fuori collana - Aracne editrice

Download Report

Transcript fuori collana - Aracne editrice

FUORI COLLANA
Claudio Berretta
La scuola di Davide
www.aracneeditrice.it
www.narrativaracne.it
[email protected]
Copyright © MMXVI
Gioacchino Onorati editore S.r.l. – unipersonale
via Sotto le mura, 54
00020 Canterano (RM)
(06) 45551463
isbn 978-88-548-9693-2
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di
riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il
permesso scritto dell’editore.
I edizione: dicembre 2016
Premessa
La lotta biblica di Davide e Golia, il simbolo della lotta del
debole contro il più forte, il piccolo contro il gigante, è a
volte la stessa di tante bambine e bambini o adolescenti
che si scontrano, paradossalmente, con l’istituzione che
per eccellenza dovrebbe aiutarli a crescere.
Anche quando i forti sembrano loro, anche quando gli
adulti si scoprono impotenti di fronte a situazioni molto
difficili, in territori particolarmente disagiati, con risorse
e formazione insufficienti, la fragilità emerge drammatica.
Una fragilità condivisa: gli insegnanti sono la categoria
a più alto rischio di burn out e i genitori, a volte, disperatamente, difendono i loro figli qualunque cosa facciano,
perché vedono la scuola come nemica, ritrovandosi così
da soli nel loro difficile compito.
Queste due fragilità subiscono inoltre spesso i limiti
di un’istituzione trascurata e maltrattata, malgrado la sua
fondamentale importanza sociale, da scelte politiche rivolte al risparmio di spesa o mosse da impianti ideologici
estranei alla cultura pedagogica.
Ma Davide non sempre subisce passivamente e la sua
reazione è spesso lo stimolo a una riflessione che può condurre verso innovazioni utili a tutti. Quegli alunni, visti
con preoccupazione, perché rendono difficile il lavoro
della classe, si rivelano spesso come coloro che aiutano a
costruire una scuola migliore; a patto che incontrino in5
Claudio Berretta
6
segnanti in grado di riconoscere i loro bisogni educativi
come bisogni di molti, che loro fanno emergere e rendono
espliciti. Insegnanti che sappiano individuare i “bisogni
educativi normalmente speciali” e che siano disponibili
a cercare delle risposte attraverso cambiamenti idonei a
rendere la scuola realmente inclusiva.
Così può succedere che proprio gli allievi più devastanti, come Davide, grazie ai cambiamenti da loro sollecitati,
si rivelino come quelli che possono dare un contributo
determinante per creare una scuola più accogliente, efficace e inclusiva. Una scuola dove tutti – alunni, genitori e
insegnanti – possano stare bene.
La scuola aperta
Appena varcato il cancello della scuola il professor Carlo Bonforti vede la vicepreside correre verso di lui: «Presto! Vieni! Abbiamo sgridato Davide perché picchiava un
compagno e adesso non vuole più scendere».
Comprese il motivo della sua espressione atterrita non
appena alzò lo sguardo verso il primo piano: Davide stava di nuovo facendo una passeggiata sul cornicione della
scuola.
Era un modo del tutto personale di interpretare il concetto di “apertura della scuola verso l’esterno”.
Si era peraltro già anche occupato di favorire il cosiddetto “lavoro di rete” aggredendo una neuropsichiatra e
un’insegnante, evento che aveva favorito un dialogo tra le
due figure professionali, solitamente piuttosto raro, basato
su esperienze comuni e condivisioni sulla qualità del servizio prestato dal pronto soccorso di zona.
Da circa venti minuti Davide passeggiava acrobaticamente sul cornicione senza degnare della minima attenzione professori e bidelle che gli chiedevano di scendere,
ma appena vide il professore saltò sul mancorrente della
ringhiera della terrazza davanti al portone di ingresso della scuola, lasciandosi poi scivolare, in piedi, su quello della
scala, raggiungendolo così al secondo scalino.
Seduti sui primi gradini si guardarono negli occhi.
In silenzio.
7
Claudio Berretta
8
Il professore non disse nulla.
È dall’inizio della prima che, come insegnante di sostegno, segue Davide per i suoi gravi disturbi relazionali.
Ora, dopo più di un anno che si conoscono, a volte, non
ha bisogno di parlare per farsi capire. Il silenzio è quanto
mai eloquente.
Davide guarda lo scalino sotto i suoi piedi.
Allora il professore gli chiede: «Cos’è successo?».
«Mi hanno fatto incazzare!»
«Ti ho già chiesto di parlare in modo diverso».
«Sì, vabbè, mi hanno fatto arrabbiare».
«Perché?»
«…».
Come spesso avviene, con bambini e ragazzi deprivati
dal punto di vista sociale e culturale, mancano le parole.
«Se cadi dal cornicione del primo piano né io né altri
potremo più aiutarti».
«Chissenefrega!»
«Io! Mi dispiacerebbe molto».
«…».
Anche in questo caso il silenzio diceva molto: nessuna
delle solite frasi volgari, nessun tono arrogante, ma solo
il silenzio. Il silenzio di chi è sconcertato nello scoprire
che qualcuno si preoccupa per lui, che qualcuno gli vuole
bene.
Davide era arrivato in quella scuola media dopo aver
conosciuto diverse scuole elementari, a causa dei passaggi
in varie comunità alloggio.
Impossibile sapere cosa fosse davvero successo con i
suoi genitori, le numerose cicatrici che si vedevano quando si cambiava la maglietta negli spogliatoi della palestra
raccontavano però molto più delle sue sbrigative parole:
«Mi sono fatto male scavalcando il filo spinato».
La scuola di Davide
Chiedergli se suo padre lo picchiasse era inutile: rispondeva invariabilmente che no, suo padre non lo picchiava ed “era un figo”, sua madre invece “era una puttana”.
Sapevano solo che la madre aveva problemi psichici,
ma non l’avevano mai vista. Il padre si era presentato una
volta a scuola. Un aspetto inquietante, ma durante un colloquio di pochi minuti in presenza di un educatore non
avevano potuto sapere nulla di più.
Dopo che tutte le altre comunità avevano rinunciato,
dichiarando di non essere in grado di gestirlo, Davide era
arrivato in quella attuale, nota per il fatto di accogliere
tutti, ma le modalità di gestione non erano così chiare e
destavano qualche perplessità: era già successo che Davide arrivasse a scuola ubriaco, era quasi sempre in ritardo,
perché nessuno poteva accompagnarlo, e a volte passava
dal bar a bersi qualche birretta per colazione; raccontava
poi di cose che accadevano la sera in comunità con vaghi
accenni e con un misto di vanteria e di preoccupazione,
quasi per chiedere aiuto, ma senza voler fare la “spia”.
Appena il professor Carlo Bonforti cominciò a occuparsi di Davide si rese conto del fatto che la situazione era
molto difficile: non c’erano riferimenti stabili in comunità,
a causa del fatto che gli educatori avevano contratti di sei
mesi, con un mese di congedo tra un’assunzione e l’altra,
inoltre i turni erano organizzati in modo tale che un educatore potesse restare senza vedere i ragazzi anche per quattro giorni consecutivi; se c’è qualcosa di importante con
questi ragazzi deprivati delle figure genitoriali è proprio la
continuità delle figure educative che, in questo caso, mancava; per quanto riguarda la scuola, malgrado fossero ormai
passati molti anni da quando la legge aveva stabilito che
tutti avevano diritto di frequentare le scuole normali, era-
9
Claudio Berretta
10
no ancora molti gli insegnanti che vedevano con fastidio
la presenza di allievi con handicap, come si diceva allora,
se la disabilità in questione era poi tale da rendere molto
difficile fare lezione, come nel caso di Davide, la richiesta
costante era quella di portarli fuori dalla classe.
Ma se non sapeva relazionarsi correttamente con gli
altri come potevano insegnarglielo tenendolo sempre
da solo con il suo insegnante di sostegno? Peraltro in
violazione della legge. Gli insegnanti che facevano tali
richieste dimenticavano che Davide era un loro allievo
di cui anche loro dovevano occuparsi, così come di tutti
gli altri allievi.
Qualcuno sosteneva che tenere le mele marce nel cesto
insieme alle altre rischiava di farle marcire tutte.
A Carlo pareva orribile paragonare una ragazzino a una
mela marcia!
«Cosa dovremmo fare allora? Buttarlo via? Come si fa
con la frutta andata a male?»
A volte non ci si rende conto di quanto sia facile cadere negli orrori culturali che portano alle tragedie del
razzismo.
Comunque, di fronte a queste situazioni, dopo aver
tentato di spiegare che gli allievi non erano oggetti, eliminabili quando risultano inutili o fastidiosi, Carlo si appellava alla famosa tesi di don Milani: tutti sanno curare i
sani, ma essere bravi medici significa curare i malati, così
come essere dei bravi insegnanti significa saper insegnare
non solo ai figli dei laureati.
Quando diceva cose di questo tipo o proponeva attività alternative alla classica lezione frontale trasmissiva, la
maggior parte dei colleghi, guardando con condiscendenza il giovane collega, dicevano: «Tu hai l’entusiasmo del
neofita. Vedrai tra dieci anni!»
La scuola di Davide
Dopo vent’anni gli capitò di sentirsi dire: «Sì, ma tu
puoi farlo perché sei un esperto!»
«???»
Quel giorno, quando la vicepreside gli disse che voleva parlargli, pensò che volesse riprenderlo per l’ennesima
bravata del suo allievo e per l’inefficacia dei suoi metodi
innovativi. Invece: «Era più di un’ora che cercavamo di
farlo scendere senza riuscirci e appena ti ha visto è venuto
giù. Com’è possibile?».
Forse tutto quello che era stato fatto in un anno e mezzo di scuola non era stato del tutto inutile, anche se ogni
giorno sembrava di ricominciare da zero.
In ogni caso, a differenza di tante altre scuole che non
lo avevano accettato, questa scuola era rimasta aperta anche per Davide. Malgrado tutti gli ostacoli e le difficoltà
vissute fin dai primi giorni, a metà della seconda media
era ancora “la scuola di Davide”.
11