inventario dei sogni - Pietre Vive Editore

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Transcript inventario dei sogni - Pietre Vive Editore

inventario dei sogni
Inventario dei sogni
©2017 Pietre Vive Editore
Illustrazioni in copertina e all’interno:
Winsor McCay
Little Nemo in Slumberland
Particolari delle tavole pubblicate
sul New York Herald
il 19-08-1906, il 21-03-1909 e il 06-11-1910
riproduzioni di pubblico dominio
Antonio Lillo
inventario dei sogni
Sommario
Origine
Inventario dei sogni
0. Va notato, però...
1. Cappotti e panchine
2. Fiori delle mie notti inquiete
3. Morte
4. L’aia
5. Sogno dell’uovo poeta
6. Romanzo quasi popolare
7. Lettera che mi è arrivata in sogno
8. Due di uno
9. Sogno a strati
10. Natura morta con uccelli
11. Topi
12. Larve
13. Seduzione
14. Inferno
15. I confini artici
16. Corso di scrittura
17. Il molestatore
18. La frase del giorno
19. Nero su nero
20. La stazione
21. La porta
22. Sogno della lucciola
23. Incontro sognato in forma di haiku
24. La donna di sabbia
25. Luce negli occhi
26. La custodia
27. La voce
28. Viva Maddalena
29. Il padre
30. Il venditore di rose
31. La torre bianca
32. Gli scomparsi
33. Le vertigini
34. L’uscita
35. Il giardiniere alla foresta
36. Le ragioni del NO
37. Ultimo sogno
38. Il becchino
39. Ninna nanna
40. Ritorno sul Mar Secco
Note sulle attribuzioni delle epigrafi
Notizia
Origine
«...come in chiaro ma anche oscuro accordo con il cuore.»
Goffredo Parise
Molte storie qui raccolte hanno origine nei sogni dell’autore e nella sua abitudine di appuntarli
in un taccuino. Altre sono sogni a occhi aperti.
Altre ancora raccontano quelli di amici e conoscenti.
Sono stati proprio due amici, Amanda e Sergio,
a convincerlo a raccoglierne alcuni per farne un
libro. Eppure i quaranta sogni qui selezionati intendono soprattutto celebrare i quarant’anni del
loro autore. Lo si afferma con una certa curiosità
per i loro possibili sviluppi, che potrebbero dar
seguito a una nuova raccolta, oppure a una semplice appendice, oppure a niente.
Essendo l’autore un semplice uomo, con bisogni,
fantasie e ambizioni assai comuni, e consapevole
del fatto che già molti hanno scritto opere simili,
la sua unica speranza, proprio perché nasce nel
suo inconscio, è quella di una peculiare originalità del sentimento che, ancora più delle idee, lo
dichiari per l’uomo che è. Sarebbe già qualcosa,
infatti, poter dire di essere assolutamente se stesso almeno nei propri sogni.
0
«Va notato, però, che l’orario di arrivo dei sogni
è irregolare e che la loro interpretazione fa sbadigliare. Inoltre, se mai si dovessero catalogare i
sogni tra i generi letterari, il loro principale ingrediente stilistico sarebbe l’incoerenza. Questa potrebbe essere almeno una giustificazione per tutto
ciò che è venuto fuori finora in queste pagine. E
questo potrebbe anche spiegare tutti i miei tentativi – nel corso di tutti questi anni – di garantirmi
il ripetersi di questo sogno, anche a costo di infliggere feroci maltrattamenti al mio super-ego non
meno che al mio inconscio. Per dirla senza mezzi
termini, sono stato io a ripresentarmi continuamente al sogno, piuttosto che il contrario.»
Iosif Brodskij
1
CAPPOTTI E PANCHINE
Cechov, sulle rive del Mar Secco, mi dà i suoi
consigli per scrivere dei buoni racconti.
Il primo fra tutti, mentre ci aggiriamo come pazzi lungo le rive colpite dal Maestrale: «Per favore,
assicurati sempre che i tuoi personaggi abbiano
dei buoni cappotti, almeno in senso gogoliano,
ma soprattutto che ci siano delle panchine dove
fermarsi per riposare, che ogni tanto, a furia di
parlare, ti viene male ai piedi!»
Il freddo ci prende dall’interno, da un nucleo
seppellito nel profondo che esploso risale in superficie, come un’eco muta e si spande in lunghi
brividi concentrici sulla superficie della pelle. Ci
vibra il cuore di paura e d’ansia, man mano che
ci confidiamo fra di noi, avventurandoci in quella terra desolata, continuando ad avanzare senza
pace lungo la spiaggia piena d’ossa di tutti coloro
che, prima di noi, sono passati per quello strano
dolore polverizzatosi in sabbia, dove lasciamo le
impronte. Cechov mi guarda di sottecchi, nasco-
sto dalla visiera del cappello.
«Dimmi, la senti anche tu questa matta disperazione che consuma, e ti costringe a vivere e godere anche se tutto ti chiede, ogni momento, di
farla finita? È la mancanza degli altri quella, ed è
per sempre, la solitudine di chi non sa, ma sente il vuoto che incombe sotto la superficie delle
cose, l’eco sorda che rimbomba fra le volte del
petto. Ma tu sbagli atteggiamento. Prova ad esserci per gli altri, ma senza esagerare. Il mondo
è pieno di ingrati. Dire la verità non aiuta. Per
questo tu scrivila e basta. In questo modo potrai
spacciarla per invenzione e sentirti a posto con
la coscienza. Il rispetto degli altri non ti serve
quando sai di avere scritto ciò che devi. Alla solitudine ci si abitua, come vedi.»
Poi suona la sveglia e mi ridesto con la sensazione che lui, di là, continui a borbottare da solo i
suoi consigli, mentre mi allontano verso il letto.
2
FIORI DELLE MIE NOTTI INQUIETE
Ogni notte faccio di questi sogni un po’ strambi,
come questo che mi porto dietro dal buio in cui
mi perdo la vite di giuntura del ginocchio e attraverso il foro che mi passa da una parte all’altra
dell’osso posso osservare i vermi che neri e sottili
penetrano e si mangiano la carne, facendosi largo intorno. Risalgono e non posso muovermi o
fuggire, sono inerme perché li ho dentro e mi indeboliscono, mi sbriciolano lentamente, e dietro
di loro degli scarafaggi mi accumulano in piccole sfere di sterco da conservare per il prossimo
inverno.
Aspetto che arrivino al cuore e man mano che si
apprestano alla meta sento l’aria mancarmi perché, avvicinandosi, mi consumano i polmoni.
Vedo minuscoli lividi comparirmi all’improvviso sulla pelle, come macchie d’inchiostro che
spuntano, s’intensificano e poi si spengono lentamente, lasciando appena un’ombra di sé. E anche
se non posso vederli, so che sono gli scarafaggi
che mentre percorrono voraci i cunicoli scavati
nel corpo dai vermi, a volte affiorano e premono
sottopelle, lasciando un’effimera traccia esterna
prima di rituffarsi a pasteggiare di sotto.
3
MORTE
Mi ha appena visitato il sogno della mia morte.
Mi sono visto scivolare con estrema lentezza nella fossa, e una voce dall’alto mi diceva che non
sarà per acqua né per fuoco, piuttosto per una
iella maldigerita.
4
L’AIA
«In principio gli uccelli volavano, ed erano creature di Dio. Volavano gli angeli, ed erano creature di
Dio. Uomini e donne avevano lunghi arti e schiene
lisce che Dio aveva creato così per una ragione. Cimentarsi col volo significava cimentarsi con Dio. Ne
sarebbe nata una lunga battaglia, ricca di leggende
istruttive.»
Julian Barnes
Sono tornato nella vecchia casa dei mie nonni,
ora diventata un purgatorio degli uccelli. Gli uccelli stanno in semilibertà nell’aia dove un tempo raspavano solo le galline, ma non possono oltrepassarne i cancelli e nemmeno volare, mentre
i loro nidi sono custoditi in casa, ordinati in una
lunga sequenza di scaffali. Il museo è custodito
da un vecchio che ricordo di aver già visto ma
senza certezze, e ad accogliermi al mio ingresso
c’è anche il sindaco. Mi sono diretto subito verso
l’aia che è diventata una sorta di campo sterminato e brulicante di uccelli di qualsiasi specie,
volgari o nobili, le cui teste colorate spuntano
dalla massa di penne e di piume svolazzanti, di
richiami diversi, striduli e gutturali, in continuo
bisticcio peggio che sotto la torre di Babele. Il custode mi spiega che quelle sono in realtà le anime dei morti in attesa della fine del mondo. Alla
fine del mondo il cancello dell’aia sarà aperto e
ogni uccello, recuperato il suo nido, spiccherà il
volo a prenderà posto sul ramo di un grandissimo albero che si vede anche da lì, a distanza.
L’albero è Dio. Ho chiesto al custode se c’è anche
mio nonno fra i pennuti e lui mi ha risposto di sì,
che si è trasformato in un passerotto da combattimento. «Un passerotto da combattimento, – ho
chiesto – e che sarebbe?». «È un uccellino che
durante le guerre si infila negli zaini dei soldati
a portargli fortuna in cambio di poche briciole
di pane. Peccato che qui non ci sono guerre, e
allora ci si annoia». Sento, intanto, come una lieve pressione risalirmi lungo la schiena, arrampicarsi in maniera delicata. È mio nonno, che
non posso vedere, ma si aggrappa con le sue unghiette al maglione e poi con un ultimo frullo
mi sale in capo, a beccarmi lievemente sulla testa
per farsi sentire, per salutarmi, e dire a modo suo
che sta bene e in salute. Accompagnato da mio
nonno e dal custode ce ne andiamo a zonzo in
quell’enorme piazza abitata ad ascoltare le storie
degli uccelli in attesa del volo. Poi entriamo nel
vecchio forno a cercare delle briciole di pane per
mio nonno, e ci troviamo il sindaco. È tardi, così
ci sta preparando una frittata:
«Qui a parte i sogni manca tutto, ma almeno siamo pieni di uova».
5
SOGNO DELL’UOVO POETA
Vivo in una gabbia dorata, adagiato sul fondo
come un uovo, e dormo, al caldo fra gli escrementi degli alati più in alto, il sonno del giusto
che mai conquisterà il suo posto sul trespolo dei
canterini. Sogno da qui la mia rivalsa, ignorato
persino dalla mano che versa semi per nutrirli nel segno della provvidenza e della cattività
necessaria. Cattività a doppia mandata la mia.
Concentrata nel tuorlo e costretta nel mio guscio di difesa dal mio nucleo di poeta mai nato
ma già pronto alla frittata. Vivo qui, fra gli amati
canterini in gabbia, i miei anni della merla.
6
ROMANZO QUASI POPOLARE
Succede che incontro per caso una editor della
Sellerio. È amore a prima vista. Usciamo insieme. Appuntamento sulle terrazze del Duomo di
Milano, io lei e i piccioni. Lei mi dice di essere rimasta incinta. «Ma se ancora non ti ho toccata?»
le rispondo. «Lo hai fatto col cuore!». (La mia
magra consolazione). Divento, così, padre di un
bel libro, vivace e pieno di salute, lo chiamiamo
Montalbán. Gli voglio bene, ma non so perché,
mentre lo guardo crescere e distaccarsi da me,
ho come la sensazione che non mi assomigli in
nulla, che non abbia preso niente da me, nemmeno la parlata.
7
LETTERA CHE MI È ARRIVATA IN SOGNO
Gentilissimo autore,
lascio alla sua squisita immaginazione il compito
di interpretare la mia indifferenza al suo lavoro e
raccontarsi nel silenzio, come vuole, le difficoltà
dei nostri tempi editoriali. Tempi farabutti che
non amano i più deboli, e almeno mondati da
certe parole, le inutili parole di circostanza per
il successo degli altri. Avrà anche lei la sua occasione un giorno, stia tranquillo. La saluto con
uguale indifferenza
L’Editore
8
DUE DI UNO
È il sogno mai sognato di una lunga partita a
carte che si riavvolge pigramente su se stesso per
parlarmi e lamentarsi del fatto che noioso com’è
non sarebbe mai mancato a nessuno. Gli dico
che se vuole può mancare a me, ché mi mancano
già così tante cose che aggiungerne un’altra non
mi farà troppo male. Allora il sogno mi dice grazie a bassa voce, con il sorriso commosso di chi
non è abituato alla gentilezza. È un sogno dalla
lacrima facile e sta per mettersi a piangere. Così,
per dissimulare l’imbarazzo, mi passa il suo fazzoletto e cominciamo a piangere in due come se
fossimo uno soltanto.
9
SOGNO A STRATI
Mi sono infilato in un sogno a strati, come in
una scatola cinese o in una matrioska, qualcosa
di orientale e colorato in cui indosso uno sull’altro i vari strati d’umore, gioia, confusione, poi
angoscia. Un attimo mi sento fortunato, l’attimo
dopo un peso mi stringe il petto, mi manca l’aria, credo di avere troppi sogni addosso che mi
tolgono il respiro. Mi risveglio con fatica, tirandomi fuori da tutti questi sogni, per scoprire di
aver infilato la testa nel cuscino, e lo premo forte
fra le braccia soffocandomi, chiuso in una sorta
di giallo perfetto in cui la vittima e il colpevole
coincidono senza più alcun dubbio. Sono il ritratto perfetto di un tramezzino sbavante.
10
NATURA MORTA CON UCCELLI
Chissà come lo vede la ghiandaia da lassù e se si
chiede anche lei che differenza passa fra l’antenna che la regge e il pero che c’era fino a tre anni
fa. Risponde, con intervallo di uno a tre richiami, a un altro uccello che non so, nascosto nella
siepe, dal canto metallico e monotono che pare
una sirena, ed ogni cinque dell’uccello-allarme
ne attacca un altro più lontano, incerto e basso,
quasi sonnolento a cui il gracchiare di una gazza
contrappone ipnotico un ritmo più lento da fachiro, cui si accorda sulla grattugia il movimento
del cacio polverizzato per la pasta. Tutto è, proverbialmente, perfetto. Persino il guscio secco
della tartaruga in fondo all’orto di cui non si capisce cosa l’abbia uccisa, se la malattia o la fame
per un lungo inverno senza freddo e senza mai
letargo. Oppure lo stupro ripetuto dei tre maschi
che l’hanno violentata senza tregua, coi loro gemiti di gomma e le bocche spalancate nella morsa. Ora le ronzano intorno solo mosche, i maschi
senza scopo non lottano nemmeno per istinto,
ridotti come sono all’estinzione.
Anche il gatto sonnecchia castrato all’ombra della magnolia ammalata. Aspetta sbadigliando le
frattaglie offerte dal beccaio, né si dà pena della ghiandaia planata sulla sua testa a scacazzare
mentre gli fa il verso per schernirlo. L’antenna
affilata è pronta come un moschetto o un parafulmine, un ombrello bruciato, un crocefisso
andato storto sul Golgota, a scaturire il lampo
che spiccherà lo capo al mondo fra il primo e la
scarpetta.
Il tempo si guasta oltre la siepe. Balenano sul grigio, golose nel parcheggio, le macchine impilate
in via Almirante. L’allarme dell’uccello nascosto
non cede, trasmette incantato il pericolo che incombe.
11
TOPI
Sono entrato nel mondo delle scommesse clandestine sulle corse dei topi. La partenza è uguale
per tutti, ma vince chi, dopo innumerevoli peripezie e svolte, attraverso un labirinto insidioso
arriva sano e salvo all’uscita. Io cavalco uno dei
topi e mi do importanza d’essere fondamentale
alla corsa. Eppure, ogni volta che mi definisco
un fantino gli scommettitori ridono di me e mi
mettono al mio posto. Tu sei una cavia – mi dicono – proprio come loro.
12
LARVE
È un sogno in bianco e nero in cui un uomo con
una maschera da rospo dagli occhi sporgenti mi
chiede di fargli un ritratto fotografico. Ci provo,
eppure mi tiene strette le mani e le porta con forza vicinissime ai suoi occhi. Mi impedisce così di
mettere a fuoco l’immagine, che di volta in volta risulta di un bianco lattiginoso che riempie lo
schermo. È il bianco immenso dei suoi occhi. A
ogni scatto emergono, dietro il bianco, come delle macchie sottili simili a larve di zanzara. Quando gliele faccio notare, mi risponde: «Quelli sono
i versi di una poesia che ti frulla in testa da ieri».
E poi aggiunge, in maniera ambigua e tenebrosa:
«Stai attento agli hacker, ti stanno osservando.
Vogliono rubarti ogni pensiero per poi ricattarti». Ma quando provo a chiedergli di più mi
tappa la bocca con una mano e mi impedisce di
parlare, dicendomi che siamo già in pericolo. E
più mi preme la mano sulla bocca, più le larve gli
riempiono gli occhi coi miei pensieri impazziti.
13
SEDUZIONE
C’è una donna, seduta alla toletta. Mi chiede di
pettinarle i capelli. Indossa un kimono a fiori
bianco e nero. Parliamo attraverso uno specchio, ma senza usare parole. Mi indica quando
far piano, oppure se essere dolce o deciso, o se
trattenermi più a lungo in un punto attraverso
gli sguardi e i sospiri. Sto ben attento a cosa chiede, ne fisso il riflesso muto, ne seguo con gli occhi le espressioni cangianti, e le pettino i capelli
lunghissimi fra le dita, con lentezza, leggerezza
e dedizione. Corrono morbidi sotto i denti del
pettine, ed emanano un profumo dolce di tigli
che sale e si spande man mano che li sciolgo dai
nodi. Siamo qui da ore davanti alla toletta, immobili e mai sazi del contatto, delle mie lunghissime carezze. I suoi capelli continuano a filare fra
le dita, a crescere e confondersi col suo kimono
a fiori, avvolgersi alle gambe legandoci l’un l’altra. Invadono la stanza, corrono sul pavimento e
sulle pareti, premono contro la porta per uscire.
14
INFERNO
Io e Ungaretti – l’Ungaretti del Dolore – ce ne
andiamo in giro per le catacombe di Roma cercando la tomba segreta di Bela Lugosi. Nostro
compagno di viaggio e nostra guida è Ascanio
Celestini, anche lui alla ricerca della seconda
pizza di un vecchio film in bianco e nero sui
mostri, inghiottita da quell’inferno. Quanta gente ammazzata ci sta sepolta sotto Roma, quante
ombre che si aggirano infelici. E quanti artisti
senza nome – poeti e saltimbanchi – ci fermano
per raccontarci la loro storia. Ungaretti, nervoso,
scuote il capo e li guarda commosso, e dice loro:
«È il nostro destino di uomini, l’umiltà e la perdita» ma senza segno di consolazione nella voce.
E prende appunti di tutti loro, per restituirgli almeno una parola di commiato alla nostra uscita.
15
I CONFINI ARTICI
Esploro i confini artici. Mi sono perduto, in realtà, in una terra fatta tutta di parole in sospeso
che gelano nell’aria e restano lì come sassi non
lanciati, risposte non date, temperature che mettono a disagio come piccoli pesi sull’anima, quelli delle vittorie mancate. Mi dirigo a ovest, poi a
est, in esplorazione appunto, per scoprire di restare sempre al centro di quella valle senza amici, ma in cui l’unico altro vivo è un piccione viaggiatore di un blu cadaverico, venuto a portarmi
un messaggio che non dice. Stiamo in attesa, in
silenzio, studiandoci per ore in quel bianco sporco e insensato degli occhi, stretti nei cappotti, e
leggendo per ingannare il tempo vecchie pagine
di giornali che parlano di ieri inespressi e strisciano trascinate dal vento fra le nostre caviglie,
avviluppandole.
Io guardo al cielo che pare una terra rovesciata ma migliore, sempre grigia ma più luminosa,
immaginando che mi spuntino le ali per an-
darci. Allora il piccione viaggiatore comincia a
sbottonarsi e a parlarmi di una chiave che non
sa ma c’è da qualche parte, per aprire una porta
che non sa ma attraverso la quale poter uscire
di lì. Man mano che parla comincia ad annerirsi
come un piccolo moro, un corvo, il becco gli si
fa più aguzzo, tanto che medito, perplesso e un
po’ affamato, se non sia il caso di strozzarlo e poi
mangiarmelo, poi ci ripenso, perché ricordo di
un sogno in cui mi è stato detto che gli uccelli
sono sacri. Così, per evitarmi nuove tentazioni,
gli affido una missione, gli annodo intorno al
collo, come una sciarpa ben stretta, una pagina
di giornale raccolta a caso da terra, e gli dico di
portarla altrove, affidarla a un altro, dare a lui la
colpa, oppure chiedere di perdonarmi in qualità di interposta persona. E gli dico che solo così
potrà salvarmi, attraverso il perdono dei lettori.
Il piccione prende a cuore la missione, e parte in
volo con uno scrupolo che mi commuove, ma
boccheggiando per colpa del mio nodo troppo
stretto. Lo guardo allontanarsi incerto in quel
cielo che mi riflette come in apnea. Poi resto da
solo, attorniato da tutte quelle parole inutili.
16
CORSO DI SCRITTURA
Per cominciare leggo una storia di Sandro Veronesi, sperando di invogliarli. La storia parla di
un tipo che scopre che sua moglie gli ha messo le
corna. Allora lui che fa? Prende un cacciavite, salta sul motorino e parte verso Galleria Borghese,
per sfregiare l’Ultima Cena di un pittore rinascimentale, Jacopo Bassano, perché andare a vedere
quell’opera è stata l’ultima cosa bella che lui e sua
moglie hanno fatto insieme e lui vuole distruggere il ricordo.
Mimmo, che stranamente, per tutto il mio preambolo e la prima parte del racconto, se n’è rimasto rattrappito e taciturno sulla sedia, come
una molla pronta a scattare, quando sente del
quadro comincia ad agitarsi e poi a urlare, si alza
e lancia oggetti per la stanza. Non si fa! Non si fa!
Non a Gesù Cristo! Non si sfregia Gesù Cristo!
Ma come si permette questo!
Servono tre persone per calmarlo. Poi chiedo
a tutti di scrivere un racconto “in risposta” a
quello di Veronesi. Lo chiedo anche a Mimmo
che prima si nega, poi tentenna, alla fine accetta
chiedendomi dove vive questo Veronesi. Roma
presumo, gli rispondo.
Così Mimmo si mette al lavoro, rattrappendosi
ancora una volta sulla sedia, all’angolo del tavolo,
tutto concentrato sul foglio e puntando ogni tanto la penna verso qualcuno nella stanza. In poco
più di mezz’ora scrive, a mano, un racconto di sei
pagine in cui, con furia inaudita di samurai, dà
corpo alla sua lista nera in un bagno di sangue
che comincia a Martina Franca e finisce a Roma,
riassumendo trent’anni di sfiga e di soprusi subiti
dal prossimo.
Immagina così, in una sorta di trasfigurazione
robocopiana, che gli spuntino armi dal corpo,
dalla braccia, dalle gambe, dagli occhi, persino
dai muri, dalla strada, dagli oggetti intorno, senza tregua. Una mattina esce di casa, a Martina
Franca, e comincia a far fuori tutti coloro che
nella vita gli hanno fatto un torto, dirigendosi
implacabilmente verso Roma.
Quel droghiere che non gli ha dato il resto due
anni fa – BANG! – il tabaccaio che non gli ha
fatto credito sulle sigarette – BANG! BANG! – il
tipo che nei ’70 gli ha tagliato la strada mentre
andava in bici – BANG! – la tipa che a quindici
anni lo ha tenuto all’amo per un po’ senza farci
nulla – BANG! BANG! BANG!
Alla fine, dopo sei pagine intrise di pura violenza tarantiniana che più volte scatena gli applausi
della classe, Mimmo raggiunge Sandro Veronesi,
lo lega alla sedia, gli mette dell’esplosivo sotto la
sedia, lo maltratta un po’ per farlo friggere nella sua paura di scrittore che ha pestato i piedi a
qualcuno che sta più in alto di lui. Poi lo fa saltare in aria, riducendolo in atomi.
E conclude così il suo racconto: «E sappia, il signor Sandro Veronesi, che Gesù è buono, e lo ha
già perdonato. Ma io NO!».
17
IL MOLESTATORE
Si presenta alla mia porta uno dei classici esemplari di truffatore della Compagnia Elettrica,
quei tipi col cartellino finto che con tutta la faccia tosta e l’affabilità del mondo ti chiedono, per
migliorare il tuo servizio, di controllare la tua
bolletta per suggerimenti, e poi cercano di fregarti i dati per rivenderli a chissà chi. Stavolta,
però, l’esemplare in questione mostra una differenza sostanziale: si chiama Sara, ha due occhi
da gatta che graffia e due gambe stupende, lunghe e affusolate.
La fisso intensamente mentre lei mi propina tutta la pappardella sul risparmio e i codici da controllare scritti in piccolo in basso a sinistra, poi le
chiedo a bruciapelo: «Sara, sei fidanzata?»
Mi guarda stupita, spalanca quasi la bocca. L’ho
sorpresa. Fa finta di nulla e mi chiede di poter
vedere la bolletta. Le rispondo che è così bella
che gliela faccio vedere sì, e la invito a seguirmi
dentro. Aggiungo, con noncuranza, «Sai che sia-
mo fortunati? Non c’è nessuno in casa, possiamo
parlarne quanto vuoi».
La vedo tentennare sulla porta. Mi dice che fa
caldo e magari aspetta fuori, se prendo la bolletta la possiamo vedere anche lì. Le sorrido.
«Ma scherzi? Dentro c’è il condizionatore, vedrai
come stiamo freschi. Ci mettiamo sul divano e io
ti faccio vedere la bolletta».
Lei insiste, meglio di no. Allora mi fermo sulla
porta, a parlare con lei del più e del meno. Passano circa dieci minuti, continuo a fissarla negli
occhi, fino a imbarazzarla. A un certo punto mi
blocca, ha da finire il suo giro, controlliamo la
bolletta sì o no?
«Ma certo», le rispondo, «però se non entri come
te la mostro?» Mi ha già detto di no, ripete. «E io
insisto, te la faccio vedere solo se andiamo dentro. Mi stai proponendo un affare e io ho bisogno
di star comodo mentre ne parliamo, per valutare
al meglio la tua offerta».
Le dico così, poi con leggerezza, sulla parola «offerta» le sfioro il fianco per invitarla a seguirmi.
Quando la tocco, lei sembra schizzare per aria
come se avesse preso la scossa. La vedo avvitarsi
su se stessa e, senza nemmeno riatterrare, quasi
scappar via sulle punte, senza nemmeno salutarmi.
La guardo allontanarsi e sospiro. Anche il culo, è
perfetto. Ora mi tocca immaginare, per rifarmi,
che poteva succedere se, invece della corrente
elettrica, provava a vendermi i robot da cucina.
18
LA FRASE DEL GIORNO
Vengo invitato da qualcuno a un premio a Pierre
Boulez, il quale nemmeno si presenta. Ci sono
Prince, David Bowie e Leonard Cohen, e in
qualche modo mi ritrovo seduto al loro stesso
tavolo. Mi batte forte il cuore, ma loro mi snobbano, nemmeno mi guardano in faccia. Continuano a sorseggiare i loro cocktail e fissarsi
senza spiccicare una parola, in attesa di Boulez.
C’è anche Vasco Rossi, che si fa una birra, fuma,
canticchia, tamburella le dita sul tavolo mentre
ci gira intorno incapace di fermarsi, ed è l’unico a parlarmi. Gli chiedo cosa ci fa lì con loro.
«Sono morto anche io nel 2016, che ti credi?».
«Cristo, quindi sei un genio anche tu, alla fine?».
«La cosa più vicina a un genio che c’è in giro» mi
risponde. Mi guardo intorno e mi viene un sospetto. «Ma quindi? Anche io sono un genio?».
«Tu no, non sei nemmeno morto… ti è solo capitato di trovare il posto libero… Però, ascoltami… tu continua a crederci, che forse, se ti im-
pegni dico, non arrivi nemmeno a fine anno…
e se te lo dico io, eeeehh… E poi, tiè…» mi dà
una pacca sulla spalla, «in culo alla balena!». «In
culo alla balena che c’entra, adesso?». «Nulla, mi
piaceva dirlo. Anzi…» canticchia fra sé e sé. «È
la frase del giorno questa!». Solleva le braccia
come per mostrarmi il titolo sui cartelloni, me
lo scandisce davanti agli occhi: «IN-CU-LO-ALLA-BOU-LE-NA! Lo vedi? È perfetto! In culo
alla boulena, gente!». Mi lascio contagiare dalla
sua euforia. «Ti voglio bene, Vasco. In culo alla
boulena anche a te!».
Poi arriva Boulez in persona, e per noi due è finita.
19
NERO SU NERO
Picasso viene a trovarmi nel mio studio. Mi porta un grande quadro che appende alla parete.
Mi dice che, secondo lui, gli manca il nero e mi
chiede di aggiungerlo al suo posto. Osservo: «È
già un quadro in bianco e nero. Dov’è precisamente che, secondo te, gli manca il nero?». Lui
mi guarda come se fossi stupido: «Ovviamente
sul bianco». «Ma così, se riempio gli spazi bianchi, diventa tutto nero, non si vedrà più niente!».
«E anche se fosse nero su nero, chi ti dice che il
nero non abbia nulla da dirci?» mi risponde Picasso prima di andarsene. Io mi metto al lavoro
per riempire le parti mancanti del grande nero
di Picasso, e man mano che procedo mi ritrovo
sempre più nudo e sempre più al di fuori del mio
studio. Prima al semaforo, indicato dai passanti scandalizzati, poi in fuga attraverso il deserto,
poi ospite nella casa di un altro, seduto accanto
al suo camino spento. Infine in un parcheggio,
mentre salgo, accompagnato dalla polizia, in
un’auto non mia, e quello al volante mi informa
che Picasso è appena morto, e ne scrivono tutti
i giornali.
20
LA STAZIONE
Devo prendere un treno diretto verso una stazione di cui non ricordo il nome, sapendo che arriverò troppo tardi per tutto, e nonostante questo
non sono preparato, non so dove andare al mio
arrivo, e non ho un soldo, né un libro da leggere
durante il viaggio. Ho solo una manciata di biglietti per viaggiare, che mi ha regalato mia madre prima di uscire, e non so se sono validi, né
fin dove portano. Così, fino all’ultimo, sono indeciso se prendere o meno questo treno, se non
sia meglio mandare un messaggio, inventandomi una scusa per non andare, ma indirizzato a
chi? Poi il mio senso del dovere è più forte e sono
quasi pronto a salirci, quando mi accorgo che
l’ultimo treno è già passato. Indispettito e confuso chiamo casa, per chiedere che mi vengano
a prendere, ma da casa mi rispondono male, mi
dicono che stanno dormendo e che non è quella
l’ora di chiamare, di farlo a un’ora più decente.
Sempre più confuso, quasi mortificato, mi siedo
nella sala d’aspetto della stazione ormai vuota,
pronto a passare lì la notte, con la sensazione che
sarà la prima di altre mille tutte uguali.
Allora mi accorgo che rannicchiato per terra,
sotto la panchina dove sto seduto, c’è un barbone. Ha il braccio ripiegato sotto la testa. Sembra
dormire, poi mi accorgo mi annusa circospetto,
e comincia a ringhiare quando allungo le gambe, puntando minaccioso il mio polpaccio. Non
avendo nessun altro a cui rivolgermi, gli racconto la mia storia e gli confesso che mi sento molto
stanco, molto solo, che non riesco più a trovare
un senso a nulla in questa vita.
Mi risponde: «Sei stupido? La vita non ce l’ha un
senso. È lì che sbagliate tutti. Vi limitate nelle domande, così avete meno risposte». Ha una voce
sgraziata e sgradevole, ma sono così contento di
averla sentita, la prima voce che sento da ore, che
finalmente mi rilasso, mi distendo.
Lui fraintende il mio movimento e mi azzanna.
21
LA PORTA
Convivo da mesi, da quando sono arrivato qui,
con un giovane attrice nel retro di un negozio
di scarpe. Lo facciamo entrambi per risparmiare
eppure, per evitare malintesi, dormiamo in camere separate né io, in quanto straniero, posso
parlarle. Mi è dato solo ascoltarla, quando fa le
sue prove, attraverso un buco scavato nel legno
della porta che ci separa, in una lingua che non
conosco e di cui afferro appena poche parole nella penombra del magazzino. Quelle che catturo,
affinando l’orecchio fra una lettura e l’altra, me
le segno sul taccuino per andare poi a cercarle
sul dizionario quando lei non c’è. Sogno di poterle rispondere un giorno, e per questo, anche
se ancora non la capisco, ascolto con attenzione
i monologhi indirizzati alla porta, che mi offre
in esclusiva prima che al suo pubblico in teatro.
Imparo così quello che va oltre le parole, i tempi
del suo respiro, come abbassa la voce quando è
turbata fino a renderla del tutto impercettibile,
come la impenna nella furia senza scampo della sua ira, i silenzi affilati che pesano sul cuore,
e tutto quello che nascondono le sue risate. Io
provo, fra un monologo e l’altro, tutte le scarpe
del magazzino, cercandone un paio buono per
riprendere il mio viaggio, appena le avrò parlato.
E scopro che non me ne va bene nessuna. Infatti,
sono tutte bucate.
22
SOGNO DELLA LUCCIOLA
C’è chi ambisce a esplodere nel mondo. A me
basterebbe implodere nella mia stanzetta, e restarmene lì tranquilla, senza mondo, senza più
preoccupazioni. Lavoro, dunque, alla mia scomparsa, al mio lento spegnimento. Mi vedo come
una lucciola stanca, che si aggrappa a una foglia
sotto un cielo abissale.
23
INCONTRO SOGNATO IN FORMA DI HAIKU
Due amanti, ormai lontani, si ritrovano in sogno.
Socchiuso e umido | Siena sommersa | primo bacio d’addio.
La piazza li avvolge, una campana muta.
I tuoi baci venuti | ad asciugarlo | nuove piogge d’autunno.
24
LA DONNA DI SABBIA
Incontro, credo, la donna della mia vita.
È una donna fatta di sabbia finissima e lucente,
ed emana attraverso il suo corpo un odore che
cambia a seconda dei giorni e dell’umore, che
sia aria del deserto selvaggio oppure evocativa di
baie notturne quando i pesci l’accarezzano ciechi per avvolgersi nella nebbia umida dei suoi
fondali, e talvolta, se irritata, assume nel silenzio
l’odore acidulo della lettiera del gatto.
Mi sfugge, leggerissima, mentre la inseguo per le
stanze di casa e sibila, ridendo, appena una brezza sottile smuove le tende, disperdendola in grani minuti che raccolgo, fra le palme delle mani,
per rimetterla insieme accarezzandola.
Poi, attraverso una finestra lasciata aperta la ritrovo in strada, di mattina presto, in attesa che
apra il bar di fronte per offrile un cappuccino
che, inumidendola, la compatti, le dia peso e la
leghi meglio al suolo. Invece, irrequieta com’è,
mi chiede ancora di seguirla.
Prendiamo una corriera verso un paese distante,
non mi dice il nome, le basta che le stia accanto.
Ma sono consapevole della sua fragilità, e che basterebbe un soffio, uno starnuto per ferirla. Così
vengo meno al nostro gioco e mi allontano da
lei, mi tengo a distanza per salvarla da me, e obbligo persino i passeggeri della corriera a imitarmi, li costringo a preoccuparsi per lei, a chiudere
tutti i finestrini e sopportare il caldo, e a restare
immobili nei loro posti per non smuovere l’aria
e danneggiarla.
Mi odiano, ma non me ne preoccupo, mentre lei
prova a raggiungermi, dispiaciuta o indispettita
che sia, cambiando di posto più volte per avvicinarsi a me, che le sfuggo, e lascia una traccia
umida di cappuccino sul sedile, man mano che il
suo corpo si asciuga.
Ed ecco che arriviamo nel paese del vento.
Io la scongiuro di non farlo, la trascino dentro,
ma è tardi, il nostro tempo insieme è finito e lei
scende.
Le corro dietro ma è già scomparsa, dilaniata in
un vortice d’aria sulla piazza e più in alto, verso
il campanile.
La chiamo più volte, piangendo, e in quel momento mi si posa sulla lingua, come un bacio,
un suo granello, l’ultimo in cui mi riconosco.
Mi riavvolge il suo odore perduto, pronto a farsi
perla, si diffonde in corpo come un’eco.
E al mio risveglio, il giorno dopo, la sento ancora
lì, posata, ed evito di parlare con chiunque per
non perderla.
25
LUCE NEGLI OCCHI
Viene a trovarmi una ragazza, pelle scura e tesa,
carne morbida, bassa di statura, facile al bacio.
Brandisce una mazza, pronta a far la guerra alle
piogge stagionali che le hanno prosciugato il
guardaroba. Ha i vestiti fradici, così le chiedo di
togliersi i vestiti e venire a letto, a dormire e riscaldarsi con me. Obbedisce, nel letto mi stringe
forte, commossa, mi riscalda, e mi chiede perché
sto piangendo. Io le rispondo che nemmeno mi
ero accorto di farlo, mi stupisco quanto lei. Lei
prova ad asciugarmi le lacrime con baci leggeri,
poi mi dice scherzando, ma con una luce vivida
negli occhi: non piangere, oppure dovrò uccidere anche te.
26
LA CUSTODIA
È una donna impegnata – o forse è un uomo?
– che trascina sulle spalle una custodia da contrabbasso dentro cui nasconde una piccola cassa
da morto. È la sua punizione per non aver provato dolore per la morte del padre. Passa fra i tavoli della piazza e ne parla senza problemi con gli
avventori, descrivendo persino i particolari più
intimi del rapporto, rovinando loro il pranzo.
È una traduttrice assai impegnata, aggiunge, e
ultimamente sta lavorando a una nuova versione di un’opera di Sophie Marceau sul tempo di
vendemmia, quando la luce pare spegnersi lenta
e gelida sui vigneti intorno al paese. Si avvicina
anche a me per rovinarmi il pranzo e per chiedermi di scrivere un epitaffio per il padre, liberandola dal peso. Quando glielo nego mi ruba
il quaderno degli appunti e prova a spacciare
per addio, recitandola a voce alta e commossa,
la lunga lista delle cose da fare in giornata. Poi
sparisce, ma intanto mi è passata la fame.
Più tardi ritrovano la cassa da morto, incustodita, alle porte del paese. La depositiamo per pietà,
ma senza nessuno a rimpiangerla, nella chiesa
più vicina. E scopro, abbandonata fra i tavoli
come una vecchia pelle di serpente, la custodia
del contrabbasso che le riporto a casa.
La porta è aperta ed entro, ma non è lì. La appoggio vicino al figlio addormentato sul divano,
ma senza svegliarlo, anzi accarezzandolo per
tranqullizzarne il sonno. Girandomi, sul tavolo
ritrovo la coppa di gelato che avevo ordinato a
pranzo ma non ero riuscito a mangiare, con vicino una pagina strappata dal mio quaderno su
cui è fissato un appunto che non riesco a decifrare, ma credo sia un addio a bassa voce.
27
LA VOCE
Incontro due artisti di strada, due ballerini, lui
più selvaggio e fissato con la break dance, lei più
esotica ma con un nome assai particolare, Santa Caterina. Non parlano e perciò fanno un duo
muto assai celebre in provincia, in cui mischiano
linguaggio dei mimi e movenze audaci di grande sensualità. Passo con loro delle ore appassionate e piene di meraviglia, seguendoli fiducioso
mentre si muovono senza musica, ma come se ci
fosse musica, fra i vicoli del borgo. E sento quasi
nascere fra me e lei, nelle pause della danza in
cui lui sembra allontanarsi perduto nella propria
ombrosità, una forma di complicità, mentre le
chiedo se posso offrirle da bere e lei scoppia a
ridere – una risata muta – del mio rossore.
Poi lei scompare, senza spiegazioni. La perdiamo
dietro una curva dopo una lunga ricorsa, e la cerchiamo a lungo, ma senza riuscire a comunicarci
la nostra disperazione per la vergogna di essere
due maschi abbandonati dalla stessa donna.
Va avanti così per l’intero pomeriggio, fra rabbia
e lacrime mute, sospetti e abbracci consolatori.
Infine, non sopportando più il peso di quella solitudine, lui mi trascina in piazza, sotto le arcate,
verso la cabina di un vecchio telefono pubblico
in disuso. Afferra la cornetta e me la passa, facendomi segno di avvicinarla all’orecchio. Gli
obbedisco e sento, per la prima volta, la sua voce
diafana, provenire non dalla cornetta, ma da
molto più lontano. Mi parla da ventriloquo, senza scomporsi, senza deformare un solo muscolo del viso piatto, senza spalancare le sue labbra
secche.
E mi ripete, con una voce graffiata che non capisco più se è certezza maturata in anni di fughe,
tradimenti e ritorni, oppure di speranza senza
cedimenti, ma carica di sospiri ricacciati in gola:
«Lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà,
lei tornerà, lei tornerà, lei tornerà», cercando di
convincermi.
28
VIVA MADDALENA
Sono in viaggio con Maddalena, prima diretti
verso Roma, dove saremo comparse in un film
di Pasolini, poi come perduti per l’Italia e senza
una meta precisa. Poco mi importa, visto che il
viaggio è pagato mi diverto. Maddalena in verità
mi piace, mi piacciono i suoi sguardi dolci e divertiti quando mi saluta con finta noncuranza, né
ci vuole molto a capire che ho una cotta per lei.
Per passare il tempo nei nostri lunghi spostamenti in treno, mi sono inventato un gioco:
mi arrampico sul tetto del treno speciale su cui
viaggiamo – un treno a quattro piani approntato
apposta dalla produzione per ospitare l’enorme
troupe impiegata per quello che sarà, promettono, il film del millennio – e osservo dall’alto del
treno in corsa e la gente dei paesi che ci passano
intorno con un misto di orgoglio e di pietà. Osservo l’Italia che scorre in bianco e nero e me ne
sento il cuore pesante, anche se forse è solo l’effetto del movimento del treno.
Giungiamo, quindi, in una città senza nome
dove, per uno stupido errore di prospettiva
prendo una porta per un’altra e finisco prima per
lanciarmi fuori dal treno e poi, non riuscendo a
ritrovare la strada verso il nostro binario, perdermi nella stazione.
Chiedo informazioni ai passanti, qualcuno cerca
di aiutarmi, di darmi indicazioni, mi accompagna e come nulla si forma un drappello di persone, o meglio ancora una processione, che mi
viene dietro e mi conduce per una lunga stradina lastricata su in collina.
Ascolto alle mie spalle Maddalena dare ordini
crudeli, con tono da ufficiale, per la mia condanna a morte. E riconosco fra gli altri i volti di molti con cui ho viaggiato, la troupe che riprende
la mia salita al patibolo fra la folla infervorata
dall’idea del sangue e dalla voce acuminata di
Maddalena.
All’improvviso si sente una voce più alta che
spezza la tensione. È la voce di un grosso cane
pastore che si fa avanti dal bordo della strada e
tuona contro di noi col piglio di un vero regista:
«Lasciatelo stare, cretini! Non vedete che non è
credibile, con quella faccia! Questa esecuzione è
diventata una farsa! Non è così che salverete il
Paese! Serve più sangue, più tragedia! Cacciatelo
via! Trovatemene un altro!».
Maddalena si scusa, ma come indispettita, e subito la folla, pentita per quella svista, si disperde e torna a casa, oppure al treno. Io, scacciato
dalla produzione e perduto in quella città senza
nome, perché ricostruita in studio ma non per
questo meno italiana, mi ritrovo da solo e senza un soldo per strada. Per la notte, cerco riparo
con altri disperati, militanti e comparse, in una
scuola. Più tardi mi chiama Maddalena, anch’essa scacciata, e si scusa con me, ordini dall’alto
mi dice. È al verde e mi chiede se ho una stanza
dove dormire e se può rifugiarsi da me. Io le rispondo di essere al verde quanto lei e le dico, se
vuole, di raggiungermi a scuola. Mentre intorno
alla scuola si radunano i cani.
29
IL PADRE
Incontro una bambina chiamata Montale, a tal
punto stanca del suo nome da chiedermi di cambiarlo, trasformandola in Fiore. Dice che le occorre il mio permesso di padre. Glielo accordo.
Lei subito mette radici e le sue mani cominciano
a crescere, allargarsi, poi deformarsi fino a diventare delle grandi foglie che mi avvolgono la
testa in una sorta di nebbia profumata.
30
IL VENDITORE DI ROSE
Sono appena stato derubato da un abile venditore di rose, che parlandomi a voce bassa e svelta,
senza che capissi una sola parola di quanto mi
diceva, mi ha convinto a cedergli una preziosissima medaglia di Ganesha che tenevo appesa al
collo come ornamento, per regalarla al figlio che
stava al suo fianco, nel silenzio orgoglioso degli
ostinati ma con lo sguardo di chi non possa desiderare altro al mondo. Il figlio con la pelle olivastra che non mi ha dato niente in cambio, né un
grazie e nemmeno una rosa.
Quando un prete corre fuori da un albergo urlando: Gesù è scappato! Gesù è scappato! All’improvviso il venditore di rose lancia un grido anche lui, rannicchiandosi su se stesso e tenendosi
il piede con forza, come se fosse ferito. Ha appena spiaccicato Gesù, che per scappare si era fatto
piccolo piccolo come una formica.
31
LA TORRE BIANCA
Mi ritrovo calato – da chi? – nella stanza in cima
a una torre bianca, all’interno della quale è racchiuso tutto il blu Matisse, insieme al suo custode. Il custode, sfinito dagli anni di servizio e dalla solitudine, mi chiede di salvarlo, aiutandolo a
scappare di lì. Ma l’unica via di fuga pare una
lunga scalinata esterna, che corre attorcigliandosi intorno alla torre con gradini talmente stretti
da essere adatti soltanto ai piedi di un bambino,
cominciando da una balconata senza parapetto
posizionata circa tre metri più in basso rispetto a
una finestra che dà sul mattino.
L’impresa è quasi impossibile. Si deve saltar giù
dalla finestra sulla balconata, sperando di non
perdere l’equilibrio atterrando, e poi percorrere
la scalinata tenendosi stretti al muro. Il tutto approfittando della prima luce dell’alba, ma prima
che si faccia pieno giorno e che qualcuno possa
vederci e avvertire le guardie della torre. Eppure
il custode è talmente disperato da implorarmi,
dice che preferisce la morte a restare lì un solo
altro minuto, immerso in quell’azzurro senza tristezze che lo priva della metà oscura delle sue
emozioni.
Decidiamo così di provarci, calandoci giù dalla finestra, prima lui e poi io. Atterriamo, come
per miracolo, sulla balconata di sotto e sollevando lo sguardo verso l’orizzonte ora spalancato,
ci teniamo per mano per darci coraggio, mentre sentiamo, come se fossimo nudi, il fresco del
primo mattino che ci morde il cuore e le braccia.
Restiamo così per un tempo che pare infinito.
Poi lui, preso dalla frenesia della fuga, emette un
lungo sospiro e voltandosi verso la scalinata mi
lascia la mano. Comincia a scendere, tenendosi
stretto alla parete come una lucertola, approfittando, oltre che degli stretti scalini, anche di alcune irregolarità delle pietre, fessure e spuntoni.
Lo guardo e mi stupisco. Ma non dovevo essere io a salvarlo? Eppure sembra cavarsela molto
meglio di me, che ho fatto l’errore di guardare in
basso, e ora la distanza da terra mi sembra talmente vasta, spaventosa, che comincio a tremare
tutto e mi gira la testa per le vertigini.
Mi ritrovo così bloccato sulla balconata all’esterno della torre, a decine di metri dal suolo, incapace di tornare al sicuro nella stanza del blu,
ma paralizzato all’idea di affrontare gli scalini
che ormai mi sembrano talmente stretti da non
riuscire più a distinguerli sul muro, mi pare una
follia. Anche il custode è scomparso e non so più
se mi ha distanziato oppure è caduto di sotto. Lo
chiamo a gran voce, terrorizzato, ma non risponde, sono da solo ormai, costretto a quella torre.
Il sole comincia a sollevarsi dietro l’orizzonte, e
il primo calore in parte allevia i brividi, in parte
mi offre una speranza. Presto le guardie mi vedranno e verranno a riprendermi. Mi basterà
solo arrendermi, aspettare immobile il loro arrivo, stando ben attento a mantenere l’equilibrio, e
poi decideranno per me.
In quel momento il sole si solleva di colpo, con
un grosso boato, sopra l’orizzonte, e io mi sciolgo
dentro il muro.
32
GLI SCOMPARSI
Nel sogno muoiono tutti senza volerlo. Alcuni
scompaiono persino dal ricordo, o forse si nascondono e basta. Altri continuano a vivere –
nella finzione – una vita priva di senso ma ricca
di alibi. Come quello di darsi appuntamento per
parlare degli scomparsi, porsi domande su di
loro, offrire aneddoti come risposte e trattenerli
il più a lungo possibile, fino a quando, a forza di
ripeterli, gli aneddoti stessi diventano vuoti.
33
LE VERTIGINI
Sono fatto d’acqua e ho le vertigini, mentre provo
a reggermi sulle mie gambe senza troppo successo. Di buono c’è che quando cado non mi rompo le ossa, e la stanza intorno, quando mi apro
sul pavimento e poi mi riassorbo, ne viene fuori
un po’ più pulita. In verità spero che così, assorbendo lo sporco, potrei riuscire a compattarmi
meglio. Invece prevalgono ogni volta l’acqua e le
vertigini.
34
L’USCITA
«Il fatto che esista una parola, “sogno”, non significa e
non implica che la realtà abbia un’alternativa.»
Iosif Brodskij
Percorriamo da ore un lungo corridoio in pietra,
o ponte coperto da un’altissima volta e «sospeso
sul nulla, ma solido», come ci dice la guardia che
ci accompagna verso l’uscita col fare svagato e
un po’ sbuffante, ma colloquiale, di tutte le guardie annoiate e costrette a un lavoro ingrato. Ho
provato a farle domande, ma non ha risposto a
nessuna, aggirandole coi suoi sinceri apprezzamenti alla meraviglia architettonica di quel corridoio. Ma è così lungo e impervio, insensato e
pieno di curve inattese che si avvolgono e avvitano e aggrovigliano su se stesse in una sorta di
labirinto serpentesco, che appare più il delirio di
un ingegnere folle che l’opera grandiosa che ci
dipinge la guardia entusiasta. Siamo in tre con
la guardia. Ci accompagna un bambino che non
conosco ma si stringe a me senza mai guardarmi
in viso, e mi assomiglia al punto da essere il mio
ritratto di quando avevo la sua età, la stessa aria
malinconica, lo stesso sguardo privo di sorriso
di quand’ero bambino. La guardia, parodiandoci, ci chiama la sacra famiglia mancata, mancandoci appunto una donna.
La volta, senza alcuna forma di illuminazione,
emana una sorta di luminescenza muschiosa
dalle pareti, che mi lascia ammirato. La guardia ci dice che è così perché riflette la luce che si
propaga dall’uscita, ormai non troppo lontana.
Non le credo più, da quanto tempo ci costringe, senza violenza ma con decisione che non
ammette lamentele, a quella marcia forzata. È
un cammino di ore indirizzato verso la nostra
morte, lo sappiamo, eppure non ci opponiamo,
ormai rassegnati alla fine. Certo, preferirei non
essere costretto a quella prova massacrante. Mi
sento come spossato, come se le gambe non riuscissero più a reggermi e per un attimo credo che
sia il bambino, a furia di appendersi a me, a togliermi ogni forza. Vorrei scrollarmelo di dosso,
cacciarlo via, ma poi mi prende pietà di lui e lo
lascio perdere. Mi volto indietro, per un attimo
come richiamato da una voce, ma è un’illusione,
e mi chiedo dove sia sua madre, dove la sua vera
famiglia, e perché è stato affidato a me in quelle
ultime ore che ci coinvolgono. Poi lascio perdere
anche le domande e mi concentro unicamente
sulla voce querula della guardia, sulle sue chiacchiere per ammazzare il tempo che ci resta.
Arriviamo dunque alla fine del corridoio o ponte, di fronte a un enorme e solido muro all’apparenza senza uscita. E ci dirigiamo verso un
angolo, incontro a una porticina strettissima e
irregolare che sembra essere stata scavata nella
spessa parete cieca con un punteruolo di fortuna. È talmente stretta come uscita da sembrarci
ridicola. E noi dovremmo passarci attraverso?
Ma come? Forse potrebbe il bambino, ma io?
Provo a spiegarlo alla guardia, ma lei si dice convinta del contrario, è possibile.
Ci invita, con grande entusiasmo, a chinarci e ad
allungare la testa attraverso quella finestrella per
ammirare, dopo tale cammino, cosa finalmente
ci aspetta. Gli obbediamo e restiamo come pa-
ralizzati, meravigliati da tanto splendore. Siamo
sospesi, è vero, chilometri sopra il mare, quasi
nello spazio aperto. Ma persino la Terra sotto di
noi, che pare farsi sempre più lontana, si illumina
della stessa luminescenza diafana del corridoio.
Mi volto, di nuovo armato di domande, verso la
guardia, che adesso mi punta contro una pistola per precauzione, ma continua a sorridermi da
un’adeguata distanza di sicurezza.
«Si può sapere dove siamo? Cosa ci aspetta? Vuoi
davvero che saltiamo di sotto da questa altezza?»
chiedo, facendomi finalmente coraggio, e alle
mie parole il bambino sembra stringersi ancora
di più a me, e mi bacia la mano che intanto si è
posata sulla sua guancia umida, per scaldarlo.
La guardia mi sorride, comprensiva, e tira fuori
dalla tasca una corda d’oro che mi passa. «Non
dovete lanciarvi di sotto, dovete calarvi con questa e andrà tutto bene. Ma occorre fiducia».
Ma la corda mi appare troppo corta per calarci
di sotto, e resto immobile.
Lui mi sorride per la terza volta e mi rivela: «Siamo nella pancia del Signore, questo è il suo intestino. Tocca a voi, adesso, dargli un senso».
Il bambino comincia a tremare contro il mio
corpo, si stringe di più, sempre di più a me, fino
a farmi star male. Io fisso la corda che mi appare
ancora troppo corta, non so decidermi, mi chiedo se a un certo punto ci sarà una magia, e come
potremo mai uscire da quella fessura strettissima nel muro. Allora sento il grilletto della pistola che viene caricato. Osservo la canna puntare
minacciosa verso di noi, indicarci il buco.
«Ora pregate» ci ordina.
35
IL GIARDINIERE ALLA FORESTA
Un giardiniere che, per brevissimo tempo, è stato celebre per un suo libro di viaggio in moto da
cross attraverso il Messico non si incontra tutti i
giorni. Eppure una mattina mi chiama al telefono e mi chiede un appuntamento per propormi,
durante la mezz’ora che è riuscito a ritagliarsi fra
una potatura e l’altra, la pubblicazione del suo
nuovo libro prima della sua probabile partenza.
Non l’ho mai visto prima, ma vive a pochi chilometri da casa, in un centro spirituale in perfetto stile indiano, ma organizzato come un B&B
per danarosi annoiati e infervorati di misticanza.
Dorme lì gratis, in cambio di lavori di fatica fra
cui la potatura di altissime palme sulle quali è
il solo capace di arrampicarsi senza vertigini. Al
suo interno fa vita appartata, sua unica compagnia è un gatto transgender che a un certo punto
ha cambiato genere in maniera spontanea, trasformandosi da maschio a femmina. Per il resto
lavora duro e senza respiro. Si sveglia all’alba,
mangia da solo quanto più può per darsi energia
– e svuotando ogni volta il frigo, motivo per cui
non lo amano – poi tira dritto fino al tramonto
con la consapevolezza che presto, appena fa due
soldi, andrà via.
Da come si descrive lo diresti un uomo taciturno.
Invece, gioviale come pochi, mi si siede davanti e
mi parla dei suoi racconti, oppure comincia a leggermi stralci dal manoscritto, scoppiando a ridere
di tanto in tanto travolto dalla sua stessa ironia.
Ricordo una storia in particolare in cui, in un
suo viaggio onirico arriva in una valle. Ci è arrivato sognando perché gli hanno detto che qui,
tutte le mattine, succede un fenomeno assai particolare a cui vuole assistere. Nella valle vivono,
ancorate al suolo, delle enormi forme dormienti,
lunghe fino a venti metri, che palpitano nel buio
della notte, e che sollevandosi all’alba, risvegliate dai primi tiepidi raggi, trasformano la valle in
una sorta foresta pluviale.
Ecco che lontano, dietro l’orizzonte, comincia a
intravedersi la luce, la terra si muove pigramente, poi trema per lo stiracchiarsi dei corpi, il loro
gonfiarsi e irrigidirsi, tirarsi su pian piano a scat-
ti, impennarsi e incurvati lievemente verso il cielo, rosei, lucidi e tirati in cima, appena scossi dal
fresco del primo mattino che li pizzica. Una vera
foresta di cazzi equatoriali.
Sarebbe una visione maestosa e degna di Moebius, se a questo punto non arrivasse a mungerli
una squadra attrezzata di nani che, con grande
abilità, si arrampicano lungo il loro fusto nodoso,
arrivano in punta e cominciano a massaggiarla
con decisione fino a farli eruttare in uno spruzzo
che ricorda l’esplosione di un gaiser o di un pozzo petrolifero, impiastricciando la valle dei loro
succhi vitali. È una tale sconcezza di sogno che
alla fine il suo stesso autore decide di abbattere
questa foresta oscena ricorrendo alle forze speciali dell’aeronautica: una pattuglia composta da
aerei a forma di vagina, che grazie ad ali basculari sono capaci di atterrare in verticale sopra i
cazzi e…
Gli dico che le sue storie mi piacciono ma non ho
tempo di seguirlo, così lo passo a Luca perché ci
lavorino assieme loro due. Ci lavorano così tanto
– con lui che riscrive intere pagine del libro per
ridarcele identiche a com’erano in partenza – che,
ironia a parte, alla fine il libro non si fa più. Ci
salutiamo, molto tempo prima della data annunciata per la sua partenza, quando ormai stufo di
tutto e tutti, anche di noi, avendo fatto due soldi,
mi telefona per comunicarmi che ha deciso di
tornarsene un po’ dalla sua mamma in Veneto.
36
LE RAGIONI DEL NO
Nei giorni di sole Nino non riesce a resistere alla
tentazione. Scende di casa, attraversa la strada
ed entra nel negozio di mobili del figlio. Di mattina è quasi sempre vuoto, la clientela pochissima. Così ha non solo una stanza tutta per sé, ché
già deve dividere casa con cognata e nipoti, la
televisione perennemente accesa e le chiacchiere
della vicina invadente, ma può anche scegliere
fra i letti e i divani in fondo.
In base all’umore del giorno ne sceglie uno più
o meno esposto alla luce, che entra dalla grande
vetrata laterale. Toglie il lungo cappotto di panno scuro che ha comprato anni fa con sua moglie, poi si allunga sul divano o sul letto prescelto
con la voluttuosa indolenza di una grossa lucertola, si lascia avvolgere dal tepore e in quel tepore si appisola ogni volta, per alcuni irrinunciabili
minuti. La casa è fredda e fosse per lui terrebbe
il cappotto tutto il tempo, ma sua cognata non
vuole e lo rimprovera spesso perché lo tolga e
si comporti un po’ da uomo. Così, per lui, il negozio si è trasformato nell’ultimo rifugio per la
propria dignità.
Dopo aver dormito, Nino tira fuori dal portafogli i suoi foglietti, che sono il suo grande conforto, al punto che quando sua cognata ha provato
a portarglieli via dicendogli che era ridicolo, si
è opposto con tutte le sue forze fino a farla desistere. Li tira fuori e li rilegge, approfittando del
silenzio, per correggerli fino a renderli perfetti. Oppure, se ha una nuova idea la appunta su
quelli puliti che ha ritagliato dai vecchi quaderni
di sua nipote. Sono epigrammi che non avranno mai una vera pubblicazione, ed esprimono
soltanto la rabbia, la frustrazione per ogni sopruso o menzogna, tutta la sua insoddisfazione.
Le alimenta con la forza inesauribile di giornali,
trasmissioni, le chiacchiere in parrocchia o dal
tabaccaio sotto casa. «Per tutto questo abbiamo
vissuto e lottato?» chiede a se stesso e a sua moglie. Inetti e criminali al potere, razzisti, cialtroni, migranti e schiavi, terremotati, tedeschi, le
banche che si mangiano tutto, la gente che invece di lottare seriamente si gratta oppure strepita,
si piange addosso o ripete con violenza insensata
slogan a tempo perso, fino a farlo vergognare di
parlare la loro stessa lingua. Per tutti loro abbiamo vissuto e lottato?
E si sente crescere dentro come una furia che
non sa più contenere, la scrive con forza, ma in
rima. La appunta, col suo sangue gettato negli
anni, in biglietti che si porta in tasca carichi di
sdegno e di veleno, come pistole pronte all’uso.
Il suo testamento morale: pistole civili, armate
di parole che gridano: «Mi fate tutti schifo, voi
servi, voi padroni senza nessun potere, i vostri
discorsi che suonano come lo sciacquare delle
stoviglie dopo una grande abbuffata e l’incredulità di quelli che sono rimasti a digiuno, ma zitti
per tutta la vita mentre aspettavano gli avanzi».
E prega ogni sera, prima di addormentarsi, per
le prossime elezioni, o per il referendum, uno dei
tanti, ché arrivino il prima possibile. Ne pregusta
già ogni passo, nel buio, nel poco tempo che gli
resta. Sogna di dirigersi verso le urne a testa alta,
guardare il mondo fiero, dall’alto, prima di tirare
fuori il suo biglietto scelto per quel giorno. Far
tremare la parete in alluminio sotto la sua terri-
bile caustica matita, fino a consumarle la punta,
mentre ricopia sulla scheda i suoi versi di rivolta,
l’ultima occasione di far sentire il suo NO al Paese, dopo che gli hanno abbassato la voce.
37
ULTIMO SOGNO
La dignità mi calpesta e lo fa per sistemarmi un
problema alla schiena. Il giorno dopo, infatti, mi
risveglio un pochino più dritto.
38
IL BECCHINO
Sono una specie di becchino al contrario. Scavo d’inverno per ripescare stronzi buoni come
combustibile per il fuoco, e riemergono invece
cadaverini di animali domestici, che si confondono col paesaggio color terra bruciata e bianco
di neve fresca come in un quadro fiammingo.
39
NINNA NANNA
Viaggio in treno, vagone di seconda classe. Seduta di fronte a me una ragazza, credo russa, parla
da circa mezz’ora al telefono nella sua lingua. A
un certo punto comincia a cantare con voce limpida una specie di nenia, come una ninna nanna
del suo paese, mentre il suo viso si scioglie nella
luce del vetro. Per poco, mi sento preso al laccio da quel canto, intorbidito, poi cullato fino a
farmi sbadigliare. Si ferma, prova a giustificarsi
con la persona di là, con tenerezza e apprensione. Poi si accorge che la osservo di sottecchi e
forse fraintende il mio sguardo, crede che mi stia
disturbando. È mia figlia, mi spiega, sente il rumore del treno e pensa che me ne sto andando
per sempre.
40
RITORNO SUL MAR SECCO
Sono tornato sulle rive del Mar Secco. Come
per rifugiarmi, dopo un brusco risveglio, in un
luogo accogliente e sicuro, all’asciutto. Cammino lungo la spiaggia di polvere d’ossa che scricchiola come semplice ghiaia sotto i miei passi e
mi guardo intorno cercando l’ombra di Cechov
per confrontarmi ancora con lui, confidargli le
mie tribolazioni, averne un conforto o una parola che mi chiarisca il significato di certi passaggi
oscuri nei miei stessi sogni. Ma non c’è traccia
del suo profilo che sia riconoscibile al mondo.
Giungo così alla panchina dove una volta eravamo seduti insieme, guardando verso il mare
vuoto. Sedendomi al suo posto, indirizzando il
mio sguardo nella stessa direzione del suo di allora, finalmente la vedo anch’io: una rosa di fuoco avvolta dalle acque purissime del Secco che
dalle acque sembra rigenerarsi come Cielo.
Contemplandola, dimentico ogni mio pensiero.
Note sulle attribuzioni delle epigrafi
Origine
Goffredo Parise, Sillabari, Adelphi 2004.
0.
Iosif Brodskij, Fondamenta degli Incurabili, traduzione di Gilberto Forti, Adelphi 1991.
4. L’aia
Julian Barnes, Livelli di vita, traduzione di Susanna Basso, Einaudi 2013.
34. L’uscita
Iosif Brodskij, Lettera a Orazio, traduzione di
Gilberto Forti, in Dolore e ragione, Adelphi 2013.
Notizia
Antonio Lillo (1977) vive a Locorotondo, dove è
direttore editoriale delle edizioni Pietre Vive. Ha
pubblicato: Dal confino, Le qualità del male, Viva
Catullo, Rivelazione, Bestiario Fiorito.
iCentoLillo
Raffaele Fiorella, Da domani
Antonio Lillo, Dal confino
Francesco Santoro, Piombo
Mimmo Pastore, Fuori fuoco
Sergio Pasquandrea, Approssimazioni
Antonio Lillo, Rivelazione
Pino Simone, Datemi un posto
Maria Nardelli, Vengo a prendere un po’ d’aria
Carlo Tosetti, Wunderkammer
Elena Vladareanu, spazio privato | spatiu privat
Alessandro Silva, L’adatto vocabolario di ogni specie
Antonio Lillo, Bestiario Fiorito
Elena Zuccaccia, Ordine e Mutilazione
Paolo Castronuovo, Labiali
di prossima uscita
Paolo Polvani, Il mondo come un clamoroso errore
www.pietreviveeditore.it