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L’avvocato
e la verità
Editoriale
Andrea Mascherin
La verità “assoluta” non è di questo mondo.
Potremmo partire da questa affermazione, sicuramente scontata, per puntare l’obiettivo
su quello che è il tema in oggetto.
Di certo non può trattarsi del concetto trascendente della verità, e dunque non può che
trattarsi di quella verità che, attraverso il rito processuale penale, declinandosi progressivamente in regole, doveri, diritti delle parti, giunge all’approdo finale della sentenza.
Ad avviso di chi scrive, infatti, la verità del processo non è solo quella che risulterà
essere la ricostruzione finale del fatto, ma è essa stessa progressione di regole, di cui la
sentenza è il segmento di chiusura.
È questo un ragionamento di partenza che porta ad affrontare una tematica spesso dibattuta anche in giurisprudenza, ovvero quale sia il rapporto tra verità storica da accertarsi
ed il peso delle regole processuali.
Dalla risposta che si finirà con il dare al quesito, ne deriverà una miglior descrizione del
rapporto tra verità e ruolo dell’avvocato.
Mi è gradito, al proposito, richiamare una esperienza professionale di molti anni fa, era
infatti entrato da poco in vigore il “nuovo” rito penale di stampo accusatorio.
Un giovane cliente, appena maggiorenne, era imputato di danneggiamento per aver rigato con un puntello l’autovettura di un amico “concorrente in amore”, con il quale aveva
peraltro litigato la sera prima del fatto reato.
In sede di indagini preliminari la polizia giudiziaria aveva raccolto le sommarie informazioni della parte offesa e di altri tre ragazzi, tutti affermavano di aver visto con i loro
occhi l’imputato rigare la vettura e darsi alla fuga.
L’imputato “confessò” al proprio avvocato di essere effettivamente responsabile dell’addebito, ma aggiunse di essere assolutamente certo di non essere stato visto, e che dunque
i soggetti sentiti dalla polizia giudiziaria in realtà avevano mentito affermando di averlo
visto “all’opera”, nella certezza che fosse stato lui.
L’avvocato si trovò dunque di fronte ad una verità storica riconosciuta dal proprio cliente, sicuramente responsabile del fatto, che avrebbe trovato però la propria affermazione
processuale per mezzo di testimonianze certamente false, dunque in violazione di fondamentali regole del processo.
Andrea Mascherin
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Il difensore scelse di celebrare il dibattimento, e dal controesame dei testi d’accusa
emersero inevitabili e tra di loro non sanabili contraddizioni nella ricostruzione particolareggiata del fatto.
Un caso, quello illustrato, che ci pone davanti al quesito se la, inevitabile, sentenza di
assoluzione che ne seguì fosse “giusta”, perché rispettosa delle regole del processo, od
“ingiusta” perché contraria alla verità “storica”.
La risposta passa attraverso un altro quesito, ovvero quale sia stato il principio salvaguardato dall’avvocato con la propria scelta difensiva, e quanto valga questo principio.
Il valore salvaguardato dal difensore è di tutta evidenza, anche per i non addetti ai lavori, quello della primazia della regola sul fine, ovvero nel giusto processo il fine (verità
storica), non deve mai giustificare i mezzi (violazione dei diritto alla difesa).
Diversamente ragionando, bisognerebbe affermare che, ad esempio, ben può farsi uso
nel processo di falsi testimoni per giungere ad una condanna “giusta”, il che a seguire
vorrebbe dire che qualsiasi cittadino verrebbe privato della relativa tutela processuale, e a
quel punto bisognerebbe anche riconoscere che il difensore, convinto della innocenza del
proprio cliente ed alla ricerca della sentenza di assoluzione, secondo lui “giusta”, dovrebbe
poter utilizzare false prove.
E se così fosse, perchè non ricorrere a carcerazioni ingiuste per spingere l’indagato a
confessioni secondo “verità”, o perchè, da parte dell’imputato, non far giungere ai testimoni messaggi minacciosi, dunque ingiusti, ma aventi il fine di “favorire” una deposizione
comunque ”secondo verità”.
Nel medio evo, e non solo, la tortura era un mezzo istruttorio lecito per giungere ad
una confessione “giusta”, il fine, appunto, giustificava il mezzo.
Nelle righe che precedono si è voluto esasperare il concetto, ma la deduzione che ne consegue è che sia certamente preferibile, in una democrazia avanzata, che il processo goda di regole a tutela del cittadino, regole che devono servire, prima d’altro, ad alzare l’asticella dell’errore giudiziario, a rendere tecnicamente più difficile che un giudice condanni un innocente.
Semplificando si usa dire, meglio un colpevole fuori che un innocente dentro, è forse
una banalizzazione, che però non può che essere condivisa.
Il rispetto delle regole ovviamente è anche a tutela della parte offesa, ed anche di colui
che viene condannato, anche la condanna infatti, attraverso il rispetto dei principi processuali, deve essere “giusta”.
Se così è, va rifiutata quella visione dell’avvocato che intralcia lo svolgersi del processo
con cavilli vari, allontanando così il giudice da quello che altrimenti sarebbe un poco faticoso approdo alla verità.
Va spiegato cioè, che il difensore, assistendo l’imputato o la parte civile, difende il processo e deve farsi per primo garante delle regole dello stesso.
Garante delle regole significa che il difensore dovrà attenersi a importanti principi deontologici, quali ad esempio il divieto di introdurre prove false, dovrà mantenere assoluta
autonomia tecnica dal proprio cliente, dovrà essere indipendente dal pubblico ministero
e dal giudice, non dovrà mai compromettere la difesa utilizzando percorsi mediatici alla
ricerca di notorietà.
L’avvocato e la verità
In fondo potrebbe ritenersi che il rapporto tra la verità e l’avvocato si fondi nel rapporto
tra avvocato e giusto processo.
Realizzare il giusto processo ed essere corretti esecutori e custodi dello stesso, significa
in qualche modo rispettare il dovere di verità.
Questo vale anche con riferimento alla c.d. ragionevole durata del processo, troppo
spesso si dimentica che la stessa Corte Costituzionale si è espressa non nel senso della ragionevole durata del processo, ma nel senso della ragionevole durata del giusto processo.
Ancora una volta torna il termine di giusto processo, quindi di processo nel rispetto
delle regole, non come mezzo fine a se stesso, ma come miglior strumento per giungere
a quel convincimento del giudice parametrato dal nostro codice di procedura penale sul
metro del ragionevole dubbio.
Il tema della durata del processo ci porta ad analizzare l’altro polo di equilibrio nel
rapporto tra l’avvocato e la verità, il primo, come abbiamo visto è la difesa delle regole del
giusto processo, l’altro è il dovere di fedeltà al cliente.
Evidente che il dovere di fedeltà non potrà mai sconfinare nella violazione della legge
e del codice deontologico, ma è anche da dirsi che tutti gli strumenti difensivi legittimi
vanno usati nell’interesse del difeso.
Esempio fra tutti, la prescrizione.
Troppo spesso si dimentica come la prescrizione sia uno strumento di civiltà che vuole
sottrarre il cittadino, fino a prova contraria non colpevole, alla pendenza “infinita” a suo
carico di un procedimento penale, il che vuol dire evitare un pericolo di abuso dello Stato
sul cittadino.
Ebbene, l’avvocato adempirà al proprio dovere di fedeltà, senza violare il dovere di
verità, se utilizzerà, secondo le regole, anche questo istituto, dimostrandosi indipendente
da qualsiasi eventuale pressione del giudice.
La “breve” durata del processo non può mai andare a scapito dell’assistito e del suo
diritto ad essere difeso.
Alla fine emerge chiaramente come la difesa del giusto processo da parte dell’avvocato,
e dunque la difesa dello strumento scelto dalla nostra Costituzione per garantire un giudizio il più “giusto” possibile, passi attraverso la qualità tecnica e deontologica dell’avvocato
stesso.
Il nostro sistema penale richiede un’avvocatura formata, di qualità e consapevole dei
propri diritti e dei propri doveri.
Un’avvocatura che deve sempre più essere considerata per quella che è la sua funzione,
di custode del diritto alla difesa, e dunque non ostacolo, ma garanzia di verità.
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