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Approfondimento
La mostra collettiva come opera
Il modo di concepire le esposizioni mutò
profondamente negli anni Sessanta: non più
solo rassegne informative senza un tema e
senza connessioni significative fra le opere
proposte, ma momenti dotati di una coerenza interna spesso garantita da un curatore o da uno o più artisti-leader.
Data l’innovatività dei loro metodi, molti artisti – soprattutto a New York – iniziarono
a organizzare mostre nei propri loft, come
quello condiviso da Yoko Ono e George Maciunas. Altri cercarono di ottenere dai galleristi più illuminati degli spazi non tradizionali,
e questo accadde in tutto l’Occidente: se
nel 1968 Leo Castelli accettò di affittare uno
scantinato (passato alla storia come il Leo
Castelli Warehouse) per consentire a Robert
Morris di organizzarvi l’esposizione Nine (il
titolo allude ai nove artisti che vi esposero,
f. 1), nello stesso periodo il gallerista italiano
Fabio Sargentini (1939) cercò insieme all’artista Pino Pascali un garage che poi, dopo
la morte prematura di quest’ultimo, aprì le
porte al pubblico con l’ironico nome L’Attico.
Questi luoghi avevano il pregio di adattarsi
a operazioni quali lo “splashing” di Richard
Serra (gettare metallo fuso contro un angolo
di una stanza per poi farlo raffreddare, 1968,
f. 2) o l’esposizione da parte di Jannis Kounellis di cavalli vivi come memoria rinnovata
della statuaria equestre (1969, f. 3).
Questa vocazione si incrociò con la pratica, messa in atto già dal 1955 dal critico
svedese Pontus Hultén (1924-2006, dal
1977 primo direttore del Centre Pompidou di Parigi), di dedicare le mostre a temi
particolarmente attuali: celebre la collettiva Le Mouvement presso la galleria
di Denise René a Parigi nel 1955 sull’Arte
Cinetica, Programmata e Optical. Se negli
anni Cinquanta il filo conduttore era stato
In alto: Fig. 1 Eva Hesse,
Replica Diciannove III, 1968.
Fibra di vetro e resina poliestere,
19 elementi, h. da 48 a 51 cm ciascuno; diam.
da 27,8 a 32,2 cm ciascuno.
New York, Museum of Modern Art.
Al centro: Fig. 2 Richard Serra,
Splashing, 1968. Fotografia della performance a
New York, Leo Castelli Warehouse.
Le opere di Hesse e di Serra furono presentate
per la prima volta alla mostra Nine at Leo Castelli,
organizzata nel 1968 a New York nel Leo Castelli
Warehouse, un magazzino affittato per l’occasione dal gallerista newyorkese.
In basso: Fig. 3 Jannis Kounellis,
Senza titolo, 12 cavalli, 1969. Installazione.
Roma, Galleria L’Attico.
Negli spazi espositivi della galleria L’Attico in via
Beccaria a Roma, gestita da Fabio Sargentini,
Kounellis riunì dodici cavalli vivi, ospitati come
fossero in una stalla.
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© Istituto Italiano Edizioni Atlas
Fig. 4
When Attitudes Become Form,
Berna, Kunsthalle, 1969.
La sala dedicata a Mario Merz,
Robert Morris, Barry Flanagan
e Bruce Nauman, al centro
Barry Flanagan.
Fig. 5
When Attitudes Become Form,
Berna, Kunsthalle, 1969.
Alighiero Boetti durante
l’allestimento delle sue opere.
il movimento, negli anni Sessanta la questione
cruciale divenne l’aspetto processuale: l’attenzione non si dirigeva tanto e solo all’opera come
risultato finito, ma anche alla dimostrazione di
un metodo, di un sistema operativo. Molti artisti utilizzavano materiali inconsueti come il gas,
la luce al neon, la cera o altri elementi naturali
lasciati grezzi. Seguendo lo spirito del proprio
tempo, Wim Beeren (1928-2000) dello Stedelijk
Museum di Amsterdam aprì la mostra Op Losse Schroeven: Situaties en Cryptostructuren
(Square Pegs in Round Holes: Structures and
Cryptostructures, 1969), dove raccolse un archivio sulle nuove pratiche e opere di autori quali
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Joseph Beuys, Jan Dibbets, Richard Long, Bruce
Nauman e Mario Merz.
Harald Szeemann (1933-2005) della Kunsthalle
di Berna inaugurò una settimana dopo un’esposizione dagli intenti molto simili: Live in Your Head
– When Attitudes Become Form (Berna, ff. 4
e 5) in cui il curatore svizzero insistette sul carattere transitorio delle opere. Una transizione che
andava anche considerata come un momento di
trasformazione alchemica della realtà, quale l’arte
si propone di essere, portando gli atteggiamenti mentali a materializzarsi in forme e opere. La
mostra di Berna raccolse una sessantina di protagonisti delle correnti minimalista, concettuale,
antiform, arte povera, includendo anche musicisti
quali Philip Glass e Steve Reich. Tra i partecipanti
italiani ricordiamo Giovanni Anselmo, Pier Paolo
Calzolari, Paolo Icaro, Mario Merz, Pino Pascali,
Emilio Prini, Gilberto Zorio.
Queste due ultime esposizioni sono state ritenute
talmente importanti da essere nuovamente allestite in tempi recenti (rispettivamente nel 2011 e
2013); hanno, infatti, portato a compimento una
concezione innovativa dell’esporre, cioè della
mostra collettiva come opera polifonica a cui
partecipano artisti e curatori. Vi si riconoscono
alcuni aspetti: la scelta di un tema sentito come
una chiave di lettura del presente; la partecipazione diretta degli artisti alla progettazione
e all’allestimento; la figura del curatore non solo
come coordinatore nell’organizzazione, ma anche come colui che coagula il tema e allestisce
un display che lo ponga in risalto. L’esposizione
si propone quindi come un discorso articolato,
un’asserzione composita e complessa, che prende spunto dalla storia presente e che, al pari di un
testo filosofico, non ha come prima finalità quella
di gratificare il pubblico, ma di aprire interrogativi
su temi primari dell’esistenza.
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