenti interessi in quest’area dell’Unione Europea, dettandone in ultima analisi l’intera politica “orientale”;
2) il raggiungimento del punto precedente può rappresentare il primo passo per
procedere ad un generale riequilibrio della guida dell’UE, attualmente basata de
facto sul cosiddetto direttorio franco-tedesco ma, nel concreto, eccessivamente
sbilanciata a favore della Germania. Il fatto che gli Stati membri siano incapaci
di elaborare una politica estera veramente condivisa, che la posizione tedesca
su molti dossier (gestione dell’immigrazione, rapporti con Turchia, Russia e Cina
[48], lotta allo Stato Islamico, etc.) sia tutt’altro che guardata con favore,
l’uscita del Regno Unito dall’UE a seguito del referendum sulla Brexit sono ulteriori elementi che rendono il momento particolarmente propizio per la Francia;
vedere Parigi, Canberra e Wellington di nuovo cooperare: i territori antartici di
Francia (Terre Adelie), Australia (Territorio Antartico Australiano) e Nuova Zelanda (Dipendenza di Ross) sono infatti tra di loro contigui ed insieme coprono
quasi la metà del continente. La collaborazione tra questi tre Stati può dunque
estrinsecarsi anche in questa direzione, tanto più che le isole e gli arcipelaghi
sub-australi descritti nel corso dell’articolo rappresentano importantissimi punti
d’appoggio e di protezione dei propri interessi nell’estremo sud dell’Oceano Indiano e Pacifico [49].
Research Paper, N°51– gennaio 2017
3) la partita dell’Antartico, da tempo in atto benché sottotraccia, che potrebbe
18
La Francia, riassumendo, unica tra gli Stati europei a detenere posizioni in tutti i
continenti e ad essere munita di un deterrente nucleare (force de frappe) svincolato
da quello statunitense, può sfruttare il consolidamento delle proprie posizioni in
Oriente da un lato per rafforzare il proprio peso all’interno dell’UE, dall’altro per
continuare a coltivare le proprie ambizioni globali, anche in quei teatri, come
l’Antartide, che saranno al centro delle relazioni internazionali negli anni a venire.
La partita dell’indo-pacifico, dunque, non è che una parte di un ben più grande gio-
Research Paper, N°51– gennaio 2017
co e che vede la Francia seduta al tavolo con in mano ottime carte.
19
NOTE ↴
[1] Già Direction des Constructions Navales Services, società di diritto privato a capitale
pubblico.
[2] In sostanza si tratta di una versione dei Suffren francesi con la differenza che la propulsione nucleare viene sostituita da una Air Indipendent Propelled (AIP), che consente ugualmente elevata autonomia (18mila km ca.) e prolungati periodi di immersione con una bassissima segnatura radar, rispettando dunque i requisiti australiani di sottomarini “discreti” e con
capacità oceaniche.
[3] Secondo alcune fonti, invece, almeno il primo dei due sottomarini verrà realizzato in
Francia, dove i primi lavoratori specializzati australiani saranno inviati per acquisire il necessario know-how. Vedi J. Kerr, Capability drives Australian submarine choice, IHS.
[4] Vedi P. Karp, France to build Australia’s new submarine fleet as $50bn contract awarded,
The Guardian, april 26, 2016.
[5]
Vedi
il
comunicato
stampa
ufficiale:
Future
Submarine
Program,
http://www.malcolmturnbull.com.au/media/future-submarine-program.
[6] Vedi Sottomarini australiani: il trionfo di DCNS, AnalisiDifesa, 27 aprile 2016.
[7] Queste riflessioni, così come quelle che seguono, sono tratte, salvo diversa indicazione,
da The Submarine choice. Perspectives on Australia’s most complex defence project, interessantissima pubblicazione a cura dell’ASPI (Australian Strategy Policy Institute) del settembre
2014 interamente dedicata proprio al programma AFS con interventi – oltre a quelli di studiosi ed analisti – dei vertici politici, militari ed industriali delle nazioni interessate dal programma. In particolare si veda il contributo di B. Schreer, The alliance dimensiono of Australia’s future submarine, Strategy, Australian Stragegic Policy Institute (ASPI), September
2014, pp. 45-49.
[8] Questo vuol dire che i primi Barracuda potrebbero differire sensibilmente dagli ultimi; da
notare come tale “dinamicità” del progetto, per quanto necessaria, costituisca un ulteriore
fattore
di
incertezza
ca.
tempi
e
costi
di
realizzazione
nonché
vada
a
discapito
dell’omogeneità della flotta.
cit. n. 8, p. 13. A p. 53 si sottolinea come non sia solo Andrew Davies ad essere di tale avviso, poiché anche secondo l’ex ammiraglio Jonathan Greenert (all’epoca Chief of Naval Operation dell’US Navy) «the rapid expansion of computing power … ushers in new sensors and
methods that will make stealth and its advantages increasingly difficult to maintain above
and below the water».
[10] Vedi The Shortfin Barracuda Block 1A, DCNS Group.
[11] Op. cit., n. 3.
Research Paper, N°51– gennaio 2017
[9] A. Davies, Trends in submarine and antisubmarine warfare, in The submarine choice, op.
20
[12] Vedi France and security in the Asia-Pacific, Ministère del a Defense, Directorate Generalfor International Relations and Strategy, June 2016, p. 1.
[13] Questo in virtù della presenza delle ultime vestigia dell’impero coloniale francese, attualmente organizzate dal punto di vista amministrativo in Département d’Outre-mer (DOM),
Collectivité d’Outre-mer (COM) e Territoire d’Outre-mer (TOM). Non è questa la sede per dilungarsi sulle differenze giuridiche esistenti tra queste tre macrocategorie, tanto più in considerazione del fatto che spesso e volentieri ogni singolo dipartimento, collettività e territorio,
nel rispetto delle specifiche tradizioni locali, si è dotato di statuti sui generis. Per un’analisi
maggiormente dettagliata dei vari “possedimenti” francesi nello scacchiere indo-pacifico vedi
oltre.
[14] France and security in the Asia-Pacific, op. cit., p. 1.
[15] Ibid., p. 2.
[16] Giuridicamente si tratta di un Territorio d’Oltremare (TOM) composto da cinque dipartimenti (delle Isole Sparse, di Crozet, di Saint-Paul ed Amsterdam, di Kerguelen e di Terre
Adélie), peraltro dotati di elevata autonomia amministrativa e finanziaria. Da segnalare come
dal punto di vista geografico l’ultimo distretto (Terre Adélie) non sia un’isola bensì una delle
porzioni in cui con il Trattato di Washington del 1959 è stato suddiviso l’Antartico. Complessivamente tali territori conferiscono alla Francia una Zona Economica Esclusiva di oltre
2.300.000 Km². Vedi http://www.taaf.fr/Presentation-generale-des-TAAF.
[17] Per ulteriori dati si rinvia alle esaurienti schede presenti nel sito del Ministero
dell’Oltremare: http://www.outre-mer.gouv.fr/?-decouvrir-l-outre-mer-.html.
[18] L’uso, nel passaggio di Le Drian poc’anzi citato, dei verbi “rooted” ed “anchored” è al riguardo emblematico. In effetti i possedimenti francesi, relegati nell’estremo sud dell’Oceano
Indiano e nel settore sud-est di quello Pacifico, non intercettano né la fondamentale rotta
mercantile che da Suez si snoda sottocosta verso il Golfo Persico e, di qui, verso l’Estremo
Oriente né quella che, dai porti sul Mar Cinese Meridionale, si addentrano nel Pacifico Centrale in direzione della costa occidentale degli Stati Uniti.
[19] Relativamente ai rapporti con l’India va osservato come, nonostante essi datino oramai
a più di un decennio e siano incentrati su quattro settori delicatissimi (cooperazione nella
tecnologia nucleare ad uso civile, spazio, attività di controterrorismo e difesa) e si riverberino
in lucrosi contratti per le aziende francesi, non siano poi così idilliaci e dal punto di vista polipetizione latente per l’influenza sugli arcipelaghi dell’Oceano Indiano centrale (Comore, Maldive, Mauritius). Queste frizioni, si badi, non hanno finora dato luogo a prove di forza ma si
sono manifestate sotto forma di dispetti e di screzi (ad es. rinvio delle esercitazioni militari
congiunte oppure ritardi nella stipula dei contratti relativi alle forniture di armamenti). Vedi
Isabelle Saint-Mézard, The French Strategy in the Indian Ocean and the Potential for IndoFrench Cooperation, RSIS, Policy Report, March 2015, e Vivek Raghuvanshi, France Imposes
New Conditions on Rafale Deal With India, Defense News, July 6, 2016.
Research Paper, N°51– gennaio 2017
tico non stiano dando i frutti sperati. In particolare tra Parigi e New Delhi è in atto una com-
21
[20] La presenza militare francese nel Corno d’Africa data sin dai tempi del dominio coloniale
e non si è interrotta nemmeno con l’indipendenza di Gibuti (peraltro giunta solo nel 1977, a
riprova di come la Francia fosse restia nel concederla) mentre quella negli Emirati Arabi Uniti
è decisamente più recente, basandosi su di un accordo siglato nel gennaio 2008, a testimoniare l’esplicita volontà di Parigi di potenziare il proprio ruolo di potenza regionale.
[21] Come si vedrà meglio più avanti, la stessa alleanza con l’Australia può essere vista come funzionale all’obiettivo di “accorciare le linee” tra un territorio e l’altro.
[22] In questo articolo sono stati utilizzati i dati forniti nel citato (vedi n. 13) documento
France and security in the Asia-Pacific, pp. 10-14, in quanto assai più aggiornati rispetto a
quelli
presenti
all’interno
del
sito
del
Ministero
della
Difesa,
http://www.defense.gouv.fr/ema/forces-prepositionnees, dal quale pure si attingerà in taluni
casi.
[23] La componente ad ala fissa è costituita da 2 aerei da trasporto tattico CASA CN-235 e
da altrettanti pattugliatori marittimi Dassault Falcon 20; più incerta invece la composizione
dei velivoli ad ala rotante, che dovrebbe basarsi su 2 Puma e su 2 oramai vetusti S316
Alouette III imbarcati nelle fregate.
[24] Vedi il documento National Strategy for the Security of Maritime Areas.
[25] Anche sotto questa luce può essere letta la «relazione privilegiata» con l’Egitto di alSisi, sancita dagli accordi politici ed economici (non mancano ovviamente cospicui contratti di
forniture militari, n.d.r.) del 17 e 18 aprile scorsi. Vedi M. Colombo - G. Dentice, Accordi
Egitto-Francia: una vittoria per l’Arabia Saudita, ISPI Commentary, ISPI, 21 aprile 2016.
[26] Attualmente la Francia dispone di 4 sottomarini a propulsione nucleare in grado di lanciare missili armati con testate nucleari (uno dei quali perennemente in mare al fine di assicurare la cd. capacità di second strike), inquadrati nella Force Océanique Stratégique (FOST)
e basati presso Brest, e di 6 sottomarini nucleari d’attacco classe Rubis di stanza a Tolone.
Sono proprio questi ultimi i battelli che verranno progressivamente sostituiti dai Barracuda
(la versione francese, ricordiamo, prevede la propulsione nucleare in luogo di quella dieselelettrica
dei
sottomarini
australiani).
Vedi
http://www.defense.gouv.fr/marine/organisation/forces/forces-sous-marines/la-forceoceanique-strategique-de-la-marine-nationale.
[27] In particolare è degno di nota che tutte le fregate appartengano alla medesima classe
tempo si sarebbero definite “coloniali”. Anche per quanto riguarda le linee di volo (aerei ed
elicotteri) si è visto come vi sia una opportuna razionalizzazione su pochi modelli.
[28] A riguardo vi è, peraltro, piena unità di vedute con Canberra: nel 2016 Defence White
Paper, un documento di 191 pagine pubblicato dal Department of Defence australiano, il
lemma “indo-pacific” ricorre ben 68 volte! A quest’area, inoltre, è pure dedicato uno specifico
paragrafo (p. 70) nel quale gli estensori del paper affermano sic et simpliciter come «Our
third Strategic Defence Interest is in a stable Indo-Pacific region». Vedi il documento relativo
al Libro Bianco della Difesa 2016. Oltre agli interessi strategici comuni, giova qui ricordare
Research Paper, N°51– gennaio 2017
Floreal, realizzate proprio sulla scorta di requisiti operativi e di specifiche esigenze che un
22
come a fungere da collante sia, riprendendo le parole del Ministro Le Drian, pure la condivisione dei medesimi “valori democratici”.
[29] Il recente arbitrato emesso dalla Corte Permanente dell’Aja, pur avendo stabilito che
Pechino non ha basi storico / legali per avanzare pretese nell’arcipelago delle Spratly (nella
fattispecie nei confronti delle Filippine), non pare aver affatto posto fine alla disputa territoriale in oggetto. La Cina, irritatissima, prosegue infatti nella costruzione di installazioni militari (aeroporti, stazioni radar, etc.) ed il Vietnam, per tutta risposta, ha posizionato batterie
lanciamissili nelle isole dell’arcipelago sotto il suo controllo. Vedi L. Cochrane, South China
Sea: Vietnam moves rocket launchers to disputed Spratly Islands: report, ABC News, August
10, 2016.
[30] Da segnalare come alcuni territori australiani risultino pressoché complementari rispetto
a quelli francesi ed in quanto tali in grado di fornirsi, qualora la situazione lo richiedesse, reciproco supporto: ad es. nell’estremo sud dell’Oceano Indiano troviamo le isole Heard e
McDonald, poste a circa 500 Km a sud-est dell’isola di Kerguelen, mentre nel Pacifico vi sono
le isole di Lord Howe e, soprattutto, di Norfolk, con quest’ultima situata praticamente a metà
strada tra la Nuova Caledonia e la Nuova Zelanda.
[31] Non a caso la RAAF dispone, all’occorrenza, di basi e/o di infrastrutture aeroportuali sulle isole Cocos e di Natale, situate in pieno Oceano Indiano a sud di Sumatra, così come in
quella di Norfolk nel Pacifico, fino a quella avanzata di Butterworth, sull’isola di Penang, in
Malesia. La disponibilità di quest’ultima base deriva dalla partecipazione di Canberra, assieme
a Regno Unito, Nuova Zelanda, Singapore ed appunto Malesia, al Five Power Defence Arrangements (FPDA), una serie di accordi multilaterali stretti nel 1971 con l’obiettivo di rafforzare
la difesa collettiva (benché in modo non vincolante) degli Stati membri e di avviare consultazioni in caso di aggressioni o minacce ai danni di qualcuno di essi.
[32] Vedi http://www.forumsec.org/pages.cfm/about-us/mission-goals-roles/.
[33] Relativamente a quest’ultimo aspetto sono da ricordare: a) nella fascia subantartica gli
arcipelaghi (disabitati) delle Antipodi, Auckland, Bounty, Campbell e Snares, b) in direzione
del Pacifico meridionale (e dell’America del Sud) quello delle isole Chatham mentre c) nel Pacifico centrale quelli delle isole Kermadec (ca. 1000 Km a sud di Tonga) e del territorio di Tokelau (a nord delle Samoa americane). Da segnalare infine, per completezza, come alla Nuova Zelanda competa anche la difesa degli stati in libera associazione delle isole Cook e di
Niue.
l’isola di Guam, territori non incorporati degli Stati Uniti.
[35] Secondo altri strateghi cinesi l’estensione della second island chain dovrebbe abbracciare pure l’isola di Diego Garcia, nell’oceano Indiano, in modo da far ricadere al suo interno
praticamente tutte le SLOC transitanti per l’area! Invece per altri ufficiali della PLAN, più
pragmaticamente, la second island chain va individuata in funzione del raggio d’azione degli
aerei basati a terra e dei mezzi anti-som. Per approfondimenti si veda l’interessantissimo
People's Liberation Navy - Offshore Defense, Global Security.org.
Research Paper, N°51– gennaio 2017
[34] Ricordiamo come, ad ovest di questa linea, si trovino pure le Marianne Settentrionali e
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[36] I sottomarini, che per molte marine minori rappresentano le proprie capital ship, sono al
centro di molti piani di riarmo. Vedi E. Groll - D. De Luce, China Is Fueling a Submarine Arms
Race in the Asia-Pacific, Foreign Policy, August 26, 2016.
[37] Vedi A. Bergin, Pacific maritime security—from quad to hexagon, The Strategist, Australian Strategic Policy Institute (ASPI). Le conclusioni cui giunge l’autore sono decisamente
sui generis, proponendo egli di cooptare anche la Cina.
[38] Op. cit. n. 13, p. 6.
[39] Dalla prospettiva cinese, il Giappone rientra, assieme ad isole Curili, Ryukyu, Taiwan,
Filippine ed Indonesia, nella first island chain.
[40] La Nuova Zelanda non figura nemmeno tra i primi nove stati dell’area, sopravanzata
addirittura da Singapore. Vedi France and security in the Asia-Pacific, op. cit. n. 13, p. 6.
[41] Vedi Defence White Paper 2016, New Zealand Government.
[42] I testi dei due trattati sono disponibili, rispettivamente, ai seguenti indirizzi:
https://www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/238153/817
4.pdf
e
https://www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/238226/828
9.pdf.
[43] Tali aspirazioni derivano sicuramente dal fatto di detenere ancora numerosi possedimenti extraeuropei, gloriosi resti dei rispettivi imperi coloniali, con tutte le facilmente immaginabili implicazioni politico-ideologiche; a tali motivazioni va poi aggiunto il fatto che i due
leader dell’epoca, che non a caso di lì a qualche mese sarebbero stati in prima linea l’uno di
fianco all’altro nell’intervento in Libia (marzo 2011), erano fautori di politiche estere particolarmente intraprendenti.
[44] Quest’ultimo territorio è costituito da quattro isole, Pitacairn, Henderson, Ducie ed Oeno, delle quali solo la prima è abitata da una cinquantina di persone; l’estensione territoriale
è irrisoria (47 Km²) ma, come in altri casi, notevole è l’apporto (perlomeno potenziale) in
termini di sfruttamento della ZEE, ricoprendo essa un’area vasta ben 836.108 Km². Vedi
https://www.researchgate.net/
figure/263394434_fig1_Figure-1-The-Pitcairn-Islands-
Exclusive-Economic-Zone-EEZ-covers-ca-836108-km-2-and.
del citato FPDA (cfr. n. 32), disponga di alcuni dock presso la base navale di Sembawang, a
Singapore.
[46] Ne sia riprova il fatto che l’arcipelago è privo di qualsiasi guarnigione militare e che, nel
documento The Overseas Territories: Security, Success and Sustainability, pubblicato nel
giugno 2012 a cura del Foreign and Commonwealth Office, non si faccia riferimento alcuno
all’importanza strategico-militare dell’Oceano Pacifico, diversamente da altri scacchieri come
l’Oceano Indiano e soprattutto l’Atlantico meridionale (dove nell’ordine le isole di Sant’Elena,
Tristan de Cunha, Ascension e Falkland costituiscono la premessa, logistica e militare, per
Research Paper, N°51– gennaio 2017
[45] Perlomeno di quella “ufficiale”: bisogna infatti ricordare come la Royal Navy, nell’ambito
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qualsiasi tentativo di sfruttamento dell’Antartico). Questo interessante documento è consultabile
al
seguente
URL:
https://www.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/14929/otwp-0612.pdf.
[47] Vedi B. Gomis, Franco-British Defence and Security Treaties: Entente While it Lasts?,
Programme Paper: ISP PP 2001/01, Chatham House, March 2011.
[48] Da evidenziare come l’approccio di Berlino alle questioni “orientali” differisca radicalmente da quello tradizionale, procedendo esso per linee interne (terrestri) in luogo di quelle
esterne, basate sui collegamenti marittimi. Vedi L. Canali, Il triangolo Cina - Russia - Germania, Limes-Rivista italiana di Geopolitica, 8/14, 7 agosto 2014.
[49] La proposta, relativa alla realizzazione di un’area marittima protetta, presentata qualche
tempo fa in seno alla Commission for the Conservation of Antarctic Marine Living Resources
(CCAMLR) proprio da Francia, Australia ed Unione Europea (con la Cina, sia detto per inciso,
A cura di
OSSERVATORIO DI POLITICA INTERNAZIONALE
Ente di ricerca di
“BLOGLOBAL-LO SGUARDO SUL MONDO”
Associazione culturale per la promozione della conoscenza della politica internazionale
C.F. 98099880787
www.bloglobal.net
Research Paper, N°51– gennaio 2017
fortemente contraria), potrebbe rappresentare una sorta di prova generale.
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