città di ceramica/1: mondovì

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25 dicembre 2016 delle ore 17:07
CITTÀ DI CERAMICA/1: MONDOVÌ
“Polvere di stelle”, progetto espositivo biennale, porta da queste parti un gruppo di artisti
internazionali tra piatti, affreschi e decori. Per scoprire anche un territorio
Italia museo diffuso, si dice spesso. E checché
se ne dica, non si cade lontani dalla verità.
Mondovì, nell'Alta Langa in provincia di
Cuneo, non fa eccezione, e mette in mostra il
suo passato di centro ceramico italiano
nell'omonimo Museo della Ceramica, appunto,
oltre che in uno splendida area storica arroccata
su una collina. Come spesso però abbiamo
ribadito il passato ha bisogno di vivere,
specialmente se si tratta di un passato che ha
tagliato ogni ponte con il presente (a Mondovì
dell'antica tradizione delle ceramiche nulla è
rimasto, se non uno stabilimento che produce
solo quasi "per rappresentanza”) ed è qui che
l'arte contemporanea viene spesso tirata in
ballo. Come attrattore, come possibilità di dare
una vibrazione allo statico "monumentale”. E
con il rischio di usare l'antico come semplice
display espositivo, creando un dialogo solo
apparente. Non è questo il caso di "Polvere di
Stelle”, seconda edizione di una mostra
biennale che Chiara Bertola, con la direttrice
del Museo Christiana Fissore, cura tra queste
sale e in quelle del Circolo Sociale di Lettura.
La rassegna è nata da una collaborazione tra
l'istituzione piemontese e Fondazione Querini
Stampalia di Venezia, per la quale Chiara
Bertola ha ideato, a partire dal 2004, il progetto
"Conservare il futuro”, che invita gli artisti a
riflettere sul confine della memoria, tra passato
e presente. E così, tra vetrine e vasellame, piatti
di differente fattura, dalle decorazioni di fine
'800 ai rimandi Futuristi, fino agli ultimi
prodotti degli anni '60, quando Richard Ginori
abbandonò questa piazza produttiva, sono in
scena i dialoghi tra Ai Weiwei, Elisabetta di
Maggio e, al Circolo, Hilario Isola e Franco
Vimercati, con Carla Accardi (in alto Coni, foto
Agostino Osio) ad accogliere lo spettatore in
una location e nell'altra, quasi a fare da nume
tutelare, scoprendo una rarissima e raffinatissima
produzione ceramica dell'artista siciliana di
casa a Roma, scomparsa nel 2014.
Ma partiamo dal titolo. Perché "Polvere di
stelle”? Perché la ceramica, in fondo, è una
materia esplosiva: un cumulo di terra, polvere,
che bagnata e modellata, cotta a temperature
infernali, e ripassata in bagni di stagno e quarzo,
in quella celebre cristallina, diventa lucente
come un astro, resistente a temperature tropicali
così come polari, brillante e fragile, tagliente e
affascinante. Lo sa bene Elisabetta di Maggio,
artista veneziana che si è lasciata affascinare
dalla materia, nonostante la porcellana (in
questo caso) non sia il suo principale mezzo
espressivo, e si è cimentata in una produzione
artigianale e delicatissima, con un risultato
spettacolare non solo per quanto riguarda una
piccola testa fatta di bende intagliate, usando
come modello mentale lo stile della manifattura
della ceramica Wedgwood del 1770 circa, ma
anche con una "rosone” ricreato su una parete
dedicata alla sala del decoro "a merletto”:
un'installazione, una scultura leggera, una
pittura dalla capacità tridimensionale e
incantevole, datata 2007 e perfetta per questo
ambiente. Ma di Elisabetta Di Maggio, create
appositamente, ci sono anche le tre "capsule”
sonore che danno il titolo a questa nuova
edizione di "Polvere di Stelle”: At the still point
of the turning world: sono piccole tazze
accatastate l'una nell'altra, punti fermi e
verticali di un mondo che gira e che emette un
suono dolce. Una fiaba, una costruzione
immaginaria, una torre di Babele romantica e
ancora una volta fragilissima; una materia "
stressata” pronta ad andare in frantumi ma
fissata nell'attimo prima della sua cedevolezza,
e per questo provvista da un fascino universale.
I Coni di Carla Accardi, e le sue predelle
intitolate Ricomposte Tinte, sono invece state
prestate per l'occasione dal gallerista bolognese
Enrico Astuni, e praticamente mai esposte
prima d'ora, se non in rarissime occasioni.
Nemmeno per Accardi la ceramica era
materiale "fondante”, ma la sua passione nello
sperimentare materiali l'aveva portata anche da
queste parti, indagando una inclinazione "antipittorica”, dove lo spettatore non doveva essere
posto in pura posizione contemplativa davanti
all'opera ma scoprirne la vitalità: accade qui,
nel dialogo con il pittore locale Nino Fracchia
e i suoi affreschi brillanti, e accade anche con
le Ricomposte tinte installate in verticale alle
pareti dei mezzanini delle scale del Museo,
come un alfabeto sonante di colori.
rappresentazione, la testimonianza di un lavoro
mutevole e variabile, con un unico soggetto –
la zuppiera – fotografata 99 volte nell'arco di
dieci anni. Dietro questo raffinatissimo lavoro
di concetto la voglia di cogliere l'essenza
dell'oggetto, di sentirne – quasi pensando a
Cézanne e al suo Mont St.Victoire, o alla
Cattedrale di Rouen di Monet – l'atmosfera, la
densità, il potere della visione, lasciando da
parte l'identità del soggetto.
E infine, tornando alla robustezza e alla fragilità
di questo splendido materiale, Ai Weiwei, che
ripropone a Mondovì – in Porcelain Rebar - le
armature delle scuole del Sichuan crollate nel
terremoto del 2008 e diventate celebri con
l'installazione Disposition: qui però le barre
sono curvate, e colorate. Ancora una volta
pronte a spaccarsi, ma resistenti agli urti. Un
po' come i territori che si rialzano
autonomamente dopo le catastrofi, così come
Mondovì non ha perso l'occasione per
reinventarsi dopo la fine di un'epoca,
guardandosi alle spalle per entrare nel futuro,
come fa questa mostra "sottile” dove – per una
svista o per uno sguardo troppo superficiale –
è facile perdere pezzi della sua composizione,
così come è facile spaccare un pezzo di argilla
in cottura, nel suo passaggio di stato verso la
forma nobile. A proposito di cottura, se
deciderete di farvi una bella gita piemontese da
queste parti, vi consigliamo di fermarvi alle
Cantine Bonaparte, proprio in piazza Maggiore
a due passi dal museo. E anche se non potrete –
per ora – godere della splendida terrazza
panoramica sulla valle, siamo sicuri troverete
qualcos'altro che saprà sollazzare il vostro
gusto. Arte a parte.
E poi Hilario Isola, che con l'opera I Mani e
l'aiuto di un gioco d'ombre e un grappolo d'uva
di ceramica – chiaro riferimento alla
produzione vitivinicola della zona – chiede agli
spettatori di "intervenire” sull'opera con una
mano, appunto, per creare un magico profilo
umano. E ogni volta differente. E ancora 16
fotografie del Ciclo della Zuppiera (1983-1992)
di Franco Vimercati: qui, più che un progetto
fotografico, si tratta di una dissertazione sulla
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