Transcript AIN Novara

Newsletter
N° 75 Gennaio 2014
Trifirò & Partners Avvocati
“Jobs Act”: cosa ne penso?
Diritto del Lavoro
Attualità 2
Le Nostre Sentenze 4
Cassazione 7
Diritto Civile,
Commerciale,
Assicurativo
Le Nostre Sentenze 8
Assicurazioni 9
Il Punto su 10
Eventi 12
R. Stampa 13
Contatti 14
N°75 Gennaio 2014
Al di là del termine che evoca legislazioni di altri Paesi (ma l’Italia non era
una volta “la culla del diritto”?), resta il fatto che, se alle parole
seguiranno i fatti, avremmo finalmente una importante svolta nel nostro
diritto del lavoro. A mio avviso, tuttavia, occorre un “reset” di quanto fin
qui si è accumulato e stratificato in un groviglio inestricabile di leggi,
leggine, regolamenti, circolari che un Legislatore, incolto e incompetente,
nonché le molteplici Amministrazioni dello Stato ci hanno fin qui
propinato. Senza un “reset” non si va da nessuna parte e si rischia di
aggiungere confusione a confusione. “Resettare” dovrebbe essere,
dunque, la parola d’ordine.
Ben venga, tuttavia la “semplificazione” delle norme (altri Governi hanno
in precedenza predicato, a vuoto, la “delegificazione”). Ben venga un
codice del lavoro. Ma, per carità, non si proponga “un codice del lavoro
che racchiuda e semplifichi tutte le regole attualmente esistenti”.
Le regole esistenti non vanno racchiuse: vanno in massima parte
eliminate. Dovrebbe essere data prevalenza ai contratti che prevedono il
lavoro autonomo nell’ambito dell’impresa. Dovrebbe essere data,
nell’ambito del lavoro subordinato, la prevalenza al contratto a tempo
indeterminato (così da dare fiducia e motivazione ai giovani: con
progressioni di carriera ed economiche in base al merito), ma con
possibilità di risoluzione per giustificato motivo tipizzato (sì da non
impantanarsi nelle aule giudiziarie alla mercé di un Giudice che tuttavia
“rispetta la legge”. La Legge, infatti, (la “beneamata” Fornero!) consente
al Giudice di poter condurre “il giudizio nel modo che ritiene più
opportuno”, vanificando così anche l’opera dell’Avvocato. Il contratto a
tempo determinato andrebbe limitato a casi specifici. Andrebbe
soprattutto incoraggiato il lavoro autonomo affinché i giovani possano
essere stimolati a lanciarsi in nuove intraprese: liberi dal giogo delle
opposte Organizzazioni Sindacali e Datoriali.
Un ultimo rilievo: i posti di lavoro non si creano per decreto; né si
mantengono in vita le Aziende con i sussidi. È necessaria, come tutti
dicono, la crescita. Ma non si cresce se ogni sera, quando torni dal
lavoro, uno Stato canaglia infila, con destrezza, nella tua tasca la sua
mano vorace per sottrarti oltre il 65% di quanto hai faticosamente
guadagnato.
Salvatore Trifirò
Comitato di Redazione: Francesco Autelitano, Stefano Beretta, Antonio
Cazzella, Teresa Cofano, Luca D’Arco, Diego Meucci, Jacopo Moretti,
Damiana Lesce, Luca Peron, Claudio Ponari, Vittorio Provera, Tommaso
Targa, Marina Tona, Stefano Trifirò e Giovanna Vaglio Bianco
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Lavoro somministrato: la violazione dei limiti numerici ha effetto
sulla disciplina del licenziamento per i dipendenti dell’utilizzatore
A cura di Damiana Lesce
Nella disciplina sul lavoro somministrato di cui al d.lgs. 276/2003, oltre ai casi di nullità del contratto di
somministrazione privo di forma scritta, o di somministrazione fraudolenta, è contemplata la possibilità di
costituzione del rapporto lavorativo in capo all’utilizzatore nell’ipotesi di somministrazione irregolare che
si verifica: i) nei casi di contratto di somministrazione concluso da un soggetto privo di autorizzazione, o
senza che ne siano indicati gli estremi; ii) nei casi di inosservanza delle ragioni giustificative per la
somministrazione a termine; iii) nei casi in cui si prescinda dalle esigenze indicate all'art. 20, comma 3 o
di mancata indicazione delle stesse nel contratto; iv) per la somministrazione a tempo indeterminato, nei
casi di violazione dei limiti quantitativi indicati dalla contrattazione collettiva (cd. clausole di
contingentamento); v) in caso di mancata indicazione di eventuali rischi per l’integrità e la salute del
lavoratore; vi) quando nel contratto manchi l’indicazione della data di inizio e della durata prevista.
Ferma restando la disciplina di cui sopra, la Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 26654 del
28 novembre 2013, ha posto in rilevo una diversa ed ulteriore conseguenza della violazione della
normativa in materia di somministrazione di lavoro. L’art. 20, comma 4, d.lgs. 276 del 2003 rimette ai
contratti collettivi nazionali di lavoro la individuazione dei limiti quantitativi di utilizzazione della
somministrazione a tempo determinato. Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha
affermato che il superamento del limite numerico di ricorso al lavoro somministrato stabilito dalla
contrattazione collettiva e, quindi, la violazione dell’art. 20, comma 4, del d.lgs. 276/2003, impedisce
all’utilizzatore di invocare l’applicabilità dell’art. 22, comma 5, del medesimo decreto legislativo, che
esclude la computabilità del prestatore di lavoro nell’organico dell’utilizzatore ai fini dell'applicazione di
normative di legge, tra cui anche quella in tema di tutela reale conseguente al recesso datoriale. Si legge
nella sentenza che, nel caso in cui il giudice di merito accerti che si tratta di somministrazione
fraudolenta e/o irregolare, l’art. 22 comma 5 non è applicabile e il lavoratore deve essere
necessariamente computato nell’organico dell’utilizzatore.
L’incidenza della violazione, spiega la Corte, si riverbera, a titolo di conseguenza sanzionatoria, sul piano
della disciplina applicabile in caso di recesso intimato a lavoratori diversi da quelli somministrati che
possono beneficiare della tutela reale ove il datore di lavoro abbia contravvenuto alla disposizione che
fissa la soglia del requisito numerico nell'assunzione di lavoratori somministrati.
Il regime della risoluzione del rapporto di lavoro è regolato
esclusivamente dalla legge e non è demandabile alla
contrattazione collettiva
A cura di Antonio Cazzella
Con sentenza n. 27058 del 3 dicembre 2013, la Corte di Cassazione ha esaminato una fattispecie
nella quale una compagnia aerea, non potendo più effettuare il servizio nell’ambito di uno scalo,
aveva concluso un accordo sindacale che prevedeva il passaggio di 38 addetti al predetto scalo
ad altra compagnia aerea.
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A seguito di tale accordo, i lavoratori avevano ricevuto una lettera di licenziamento, impugnato da alcuni
lavoratori in sede giudiziale in quanto non era stata rispettata la procedura prevista dalla legge n.
223/1991 per il licenziamento collettivo.
La Suprema Corte ha evidenziato che, nell’ambito del contratto di lavoro subordinato, l’autonomia
privata si estrinseca essenzialmente nel consenso all’insorgenza del vincolo, mentre il contenuto è quasi
esclusivamente determinato da fonti eteronome (la legge e le c.d. fonti sociali), salva la possibilità di
pattuire condizioni di maggior favore per il prestatore d’opera. Peraltro, i casi in cui la contrattazione
collettiva può derogare a norme imperative rispetto al contratto individuale devono, comunque, essere
espressamente oggetto di una previsione di legge. La Corte ha evidenziato che il nostro sistema
giuridico deve essere interpretato nel senso che l’attività lavorativa subordinata può essere prestata
esclusivamente in conformità delle tipologie contrattuali previste dalla legge, che sono identificate non
sulla base del mero nomen iuris utilizzato dalle parti, ma in base al reale atteggiarsi del rapporto.
Come rilevato dalla Suprema Corte, nel contratto di lavoro a tempo indeterminato, la volontà delle parti
di porre fine egli effetti del rapporto di lavoro può essere attuata soltanto mediante un negozio unilaterale
di recesso (licenziamento o dimissioni), con la conseguenza che, sebbene si sia in presenza di un
contratto a prestazioni corrispettive, non si applica, ad esempio, la disciplina della rescissione, della
risoluzione per eccessiva onerosità, etc.. Pertanto, all’autonomia privata non è consentito l’inserimento
nel contratto di lavoro di clausole di durata del rapporto di lavoro se non nei casi espressamente
consentiti dalla legge e neppure di condizioni risolutive ai sensi dell’art. 1353 c.c. o di condizioni
risolutive espresse ai sensi dell’art. 1456 c.c., in quanto non può essere consentito al datore di lavoro,
attraverso la pattuizione di termini o di condizioni risolutive, di sottrarsi alla disciplina limitativa dei
licenziamenti (individuali e collettivi) o anche, solamente, all’obbligo del preavviso.
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LE NOSTRE SENTENZE
LA SENTENZA DEL MESE
I 270 GIORNI EX L. 183/10 PER IL DEPOSITO DEL RICORSO DECORRONO DAL 24.11.2010 PER I
LICENZIAMENTI INTIMATI PRIMA DI TALE DATA
(Tribunale di Salerno, ordinanza del 12 dicembre 2013)
Un lavoratore licenziato per giusta causa nell’ottobre 2009, dopo aver impugnato il recesso entro il
termine di 60 giorni, adiva il Tribunale di Salerno con ricorso ex art.1, comma 48, L. 92/12
depositato nel settembre 2013. Si costituiva in giudizio la Società eccependo, preliminarmente,
l’inammissibilità del ricorso per intervenuta decadenza sull’assunto che il termine di 270 giorni
previsto dall’art. 32 L. 183/10 (c.d. Collegato Lavoro) per il deposito del ricorso, viste le finalità della
legge stessa, doveva intendersi applicabile anche ai licenziamenti intimati ed impugnati prima del 24
novembre 2010 (data di entrata in vigore del Collegato Lavoro) e con decorrenza da tale data.
Il Tribunale di Salerno, accogliendo integralmente l’eccezione della Società, ha dichiarato
l’inammissibilità del ricorso rilevando che il “il termine di decadenza di 270 giorni, ridotti a 180 dalla
l.n. 92/12, ha incontestabilmente natura processuale e, in quanto tale, è idonea a produrre i propri
effetti fin dalla data di entrata in vigore determinando la decorrenza del termine ivi previsto per
l’esercizio dell’azione giudiziale avente ad oggetto l’impugnativa di licenziamento senza che dal
relativo onere possano ritenersi escluse le azioni relative a licenziamenti intimati in epoca anteriore”.
Il Tribunale ha, altresì, precisato che la tesi prospettata dal lavoratore - secondo cui il termine in
esame trovava applicazione solo per i licenziamenti intimati dopo l’entrata in vigore del Collegato
Lavoro - contrasterebbe “con l’evidente intento del legislatore di garantire la certezza delle situazioni
giuridico - soggettive derivanti dal rapporto di lavoro subordinato entro termini maggiormente
congrui rispetto al termine quinquennale di prescrizione”, nonché con le ulteriori previsioni contenute
nell’art. 32 L.183/10 che non prevedono, in relazione all’applicazione del termine di decadenza di
270 giorni, “una disciplina transitoria in considerazione dell’epoca di intimazione del recesso”.
Infine, Il Tribunale ha anche espressamente escluso la decorrenza del termine di 270 giorni dal 31
dicembre 2011 avendo il c.d. Milleproroghe posticipato, sino a tale data, esclusivamente il termine
per l’impugnazione stragiudiziale, peraltro, limitatamente “alle ipotesi di licenziamento non rientranti
nell’ambito di applicazione dell’art. 6 l. n. 604 nella previgente formulazione”.
Causa seguita da Marina Tona e Francesco Chiarelli
ALTRE SENTENZE
È INEFFICACE L’IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO QUANDO L’AZIONE VENGA PROMOSSA
DOPO 180 GIORNI DALL’INVIO DELLA CONTESTAZIONE STRAGIUDIZIALE
(Tribunale di Milano, 20 dicembre 2013, n. 4709)
Un lavoratore, licenziato per superamento del periodo di comporto, aveva impugnato, in via
stragiudiziale, il recesso nel termine di 60 giorni e, in seguito, presentato ricorso al Giudice.
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Il datore di lavoro, costituendosi, aveva eccepito l’inefficacia dell’impugnazione, sostenendo che l’azione
giudiziaria era stata promossa quando era ormai decorso il “successivo termine di 180 giorni”, stabilito
dall’art. 6, L. n. 604/1966 (come modificato dall’art. 32 del Collegato Lavoro e dalla Riforma Fornero).
Il Tribunale di Milano, investito della vicenda, ha accolto le ragioni dell’azienda, rilevando la decadenza
dall’azione, dopo aver constatato che il ricorso era stato depositato oltre 180 giorni dall’invio della
contestazione stragiudiziale. Infatti - secondo il Tribunale - l’art. 6 citato, laddove stabilisce che
“l’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di 180 giorni dal deposito del
ricorso….”, va interpretato nel senso che detto termine decorre non già dalla scadenza dei 60 giorni
concessi per l’impugnazione stragiudiziale, bensì dalla data dell’invio dell’atto di impugnazione,
individuata, in fattispecie, nella data di invio della raccomandata, coincidente con quella di consegna
all’ufficio postale per la spedizione. Il principio si applica anche al licenziamento per comporto perché il
c.d. Collegato lavoro (art. 32, comma 2) ha esteso l’obbligo di impugnazione - ed i relativi termini - a tutti
i casi di invalidità del licenziamento.
Causa seguita da Marina Olgiati e Andrea Beretta
NEL PUBBLICO IMPIEGO NON SERVE IL NULLA OSTA EX ART. 22 ST. LAV. SE IL DIRIGENTE
SINDACALE È SPOSTATO DI REPARTO
(Tribunale di Busto Arsizio, 3 dicembre 2013, decr.)
Un’organizzazione sindacale ha promosso un procedimento ex art. 28 Stat. Lav., lamentando la pretesa
antisindacalità del comportamento tenuto da un’azienda pubblica, consistente nell’aver spostato un
proprio dirigente da un reparto ad un altro, all’interno della struttura aziendale, senza aver previamente
chiesto (ed ottenuto) il nulla osta di cui all’art. 22 Stat. Lav.. Il Tribunale ha respinto il ricorso proposto
dall’organizzazione sindacale, rilevando che - come già affermato dalla Cassazione con sentenza 15
dicembre 2011 n. 27048 - l’art. 18, quarto comma, dell’accordo quadro del 7 agosto 1998, sottoscritto
anche dal sindacato ricorrente, richiede il nulla osta unicamente per il caso di trasferimento di sede del
dirigente, con conseguente mutamento del luogo di lavoro e non anche nel caso di mero spostamento
di reparto del medesimo, all’interno della stessa struttura aziendale. Il Tribunale ha, altresì, precisato che
tale conclusione è coerente con quanto stabilito dal previgente art. 18, primo comma, Stat. Lav.; ciò in
quanto detta norma - nel far riferimento alla possibile presenza di più unità produttive nell’ambito di uno
stesso Comune - palesava che, per unità produttiva, si deve intendere l’intero ed unico luogo in cui si
trova l’azienda e non un singolo reparto della medesima, come erroneamente preteso dal sindacato
ricorrente.
Causa seguita da Stefano Beretta
ART. 18 SECONDO LA “RIFORMA FORNERO”: LA SUSSISTENZA DEL FATTO COMPRENDE LA
SUA ANTIGIURIDICITÀ E IMPUTABILITÀ AL LAVORATORE
(Tribunale di Milano, ordinanza del 5 dicembre 2013)
L’art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori, come modificato dalla “riforma Fornero”, prevede la
reintegrazione - in ipotesi di licenziamento disciplinare - solo se il fatto addebitato non sussiste, oppure
quando il CCNL di categoria dispone, per tale illecito, una sanzione conservativa. La sussistenza
dell’addebito presuppone l’accertamento sia della materialità della condotta contestata, che della sua
antigiuridicità e imputabilità al lavoratore. Il concetto di condotte punibili con sanzioni conservative ha
una connotazione “rigida”, per cui il licenziamento può ritenersi illegittimo solo laddove, per lo specifico
fatto commesso, è prevista dal CCNL una sanzione conservativa. La pretesa illegittimità del
licenziamento non può, invece, essere desunta a contrario dal fatto che il CCNL non prevede la
condotta addebitata tra quelle per cui è previsto il licenziamento disciplinare.
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L’ordinanza in commento ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa di un lavoratore,
operante nell’ambito della gestione del personale, che - in presenza di colleghi di reparto - ha ingiuriato
un dipendente definendolo “alcolista”, contestandogli di aver chiesto assistenza ad una organizzazione
sindacale per impugnare una sanzione disciplinare (peraltro, pacificamente illegittima) ed esplicitando
l’intenzione di cercare ogni cavillo possibile per licenziarlo. Tale comportamento, oltre che materialmente
commesso, è senz’altro qualificabile come una violazione degli obblighi di legge e di contratto,
imputabile al lavoratore perché posto in essere con coscienza e volontà, e persino con premeditazione.
In particolare, l’ordinanza ha evidenziato che l’epiteto “alcolista” è offensivo, oltre che riconducibile ad un
dato sensibile, e per nulla giustificabile in relazione a problemi di dipendenza avuti nel lontano passato e
ormai risolti. Tanto più se tali problemi sono noti al lavoratore licenziato perché, operando nell’ambito
della gestione del personale, se ne era occupato per gestire una richiesta di aspettativa non retribuita
per ragioni di salute.
Causa seguita da Salvatore Trifirò e Tommaso Targa
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OSSERVATORIO SULLA CASSAZIONE
A cura di Stefano Beretta e Antonio Cazzella
L’INSUBORDINAZIONE NON LEGITTIMA IL LICENZIAMENTO SE È UNA REAZIONE AL
“PRESSING” DEL DATORE
Con sentenza n. 589 del 14 novembre 2013 la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento
di un lavoratore che aveva abbandonato il posto di lavoro dopo un diverbio con la security, originato dal
sospetto di un furto di beni aziendali. Nel caso di specie, il lavoratore era già stato licenziato per un
sospetto furto ed era stato riassunto a seguito di una conciliazione della controversia da lui instaurata
per l’impugnazione del licenziamento. Successivamente, il lavoratore - che svolgeva mansioni di
caposquadra - si è trovato ad essere soggetto ai controlli interni da parte dei suoi ex sottoposti, entrati a
far parte della sicurezza interna. Con specifico riferimento ai fatti di causa, è accaduto che la sirena di
segnalazione si sia attivata al passaggio del lavoratore, che aveva indosso solo un piccolo marsupio; la
security ha chiesto al lavoratore di poter effettuare una perquisizione, posto che l’azienda produce piccoli
meccanismi di precisione, che ben potevano essere nascosti in un borsello; il lavoratore si è però
allontanato senza consentire l’ispezione. La sanzione del licenziamento è stata tuttavia ritenuta
sproporzionata, nonostante l’esistenza di precedenti sanzioni disciplinari per abbandono del posto di
lavoro e per utilizzo personale del computer aziendale.
LICENZIAMENTO DISCIPLINARE PER OMESSA COMUNICAZIONE DEL DOMICILIO
TEMPORANEO
Con sentenza n. 27057 del 3 dicembre 2013 la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il
licenziamento di un lavoratore (per assenza ingiustificata), che non aveva comunicato il suo domicilio
durante l’assenza per ferie. Nel caso di specie, il lavoratore era stato richiamato in servizio durante
l’assenza per ferie e tale comunicazione era stata inviata presso il suo domicilio; poiché il lavoratore si
trovava in altra località, non aveva ricevuto la predetta comunicazione ed era stato quindi licenziato. La
Corte di Cassazione ha confermato l’illegittimità del licenziamento, rilevando che - contrariamente a
quanto accade durante il periodo di malattia (in cui, peraltro, il datore di lavoro ha diritto di disporre una
visita fiscale) - stante la natura costituzionalmente tutelata del bene, ivi compresa l’esigenza di privacy,
durante il legittimo godimento delle ferie (che il lavoratore è libero di godere, salve differenti pattuizioni,
secondo le modalità e nelle località che ritenga più congeniali al recupero delle sue energie psicofisiche),
egli non è obbligato a comunicare la sua destinazione, in quanto un siffatto obbligo costringerebbe il
lavoratore - che, magari, potrebbe trovarsi in viaggio - non solo a far conoscere i suoi spostamenti, ma
anche ad una gravosa attività di comunicazione formale, magari anche giornaliera, dei suoi spostamenti.
LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO OGGETTIVO E DEMANSIONAMENTO
Con sentenza n. 902 del 17 gennaio 2014 la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento
per giustificato motivo oggettivo di un dipendente che aveva subito, nel corso del tempo, un progressivo
demansionamento. Nella fattispecie esaminata, il lavoratore - che, in precedenza, svolgeva le funzioni di
responsabile del personale e della qualità - aveva subito un progressivo demansionamento, in quanto le
mansioni svolte erano state assegnate ad un altro collega nonché ad una serie di lavoratori “precari”,
assunti con la generica motivazione dell’apertura di nuovi mercati. Pertanto, è stato accertato non solo
che la soppressione della posizione era stata artatamente preordinata dal datore di lavoro, ma, altresì,
che non si era verificata alcuna contrazione dell’attività commerciale, considerato che l’azienda aveva
continuato ad effettuare assunzioni anche successivamente al licenziamento del dipendente.
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Civile, Commerciale,
Assicurativo
LE NOSTRE SENTENZE
L’ACQUIESCENZA DELL’ASSICURATO ALL’ILLECITO DELL’AGENTE ESCLUDE LA
RESPONSABILITÀ SOLIDALE DELL’ASSICURATORE
(Tribunale di Lecco, 3 dicembre 2013)
Un assicurato citava in giudizio una compagnia di assicurazione lamentando l’illecita appropriazione da
parte di un suo agente dei premi versati per la stipulazione di polizze che non risultavano ritualmente
emesse chiedendo, ex art. 2049 c.c., il risarcimento dei danni commisurati ai premi versati per la
stipulazione delle polizze. In relazione, poi, ad un’altra polizza, che invece la compagnia non contestava,
chiedeva il pagamento del controvalore dei premi asseritamente versati e solo parzialmente riconosciuti
dall’assicuratore. La Compagnia si difendeva sostenendo che tra l’assicurato e l’agente era intercorso un
parallelo rapporto privato nell’ambito del quale le due parti si scambiavano vicendevolmente somme di
denaro per ragioni estranee al contratto assicurativo. Tale rapporto “parallelo” era dimostrato sia
dall’esistenza di note manoscritte dell’agente, riportanti il tasso di interesse che gli investimenti posti in
essere avrebbero dovuto fruttare, sia da una serie di assegni, emessi da terzi soggetti e consegnati
dall’agente all’attore, che non avevano nessun nesso con le polizze sottoscritte e che erano, quindi, privi
di legittima causale. Inoltre, in relazione alle polizze artefatte - che erano state sottoscritte dall’assicurato
successivamente alla loro decorrenza - l’assicurato non aveva ricevuto dalla compagnia i regolari
rendiconti che invece riceveva in relazione alle polizze validamente emesse; tale anomalia era stata
inspiegabilmente tollerata dall’attore. Il Tribunale, valutate le suddette circostanze, riteneva che l’assicurato
fosse consapevole ed acquiescente al fatto che l’agente, dietro il paravento dell’agenzia - ed all’oscuro
della compagnia - proponeva e stipulava operazioni finanziarie che nulla avevano a che fare con le polizze
- false - che erano state sottoscritte dall’assicurato. Di conseguenza il Giudice, seguendo la linea di
recente enunciata dalla Cassazione (n. 8236/12), respingeva le domande dell’attore, ribadendo il principio
per cui il “nesso di occasionalità necessaria” tra l’illecito dell’agente e le mansioni dallo stesso svolte
nell’ambito del mandato conferito dalla Compagnia (presupposto perché si possa affermare la
responsabilità oggettiva dell’assicuratore) viene meno allorquando emerga una situazione di consapevole
cooperazione o di fattiva acquiescenza del danneggiato all’illecito commesso dall’agente. Sul piano
strettamente probatorio, il Giudice rilevava altresì la carenza della prova del danno, ritenendo che essa non
possa essere fornita dalle sole quietanze di pagamento sottoscritte dall’agente, che sono imputabili al solo
agente, se la sottoscrizione dell’assicuratore sul modulo utilizzato per la quietanza è riprodotta a stampa e
non olografa. Con riferimento alla domanda relativa alla polizza validamente emessa (e riconosciuta dalla
compagnia) il Giudice, seguendo le difese della convenuta, respingeva la domanda in quanto la stessa semmai - doveva essere formulata entro i canoni della responsabilità per inadempimento contrattuale e
non ai sensi dell’art. 2049 c.c.
Causa seguita da Bonaventura Minutolo e Francesco Torniamenti
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Assicurazioni
A cura di Bonaventura Minutolo e Teresa Cofano
AGENZIA - PRIVILEGIO
CONTRATTO DI
ASSICURAZIONE A
PREMIO VARIABILE SOSPENSIONE DELLA
GARANZIA
RESPONSABILITÀ DA
COSE IN CUSTODIA
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La disposizione di cui all'art. 2751-bis, numero 3), cod. civ., inserito dall'art. 2
della legge 29 luglio 1975, n. 426 (Modificazioni al codice civile e alla legge 30
aprile 1969, n. 153, in materia di privilegi) - secondo la quale “Hanno
privilegio generale sui mobili i crediti riguardanti: [...] 3) le provvigioni derivanti
dal rapporto di agenzia dovute per l'ultimo anno di prestazione e le indennità
dovute per la cessazione del rapporto medesimo” -, deve essere interpretata,
in conformità con l'art. 3 Cost. ed in sintonia con la ratio dello stesso art.
2751-bis cod. civ., nel senso che il privilegio dei crediti ivi previsto non assiste
i crediti per provvigioni spettanti alla società di capitali che eserciti l'attività di
agente.
(Cassazione Sez. Unite, 16 dicembre 2013, n. 27986)
Nei contratti di assicurazione a premio variabile, analoghi a quello di specie,
l'obbligo dell'assicurato di comunicare periodicamente all'assicuratore le
variazioni dei dati rilevanti ai fini dell'integrazione del premio costituisce
oggetto di un'obbligazione civile diversa da quelle indicate nell'art. 1901 c.c.,
il cui inadempimento non comporta l'automatica sospensione della garanzia,
ma può giustificare un tale effetto, così come la risoluzione del contratto, solo
in base ai principi generali in tema di importanza dell'inadempimento e di
buona fede nell'esecuzione del contratto.
(Cassazione, 19 dicembre 2013, n. 28472)
Va esclusa la possibilità di qualificare il cosiddetto cordolo come anomalia
della pista da sci: sia in quanto normale e naturale risultato della stessa
attività di individuazione, sulla pendice innevata, di una pista destinata ad
essere percorsa con gli sci; sia in quanto immediatamente percepibile, dai
fruitori, come componente e delimitazione della pista stessa; sia in quanto
strutturalmente e originariamente privo di ogni destinazione protettiva dei
fruitori della pista o di prevenzione della loro fuoriuscita da questa. Va allora
valutato come di per sé solo idoneo ad escludere il nesso eziologico tra
l'evento idoneo a produrre il danno e la colpa - soprattutto se grave - del
danneggiato nell'utilizzo della cosa secondo un criterio di normale prudenza,
dovendo quest'ultima necessariamente rapportarsi alle condizioni in cui è
normale aspettarsi che si trovi la cosa stessa in rapporto alla sua struttura ed
alla sua destinazione o funzione.
(Cassazione, 20 dicembre 2013, n. 28616)
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IL PUNTO SU
A cura di Vittorio Provera
MAXI MULTE PER DIPENDENTI IN NERO E MANCATA CONCESSIONE DI RIPOSI
SETTIMANALI
Il Decreto Legge 23 dicembre 2013 n. 145, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 23 dicembre
2013 ribattezzato anche “Decreto Destinazione Italia” contiene, fra gli altri, un notevole
inasprimento delle sanzioni a carico delle imprese che si rendano responsabili di mancata
regolarizzazione dei rapporti di lavoro con i dipendenti o del non rispetto dei riposi settimanali
periodici.
Nel medesimo decreto si è previsto che i maggiori importi derivanti dall’aumento delle sanzioni di cui
tratteremo tra breve, siano destinati al finanziamento delle misure, anche di carattere organizzativo ed
economico, poste in essere dalle Direzioni Territoriali del Lavoro, con lo scopo di rendere più incisive le
attività di vigilanza in materia di contrasto del lavoro sommerso, nonché di prevenzione e promozione in
materia di salute e sicurezza.
Nel dettaglio, è stabilito che le sanzioni introdotte dall’articolo 3 del D. L. del 2002 (convertito nella legge
n. 73/2002), nonché le somme aggiuntive di cui all’articolo 14 co. 4 lettera c) D. L.vo n. 81/2008, siano
aumentate del 30%. Si tratta dei casi in cui viene accertato l’impiego di personale senza la preventiva
comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro da parte del datore di lavoro privato, nonché delle
somme aggiuntive (rispetto all’applicazione delle sanzioni penali, civili e amministrative) applicate in caso
di violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro ed a fronte del riscontro di
impiego di personale non risultante dalla documentazione obbligatoria. A seguito di tali inasprimenti, per
ogni accertamento di impiego di dipendente “in nero”, le sanzioni passano ora da un minimo di Euro
1.950,00 ad un massimo di Euro 15.600,00. Inoltre, sale ad Euro 1.950,00 la sanzione che segue alla
chiusura dell’attività, qualora più di un terzo dei dipendenti risulti nella predetta situazione di irregolarità.
E ancora, la nuova disciplina ha precisato che, nelle ipotesi di impiego dei lavoratori subordinati senza
preventiva regolare comunicazione della instaurazione del rapporto di lavoro, non sarà applicabile la
procedura di diffida di cui al D. L.vo n. 124 del 2004 (in base al quale il personale ispettivo che
rilevava l’inosservanza delle norme di legge o di contratto collettivo provvedeva a diffidare il trasgressore
e l’eventuale obbligato in solido alla regolarizzazione dell’inosservanza, materialmente sanabile entro il
termine di trenta giorni dalla data di notificazione del verbale di accertamento).
Ancor più grave è stato l’inasprimento delle sanzioni amministrative (ora decuplicate) di cui ai commi 3
e 4 dell’articolo 18 bis del D. L.vo n. 66 del 2003, in presenza di violazione delle norme sulla durata
media settimanale dell’orario di lavoro (che per ogni periodo di 7 giorni, non può superare le 48 ore,
comprese le ore di lavoro straordinario) ed in caso di mancato godimento dei riposi.
Si ricorda che la durata media dell’orario deve essere calcolata con riferimento ad un periodo non
superiore a 4 mesi (salvo diverse disposizioni della contrattazione collettiva).
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Orbene, la violazione dei limiti sulla durata media è ora punita con la sanzione amministrativa base che
va da un minimo di Euro 1.000,00 ad un massimo di Euro 7.500,00 per ogni lavoratore e per ciascun
periodo in cui si verifica la violazione. La stessa sanzione si applica in ipotesi di non osservanza del
periodo di riposo di 24 ore consecutive ogni sette giorni.
Per quanto concerne la disciplina riguardante il diritto, per ogni lavoratore, ad almeno 11 ore di riposo
consecutivo ogni 24 ore, la violazione è sanzionata da un minimo di Euro 500,00 ad un massimo di Euro
1.500,00. Tutte le predette sanzioni sono ulteriormente incrementate nel caso in cui l’illecito si riferisca a
più di 5 ed a più di 10 lavoratori, ovvero a più periodi di riferimento previsti dalla normativa.
Nel medesimo decreto è previsto che il Ministero del Lavoro possa aumentare la dotazione organica del
personale ispettivo di 250 unità; infine è stata introdotta una più stringente forma di coordinamento da
parte del Ministero, con la finalità di assicurare un più razionale impiego del personale ispettivo e
superare la problematica concernente la sovrapposizione di interventi ad opera di diversi Organi Ispettivi
(Ministero del Lavoro, INPS, INAIL).
Da segnalare che dette disposizioni sono state oggetto di critica ad opera dell’Associazione Nazionale
degli Ispettori di vigilanza dell’INPS, secondo cui l’aumento delle sanzioni dovrebbe essere soprattutto
mirato a colpire i casi di recidiva comportamentale dell’azienda. Inoltre, potrebbe porsi un conflitto di
interessi, con rischio di incostituzionalità di quelle norme che destinano i maggiori introiti delle sanzioni a
vantaggio dei soggetti che comminano le medesime, in quanto ciò pregiudicherebbe l’imparzialità
dell’azione della Pubblica Amministrazione.
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Convegni
CONVEGNI
Milano, 13 Febbraio 2014
Convegno Optime: La gestione delle eccedenze di personale
GLI STRUMENTI CONSERVATIVI DEL RAPPORTO DI LAVORO
Il trasferimento e il distacco
Trasferimento e distacco: nozioni e differenze
Il quadro legale e i principali orientamenti giurisprudenziali
Il regime sanzionatorio e le conseguenze per le imprese in caso di violazioni
I contratti collettivi nazionali e aziendali
Relatore: Avv. Giacinto Favalli
PROGRAMMA
Archivio Convegni:
Firenze, 27 Gennaio 2014
Meeting Nazionale FIPE – Federazione italiana pubblici esercizi
Avv. Stefano Beretta
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Rassegna Stampa
Corriere della Sera: 23/01/2014 – Interventi & Repliche
Lavoro: il Jobs Act
Lettera di Salvatore Trifirò
Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 17/01/2014
I 270 giorni ex L. 183/2010 per il deposito del ricorso decorrono dal 24.11.2010 per i licenziamenti
intimati prima di tale data
di Marina Tona e Francesco Chiarelli
Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 13/01/2014
Maxi multe per dipendenti in nero e mancata concessione di riposi settimanali
di Vittorio Provera
JOB24 – Il Sole 24 Ore: 08/01/2014
Job Act. Il contratto unico: di che cosa si parla?
Videointervista a Tommaso Targa
Highlights T&P 2013
A cura di Trifirò & Partners Avvocati
Dossier Lombardia – il Giornale: Dicembre 2013
Se la riforma frena la crescita
Intervista a Salvatore Trifirò
Diritto24 – Il Sole 24 Ore: 20/12/2013
Il lavoratore promuove l’azione oltre il termine di decadenza, con motivi pretestuosi: condannato per
lite temeraria
di Damiana Lesce e Valeria De Lucia
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