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PRIMO PIANO
Giovedì 5 Gennaio 2017
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In questi collegi infatti i candidati azzurri rischiano di essere stritolati da Pd o M5s
L’uninominale è micidiale per Fi
Stanno come d’autunno sugli alberi le foglie (Ungaretti)
DI
D
CESARE MAFFI
ietro Giovanni Toti,
uscito allo scoperto con un’intervista
nella quale fra l’altro
riprende una sua inveterata
fissazione sul partito unico del
centro-destra, si muovono molti
parlamentari azzurri eletti nel
nord. Hanno un comune e ovvio
intendimento: farsi rieleggere.
L’aspirazione è condivisa con i
colleghi eletti nelle zone rosse e
nel sud, ma li muove verso un
progetto che questi ultimi non
gradiscono: i collegi uninominali.
La loro speranza è di essere candidati in collegi nei quali, più che il personale apporto, gioverebbe il seguito della
Lega: quindi, essenzialmente
nel Veneto e in Lombardia. Il
sostegno leghista, unito al più
modesto patrimonio elettorale
di Fi, a quello ancor più ridotto
della destra ed eventualmente
di altri movimenti da coagulare nelle candidature comuni del
centro-destra (Brunetta è solito elencare almeno una decina
di nomi), servirebbe a sconfiggere sia i democratici sia i grillini.
Salvini conta sulle pressioni di
questi potenziali parlamentari
per attrarre Berlusconi in una
trattativa che, verosimilmente
visti i precedenti, finirebbe per
lasciare ben pochi posti agli azzurri. In effetti, questi deputati
e senatori fanno eccessivo conto sulla possibilità che i leghisti
li ricandidino. Qualcuno, sì, ci
sarà senz’altro; ma i collegi in
cui si troveranno a concorrere
saranno fra i meno sicuri, per
tacere di quelli perdenti, che in
ogni caso abbonderanno.
Naturalmente, là dove
manca la base leghista i
parlamentari forzisti si sentono quasi tutti sconfitti in partenza. In Emilia-Romagna, in
Toscana, in Umbria, nelle Marche, in Basilicata, con qualche
eccezione, non hanno speranze
di farcela contro i candidati del
Pd, talora così sicuri da essere
paracadutati da fuori. Nelle
altre regioni temono la concorrenza, oltre che del Pd, del
M5s. Nell’insieme, quindi, sono
molto scettici. Preferirebbero
un sistema proporzionale, con
liste concorrenti e preferenze,
contando sovente (massimamente in Sicilia) su pacchetti
di voti personali.
Si prospetta un rischio,
se prevalesse la tesi degli
azzurri del nord: la ripetizione
delle attese del 1993. La legge
Mattarella fu allora approvata in maniera convergente da
Pds, Dc e Lega. Gli ex comunisti erano persuasi di far man
bassa di seggi nelle tradizionali
zone rosse e di arraffare molti
collegi grazie alle divisioni degli
avversari di centro e di destra,
contando invece di attrarre
a sé non poche formazioni di
centro-sinistra. I democristiani
pensavano di avere ancora un
seguito elettorale consistente
e di allearsi con i partiti laici,
così da vincere comodamente
al sud e di attestarsi con buoni
risultati pure al nord. I leghisti, a loro volta, sentivano il
vento in poppa e pensavano
di affermarsi in moltissimi
collegi del nord, cominciando
proprio da quelli delle zone
bianche.
Si vide poi che avevano
ragione gli eredi del Pci,
i quali furono sconfitti dai
due poli abilmente creati da
Silvio Berlusconi, mentre
ai diccì divenuti popolari
restarono le briciole. Questi
elessero nei collegi maggioritari, sotto la denominazione
di Patto per l’Italia (con Mariotto Segni e frammenti centristi), appena quattro deputati. Non si dice, ovviamente, che
tale sarebbe la fine dei candidati azzurri nel centro-destra.
Tuttavia sarebbe bene che
essi tenessero conto sia delle
difficoltà tradizionali che gli
elettori di centro-destra incontrano nel sostenere candidati uninominali, sia della
totale incertezza sul seguito
che in molti collegi potrebbero
ottenere tanto il Pd quanto il
M5s. Eppoi, sarebbe suicida
per un partito fare conti sulla base dei risultati ottenibili
soltanto in un terzo del territorio nazionale.
GIANNI MACHEDA’S TURNAROUND
Stampa e tv, Grillo invoca una «giuria popolare». Dev’essersi ricordato di quando partecipava a Sanremo.
***
Di Canio: «Non sono fascista». E’ che lo tatuano
così.
***
Secondo una ricerca avere un coniuge aiuta a sopravvivere all’ictus. Purché sia veloce a chiamare l’ambulanza.
***
Bersani spiega come superare il Renzismo. In un lungo articolo da cui si capisce perché mai si parlerà di
Bersanismo.
SEGUE DALLA PRIMA PAGINA - PIERLUIGI MAGNASCHI
vicenda del responsabile delle news,
Carlo Verdelli, che, dopo averle
tentate tutte per rinnovarle, ha
dovuto gettare la spugna e rinunciare all’impresa. Anche questa vicenda
non si capisce (o si capisce solo in
parte) se si aderisce all’idea che il
mondo politico abbia in mano la Rai
anziché l’opposto.
La Rai infatti era in mano ai politici solo ai suoi esordi, quando la Dc
controllava tutto. Poi il potere Rai si
è progressivamente sbriciolato fra i
vari patiti (con la prima rete alla Dc,
la seconda ai socialisti, la terza ai
comunisti). In
seguito, con la crescente coriandolizzazione politica
post Mani pulite, il
potere dei partiti
sulla Rai (che pure
esiste, e che spesso
dà dei sonori colpi
di coda, come del
resto fanno anche
le balene spiaggiate) si è progressivamente trasferito
sulla nomenclatura
aziendale che, sommandosi allo strapotere sindacale, ha
definitivamente
ingessato la Rai
come se essa fosse
inserita in un polmone d’acciaio. Può
sopravvivere, ma
non cambiare. E in un settore come
quello del media digitali che cambiano completamente fisionomia
ogni cinque anni, l’immobilismo è
una dichiarazione di morte e non
solo di impotenza.
Sbaglierebbe chi ritenesse che
questa situazione sia modificabile
(come succede in qualsiasi società
per azioni di qualunque paese ad
economia di mercato) dall’azione del
presidente e dell’amministratore
delegato. E anche dalla maggioranza
del cda. Costoro, formalmente, hanno la possibilità di fare le scelte ma,
in sostanza, in Rai non possono far-
le perché, al pari di Gulliver, che
pure era un gigante, sono imbrigliati da sottili liane che li stringono e
impediscono ma non si sa nemmeno
da chi siano state tese, di che sostanza siano fatte, da dove vengano e
come operino. In questo quadro di
potere, potente perché intrecciato,
ma incontrastabile perché è allo stato gassoso, l’unica riforma possibile
è non fare nulla.
Basti pensare che, proprio per
ingessare il tutto, impedendo ogni
rinnovamento, la Rai è l’unica azienda editoriale italiana che non appli-
ca il contratto di lavoro giornalistico
che prevede la possibilità del licenziamento con (lauto) indennizzo
automatico di ogni direttore e vicedirettore di testata per autonoma e
non appellabile decisione dell’editore.
Nei contratti Rai invece si prevede una clausola che, all’opposto,
prevede specificamente l’illicenziabilità anche nelle posizioni dirigenziali, per cui, quando un direttore
viene sostituito, l’azienda Rai che lo
ha rimosso, perché evidentemente
non lo riteneva più all’altezza dei
suoi compiti, deve trovargli un altro
posto di suo gradimento (che spesso
è farlocco) e il rimosso conserva la
retribuzione e i benefici direttoriali
precedenti.
Recentemente, in piena gestione
Campo Dall’Orto ancora forte perché sostenuto da Renzi prima del
referendum che lo ha disarcionato,
è stata fatta in Rai una infornata di
vicedirettori, tutti promossi con la
clausola aggiuntiva della illicenziabilità che, ripeto, non è prevista dal
contratto nazionale di lavoro giornalistico. Ora, pazienza con le posizioni in essere (a costoro, avendo
ottenuto il beneficio
extra-contrattuale,
esso non può essere
tolto se non con una
specifica e difficile
ricontrattazione)
ma insistere attribuendo l’assurdo
beneficio anche con
le nuove nomine
(avvenute sul finire
del 2016!) è uno dei
tanti fatti che dimostrano che la Rai
non solo astrae dai
costi, ma è anche
irriformabile.
In queste condizioni, nemmeno
Sergio Marchionne avrebbe potuto
operare. Immaginarsi Carlo Verdelli,
che pure è uno dei più grandi esperti mediatici italiani e che, se lasciato lavorare, come dimostra anche il
suo piano e gli interventi già da lui
introdotti nel suo anno di lavoro,
avrebbe cambiato radicalmente (e
decisamente in meglio) la Rai che,
in barba alla tante eccellenti professionalità che in essa operano (quando esse vengono lasciate operare) è
sempre più una società alla deriva
che rifiuta l’obbligo del cambiamento, protetta dall’assoluta ridondanza
del canone obbligatorio. Ma fino a
quando?
Pierluigi Magnaschi
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