Trattato di Filosofia IV - Metafisica

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Transcript Trattato di Filosofia IV - Metafisica

Régis Jolivet
Trattato di Filosofia
IV - Metafisica
Edizione elettronica a cura di Totus Tuus Network - 2011
RẾGIS JOLIVET
TRATTATO DI FILOSOFIA
Piano dell’opera:
Vol.
Vol.
Vol.
Vol.
Vol.
I
II
III
IV
V
:
:
:
:
:
LOGICA
COSMOLOGIA
PSICOLOGIA
METAFISICA (in 2 tomi)
MORALE (in 2 tomi)
Brevi cenni biografici sull’autore
Régis Jolivet (1891-1966) è nato e vissuto a Lione (Francia). E’ stato ordinato sacerdote nel 1914. Dopo la
guerra insegna nella facoltà di Teologia e poi all’Institut Catholique. Per sua iniziativa nel 1932 viene creata,
nell’ambito dell’Università Cattolica di Lione, la Facoltà di Filosofia della quale fu decano per molti anni.
Negli corso degli anni riuscì a dotare la Facoltà anche di un Istituto di Pedagogia (nel 1947) e di Sociologia
(nel 1954). Membro di numerose società scientifiche, nel 1963 è assunto alla Prelatura Pontificia. Jolivet è
stato un grande studioso di sant’Agostino e san Tommaso.
Breve bibliografia (non esaustiva) delle opere di mons. Régis Jolivet:
 Problème du mal chez Augustin (1929)
 La notion de substance - Essai historique et critique sur le développement des doctrines d' Aristote à nos
jours (1929)
 Le thomisme et la critique de la connaissan (1930)
 Essai sur le bergsonisme (1931)
 Essai sur les rapports entre la pensèe grecque et la pensèe chétienne (1931)
 Le néoplatonisme chrétien (1932)
 Saint Augustin et le neo-platonisme chretien (1932)
 La philosophie chrétienne et la pensée contemporaine (1932)
 Études sur le problème de Dieu dans la philosophie contemporaine (1932)
 Les Sources de l' idéalisme (1936)
 Vocabulaire de philosophie (1942)
 Introductionà Kierkegaard (1946)
 Les doctrines existentialistes, De Kierkegaard à J.P. Sartre (1948)
 Le problème de la mort chez M. Heidegger et J. P. Sartre (1950)
 Traité de philosophie (1954)
 Essai sur le probléme et les conditions d la sincerite (1954)
 Cours de philosophie (1954)
 Le Dieu des philosophes et des savants (1956)
 L’homme métaphisique (1958)
 Aux sources de l'existentialisme chrétien (1958)
 Sartre (1963)
 Sartre ou la théologie de l'absurde (1965)
RẾGIS JOLIVET
METAFISICA
(Tomo primo: CRITICA)
Titolo originale dell'opera:
Traité de philosophie. III. Métaphysiquee
Emmanuel Vitte, Editeur - Lyon–Paris
Traduzione italiana di Lorenzo Contratti
Nihil obstat
Sac. T. Goffi
Brixiae, 25-2-1959
Imprimatur
+ G. Bosetti
Hep. Hipp. Vic. Gen.
Brixiae, 26-2-1959
INTRODUZIONE ALLA METAFISICA
SOMMARIO (1)
Art. I - CONCETTO DI METAFISICA. Definizione - Confini della metafisica - Campo della metafisica - Nozioni moderne della metafisica - Scienza dell'immateriale - Scienza del reale in se stesso - Scienza
dell'inconoscibile - Scienza dell'Assoluto - Conoscenza sistematica universale - Conoscenza a priori e teoria critica.
Art. II - OGGETTO DELLA METAFISICA. I gradi d'astrazione - Principio della distinzione - I tre livelli
d'astrazione - La scienza metafisica - Specificità della metafisica - Divisione.
Art. I - Concetto di metafisica
1 - Nella storia della filosofia, il termine di metafisica riveste i sensi più diversi e tra di loro meno compatibili. La ragione di tale confusione risiede nel fatto che i filosofi definiscono la metafisica in funzione
delle loro concezioni e dottrine, invece di partire da una definizione del nome, sulla quale tutti possono
trovarsi d'accordo. Una tale definizione avrebbe il vantaggio di non pregiudicare nulla, inquantoché concernerebbe solamente il senso del termine di metafisica, senza implicare alcuna soluzione, sia affermativa
che negativa, del problema riguardante la possibilità della metafisica. Si tratta insomma solamente di sapere di che cosa si parla, e ciò non può essere preso per una raffinatezza dialettica.
§ 1 - Definizione
La metafisica si presenta come una scienza che studia «l'al di là della fisica» e di conseguenza come una
scienza dell'immateriale, formalmente distinta dalla filosofia della natura (2).
A. CONFINI DELLA METAFISICA
1. L'ALDILÀ DELLA FISICA - Il termine metafisica (μετά τά φυσικά) indicò anzitutto le opere di Aristotele che, nella collezione di Andronico di Rodi, venivano dopo la fisica e che riguardavano la scienza delle
realtà trascendenti il mondo visibile e sensibile. Il termine di metafisica è stato ripreso e definitivamente adottato nello stesso senso nel Medioevo, per designare la scienza transfisica, cioè quella scienza che, venendo dopo la filosofia della natura (cosmologia e psicologia), introduce, partendo dalle realtà sensibili precedentemente studiate, allo studio del non-sensibile (3).
Aristotele e il Medioevo chiamavano fisica ciò che noi ora chiamiamo filosofia della natura. Oggi dobbiamo servirci di quest’ultima espressione, per prevenire ogni confusione tra i due campi - ormai ben distinti e delimitati - delle scienze sperimentali e della filosofia della natura. D'altra parte i moderni parlano
più volentieri di «filosofia delle scienze» o «filosofia scientifica» che di filosofia della natura; allo stesso
modo, coloro che seguono la corrente positivistica, riducono tutta la metafisica a questa filosofia scientifica. Il guaio è che le speculazioni di questo genere non hanno niente a che vedere né con la metafisica, né
con la filosofia. Propriamente parlando, non vi è né filosofia delle scienze né filosofia scientifica, poiché
la filosofia ha un oggetto e dei metodi essenzialmente differenti da quelli delle scienze positive ed è impossibile ricavare direttamente una filosofia dai dati positivi. Una filosofia «scientifica» è la negazione
stessa della filosofia e del suo primato. Così, N. Berdiaeff osserva, a ragione, che la «filosofia delle scienze» è la filosofia di coloro che in filosofia non hanno nulla da dire. (Cinq Méditations sur l'existence,
Parigi, 1936, p. 21).
2 - 2. SCIENZA DELL'IMMATERIALE - Abbiamo visto che, nel suo senso più generale, la metafisica si
definisce per opposizione alla fisica. Poiché questa è la scienza (filosofica) del sensibile, la metafisica sarà la
scienza di ciò che è non-sensibile, cioè dell'immateriale.
Il «Vocabulaire technique et critique de la Philosophie» (Parigi, 1928, t. I, p. 454) afferma che «la prima
notevole alterazione del senso [della parola: metafisica] è quella dovuta a Cartesio e ai cartesiani, che considerano l'immaterialità come il tratto caratteristico degli oggetti metafisici». Tale asserzione è inesatta, poiché
l'immaterialità è servita, fin da Aristotele e dagli Scolastici, a definire le realtà metafisiche. Ma è però vero
che, presso questi ultimi, il termine «immateriale», nella definizione di ciò che è metafisico, non significa
nulla più di «ciò che è non-sensibile», cioè l'essere in quanto tale. Gli enti immateriali (Dio, i puri spiriti)
non sono dati e nemmeno impliciti in questa nozione, che ha come intentio primieramente ed essenzialmente
solo l'essere in quanto essere, mentre i cartesiani (e, in generale, i nominalisti) hanno di mira primieramente e
formalmente gli enti immateriali stessi (Dio e l'anima). Ne deriva che per essi la metafisica è essenzialmente
la scienza di Dio e dell'anima (4).
3. METAFISICA E FILOSOFIA DELLA NATURA - Questa concezione della metafisica conduce a
considerare la filosofia della natura (compresa la psicologia) come una scienza essenzialmente distinta
dalla metafisica, contrariamente alla teoria e alla pratica moderne, di origine wolffiana e kantiana. Invero,
la filosofia della natura ha bensì l'essere per oggetto, e perciò essa è filosofia e si distingue dalle scienze
positive della natura (II, 1); ma l'essere preso in considerazione è l'essere in divenire, l'essere affetto da
movimento - movimento locale, movimento di generazione e corruzione sostanziale - e non l'essere nella
sua più alta generalità. L'essere della filosofia della natura è dunque ancora l'essere materiale o legato
alla materia, benché considerato astraendo dalle sue determinazioni quantitative concrete (oggetti delle
scienze della natura), mentre l'essere della metafisica è l'essere in quanto essere. Ciò che si cerca qui di
scoprire, è l'intelligibilità dell'essere in quanto essere e non più solamente l'intelligibilità dell'essere mobile e sensibile in quanto precisamente mobile e sensibile (5).
B. CAMPO DELLA METAFISICA
3 - 1. SCIENZA DELL'ESSERE IN QUANTO ESSERE - È la definizione di Aristotele (6) e di san
Tommaso (7), definizione che risulta immediatamente dal termine «metafisica», poiché il trans-sensibile
si definisce anzitutto per noi mediante l'astratto e l'universale e, al grado più elevato, mediante la nozione
di essere. Qui dunque si tratta solo di constatare che, dopo la filosofia della natura avente per oggetto
l'essere affetto da determinazioni diverse, rimane da considerare l'essere in se stesso, nella sua propria
natura, indipendentemente da ogni determinazione da cui possa essere affetto. Lo studio dell'essere così
inteso richiede ugualmente lo studio delle «passioni proprie» dell'essere e dei suoi propri princìpi, per i
quali sarà reso intelligibile l'essere come tale.
2. METAFISICA E TEOLOGIA NATURALE - Una tale definizione non pregiudica nulla riguardo alla
portata effettiva della ricerca metafisica. Essa non fa che delimitare in modo astratto e problematico un campo che non appartiene evidentemente ad alcuna altra scienza (8) e che è il più universale di tutti. La teologia
naturale, o scienza di Dio ottenuta mediante la pura ragione, è essa stessa implicita nella definizione della
metafisica, in quanto lo studio delle cause dell'essere condurrà ad affermare Dio come Principio universale
dell'essere. Nella sua nozione più formale, la metafisica non è dunque nient'altro che la scienza dell'essere in
quanto essere, e la teologia naturale o teodicea non ne è che una parte.
Questo dimostra san Tommaso nel Preambolo della Metafisica. Partendo dal principio che le scienze devono ricondursi all'unità, sotto la regolazione d'una scienza suprema e reggitrice (sapienza o scienza dei princìpi), san Tommaso osserva che questa scienza reggitrice sarà necessariamente la più intellettuale di tutte, vale
a dire avrà per oggetto le realtà più intelligibili. Ora queste sono di tre specie, secondo il punto di vista in cui
ci si pone, cioè: le cause prime, i princìpi primi universali (l'essere e ciò che vi si riferisce essenzialmente), e
gli enti positivamente immateriali (Dio e i puri spiriti). Ma, aggiunge san Tommaso, questo triplice punto di
vista non dà luogo a tre scienze distinte, specificamente differenti. Non vi è che un unico oggetto sotto tre
aspetti diversi, cioè l'essere comune (ens commune), e per conseguenza una sola scienza, la metafisica. Invero, tocca alla medesima scienza considerare le cause proprie d'una data specie di essere e questa stessa specie
di essere. Così lo scienziato studia nello stesso tempo la natura dei fenomeni e le loro cause empiriche. Ma il
soggetto proprio d'una scienza non è dato dalla causa dell'essere o del fenomeno in questione; questo soggetto è l'essere (o il fenomeno) stesso considerato nella sua natura e nelle sue proprietà. Scopo della scienza è la
ricerca delle cause, che deve basarsi sulla conoscenza del soggetto di questa scienza ( 9). È così che la metafisica, benché comporti quei punti di vista diversi di cui abbiamo parlato, li considera solo in funzione dell'essere comune o universale, che è il suo unico soggetto (10).
3. ESSENZA ED ESISTENZA - Conviene fin d'ora fare un'osservazione capitale, sulla quale torneremo
più avanti. Se l'essere può intendersi in due sensi, come essenza (o natura) e come esistenza, l'oggetto propria
della metafisica è l'ens commune, cioè ciò che è, che include l'essenza e l'esistenza (id quod - est). Tuttavia è
proprio l'esistenza stessa (l'est e non l'id quod) che la filosofia (I, 3) e specialmente la metafisica considerano formalmente. La filosofia, abbiamo detto, cerca di definire le condizioni assolute dell'esistenza, cioè cerca
di rendere intelligibile, a tutti i suoi stadi, quell'essere (esse) che è l'attualità stessa degli enti, ciò senza di cui
non si potrebbe dire in alcun modo che gli enti sono. Tale compito fondamentale caratterizza a un titolo tutto
particolare la metafisica, in quanto essa considera l'essere nella sua purezza ontologica e nella sua intelligibilità propria, poiché, per essa, non sono più in questione gli enti diversamente qualificati dell'ordine sensibile, ma l'essere nella sua universalità assoluta. Se dunque, già agli stadi inferiori di astrazione, la filosofia ha
per oggetto di determinare le condizioni per le quali gli enti sono, la metafisica, a più forte ragione, avrà per
scopo di definire le condizioni più generali dell'essere, cioè dell'esistenza.
Senza dubbio, qui come altrove, bisognerà considerare l'essere attraverso l'essenza, anzitutto perché un
ente è un'essenza che è, in secondo luogo perché l'esistenza può essere pensata solo se concettualizzata.
Ma l'analisi delle essenze non è che un mezzo (il mezzo appropriato alla nostra intelligenza, che progredisce solo per via d'astrazione, componendo e dividendo) per giungere a dar ragione di ciò che «è», vale a
dire della realtà e dell'esistenza. Da questo punto di vista, la metafisica tomistica è fondamentalmente esistenzialista, ed essa è tale per definizione stessa, in quanto esclude ogni possibilità di raggiungere l'esistenza mediante l'analisi delle essenze, e in quanto sostiene che l'esistenza non è un accidente dell'essenza, ma l'attualità stessa di quest'ultima, senza di che non vi sarebbe né essenza né qualsiasi determinazione (11). Sotto questo rispetto, se c'è una scienza del reale, è alla filosofia e alla metafisica che tale titolo
spetta in primo luogo, e in qualche modo esclusivamente.
§ 2 - Nozioni moderne della metafisica
4 - Le definizioni della metafisica proposte da Cartesio in poi, sono generalmente o inesatte o incomplete e pregiudicano arbitrariamente tutto ciò di cui si tratta, oppure attribuiscono alla metafisica un campo che, propriamente, spetta ad altre parti della filosofia. Lo constateremo passando in rassegna le principali di queste definizioni, discutendo le quali potremo precisare l'oggetto e i confini della metafisica e nel
contempo le esigenze di una concezione esente da pregiudizi e da a priori, così come si presenta nel contesto aristotelico e tomistico.
Lalande («Vocabulaire tecnique et critique de la Philosophie», 2 voll., Parigi, 1928, I, pp. 455-459) distingue nell'età moderna due modi di caratterizzare o definire il termine metafisica, secondo che si accentui di
più «l'idea di determinati enti o di un determinato ordine di realtà, oggetto speciale della metafisica, o l'idea
di un modo speciale di conoscenza». Ma non si riesce a vedere come una scienza possa essere definita da un
modo di conoscenza. (Si definirà l'astronomia come una scienza che si serve di telescopi? la biologia come
una scienza che si serve di microscopi?). Una scienza, qualunque essa sia, si definisce dal suo oggetto. La
designazione di un modo speciale di conoscenza è una questione di metodo, che dipende strettamente dalla
definizione dell'oggetto formale della scienza di cui si tratta. In verità, se molti filosofi moderni fanno delle
realtà metafisiche l'oggetto di un'apprensione intuitiva o di una fede irrazionale, bisogna vedere in ciò non un
principio, bensì una semplice conseguenza del loro modo di concepire l'oggetto della metafisica. È questo il
caso di Kant, di Fichte, di Lachelier, di Bergson. Poiché in realtà vi è solo un principio per classificare le definizioni della metafisica: quello che si fonda sull'oggetto attribuito alla metafisica. Conviene osservare, inoltre, che è proprio di una logica incerta richiedere una definizione nominale a un modo di conoscenza: definire un termine è dire ciò che questo termine significa, cioè esplicitarne il senso ricorrendo a termini più
chiari o all'etimologia. Il resto è teoria, ma non definizione.
1. SCIENZA DELL'IMMATERIALE - Così viene definita la metafisica dai cartesiani spiritualisti. Abbiamo già osservato che questa definizione è esatta solo materialmente, ma che diviene arbitraria ed erronea allorché il termine immateriale serve a designare immediatamente ed essenzialmente Dio e l'anima spirituale.
Infatti, non possiamo sapere, all'inizio della metafisica, né se Dio è, né ciò che egli è. Noi possiamo conoscere Dio, nella sua esistenza e nella sua natura, solo mediante l'essere, il che significa che non è Dio, come tale,
l'oggetto proprio della metafisica, ma in primo luogo ed essenzialmente l'essere stesso in quanto essere. La
definizione cartesiana della metafisica condurrà fatalmente a fondare una teologia naturale a priori; sotto
forma d'un esteso argomento ontologico.
Quanto alla psicologia, essa resta parte integrante della filosofia della natura, in quanto l'anima umana vi è
sempre considerata come forma del corpo organico e dipendente perciò dagli organi corporei fino nelle sue
operazioni più elevate (sebbene solo estrinsecamente) (II, 622). Tuttavia, il fatto che l'anima umana è per
sua natura spirituale, suscettibile di attività del tutto immateriali in se stesse, e capace di sussistere immaterialmente, offre alla psicologia una specie di compimento metafisico.
5 - 2. SCIENZA DEL REALE IN SE STESSO - Questa definizione deriva dalla critica kantiana. Essa si
fonda, infatti, sull'opposizione del reale in sé e che non appare - e dei fenomeni o apparenze sensibili. Schopenhauer ne ha dato una formula chiarissima:
«Per metafisica, io intendo ogni pretesa conoscenza che si presenti come tale da oltrepassare la possibilità
dell'esperienza e di conseguenza la natura, o l'apparenza delle cose quale ci è data, per aprirci l'adito a ciò da
cui quest'ultima è condizionata; o, in termini più semplici, a ciò che si nasconde dietro la natura e la rende
possibile [...]. La differenza tra la fisica e la metafisica riposa grosso modo sulla distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé». (Das Welt als Wille und Vorstellung..., I, sup., c. XVII, ed Grossherzog Wilhelm
Ernst, II, p. 882; cfr. tr. it., Il mondo come volontà e rappresentazione, 2a ed., Bari, 1928).
Bergson ha ripreso questo punto di vista: «Se esiste un mezzo per comprendere una realtà in modo assoluto, egli scrive, invece di conoscerla in modo relativo, di porsi in essa invece di assumere dei punti di vista su
di essa, di averne l'intuizione invece di fame l'analisi, infine di afferrarla al di fuori di qualsiasi espressione,
traduzione o rappresentazione simbolica, questo mezzo è la metafisica. La metafisica è dunque la scienza che
pretende di far a meno di simboli». (Introduction à la Métaphysique, «Revue de Métaphysique», 1903, p. 4).
Bergson definisce dunque la metafisica esattamente come Kant: essa è la scienza del reale in sé, appreso di-
rettamente nella sua realtà esistenziale e concreta. La differenza è che Kant nega che una tale scienza sia possibile, mentre Bergson afferma ch'essa è possibile mediante l'intuizione super-razionale.
Il punto di vista di Kant, così come quello di Bergson, sembrerebbe avvicinarsi alla concezione aristotelica
della metafisica, in quanto l'oggetto di questa vi è definito come ciò che è al di là del sensibile o del fenomeno e come ciò che è reale al di là di ciò che appare. In realtà, è già implicita arbitrariamente tutta una filosofia dell'essere nella definizione kantiana e bergsoniana, in quanto l'essere in sé (Ding an sich) sarebbe, se esiste, una cosa del tutto estranea all'esperienza sensibile o razionale e di conseguenza sarebbe affermabile o
accessibile solo mediante processi sofistici (Kant) o processi super-razionali (Bergson). Per questo Schopenhauer dichiara che la metafisica è una pretesa conoscenza, mentre Bergson la considera come una scienza autentica, più prossima all'esperienza mistica che al sapere razionale. Senza discutere pér il momento queste
concezioni, osserveremo che esse pregiudicano ogni cosa e cominciano col negare la metafisica nella loro
definizione stessa di ciò che è oggetto della metafisica.
6 - 3. SCIENZA DELL'INCONOSCIBILE - È la definizione proposta da certi positivisti, in particolare da
Littré e da Spencer. C'è un senso in cui questa definizione sarebbe evidentemente assurda. In realtà, essa vuol
significare che la scienza e la filosofia conducono ad affermare l'esistenza di realtà circa le quali non abbiamo alcun mezzo d'informazione scientifica. Deve esserci, oltre il reale sensibile e visibile della scienza, un
«qualche cosa», di cui non sappiamo né potremo mai sapere nulla (12).
Dal punto di vista positivistico, è chiaro che la metafisica, così intesa, in nessun modo sarebbe una scienza: sarebbe per eccellenza il campo della congettura e dell'immaginazione. D'altronde, la concezione spenceriana dipende da teorie arbitrarie relative sia all'evoluzione umana (che andrebbe dallo stadio teologico allo
stadio metafisico e infine allo stadio positivo), che alla conoscenza (nominalismo). Dipende da ciò se fin da
principio la metafisica si presenta a Spencer sotto l'aspetto di realtà situate al di là dell'universo, formanti, secondo la frase di Littré, un oceano per il quale non possediamo né imbarcazione né vele. Ma si tratta di puro
pregiudizio e di puro a priori. Se la metafisicità come a noi si presenta, connota in primo luogo ciò che di più
generale vi è nell'esperienza, la metafisica ci apparirà legittimamente come una scienza autentica, con un suo
oggetto reale, volta, partendo dal reale sensibile e osservabile, alla ricerca delle condizioni dell'esistenza in
generale.
7 - 4. SCIENZA DELL'ASSOLUTO - «Al di là dei fenomeni - scrive L. Liard (La science positive et la
métaphysique, Parigi, 1879, prefazione, p. 1), noi vogliamo conoscere l'assoluto; al di là delle condizioni, noi
domandiamo la ragione dell'esistenza. La metafisica sarebbe la determinazione di questo assoluto, la scoperta
di questa ragione». Tale definizione della metafisica come conoscenza dell'assoluto, è fra le più frequenti
presso gli spiritualisti moderni. Da un lato, essa dice qualcosa di esatto, in quanto significa che la metafisica
è la scienza dei primi princìpi e delle cause prime. Tuttavia, manca di precisione formale. La maiuscola con
la quale si inizia spesso la parola «Assoluto», indica che come oggetto immediato e proprio della metafisica
viene considerato Dio, mentre la nozione di Dio non può essere che virtuale nella definizione dell'oggetto
della metafisica.
L. Liard vuole d'altronde che la metafisica parta da una affermazione morale o pratica, non speculativa. Da
questo punto di vista, la metafisica sarebbe la conoscenza del dover-essere e dell'ideale, formerebbe come un
ordine di realtà superiore all'ordine dei fatti e conterrebbe la ragion d'essere di quest'ultimo. (Cfr. La science
positive et la métaphysique, 3a parte, c. VII). Questo punto di vista, oltre ad essere ancora troppo specificamente teologico, sembra derivare dalla dottrina kantiana, che fa dell'esistenza di Dio un postulato della ragion pratica. La metafisica, in questo modo, non avrebbe più né autonomia né valore scientifico.
8 - 5. CONOSCENZA SISTEMATICA UNIVERSALE - Questo punto di vista fa della metafisica «la sintesi più integrale possibile dell'esperienza, in particolar modo dell'esperienza interiore, fondamento e condizione di ogni altra» (13).
Tale concezione, che si incontra spesso presso i positivisti, mette in evidenza un aspetto certo del sapere
metafisico: quello d'essere la scienza più universale, poiché essa riguarda l'essere, astratto da ogni determinazione, e le sue cause prime. La metafisica è dunque essenzialmente «sistematizzatrice», come nota san
Tommaso, chiamandola scienza reggitrice e filosofia prima. Il torto tuttavia di questa definizione è di lasciare nell'ombra la ragione di tale carattere sistematico e di privare la scienza metafisica del suo oggetto proprio ed essenziale, che è l'essere in quanto essere, facendo della sistematizzazione metafisica un'opera puramente formale e riducendo per ciò stesso la metafisica a essere solo una forma di logica.
9 - CONOSCENZA A PRIORI E TEORIA CRITICA - Il nome di metafisica, scrive Kant (Critica della
Ragion pura, metodologia trascendentale, c. III, cfr. tr. it. di Gentile e Lombardo-Radice, 2 voll., Bari, 1910)
«può esser dato a tutta la filosofia pura, compresa la critica, e può così comprendere tanto la ricerca di tutto
ciò che può essere conosciuto a priori, quanto l'esposizione di ciò che costituisce un sistema di conoscenze
filosofiche pure di questa specie, e si distingue da ogni uso empirico come da ogni uso matematico della ra-
gione» (14). Materialmente, la metafisica si comporrà dunque di quattro parti principali: l'ontologia, la fisiologia razionale (fisica e psicologia razionali), la cosmologia razionale, la teologia razionale, alle quali conviene aggiungere la critica della conoscenza. Vi è inoltre una «metafisica dei costumi», che enuncia i princìpi
che «determinano a priori e rendono necessari il fare e il non fare». Si vede immediatamente come la definizione della metafisica, proposta da Kant, come sistema di conoscenza a priori, dipenda dalla critica kantiana
della ragione. Kant definisce non la metafisica, ma la sua metafisica. Egli vuole d'altra parte realmente definire la metafisica, ma poiché, oggettivamente, questa viene ridotta a una pura sofistica, di fatto non rimane
che la critica a fornire un contenuto alla metafisica. Cosicché per Kant tutta la metafisica consiste in uno studio critico della ragione, tendente a dimostrare l'impossibilità della metafisica. La metafisica si esaurisce
nella propria negazione!
Delle definizioni positivistiche non dobbiamo tener conto qui. Per Stuart Mill, Comte, Taine, Durkheim,
ecc., non esiste metafisica possibile, poiché le realtà metafisiche sono assolutamente inaccessibili, e non sono
che il prodotto di una immaginazione ontologica, che deve essere eliminata con l'avvento dello spirito positivo. «Si può considerare lo stadio metafisico, scrive Comte (Discours sur l'esprit positif, Parigi, 1844, § 10),
come una specie di malattia cronica inerente per natura alla nostra evoluzione mentale, sia individuale che
collettiva, tra l'infanzia e la virilità». Solo profitto (d'altronde meramente provvisorio) della metafisica è
quello di comportare una specie di spirito critico e generalizzante e di contribuire così alla dissoluzione definitiva del pensiero teologico (ibidem, § 11). Da questo punto di vista, la metafisica, presso i positivisti, si definirà solo come una scienza senza oggetto reale. Questo vuol significare W. James quando scrive che, per il
positivista, un metafisico assomiglia «a un cieco che cerchi a tastoni in una stanza buia un cappello nero che
non c'è». (Introduction à la Philosophie, trad. Picard, p. 16).
Art . II - Oggetto della metafisica
10 - Le riflessioni precedenti ci hanno già dato una prima delimitazione del campo della metafisica. Le necessarie precisazioni si otterranno ricorrendo alla dottrina dei gradi di astrazione (I, 21; III, 419).
§ 1 - I gradi di astrazione
1. PRINCIPIO DELLA DISTINZIONE - Noi partiamo dall'essere, o anche dai molti e diversi enti che
si offrono all'esperienza. È importante notare ciò, poiché non abbiamo alcuna ragione (contrariamente ai
procedimenti cartesiani) di darci all'inizio altro oggetto, diverso da quello che si offre immediatamente ai
sensi e all'intelligenza. Solo, si tratta di sapere se questo oggetto è adeguatamente studiato sotto tutti i
suoi aspetti, sia dalle scienze naturali, sia dalla filosofia naturale.
La distinzione dei diversi punti di vista sotto i quali possono essere considerati gli enti dell'esperienza (oggetto formale), risponde a quest'ultimo quesito. Se le scienze della natura e la stessa filosofia naturale lasciano sussistere un punto di vista che per esse è troppo generale, sarà proprio questo punto di vista a costituire l'oggetto formale della metafisica. Abbiamo ammesso infatti (I, 135-137) che le scienze (empiricamente considerate), dalla sociologia alla matematica, formano una gerarchia che decresce in complessità
mentre aumenta in generalità; ne consegue che il punto di vista più generale possibile, nella considerazione
del reale, non solo è giustificato, ma è richiesto dalle esigenze stesse del sapere scientifico.
11 - 2. I tre livelli di astrazione - Questi tre livelli o gradi delimitano i tre campi specificamente distinti
della fisica, della matematica e della metafisica.
a) Fisica. Nelle realtà dell'esperienza noi possiamo, a un primo grado, astrarre solamente dalle note individuanti. L'oggetto così considerato è ridotto alle qualità sensibili, vale a dire a ciò che pone gli enti nel divenire (ens mobile). Questo è il campo proprio delle scienze fisico-chimiche, che studiano le qualità sensibili in
quanto sono osservabili e misurabili (analisi empiriologica e empiriometrica), e della filosofia della natura,
che studia l'essere sensibile in quanto è intelligibile (15).
b) Matematica. Un grado superiore conduce a considerare l'essere dell'esperienza, unicamente come
quantità (ens quantum), facendo astrazione da tutte le qualità sensibili. Questo è il campo proprio delle scienze matematiche, che studiano la quantità (numero, figura e, per estensione, movimento) in quanto immaginabile, e della filosofia della natura, che studia la quantità in quanto intelligibile. In questi due primi gradi di
astrazione, viene considerata la materia, ma da punti di vista diversi: al grado in cui si pone la fisica, la materia è considerata sotto la sua forma sensibile comune e l'astrazione si opera solo riguardo alle determinazioni
individuanti, per le quali la materia diventa questo o quello; al grado in cui si pone la matematica, non si tratta più della nozione di materia sensibile comune, ma solamente di quella di materia intelligibile comune. Infatti, la matematica concerne i numeri, le dimensioni e le figure, cose tutte che si possono considerare senza
le qualità sensibili, ma non senza riferirsi, almeno implicitamente, agli enti che possiedono una quantità (16).
In altri termini, gli oggetti matematici non implicano la materia nella loro definizione, ma possono esistere
solo nella materia.
c) Metafisica. Si può salire ancora a un grado superiore di astrazione, perché, nell'essere che si offre all'esperienza, è possibile fare astrazione dalla quantità stessa. Questa non è che una determinazione: si può
considerare solamente l'essere stesso, senza alcuna determinazione che ne faccia un ente particolare qualsiasi, ma unicamente in quanto essere, vale a dire considerato nel suo tipo intelligibile e di conseguenza in tutta
la sua universalità (17). Questo essere, per il fatto stesso che astrae da ogni materia (dalla materia sensibile
comune e dalla materia intelligibile comune), è transfisico e trans-sensibile, accessibile solamente (e in senso
ancora più stretto che l'essere della filosofia naturale) alla pura intelligenza. Il termine «metafisica», come
abbiamo visto prima, significa anzitutto e essenzialmente proprio questo.
§ 2 - La scienza metafisica
A. SPECIFICITÀ DELLA METAFISICA
12 - 1. LA METAFISICA COME SCIENZA AUTONOMA - La metafisica, considerata come scienza dell'essere in quanto essere o come scienza delle condizioni dell'esistenza in generale, si presenta dunque con un
oggetto ben definito e che appartiene solo ad essa. Nessuna scienza, sia naturale che filosofica, studia il medesimo oggetto a questo stesso livello di generalità, e ciò basterebbe a giustificare la pretesa della metafisica
di costituire una scienza specificamente distinta da tutte le altre e assolutamente autonoma. Si potrebbe obiettare, è vero, che questa specificità e questa autonomia sono soltanto ipotetiche, cioè dipendenti dalla realtà
dell'oggetto della metafisica. Non abbiamo difficoltà ad accogliere questa obiezione, che tiene conto del punto di vista sotto il quale ci accostiamo alla metafisica. Difatti, non vogliamo pregiudicare nulla: seguiamo solamente il movimento del pensiero, che avanza per via di generalizzazione, cioè per astrazioni sempre più
ampie. Questo avanzamento ci conduce, alla fine, a far astrazione da qualsivoglia determinazione da cui è
affetto l'essere dell'esperienza, per considerare in quest'ultimo solo ciò che lo costituisce e lo rende intelligibile, puramente e semplicemente in quanto essere. Quanto poi a sapere se codesta astrazione è legittima e se
essa lascia ancora sussistere del reale dinanzi allo spirito, è ciò che studieremo prima di accostarci alla metafisica.
13 - 2. LA METAFISICA COME SCIENZA REGGITRICE - La metafisica, ammessa la sua possibilità, è
una scienza autentica, anzi la più alta e la più perfetta di tutte le scienze. Merita infatti di essere chiamata
scienza reggitrice, in quanto il suo oggetto, che è l'essere universale, considerato in tutta la sua purezza intelligibile, è presente ovunque, e perciò gli enunciati della metafisica avranno valore universale (col beneficio
dell'analogia) per tutto ciò che è o può essere in qualsiasi modo. La metafisica è anche, per ciò stesso, la
scienza più libera, in quanto essa si presenta come sciolta dalla servitù del sensibile, cioè di tutto ciò che la
materia introduce di opaco per lo spirito e di accidentale (e per conseguenza d'irrazionale) negli oggetti del
sapere, e in quanto - nella sua costituzione formale, ma non nelle sue origini empiriche - dipende solo dalla
pura considerazione dello spirito (cfr. S. Tommaso, In Metaphysicam, Proemium).
Le diverse scienze non sono subalterne alla metafisica nel senso stretto della parola, quello in cui, per esempio, l'ottica è subalterna alla geometria. L'ottica infatti è sprovvista di princìpi propri, e procede dalle
conclusioni della geometria. Al contrario, la filosofia naturale possiede dei princìpi propri, che sono evidenti
di per sé (esempio: ogni mutamento esige un soggetto, II, 30). Ma questi princìpi possono a loro volta essere
ricondotti a princìpi più universali, che appartengono alla metafisica e che vengono da questa difesi (almeno
negativamente, per riduzione all'assurdo) (18). Perciò vi è una certa subalternazione delle scienze alla metafisica (S. Tommaso, I Post. Anal., lect. 25 et 41). Però, se la metafisica ha su tutte le altre scienze una priorità
di dignità e di certezza, il suo studio non potrà precedere quello delle scienze particolari, né quello della filosofia naturale (cosmologia e psicologia), perché dal punto di vista dell'invenzione o dell'acquisizione progressiva del sapere noi possiamo andare solo dal sensibile al non-sensibile, dal concreto all'astratto.
14 - 3. VALORE SINTETICO DEL PUNTO DI VISTA DELL'ESSERE - Il punto di vista aristotelico e
tomistico imposto, come si è visto, dal progredire e dal ritmo naturale del sapere, viene indirettamente giustificato dal suo carattere sintetico. Infatti, mentre le diverse definizioni moderne che abbiamo dianzi discusse
si escludono a vicenda, il concetto della metafisica come scienza dell'essere in quanto essere, include tutto
ciò che di vero e di positivo vi è nelle definizioni contestate. La scienza dell'essere in quanto essere è la
scienza di ciò che è non-sensibile, vale a dire immateriale, benché si possa da principio cogliere nell'essere
solo la possibilità di enti positivamente immateriali (19). La metafisica è scienza del reale in se stesso, poiché,
considerando l'essere, essa considera ciò che vi è di più reale nelle cose: infatti non c'è reale se non per l'essere. Essa è pure la scienza dell'inconoscibile, in questo senso almeno: che il suo oggetto, in quanto soprasensibile, può essere colto solo con la riserva introdotta dall'analogia e, quando si tratta del Principio primo
dell'essere universale, supera infinitamente la possibilità della nostra intelligenza. La metafisica è la scienza
dell'assoluto. E per due ragioni: in quanto l'esse è l'assoluto di ogni cosa e in quanto essa mira a definire le
cause e i princìpi assolutamente primi dell'universo. Essa è una conoscenza sistematica universale, in quanto
il punto di vista dell'essere è il più sintetico che possa esistere, ogni cosa definendosi, giudicandosi, spiegan-
dosi in funzione dell'essere. Infine, la metafisica può essere considerata come conoscenza a priori, nel senso
che essa è tutta intera contenuta implicitamente nei princìpi primi della ragione, cioè nelle leggi dell'essere,
che sono colte intuitivamente fin dal primo contatto dell'intelligenza con le cose.
Nonostante le critiche che Heidegger (cfr. Sein und Zeit, Halle, 1927, pp. 1-2; cfr. tr. it., Essere e tempo,
Milano-Roma, 1953) muove a Platone, Aristotele e agli Scolastici, egli riprende essenzialmente il loro punto
di vista, ma insistendo sul fatto che la ricerca dell'essere, cioè la metafisica stessa, diventa una maniera d'essere del ricercante, vale a dire dell'esistente, che si interroga sull'essere dell'esistenza. Invero, noi siamo suscettibili di essere aggrediti dall'assoluta stranezza dell'esistente unicamente perché il Nulla ci è rivelato nel
fondo del Dasein. La metafisica è questo «perché?», che nasce dalla sorpresa, cioè dalla manifestazione del
nulla e dall'angoscia da quest'ultimo determinata: «Perché, tutto sommato, vi è dell'esistente piuttosto che
niente?». Questa domanda non è posta dal di fuori: essa mette noi stessi in questione. Cosicché, per il fatto
stesso che noi esistiamo, noi siamo fin d'ora e ormai per sempre in piena metafisica. Donde la serietà della
metafisica, non eguagliata da nessuna scienza, per quanto rigorosa essa sia. (Cfr. Heidegger, Was ist
Metaphysik?, Halle, 1929; Qu'est ce que la metaphysique?, trad. H. Corbin, Parigi, 1938, pp. 41-44; cfr. trad.
it. con intr., Milano, 1943). Questa concezione s'appoggia su una nozione preontologica dell'essere e del nulla, che noi qui non dobbiamo discutere, ed essa implica metodologicamente il ricorso alla fenomenologia esistenziale (I, 8 bis): è nell'analisi dell'ontico (dato esistentivo) che si deve scoprire l'ontologico (o esistenziale). Queste vedute possono essere accostate a quelle di J. P. Sartre, per il quale «la metafisica non è una discussione sterile su nozioni astratte che sfuggono all'esperienza», ma «uno sforzo vivo per abbracciare dal di
dentro la condizione umana nella sua totalità» (Situations, II, Parigi, 1947-49, p. 251). In L'Etre et le Néant
(Parigi, 1943, p. 354), J. P. Sartre considerava il problema metafisico come il problema dell'esistenza dell'esistente (l'ontologia vi è definita come l'esplicazione delle strutture d'essere dell'esistente in quanto totalità).
B. DIVISIONE
15 - La divisione della metafisica risulta dalla sua stessa definizione: poiché è scienza dell'essere, e di ciò
che essenzialmente gli appartiene, essa comporterà due parti principali, secondo che si consideri l'intelligibilità intrinseca (ontologia) o l'intelligibilità estrinseca dell'essere (teologia naturale).
1. ONTOLOGIA - La metafisica si occupa anzitutto dell'essere come tale in se stesso, cioè in ciò che costituisce la sua intelligibilità intrinseca, sia staticamente (l'essere come trascendentale, i generi supremi) sia dinamicamente (l'essere in quanto causa). Questa prima parte si chiama ontologia (o scienza dell'essere) o anche metafisica generale (20).
Fin d'ora importa stabilire che l'essere di cui si tratta (per ipotesi) in metafisica non può essere che l'essere
reale, ancorché sia considerato sotto il suo aspetto più universale, e non l'ente di ragione o essere puramente
mentale (concetti e idee in quanto tali) (I, 38). L'ente di ragione come tale appartiene alla logica, che stabilisce l'ordine che dev'essere osservato soggettivamente nei concetti dell'intelletto. Poiché la metafisica considera l'essere reale, extra-mentale, oggettivo, essa non può assolutamente definirsi, alla maniera kantiana, come «ein System der blossen Erkenntnis a priori aus blossen Begriffen» (sistema costruito a priori mediante
concetti estranei all'esperienza). La metafisica, nel suo concetto più ovvio, si presenta al contrario come una
scienza fondata sull'esperienza; in un certo senso, si dovrebbe anche dire che essa è la più positiva di tutte le
scienze, in quanto il suo oggetto, astratto dall'esperienza sensibile, è la più universale e la più sicura delle nostre esperienze. Da queste osservazioni, si capisce perché presso Wolff l'ontologia (sistema a priori, come le
matematiche) stia all'inizio della filosofia, e perché invece, secondo le esigenze dello sviluppo del sapere, la
metafisica non possa collocarsi che al termine della filosofia speculativa.
16 - 2. TEOLOGIA NATURALE - Contrariamente a una opinione assai frequente (21), noi non crediamo
che la teologia naturale (o teodicea) divenga parte della metafisica per il fatto che si potrebbe distinguere a
priori, nell'essere, sia l'essere universale comune, sia l'essere positivamente immateriale. Ciò è vero solo materialmente, come abbiamo già osservato (2). Dal punto di vista del progresso del pensiero, non è che si passi
dall'ontologia alla teodicea, altrimenti in una divisione introdotta da questo punto di vista, si dovrebbe svelare una specie di petizione di principio o di argomento ontologico. Contro tutti gli ontologisti e tutte le forme
di ontologismo, san Tommaso afferma costantemente che noi non vediamo Dio nell'essere, ma lo dimostriamo partendo dall'essere. Dunque, non è il concetto di essere ad introdurci nella teologia naturale (almeno
immediatamente), ma la ricerca della causa dell'essere universale. Perciò appunto Dio, in filosofia, è conosciuto solo sotto la ragione di principio primo dell'essere, e la teologia naturale non è quindi che una parte
della metafisica e non una disciplina che abbia princìpi propri e indipendenti, come invece li ha la teologia
dogmatica, che parte della rivelazione. I princìpi della teologia naturale sono quelli della metafisica.
17 - 3. CRITICA DELLA CONOSCENZA - Tutto ciò che noi abbiamo detto circa l'oggetto della metafisica, vale solo, come abbiamo visto, ex hypothesi. Ci si può e ci si deve chiedere infatti se l'intelligenza sia realmente capace di attingere l'essere, cioè qual è il valore ontologico della ragione. È questo l'oggetto proprio
della critica della conoscenza, la quale costituisce dunque come un'introduzione alla metafisica. Essa stessa
d'altronde è di natura metafisica in quanto essa pure ha come oggetto l'essere extra-mentale; non in se stesso,
è vero, in quanto essere o realtà oggettiva (oggetto formale dell'ontologia), ma in quanto conoscibile dall'intelligenza.
La critica della conoscenza deve precedere l'ontologia, ma viene dopo la psicologia; infatti, come si potrebbe indagare il valore ontologico del conoscere senza sapere in precedenza ciò che sono, in realtà, la conoscenza sensibile e la conoscenza intellettuale? Si tratta di sapere se la critica non sia stata in qualche modo
esaurita con le osservazioni fatte in psicologia riguardo ai processi della conoscenza. In ogni caso, se la critica rimane, in seno alla metafisica, una disciplina particolare, dotata di un oggetto formale proprio, essa dipenderà solo da ciò che san Tommaso chiama via iudicii, o procedimento che consiste nel risalire dalle conclusioni ai princìpi razionali, per esaminare alla luce di questi ultimi tutto ciò che l'intelligenza ha potuto conoscere (22).
In realtà, come si vedrà meglio più avanti, la critica rappresenta un aspetto speciale del sapere filosofico,
piuttosto che una disciplina particolare. Essa infatti, nel suo significato più generale, è nient'altro che la riflessione mediante la quale l'intelligenza, a mano a mano che avanza nella costituzione del sapere, prende
coscienza di sé e del proprio potere e verifica in certo modo i suoi metodi e i suoi procedimenti. Sotto questo
rispetto, essa è saggezza e nello stesso tempo scienza. Tutto ciò deve apparire chiaramente dal modo di procedere col quale abbiamo elaborato fin qui il sapere filosofico. Ogni volta che un nuovo oggetto, formalmente distinto, si offriva al nostro studio, noi dovevamo verificare la portata e il valore dei nostri procedimenti di
investigazione, il che valeva propriamente a istituire già una critica della conoscenza. In metafisica, perciò, la
critica sarà una verifica metodica dell'intelligenza in quanto operatrice del sapere metafisico, e questa verifica coinciderà con la costituzione stessa di questo sapere: essa propriamente, nel suo fondo, sarà costituita
dall'intelligenza che considera se stessa in quanto in atto di operare metafisicamente, e di prendere coscienza
in maniera riflessa dei propri procedimenti, del loro valore e dei loro limiti. Se la critica assume qui un'importanza speciale e sembra staccarsi dalla metafisica, ciò dipende dalla particolare gravità del tema trattato, e
anche da ragioni che potremmo chiamare polemiche, cioè in riferimento ai molti problemi e alle gravi difficoltà sollevate in questo campo dalla speculazione moderna.
Ma questo, del resto, non produce alcun mutamento sostanziale: la critica della conoscenza non è una
scienza autonoma, essenzialmente distinta dalla metafisica.
Possediamo così il piano e i princìpi secondo i quali deve organizzarsi il nostro studio della metafisica (23).
PARTE PRIMA
POSIZIONE E METODO DEL PROBLEMA CRITICO
18 - All'inizio della critica della conoscenza dobbiamo definire anzitutto il significato del problema critico
e il metodo che conviene adottare per la sua soluzione. Ciò assume qui una particolare importanza, poiché ci
sono pochi altri settori, in filosofia, in cui le opinioni siano così diverse e confuse. Dovremo dunque incominciare col definire con la massima precisione possibile l'oggetto formale e il fine della critica. Per giungervi, il mezzo migliore sarà quello di studiare come il problema critico, di fatto, sia stato posto nella storia
del pensiero. Si scorgerà così, molto meglio che per via astratta, quali princìpi o quali postulati presiedano
alle dispute riguardanti il valore della conoscenza e come, per molteplici aspetti, le varie teorie che sono state
proposte rispondano in realtà solo a degli pseudo-problemi, che una psicologia o una cosmologia più esatte
potrebbero eliminare, come sprovvisti di senso e di fondamento. Saremo in grado così di delimitare con precisione il senso e la portata reali del problema critico, come pure il metodo che esso richiede.
Questa esposizione storica viene fatta in funzione del problema critico, vale a dire: da una parte essa ritiene
dalla storia delle dottrine ciò che è relativo alla critica della conoscenza o risulta immediatamente dalle soluzioni proposte, e dall'altra ritiene, in quest'ordine stesso, nomi e dottrine che presentano i temi speculativi più
precisi, lasciando da parte tutto ciò che, per quanto importante sia per altri aspetti, non aggiungerebbe nulla
d'essenziale al nostro studio e comporterebbe inutili ripetizioni.
LIBRO PRIMO
CRITICA DELLA CONOSCENZA
CAPITOLO PRIMO
STORIA DEL PROBLEMA CRITICO DALL'ANTICHITÀ A CARTESIO
SOMMARIO (24)
Art. I - L'ANTICHITÀ. Il problema dell'essere e del reale - Eraclito - Parmenide - Le posizioni critiche
- Lo scetticismo - Il nominalismo - Critica del concetto - Il fenomenismo e l'idealismo - Il realismo - Aristotele - Sant'Agostino.
Art. II - IL MEDIOEVO. Il realismo critico - Il realismo tomistico La questione del «realismo critico» - Il
realismo platonico - Il realismo delle essenze - Il panteismo - Il terminismo - Il principio nominalistico - Il
principio d'immanenza - L'idealismo problematico.
Art. III - IL CARTESIANESIMO. La «via modernorum» - I temi del Medioevo - Il primato della critica L'idealismo cartesiano - La dottrina di Cartesio - Il problema critico dopo Cartesio.
19 - I moderni datano volentieri da Cartesio la prima apparizione del punto di vista critico in filosofia.
Per la prima volta nella storia, essi pensano, la ragione in Cartesio prende se stessa come oggetto di studio
e si interroga sul suo proprio valore (25). Ma non vi è nulla di meno conforme ai fatti. È cosa naturale, per
la ragione, porsi il problema circa il suo valore e la sua portata e fin dall'antichità questo problema è stato
formulato e trattato, se non risolto, con perfetta chiarezza. Se il problema critico, nell'età moderna, ha preso forme nuove, nulla prova a priori che ciò costituisca un progresso autentico, né che la soluzione generale di questo problema dipenda da princìpi diversi da quelli che l'antichità e il medioevo hanno usato.
Art. I - L'antichità
20 - Nell'antichità greca, il problema critico sembra essere anzitutto quello della capacità della ragione a
conoscere il vero con certezza. Esso viene posto insieme dallo spettacolo della molteplicità e della contraddizione delle opinioni filosofiche, dallo sfruttamento dei casi di errori o illusioni dei sensi, e dalla critica della
conoscenza astratta (nominalismo). Questi temi critici dipendono a loro volta dai due punti di vista antitetici
sulla natura dell'essere, definiti dai nomi di Eraclito e Parmenide (26).
§ 1 - Il problema dell'essere e del reale
Vi è un problema dell'essere che è posto, dal punto di vista empirico, dal conflitto fra il pensiero concettuale, il quale procede per idee universali e immutabili, e la realtà sensibile, che i sensi ci fanno percepire come
perpetuamente in movimento. Dove bisogna scoprire l'essere vero: nel mondo del divenire o nell'universo
immobile delle idee? La prima soluzione è quella di Eraclito; la seconda, quella di Parmenide.
1. ERACLITO D'EFESO - Eraclito (500 circa a. C.) è colpito dalla legge universale del mutamento. «Tutto
scorre» egli dice, «e nulla sta». L'universo è come un fiume nel quale non ci si bagna due volte. Ciò che è,
muta per il fatto stesso che è, il che vuol dire che l'essere (in quanto realtà stabile e durevole) non esiste: esiste solo il divenire, che è la sostanza stessa delle cose. Si potrebbe d'altra parte mostrare dialetticamente che
non si può ammettere la realtà dell'essere senza rendere impossibile e inintelligibile il mutamento. Infatti, ciò
che diviene non può venire né dal non-essere: poiché dal nulla, nulla viene, né dall'essere, poiché l'essere, per
definizione, è, e ciò che è non ha da divenire.
Dal punto di vista psicologico e critico, la dottrina di Eraclito conduce al più radicale scetticismo, in quanto
essa perviene a negare il principio d'identità. Se tutto è in tutto, se i contrari si identificano, se nulla assolutamente è stabile, è impossibile affermare o negare alcunché, o piuttosto, si può affermare e negare tutto,
poiché nulla è vero e nulla è falso.
Lo scetticismo non è stato professato, indubbiamente, da Eraclito stesso. I testi che sembrano negare il
principio d'identità non sarebbero da prendersi in senso logico, ma riguarderebbero solamente la natura e sottolineerebbero, in forma paradossale, l'universale divenire e assieme la necessaria correlazione dei contrari (il
vero e il falso sono inseparabili, come il giorno e la notte; ciò che ora è vero diverrà falso e viceversa; una
cosa diventa buona solo se è cattiva e viceversa, ecc.). Tuttavia Aristotele, che sembra togliere ad Eraclito la
taccia d'aver negato espressamente il principio di non contraddizione, nota giustamente che professando la
riduzione dell'essere al divenire, Eraclito doveva necessariamente finire col sopprimere il vero e il falso, il
bene e il male, e coll'opporsi alle esigenze razionali del pensiero. (Metaph., V, 7, 1005-b 24 - 1012 a 24). (La
posizione di Aristotele verso Eraclito è, a questo proposito, assai moderata e non c'è motivo di sospettare la
sua buona fede e la sua intelligenza, come fa Burnet (Aristotle, Londra, 1924, p. 163).
21 - 2. PARMENIDE D'ELEA - La dottrina di Parmenide (vissuto fra il 530 e il 444) si oppone in maniera
contraddittoria a quella di Eraclito. Il reale, egli dice, è l'essere e non il divenire. Il divenire non è che apparenza sensibile. Se l'essere fosse soggetto al cambiamento, esso verrebbe dal non-essere, il che è assurdo. Il
cambiamento è dunque impossibile: «Il destino non permette all'essere di nascere o di perire, ma lo mantiene
immobile ed eterno». Nulla vi è di reale al di fuori dell'essere. L'Essere è l'Uno e il Tutto. Questo punto di
vista ontologico implica, in campo psicologico e critico, l'affermazione essenziale che il pensiero è la stessa
cosa che l'essere, che il pensiero è identico all'oggetto del pensiero. Il reale si riduce all'Idea, immutabile e
necessaria, e perciò ci sarà scienza autentica solo delle idee.
J. Burnet (op. cit., p. 210) osserva ben a ragione che Parmenide è il «padre del materialismo», perché il
principio «ciò che è, è», presso di lui è prima di tutto affermazione della realtà del mondo esterno come un
plenum continuo, indivisibile, immutabile, finito e completo in se stesso. Ma se è vero che «non c'è materialismo che non dipenda dalla concezione parmenidea della realtà», non ne segue minimamente che Parmenide
non possa essere nello stesso tempo il «padre dell'idealismo». Materialismo e idealismo non sono dei termini
e delle concezioni inconciliabili: la storia ce ne fornisce a sufficienza l'esempio. Del resto, ciò che qui importa per noi, sono le conseguenze logiche delle dottrine. Da questo punto di vista Platone ha riconosciuto che il
proprio idealismo dipendeva dalle concezioni del «grande Parmenide». D'altra parte, Aristotele ha mostrato
che Eraclito e Parmenide, a causa della loro ignoranza del concetto di potenza (elemento di mediazione tra
l'essere e il non-essere), erano destinati a finire nel nominalismo (27).
L'uno e l'altro, infatti, per non aver compreso che l'essere è immanente al reale singolo e diveniente, e di
conseguenza che l'intelligibile è immanente (in potenza) al sensibile, staccano il conoscere dalla sua radice nell'esperienza. Da questa posizione, comune ad entrambi, deriveranno tanto l'empirismo fenomenistico dei sofisti e degli scettici quanto l'idealismo platonico (28).
§ 2 - Le posizioni critiche
A. LO SCETTICISMO
22 - I sofisti greci sono essenzialmente degli scettici; si distinguono però tra di loro per la maggiore o minore estensione del loro scetticismo. I pirronisti (seguaci di Pirrone di Elide) professano uno scetticismo universale e radicale: mai e riguardo a nessuna cosa l'uomo, può conoscere una verità certa, poiché gli manca
un criterio che gli permetta di distinguere con sicurezza il vero dal falso. Ogni dimostrazione del valore della
ragione finirebbe d'altronde in un circolo vizioso, perché tale dimostrazione sarebbe possibile solo mediante
la ragione (argomento del diallele). I probabilisti (neo-accademici) attenuano notevolmente lo scetticismo
pirroniano e ammettono che la ragione può giungere a stabilire delle probabilità, ma senza poter mai oltrepassare questo limite, che sta al di sotto della certezza, ma che è sufficiente, del resto, per potersi condurre
nella vita pratica.
B. IL NOMINALISMO
23 - Parecchi filosofi dell'antichità pongono il problema critico e lo risolvono in una maniera del tutto differente da quella degli scettici. Il loro punto di partenza risiede in una critica serrata dell'intelligenza astratta, cioè del concetto o idea generale, di cui negano decisamente il valore, poiché riducono ogni conoscenza
valida, sia al puro sensibile, (sensismo: atomisti, epicurei, stoici), sia al puro intelligibile (idealismo platonico).
1. CRITICA DEL CONCETTO - Platone ci ha conservato nei suoi Dialoghi, soprattutto nel Sofista e nel
Protagora, i temi principali di questa critica, familiare a Gorgia e a Protagora, e che egli stesso accettava per
proprio conto, basando tuttavia su di essa conclusioni affatto diverse da quelle dei sofisti. Tale critica comporta tre asserzioni essenziali, che si possono riassumere nella maniera seguente.
Se si pretende di affidarsi al concetto come strumento di conoscenza, ne segue immediatamente che ogni
affermazione è contraddittoria. Infatti, allorché diciamo che il non-essere è il non-essere, noi affermiamo,
nello stesso tempo, che il non-essere è qualche cosa, che esso è reale e che esiste. Se diciamo che Socrate è
filosofo, noi affermiamo che egli è altro da ciò che è, che egli è e assieme non è. D'altra parte, il pensiero ha
caratteri opposti a quelli dell'oggetto; le idee sono fisse e immutabili, mentre gli oggetti sono sottoposti a
perpetuo cambiamento. Nulla, dunque, corrisponde alle idee nella realtà. Infine, supposto pure che si fosse
conosciuto l'essere, la sua conoscenza sarebbe incomunicabile, poiché le parole non hanno nulla di stabile,
contrariamente al pensiero che esse pretendono di esprimere, e, per di più, esse possono esprimere solo ciò
che è sensibile, mentre esistono numerosi oggetti che nulla hanno di sensibile (il numero, il silenzio, ecc.).
Protagora conclude che ogni conoscenza è relativa ed esprime solo lo stato soggettivo di colui che la enuncia, ma mai l'essere reale, che irrimediabilmente ci sfugge.
Sesto Empitrico, riprendendo nel II secolo a. C. l'insieme delle obiezioni scettiche, formula chiaramente
una distinzione che diverrà classica nella critica idealistica della conoscenza, cioè quella tra fenomeni e es-
sere o essenza. «Il nostro scetticismo - egli scrive - consiste essenzialmente nell'opporre i fenomeni alle essenze; solo queste ultime non sono conoscibili; ma dire che il nostro scetticismo distrugge i fenomeni (cioè i
dati soggettivi), è travisare il nostro pensiero».
Gli Stoici, partendo dagli stessi princìpi, rifiutano ogni valore (se non puramente logico) al concetto e lo
considerano come un semplice nome comune che abbraccia un gruppo di sensazioni o di individui simili
(nominalismo). Per essi, dunque, la scienza sarà solo un'espressione della sensazione.
24 - 2. IL FENOMENISMO E L'IDEALISMO
a) Nominalismo e fenomenismo. La dottrina secondo cui i soli dati empirici certi si riducono ai fenomeni (o
dati soggettivi), è il postulato comune, nell'antichità, sia all'empirismo nominalistico che all'idealismo. Abbiamo visto con quale precisione Sesto Empirico abbia formulato il tema fenomenistico e come ne derivasse
presso di lui uno scetticismo radicale nei riguardi del sapere metafisico. Infatti, dalla duplice critica mossa
dalla sofistica greca alla conoscenza sensibile, sospetta per via degli «errori dei sensi», e al concetto o idea
generale, necessariamente estranea, si diceva allora, al movimento continuo e incessante di ciò che appare e
alle realtà singole, derivava che noi possiamo avere certezza solo delle realtà soggettive, idee, immagini,
sensazioni, e di conseguenza che il mondo delle realtà oggettivo potrebbe essere per noi nient'altro che una
semplice illusione. C'è dunque un solo universo certo: quello del soggetto; e secondo la celebre formula di
Protagora, l'uomo è la misura di tutte le cose. Si vede così come il nominalismo antico conduca logicamente
al fenomenismo.
b) Nominalismo e idealismo platonico. Per altra via, il nominalismo dirige ugualmente l'idealismo platonico, che vuol offrire una soluzione dei problemi nati dalla sofistica. Infatti Platone ammette che l'intelligibile
non sia immanente al sensibile: questo, come ce lo impone una visione empiristica dell'universo, è essenzialmente molteplice e discontinuo, fuggevole e mutevole, affetto da irrimediabile contraddizione interna,
poiché il divenire ne fa un insieme di essere e non-essere. È dunque solo un'ombra o un'apparenza. La vera
realtà è l'Idea, cioè il mondo delle cose incorruttibili, che noi apprendiamo mediante il pensiero al di sopra
del mondo delle apparenze fuggitive e instabili. La sofistica fenomenistica non aveva compreso, secondo
Platone, proprio questo; cosicché invece di abbandonarsi allo scetticismo a causa del conflitto dell'intelligibile e del sensibile (cioè dell'idea e della sensazione), conviene, dice Platone, trarne profitto per la nostra certezza: infatti la vera realtà non è quella che si offre ai sensi e che è soggetta al divenire, ma il mondo delle
Idee, eterno e immutabile. C'è certezza solo riguardo all'Idea ed ogni vera scienza concerne solo le Idee. Per
questo motivo Platone propone nella Repubblica (511 b) una dialettica che «senza utilizzare nulla di sensibile, si serva solo delle idee per andare, mediante idee, ad altre idee e per terminare ad idee».
Questo idealismo platonico è assieme un ontologismo e un innatismo. Da una parte, infatti, il mondo delle
Idee viene considerato, nel sistema di Platone (almeno secondo l'interpretazione aristotelica), come un
mondo reale, sussistente e separato dall'universo sensibile (ontologismo); dall'altra, Platone suppone che,
avendo l'anima contemplato le Idee in una vita anteriore, essa possieda fin dalla nascita la scienza delle
Idee, che a poco a poco diventa scienza attuale, sotto il richiamo del sensibile (il quale «partecipa» alle
Idee) (innatismo). Ma questi sono aspetti particolari dell'idealismo platonico. Indubbiamente, ontologismo e innatismo sono nella logica propria dell'idealismo: Cartesio riprenderà l'innatismo e Malebranche
l'ontologismo. Tuttavia il tema idealistico, ridotto a ciò che esso ha d'essenziale, consisterà nell'affermare, partendo dalla critica nominalistica della conoscenza e dal fenomenismo che essa implica, che sola
realtà data alla conoscenza è l'idea e che ogni sapere autentico concerne unicamente le idee. Il movimento del conoscere non consisterà dunque nell'andare dalle cose al pensiero, ma dal pensiero o dall'idea
alle cose; la «cosa» d'altronde non è altro, per l'idealista, che la «realtà oggettiva» dell'idea.
C. IL REALISMO
25 - La critica scettica e nominalistica della conoscenza è a sua volta vigorosamente criticata e confutata
nell'antichità da punti di vista assai diversi, da Aristotele e da sant'Agostino.
1. Aristotele - Dal punto di vista critico, l'opera aristotelica potrebbe essere definita come una giustificazione
del concetto in quanto strumento di conoscenza della realtà. A questo riguardo, del resto, Aristotele è l'erede
della tradizione socratica. Il merito proprio di Socrate era stato di mostrare, contro gli scettici, che ogni
scienza autentica era costituita di definizioni e, di conseguenza, di concetti e di idee generali. Rimaneva da
fondare questa asserzione essenziale su un'analisi esatta dei procedimenti del conoscere. A tale compito si
dedicò Aristotele, mostrando che il concetto non è l'oggetto diretto e primo della conoscenza, ma solamente
il segno mentale dell'oggetto e lo strumento del sapere. Indubbiamente, la realtà che esso contiene ed esprime non esiste fuori dello spirito sotto la forma universale che essa riveste nel pensiero (poiché solo l'individuo e il singolo sono reali); ma questa realtà è astratta mediante l'intelligenza dai dati sensibili, nei quali essa
esiste sotto forma potenziale. Se i generi e le specie (concetti) non esistono che nello spirito, vi sono nella re-
altà stessa delle forme o idee, attuate nei singoli, delle quali il prender possesso per via d'astrazione è compito proprio dell'intelligenza.
Con ciò, Aristotele fondava una teoria realistica della conoscenza nettamente opposta al nominalismo empiristico, e mostrava che l'intelligenza è essenzialmente ordinata a conformarsi alla realtà. Lo scetticismo radicale dei sofisti veniva così confutato. Secondo Aristotele rimaneva vero, come nell'idealismo, che vi è
scienza autentica solo delle essenze e delle idee, in quanto i concetti costituiscono la materia del sapere (vi è
scienza soltanto dell'universale), ma, contrariamente all'idealismo, egli stabiliva che la fonte prima delle idee e dei concetti risiedeva nel sensibile stesso. L'intelligibile (cioè l'idea) ridiventava immanente al sensibile, in luogo di venir considerato una costruzione arbitraria dello spirito, senza rapporto con la realtà (tesi
dell'empirismo nominalistico), o come il frutto di un'intuizione di un mondo superiore di essenze, mondo che
sta al di là di quello da noi percepito (tesi dell'idealismo platonico).
2. SANT’AGOSTINO
26 - a) Il neoplatonismo cristiano. sant'Agostino dipende dalla tradizione platonica, mediata del neoplatonismo di Plotino e inserisce questa tradizione in un contesto cristiano, trasformandola per ciò stesso profondamente, la compie e la perfeziona, correggendola in ciò che essa aveva di più discutibile. Infatti, Agostino
non accetta né l'universale intelligibile delle idee sussistenti, né l'innatismo platonico. Queste due opinioni
errate gli sembrano tuttavia racchiudere magnifici preannunzi e germi di verità. Poiché è verissimo che deve
esserci un mondo intelligibile o mondo delle idee, dato che il nostro pensiero procede per idee eterne e necessarie e riferendosi a norme assolute e immutabili, che noi evidentemente non scopriamo nel mondo della
percezione: un mondo in movimento, mutevole e fondamentalmente affetto di molteplicità. Si deve però ritenere che questo mondo delle idee è la Ragione divina, con la quale bisogna che noi siamo in contatto in
qualche modo, poiché solo per essa giungeremo a spiegare il fatto che noi pensiamo e giudichiamo secondo
norme che trascendono lo spazio e il tempo (illuminazione) (29). Vi è dunque un certo innatismo delle idee
che è legittimo. Non tuttavia in senso platonico, ma nel senso che l'anima, per la sua natura spirituale e per
l'effetto della luce illuminatrice che riceve da Dio, possiede una capacità naturale a percepire l'intelligibile
presente in sé (cioè se stessa e Dio) e a cogliere immediatamente, al richiamo delle impressioni corporee,
l'intelligibile di cui esse partecipano e che di esse è la regola immutabile (30).
b) La tradizione agostiniana. A proposito di questi due punti, Agostino è a capo di una tradizione che verrà
ad inserirsi nell'aristotelismo e gli apporterà quei complementi di cui esso aveva bisogno. Né Platone, né Aristotele potevano bastare a se stessi. Infatti Platone, da un lato, partendo come gli empiristi da una specie di
scetticismo nei riguardi dei sensi, proponeva un idealismo ontologico che spiegava la conoscenza intelligibile solo a prezzo di ipotesi arbitrarie.
Aristotele, d'altro canto, che aveva fornito un'analisi straordinariamente precisa e penetrante dei problemi
della conoscenza, non riusciva a rendere conto di ciò che vi era di necessario e di eterno nella scienza, o, in
ogni caso, se egli scopriva nelle essenze, astratte dall'intelligenza concettuale, alcunché di necessario e di eterno, non arrivava a spiegare intelligibilmente questi caratteri delle essenze, per mancanza del concetto di
creazione. Insomma, ciò che mancava al suo sistema era una giustificazione metafisica della scienza, cioè
della verità considerata sotto il suo aspetto antologico, e non più semplicemente logico e psicologico. Aristotele dà una giustificazione empirica del sapere scientifico, vale a dire una giustificazione descrittiva e psicologica, che costituisce una meraviglia d'analisi minuziosa e lucida. Egli tuttavia non poteva, come Platone
d'altronde, fornire una giustificazione metafisica della verità, che abbisogna di una dottrina della creazione:
ora nessuno dei due possedeva tale dottrina, che è di fatto, se non di diritto, di derivazione ebreo-cristiana.
La ragione umana è atta, con i suoi propri lumi naturali, a stabilire in una maniera certa che l'universo procede da Dio per via di creazione ex nihilo. Ma, di fatto e storicamente, questo concetto di creazione è legato
alla rivelazione ebreo-cristiana, la quale afferma solennemente che Dio creò il cielo e la terra. (In principio,
creavit Deus coelum et terram, Gen. I, 1). Né Platone, che ammette una materia preesistente (χώρα), né Aristotele, che sostiene l'idea dell'eternità del mondo, senza supporre che questa eternità (razionalmente ipotetica) non basti affatto a rendere intelligibile l'esistenza dell'universo, hanno avuto il concetto di creazione propriamente detta. (cfr. il nostro Essai sur les rélations entre pensée grecque et pensée chrétienne; n. ed., c. I,
Parigi, 1955, Aristote et saint Thomas, ou la notion de création).
Art. II - Il Medioevo
27 - Dal punto di vista critico, il Medioevo è caratterizzato dalla questione degli universali. Abbiamo già
parlato dell'aspetto psicologico di tale questione (III, 409-410); l'aspetto critico è ad esso strettamente connesso, in quanto il giudizio sul valore della conoscenza dipende dalla descrizione delle operazioni conoscitive, sia sensibili che intellettuali. Possiamo perciò distinguere qui tre correnti principali: il realismo moderato
o critico, il realismo platonico e il nominalismo.
§ 1 - Il realismo critico
1. NATURA DEL REALISMO CRITICO - Il realismo critico è essenzialmente la posizione difesa da san
Tommaso. Dal punto di vista psicologico, cioè in quanto concerne i processi della conoscenza, la dottrina
tomistica riprende le tesi aristoteliche apportandovi ulteriori precisazioni, in particolar modo le tesi riferentesi alla critica dell'intelligenza concettuale. Dal punto di vista della critica della conoscenza, la dottrina tomistica dipende dalla tradizione agostiniana (e platonica anche, nella misura in cui il pensiero di sant'Agostino dipende dal platonismo). L'apporto capitale di Agostino alla critica della conoscenza è stato infatti, come abbiamo visto prima, di fornire le grandi linee per una giustificazione metafisica della verità; dottrina
talmente essenziale per lui, che egli concede un interesse solo secondario all'analisi psicologica dei processi
della conoscenza. san Tommaso, assimilando all'aristotelismo tutta una parte del pensiero agostiniano, potrà
mantenere tutta la ricchezza e la precisione psicologica che caratterizzano la dottrina di Aristotele, ma nello
stesso tempo sarà in grado di poter coronare questo sistema incompiuto con una critica della ragione, che è di
diretta provenienza agostiniana.
san Tommaso fa suo in maniera assoluta il principio essenziale della dottrina agostiniana della illuminazione. La certezza - egli dice - è in noi una partecipazione della luce divina: lo spirito umano non può possedere
per se stesso la regola infallibile della verità, benché esso la possieda in se stesso, vale a dire nella luce dell'intelletto agente, donde procede ogni certezza (31). Ma san Tommaso, fedele alle analisi di Aristotele, che
gli sembrano la descrizione più esatta dei processi del conoscere, si discosta da Agostino per quanto riguarda
la maniera di concepire il modo dell'illuminazione (32). Poiché, se è vero per lui che noi conosciamo tutte le
cose nelle ragioni eterne, ciò non richiede nessuna luce speciale, distinta dalla luce dell'intelligenza. Infatti,
per san Tommaso, dire che l'anima possiede in se stessa la regola infallibile della verità, è quanto dire che
questa regola fa una cosa sola con l'intelligenza. che essa costituisce intrinsecamente mentre in sant'Agostino
si tratta solo di una ricezione della luce nell'anima, che viene informata dall'esterno (33).
Quanto poi al modo di spiegare psicologicamente questa partecipazione (modo dell'illuminazione), san
Tommaso dichiara che importa assai poco dire, come fa sant'Agostino, che sono gli intelligibili stessi che
ci vengono partecipati, o dire, com'è contenuto nella sua propria dottrina, che ci viene partecipata appunto
la luce che fa gli intelligibili (34). «Importa assai poco»: intendiamolo nel senso che, in un caso o nell'altro, il principio dell'illuminazione è salvo. Quando si tratta però di fondare una psicologia esatta dei processi intellettivi, l'insistenza stessa di san Tommaso nello scartare la forma agostiniana dell'illuminazione,
è sufficiente per mostrare che la cosa importa assai. Il disaccordo tra sant'Agostino e san Tommaso riguarda la dottrina che è al centro dell'astrazione, essenziale al tomismo (e all'aristotelismo) ed estranea
a sant'Agostino (come pure a Platone): per l'uno gli intelligibili sono tratti dal sensibile, per l'altro sono
visti nella luce illuminatrice. Punti di vista del tutto differenti, che nessuna dialettica riuscirà a comporre
in unità. L'accordo è al di là dei dati della pura psicologia, nell'identica sottomissione al principio certa
che per noi, al di fuori della verità empirica e manchevole di giustificazione ultima, può esservi verità solo per partecipazione alla Ragione increata. Verità capitale, la quale domina tutte le discussioni di scuola,
e che, più che la questione del modo dell'illuminazione, preoccupava essenzialmente sant'Agostino ( 35).
Tanto che egli stesso, come san Tommaso, forse più che san Tommaso, non avrebbe esitato, quanto al resto, a scrivere: Non multum refert.
28 - 2. LA QUESTIONE DEL «REALISMO CRITICO»
a) Il realismo metodico. Designiamo la dottrina di san Tommaso, che abbiamo ora esposta, come un realismo critico. Si è talvolta contestata la legittimità di questa espressione nei riguardi di san Tommaso. E. Gilson osserva infatti: «Realismo [significa, in un primo senso] dottrina che si oppone a idealismo, in quanto
pretende che il passaggio dal soggetto all'oggetto sia possibile; applicato alla metafisica medioevale, realismo vuol dire: dottrina in cui ci si concede come data l'esistenza reale dell'oggetto, negando che ci sia alcun
problema da risolvere al riguardo» (36). Così, parlare di «realismo critico» a proposito di san Tommaso, vorrebbe dire attribuire al tomismo la soluzione di un problema che questa dottrina non ha mai nemmeno sospettato. Senza contare, aggiunge Gilson, che il realismo non potrà mai essere stabilito mediante il metodo critico, la cui essenza consiste nel tentativo di ritrovare l'oggetto partendo dal soggetto. Un tal metodo è votato
fatalmente all'idealismo.
Ritorneremo su quest'ultimo punto. Quanto al primo, che è d'ordine storico, affermiamo qui che le vedute
di Gilson sono assai discutibili. Indubbiamente, Gilson ha ragione quando osserva che il realismo tomistico è
essenzialmente un realismo metodico, nel senso che esso non è frutto d'una critica della conoscenza di tipo
idealistico, consistente nello scoprire un passaggio (posto che ci sia) dal pensiero all'essere, quest'ultimo presupposto originariamente esterno al pensiero. È realismo metodico invece nel senso che è il risultato di un
metodo portante con sé la sua verifica, che si giustifica col suo successo e per l'accordo continuamente procurato da esso tra i dati dell'esperienza e le esigenze dell'intelligilità. Tutto ciò è certo. Tuttavia, se è pure vero, come si vedrà, che «critico» può essere detto in più sensi, perché il realismo tomistico non dovrebbe esse-
re chiamato critico nel senso che gli conviene? Infatti, il rifiuto stesso d'una critica previa della conoscenza,
anteriore assolutamente alla filosofia, è già, a quanto pare, una posizione critica, un giudizio che si pronuncia
su un certo modo di considerare la conoscenza. Sicuramente, questo rifiuto nella dottrina di san Tommaso è
solo implicito, ed è soprattutto il cartesianesimo (37) che ci conduce a esplicitarlo: ma con ciò si è condotti
proprio a dare un senso critico a quanto non era prima che metodico: in altri termini, si fa passare all'atto un
atteggiamento critico che il tomismo virtualmente conteneva.
29 - b) Il punto di vista specificamente critico. Ma c'è di più: il tomismo non è soltanto rifiuto di un determinato metodo critico, di quel metodo cioè che va dal pensiero all'essere: anche il tomismo comporta una
critica esplicita della conoscenza. Questa critica consiste, da una parte, nello stabilire per via psicologica
(qui la critica verifica i dati della psicologia, riflettendo espressamente sull'attività intellettuale) che l'intelligenza, come facoltà dell'essere, in quanto si conforma alla sua propria legge, è immediatamente e necessariamente oggettiva. D'altra parte il tomismo, conformandosi in ciò all'ispirazione agostiniana, si sforza di oltrepassare il punto di vista specificamente psicologico dell'analisi dei processi della conoscenza, per render
conto del carattere necessario e assoluto del nostro sapere intelligibile.
Che questo sia un vero problema, il quale fornisce alla critica il suo proprio oggetto formale, niente lo mostra meglio delle difficoltà tra cui si dibatte il pensiero aristotelico per accordare il contingente col necessario
e il necessario col contingente. Il conflitto di questi concetti è qui senza via d'uscita. La contingenza degli enti singoli dell'esperienza diviene intelligibile solo a patto di ricorrere alla generazione in circolo delle cause e
degli effetti, la cui eternità offre una spiegazione analoga alla necessità analitica, che definisce la legge del
pensiero (38). D'altra parte tuttavia la necessità, tipo unico dell'intelligibilità, per Aristotele è nient'altro che la
necessità interna (o logica) delle essenze e delle forme. Ora si tratterebbe di sapere perché queste essenze e
queste forme siano necessarie. Ecco qui il problema capitale che, dal punto di vista critico, prende la forma
seguente: cos'è che fonda, in definitiva, il carattere assoluto e necessario del nostro pensiero? Aristotele, a
questo riguardo, non offre alcuna risposta, o per lo meno la risposta che egli dà, dicendo che le forme e le essenze sono necessarie perché sono eterne (De Coelo, I, 12, 282 a 25; 282 a 30; De Coelo et Corr., Il, 11, 337
b 35; Phys., II, 5, 196 b 12), il necessario e l'eterno sono rigorosamente convertibili - questa risposta non è
evidentemente una soluzione. Resterebbe infatti da spiegare perché esse sono eterne, e d'altronde la loro eternità (ipotetica) non risolverebbe minimamente il problema della loro necessità. In ultima analisi, Aristotele
non oltrepassa il livello del fatto empirico (39).
c) Il problema della verità. È necessario dunque che il realismo metodico si faccia critico, non solo riguardo
ad altri, ma anche riguardo a se stesso. Esso deve scoprire e stabilire (partendo dalle acquisizioni della psicologia) ciò che fonda in ultima istanza la certezza che possiede l'intelligenza, sia quanto alla propria capacità di affermare la verità, sia quanto al proprio possesso del diritto assoluto di trascendere lo spazio e il
tempo nelle proprie affermazioni. Non si tratta del problema idealistico dell'essere extra-mentale, ma di un
problema molto più vasto e più radicale: del problema della verità. Non vi è nulla che sia tanto essenzialmente, fondamentalmente e propriamente critico quanto questo problema.
§ 2 - Il realismo platonico
30 - Nel Medioevo c'è un'importante corrente di pensiero che professa un realismo di tipo platonico, che
evolve a poco a poco verso il panteismo. Si tratta sempre di dar ragione dei concetti universali o, in altri termini, è ancora la questione degli universali (40) quella dibattuta. Come Platone, i Realisti logici convengono,
sotto forme assai diverse d'altronde, che le essenze (idee o universali) sono enti reali o realtà sussistenti, in
quanto l'intelligenza li conosce; ma poiché l'intelligenza non potrebbe in alcun modo percepirli nel sensibile,
che è singolare e sottoposto al divenire, bisogna ammettere che gli universali sussistano in un mondo intelligibile, col quale l'intelligenza è in qualche modo in rapporto.
Le diverse tappe di questa corrente realistica possono essere caratterizzate dai nomi di Guglielmo di
Champeaux (1070-1120), Gilberto de la Porrée (1076-1154), Amalrico di Bènes e David di Dinant (inizio
del XIII sec.) (41).
A. IL REALISMO DELLE ESSENZE
1. TEORIA DELL'IDENTITÀ - La concezione realistica delle essenze è stata difesa da Guglielmo di
Champeaux. In realtà, questo pensatore è passato in seguito ad un realismo molto più moderato; ma poiché
qui ci importano le teorie in sé, più che la storia delle dottrine individuali, riterremo la prima tesi di Guglielmo di Champeaux come il tipo d'una soluzione realistica del problema degli universali.
Bisogna ammettere, egli dice, che ogni essenza è numericamente una e identicamente la stessa in tutti gli
individui della stessa specie e che essa è completamente attuata in ciascuno di essi. Vi è, per esempio, una
sola umanità e ogni uomo la possiede integralmente. Sono gli accidenti che distinguono tra di loro i diversi
individui della stessa specie.
In seguito alle obiezioni di Abelardo, Guglielmo di Champeaux sostituì a questa teoria dell'identità la teoria dell'indifferenza. Egli conviene infatti ormai che le essenze sono tante quanti sono gli individui, ma sostiene che ogni essenza possiede un duplice elemento: l'uno personale e incomunicabile, l'altro, comune a
tutti e indifferente, il quale costituisce propriamente l'universale (genere o specie) e possiede solo una unità
di rassomiglianza (e non più d'identità, come nella prima teoria).
31 - 2. IL REALISMO ONTOLOGICO DELLA SCUOLA DI CHARTRES - Gilberto De La Porrée
(1076-1154) che è, con Bernardo (m. 1130) e Teodorico di Chartres (m. 1155), uno dei maestri della Scuola
di Chartres, difende una teoria che è ancora d'ispirazione platonica, ma che segna una tappa verso il realismo
moderato sotto certi punti di vista. Per dar ragione della distinzione e risolvere il conflitto esistente tra il singolo concreto dell'esperienza e l'universale del pensiero, Bernardo e Teodorico di Chartres dicevano che l'individualità viene dalla materia, sussistente a parte sotto forma non organizzata e caotica (la χώρα platonica),
e sostenevano che gli universali (idee e concetti) sono forme create da Dio e assieme nozioni innate nell'intelligenza (forme native) e che non possono spiegarsi se non quali copie delle Idee esemplari (modelli o archetipi), immutabili ed eterne, secondo le quali Dio moltiplica nella materia (che le individualizza) i generi e
le specie.
Gilberto De La Porrée riprende questa tesi di ispirazione nettamente platonica, ma la precisa o la corregge riguardo a un punto importante. Da una parte, infatti, egli professa che ontologicamente le «forme
native» (idee innate) o copie delle Idee divine sono realmente distinte da queste Idee (punto rimasto oscuro in Bernardo e Teodorico, per cui furono accusati, a torto, sembra (42), di panteismo), e dall'altra sostiene che, psicologicamente, l'idea universale o concetto si spiega mediante una specie d'astrazione «quodammodo abstrahit», In Boeth. de Trinitate, Migne, t. LXIV, col. 1374), che negli individui della stessa
specie enuclea una forma (o essenza) comune a tutti.
32 - 3. IL NUOVO ELEATISMO - Quest'ultima teoria orientava il platonismo della Scuola di Chartres
verso il realismo moderato. In realtà, questo movimento non si compie del tutto e Gilberto De La Porrée non
giunge a liberarsi completamente dal realismo ontologico platonico, poiché l'astrazione, com'egli la concepisce, è ancora tutta impregnata di nominalismo latente: infatti essa serve solo a mettere da parte o a separare
elementi comuni ai diversi individui (II, 412). Secondo tale dottrina, vi saranno, in seno agli individui, tante forme realmente distinte quante sono le idee con le quali noi le apprendiamo: tutto ciò che noi distinguiamo e separiamo con un'idea è realmente distinto e separabile nell'esistenza. In «Pietro», l'individualità, l'umanità, la razionalità, l'animalità, la vita, l'unità, ecc., a cui corrispondono altrettanti concetti distinti, saranno
realmente più cose distinte. Tale modo di pensare è molto importante, e va sottolineato, poiché lo ritroveremo, sotto aspetti diversi, lungo tutta la storia del problema critico, fino agli idealisti moderni. Se, infatti, l'universo appreso dal pensiero non è che un universo di essenze o di idee, sorge il problema di dover spiegare
in qual modo le idee si compongano tra di loro, cioè in qual modo l'insieme delle idee o concetti che compongono (punto di vista ontologico) o che definiscono (punto di vista psicologico e critico) un individuo,
possano ricondursi all'unità. Problema arduo, sia nel contesto ontologistico che nel contesto idealistico (che
qui si confondono). Una essenza universale (idea o concetto) basta interamente a sé da se stessa: un universo
di essenze è, come tale, un mondo di atomi intelligibili, in seno al quale sono inconcepibili la composizione e
il movimento. Platone si era già imbattuto (Filebo) in questo problema della «mescolanza delle Idee» (μίξις
των ίδεων), senza potergli dare una soluzione soddisfacente. Vedremo come tale problema si ripresenterà
presso i nominalisti e gli idealisti (particolarmente in Hegel). La sua prima origine risiede in una concezione
errata della funzione astrattiva dell'intelligenza e della natura del concetto.
B. IL PANTEISMO
33 - 1. AVERROÈ - Il realismo platonico, per altra via, conduceva logicamente al panteismo. Se infatti
l'intelligenza non si esercita che attingendo, per così dire, il suo sapere (in tutto ciò che esso ha di necessario
e di assoluto) in un mondo intelligibile, distinto e separato dal mondo sensibile, si può arguire che non è più,
propriamente parlando, l'intelligenza finita che pensa in noi, ma immediatamente il Pensiero divino. In questa direzione si orienta Averroè (o Ibn-Roschd, 1126-1198), dopo Avicenna (Ibn-Sina, 980-1036), basandosi
su di una interpretazione discutibile di taluni testi ambigui di Aristotele.
I testi in questione sono quelli del De Anima, III, c. V, 10a - 20, in cui Aristotele dichiara che l'intelletto
agente è «separato, impassibile, non mescolato». Secondo l'interpretazione più plausibile, riferendosi sia al
contesto, sia ad altri testi riguardanti lo stesso problema, Aristotele vuol dire che l'intelletto agente (II, 421)
non è composto di parti materiali, e neppure che si esercita mediante organi corporei. Con queste negazioni
egli ha di mira specialmente le teorie di Empedocle, criticate nel De Anima (III, c. IV, 10-28), un po' prima
del passo succitato. Tuttavia, un commentatore di Aristotele, Alessandro d'Afrodisia (fine del II sec.), aveva
inteso il testo del De Anima relativo all'intelletto agente, nel senso che l'intelletto agente dovesse esser consi-
derato come identico all'Atto puro, unico e impersonale. Donde ne seguiva che, essendo solamente l'intelletto
agente immortale nell'uomo, sussisteva solo una immortalità impersonale ( 43).
san Tommaso, nel suo commento del De Anima (III, lect. 10, n. 734-738, ed. Cathala), mostra quanto sia
poco verisimile questo modo di interpretare Aristotele. Da una parte, infatti, Aristotele ha affermato chiaramente che l'intelletto agente è, come l'intelletto passivo, una parte (cioè una facoltà) dell'anima, e non una
sostanza separata. Dall'altra, nell'interpretazione di Alessandro d'Afrodisia, l'uomo non sarebbe più il principio primo delle proprie operazioni intellettuali, il che andrebbe direttamente contro l'integrità della sua natura, come pure contro il sentimento invincibile che l'uomo prova di essere principio e padre del suo pensiero e
dei suoi atti.
Allo stesso modo delle esegesi di Alessandro d'Afrodisia (44) anche influenze neoplatoniche, esercitate dall'apocrifa Teologia d'Aristotele e dal De Causis, pure attribuito ad Aristotele, spingono Averroè nel senso del
panteismo. Averroè stima non solo che l'Intelletto agente sia unico e che esso costituisca la Ragione impersonale, comune a tutte le intelligenze, ma che l'Intelletto passivo (o intelligenza propriamente detta), essendo
nella sua parte superiore separato, spirituale e immateriale, esso pure sia necessariamente unico per tutti gli
uomini. Non esiste in realtà che un solo Pensiero, come non esiste che una sola Ragione. Le intelligenze
singole sono unicamente delle forme effimere e finite con le quali la Ragione impersonale pensa il necessario
e l'eterno, allorché le immagini provenienti dalla percezione sensibile gliene danno l'occasione.
34 - 2. L'AVERRROISMO LATINO - Queste tesi panteistiche sono riprese, presso i latini, da Amalrico di
Bénes, David di Dinant e Sigieri di Brabante. Il primo (m. 1216) propone un panteismo idealistico, inserito
assai logicamente sul realismo platonico, di cui esso è una delle possibili conseguenze. Egli dice che Dio si
manifesta attraverso le diverse Idee che si attuano nella perfezione di ogni essere, cosicché si deve dire, con
una espressione di san Tommaso (S. Theol., Ia, q. 3-, a. 8), che Dio è il principio o la forma di ogni cosa (Il,
87). David di Dinant, al conìtrario, sostiene un panteismo materialistico. Secondo lui, il molteplice e il singolo sono pure apparenze. Il reale non è altro che l'Idea, la Forma o il Tipo, e si presenta sotto tre aspetti: la materia prima, l'intelligenza e Dio. Questi tre aspetti appartengono alla stessa unica realtà, la quale, essendo essenzialmente semplice, non può stare a fondamento delle diversità reali.
Nel 1270, Sigieri di Brabante pubblica il suo De Anima intellectiva (ora in Mandonnet, Siger der Brabant
et l'averroisme latin au XIII siècle, 2 voll., Lovanio, 1908-11), probabilmente come risposta all'opera che san
Tommaso aveva pubblicato nello stesso anno, De unitate intellectus contra Averroistas (45) (ora in ed. Keeler, Roma, 1957). Sigieri espone qui in tutta la sua ampiezza la tesi averroistica dell'unità numerica dell'Intelligenza nella specie umana. Oltre alla vita che informa ogni organismo umano, bisogna ammettere, egli
dice, che esiste un'anima intellettuale, per sua natura separata dal corpo, ma che si unisce momentaneamente
ad esso per produrre l'atto del pensiero. Quest'Anima intellettuale non può essere che unica, poiché, come
Forma pura, essa esclude in modo assoluto la materia, in virtù della quale si danno l'individuazione e la moltiplicazione nella specie.
3. LE FONTI DELL'AVERROISMO MODERNO - Ritroveremo queste differenti opinioni presso parecchi idealisti moderni, particolarmente presso i panteisti del Rinascimento, presso Spinoza e i PostKantiani tedeschi, presso Taine, Vache-Rot, ecc. Il panteismo infatti è una delle conseguenze possibili
dell'idealismo. Poiché l'universo (per via dei postulati nominalistici) è ricondotto al pensiero e al suo contenuto immanente, si è indotti a dire che esso appare come una logica vivente solo perché esso è attualmente pensato nella sua unità da un Pensiero assoluto, del quale non sono che modi finiti i pensieri singoli. Il pensiero, il mio pensiero, se non nelle sue manifestazioni accidentali, almeno nella sua essenza più
profonda, non è altro che il Pensiero divino, rivelantesi sia nel pensiero individuale sia in ciò che, per un
tale pensiero, si presenta come costitutivo del mondo dell'esperienza.
§ 3 - Il terminismo
35 - IL PRINCIPIO NOMINALISTICO - All'inizio del XIV secolo, il nominalismo viene sistematicamente difeso nelle opere di Durando di Saint-Pourçain (m. 1334) e di Pietro Aureolo (m. 1322). Durando sostiene la tesi essenziale del nominalismo, secondo cui gli universali o idee generali non hanno nessuna corrispondenza nella realtà. Pietro Aureolo, da parte sua, propone una tesi che diverrà classica nell'idealismo sotto il nome di principio d'immanenza, e cioè che il termine della conoscenza non è l'oggetto reale, ma l'idea o
l'immagine (46). Saranno tuttavia Guglielmo d'Ockam e il suo discepolo Nicola d'Autrecourt a formulare in
tutto il suo rigore e le sue conseguenze la teoria nominalistica della conoscenza ( 47). L'intelligenza, afferma
Ockam, può conoscere solo ciò che è singolare. Le idee generali, infatti, sono solo dei termini che suppliscono gli oggetti singoli dell'esperienza, cioè le immagini.
Perciò, né i princìpi, né le nozioni universali trascendentali hanno valore oggettivo. Noi siamo certi in modo assoluto solo della nostra esistenza e delle «apparenze naturali», cioè dei fenomeni o, più precisamente
ancora, delle sensazioni. Non possiamo in alcun modo sapere (eccetto che per fede) se esistano altre persone
o oggetti reali, che corrispondano alle nostre sensazioni (48).
36 - IL PRINCIPIO D'IMMANENZA - Abbiamo visto come il terminismo medievale finisse, partendo dai
princìpi nominalistici, col porsi il problema circa la realtà di un universo extramentale. Questo problema era
implicitamente contenuto nell'affermazione di Pietro Aureolo, di Ockam e di Nicola d'Autrecourt: che cioè il
termine del conoscere non è l'oggetto reale, ma l'idea o l'immagine soggettiva. Il concatenamento dottrinale è
di una chiarezza perfetta. Ockam nega ogni realtà oggettiva a quell'universale diretto che, per il realismo
moderato di san Tommaso, costituiva l'oggetto proprio dell'intelligenza umana; egli ammette invece che questo universale esista realmente nello spirito. Il suo compito, in tale concezione, sarà di «supplire» le realtà
singole dell'esperienza; l'universale non rappresenta più le cose, ma è un semplice segno che, come tale, indica un oggetto di natura del tutto differente. In questo modo, oggetto immediato e diretto dello spirito non è
la cosa stessa, ma ciò che supponit o «supplisce» per essa, il suo segno mentale, naturale o arbitrario, cioè
propriamente l'«intenzione» o il concetto, l'idea o il termine. La cosa stessa, in quanto realtà extramentale,
appunto perciò diviene oggetto indiretto dello spirito, termine d'una specie d'inferenza, cioè un problema da
risolvere.
Il principio d'immanenza si presenta dunque come conseguenza delle premesse empiristiche e nominalistiche; di riflesso, l'esistenza stessa delle cose diventa un problema. Con tali teorie si prepara un movimento di pensiero, che condurrà naturalmente alle più decise conclusioni idealistiche (49).
37 - 3. L'IDEALISMO PROBLEMATICO
a) Teoria fenomenistica. L'idealismo, almeno nella sua forma problematica, non è d'altronde solamente una
conseguenza implicita del sistema terministico. Lo si trova formulato esplicitamente da Nicola d'Autrecourt ,
che va oltre le tesi di Ockam e le conduce alla loro ultima conclusione. Per lui infatti, a causa del suo empirismo e nominalismo, i fenomeni ormai non sono più collegati tra di loro, ordinati e unificati come accidenti di
soggetti (o sostanze) reali. Essi costituiscono solo un polverìo di apparenze naturali, che, come tali, sono la
sola realtà di cui noi siamo veramente certi. Tutto il resto è costruzione inconsistente, vuota immaginazione
(50).
b) Teoria meccanicistica. In virtù degli stessi princìpi, Nicola d'Autrecourt tenta di spiegare gli oggetti empirici unicamente in modo meccanico. La generazione, l'alterazione, la corruzione, cioè tutto il «movimento
delle apparenze naturali» (fenomeni o accidenti), si spiega nella maniera più semplice e più chiara senza alcun ricorso alle oscure nozioni di forme o di sostanze, in quanto il movimento locale degli atomi, così come
esso si offre ai sensi, basta a darne adeguatamente ragione. Un soggetto che comincia ad essere, è nient'altro,
infatti, che una nuova associazione di atomi in un tutto determinato; la corruzione è la disgregazione di questo tutto attraverso la dispersione nello spazio degli elementi che lo costituiscono; l'alterazione infine è nulla
più che uno spostamento degli atomi in un tutto dato (51).
Non per caso Nicola d'Autrecourt fornisce così, anticipatamente, una specie di schema della fisica cartesiana. Il motivo risiede nel fatto che, come presso Cartesio, il quale ha tanto insistito su ciò, la fisica viene fatta
dipendere dalla metafisica (cioè, qui, dalla teoria della conoscenza), e nel fatto che il nominalismo comporta
solo una spiegazione meccanica dei fenomeni. Questi ultimi, nella concezione nominalistica, sono privi di
qualsiasi principio interno di coesione e di unità, e quindi sono legati solo dal di fuori, meccanicamente.
D'altra parte, non ci si può fermare qui, in quanto il meccanicismo non spiega nulla. Esso stesso richiede a
sua volta una spiegazione: perché gli edifici atomici esistenti sono questi e non altri, con una costanza che il
caso non può giustificare? Ora, siccome nessuna finalità oggettiva (vale a dire nessuna realtà metafisica)
può renderne ragione, essendo questo escluso dal nominalismo e dall'empirismo, non rimane altra soluzione
che di farne l'opera dello spirito. Leibniz poneva bene in risalto questa inevitabile conseguenza, quando
scriveva contro il meccanicismo cartesiano: «Se i corpi si riducono a fenomeni e se li si giudica soltanto per
ciò che appare di essi ai nostri sensi, essi cessano per ciò stesso d'essere reali» (Philosophischen Schriften.
ed. Gerhardt, Berlino, 1875-90. II, p. 438). Nicola d'Autrecourt ammette implicitamente questa conseguenza,
riducendo ai soli fenomeni l'universo realmente conoscibile, ed anche l'universo reale, come appare chiaramente nei pochi documenti che ci restano (Chart. Un. Par., Parigi, 1894-97, II, 580 (9)].
38 - c) Il problema del mondo esterno. Per altra via, Nicola d'Autrecourt si volge nettamente verso un idealismo radicale. Si tratta ancora del processo cartesiano sviluppantesi nelle sue grandi linee, con la critica del
principio di causalità. Questo principio, egli dice, consiste nell'affermare che se una cosa A (effetto), che
dapprima non era, incomincia ad essere, un'altra cosa B (causa), distinta da A, deve essere. Ora questa argomentazione non ha nessun valore, poiché è evidente che essa supera il dato dell'esperienza, ogni qualvolta B
(causa) non viene scoperto sperimentalmente. È quanto accade particolarmente allorché si conclude da ciò
che appare in natura a sostanze ed essenze che nessuna esperienza ci rivela. L'argomento non è maggiormente probante quando gli si chiede di fondare la realtà del mondo esterno, con la pretesa di passare dai fenomeni, soli dati dei quali noi abbiamo un'esperienza autentica, a cose che, in rapporto a noi, sono assolutamente
esteriori (52). In realtà, conclude Nicola d'Autrecourt, la nostra propria esistenza è la sola di cui siamo assolutamente certi (53).
39 - d) Le fonti dell'idealismo moderno. Questi sono gli argomenti addotti da Nicola d'Autrecourt e, in genere, dai terministi medievali. Si coglie così sul vivo come la dottrina idealistica venga ad innestarsi in maniera assai naturale sull' empirismo ammesso in linea di principio. L'universo, ridotto a una pura molteplicità fenomenica, non ha più abbastanza consistenza per affermarsi in se stesso, come un oggetto distinto dal
soggetto conoscente. Esso svanisce per così dire in mere apparenze, generate misteriosamente dalle virtualità
del soggetto.
Possediamo ormai, formulati fin d'ora con chiarezza, i due argomenti essenziali dell'idealismo moderno.
Questi due argomenti - nominalismo e principio d'immanenza -, sono già tutto l'idealismo, ma in maniera
tale che il principio d'immanenza risulta esso stesso il frutto d'un empirismo radicale. Infatti, se l'oggetto
primo ed immediato, l'oggetto unico del pensiero è il fenomeno, cioè qui il pensiero o la sensazione, ciò è
dovuto al fatto che tutto l'universo è stato ridotto, da una concezione nominalistica, a una pura collezione
di fenomeni; e al fatto che questi ultimi, sprovvisti di qualsiasi substrato e principio metafisico, non hanno
altra realtà che quella di essere una modificazione. del tutto soggettiva del conoscente.
Art. III - Il cartesianesimo
§ 1 - La «via modernorum»
40 - 1. I TEMI DEL MEDIOEVO - Dal punto di vista critico, se si considera l'essenziale, l'epoca moderna
non apporta nulla di assolutamente nuovo; e davvero non senza ragione Ockam si vantava di inaugurare, con
le sue tesi nominalistiche, la via modernorum, in opposizione alle diverse forme di realismo, definite come la
via antiquorum. In realtà, egli non faceva che continuare una tradizione largamente rappresentata nell'antichità greca, allo stesso modo che Cartesio, ritenendo di romperla con tutto il passato, si limitava a seguire,
senza saperlo d'altronde, le orme dei terministi medievali (ma assai logicamente, poiché i suoi princìpi erano
gli stessi).
Così ritroveremo, lungo tutto il corso dell'epoca moderna, le stesse correnti di pensiero incontrate nel medioevo e nell'antichità, correnti basantesi sugli stessi argomenti e dirette dagli stessi princìpi. Montaigne (Essais, 5 voll., Bordeaux, 1906-33) e Charron (De la Sagesse, Parigi, 1601) riprendono i temi del vecchio pirronismo. Il platonismo di B. Telesio, di G. Bruno, di T. Campanella confluisce, come l'averroismo medievale
e quello professato nelle Università di Padova e di Bologna, in una specie di panteismo emanatistico, che
rappresenta uno dei caratteri più salienti della filosofia del Rinascimento.
Le Università di Padova (con Alessandro Achillini e Agostino Nifo) e di Bologna (con Pietro Pomponazzi)
si sforzano di restaurare, all'inizio del Rinascimento, il vero aristotelismo, che si presume essere stato travisato dalla Scolastica medievale. In realtà. questi nuovi campioni dell'aristotelismo, si volgono ora ad Averroè
ora ad Alessandro d'Afrodisia; l'immortalità dell'anima costituisce la posta principale delle loro discussioni.
Gli averroisti (padovani) ammettono l'immortalità impersonale, mentre i seguaci di Alessandro d'Afrodisia
(bolognesi) sostengono che l'anima umana perisce tutta intera col corpo (in quanto forma del corpo organico). Gli uni e gli altri sono d'accordo nel negare la Provvidenza e il libero arbitrio. (Cfr. M. De Wulf,
Histoire de la philosophie médiévale, 6a ed., Parigi, 1936, t. II, pp. 252-253; cfr. tr. it., Firenze, 1944-48).
Nel secolo XVII, Spinoza proporrà da parte sua un panteismo realistico, che si presenta come il risultato
conseguente di un nominalismo radicale e di un platonismo esasperato e, per ciò stesso, come una delle conseguenze possibili del sistema cartesiano. (Cfr. P. Lachièze-Rey, Les origines cartésiennes du Dieu de
Spinoza, Parigi, 1931) (54).
Dopo Cartesio e basato anch'esso sulle ambiguità della sua dottrina, il fenomenismo empiristico avrà di
nuovo una brillante fioritura e dominerà il pensiero di due secoli sotto le due forme che esso può assumere,
secondo che si insista sul fenomenismo, che si orienta allora verso l'idealismo, o sull'empirismo, che costituisce la corrente positivistica.
L'idealismo infine, con Cartesio, tenterà per la prima volta di costituirsi in sistema, accettando risolutamente le conseguenze idealistiche circa le quali i pensatori medievali non avevano chiaramente preso posizione,
e che essi avevano solo intravvedute, insomma, come paradossi o utopie (55). Ma quanto alla sostanza, Cartesio non inventa nulla nel campo che noi stiamo considerando. Se, concretamente e storicamente, egli non dipende dai suoi predecessori terministi, lo sviluppo di pensiero che lo conduce all'idealismo (problematico) è
logicamente lo stesso, e parte dagli stessi princìpi nominalistici, di quello che noi abbiamo studiato in Ockam
e in Nicola d'Autrecourt.
Non dobbiamo dunque ritornare sui singoli particolari di dottrina nei quali trovano espressione le diverse
soluzioni del problema critico. Ci basterà mostrare quale forma rivestano, nel cartesianesimo e presso i moderni, le diverse correnti critiche che l'antichità e il Medioevo avevano già così chiaramente delineate.
41 - 2. IL PRIMATO DELLA CRITICA - Vi è un punto, tuttavia, che caratterizza in modo speciale la filosofia moderna: essa, a partire da Cartesio, diventa esclusivamente una filosofia del soggetto, il che è quanto
dire che il problema critico occupa da solo quasi tutto lo spazio della filosofia. Né ontologia, se non more
geometrico, come presso Cartesio, - in cui la fisica è geometria - e presso Wolff, che è idealista, né filosofia
della natura, sono concepibili in un contesto dottrinale in cui si stima che la conoscenza possa raggiungere
realmente solo il soggetto pensante e il contenuto immanente della coscienza di quest'ultimo. Tutta la speculazione è armai centrata su tale soggetto, nemmeno per conoscerlo ontologicamente, poiché, secondo una
logica rigorosa, esso pure si dissolverà in fenomeni (III, 554-558), ma per tentare di scoprire come può generarsi, partendo dalla sua misteriosa soggettività, il mondo empirico delle apparenze. Per due secoli la filosofia si accanisce a risolvere il singolare problema interno al modo in cui un soggetto che (presumibilmente)
non conosce che sé e il suo pensiero, possa nondimeno conoscere e affermare ciò che è altro da sé.
§ 2 - L'idealismo cartesiano
A. LA DOTTRINA DI CARTESIO
42 - IL METODO MATEMATICO - L'idealismo è di molto anteriore a Cartesio, come abbiamo visto.
Tutti i pensatori nominalisti, nell'antichità e nel Medioevo, hanno ammesso che il pensiero non raggiunge
immediatamente che se stesso e il proprio contenuto immanente, ciò che propriamente è idealismo. Ma è solo con Cartesio che il metodo idealistico viene promosso a metodo di diritto della filosofia, mentre fino a lui
l'idealismo era apparso salo come una specie di vicolo cieco o d'utopia a cui conducevano l'empirismo e il
nominalismo, assai logicamente d'altronde. Cartesio invece, in modo deciso e chiaro, afferma come principio
la validità esclusiva del metodo delle matematiche: «Quando diciamo di una cosa che essa è contenuta in una
natura o in un concetto, è come se noi dicessimo che questa cosa è vera di questa natura o può essere affermata di questa natura». «Cum quid dicimus in alicuius rei natura, sive conceptu, contineri, idem est ac si diceremus id de ea re verum esse, sive de ipsa posse affirmari» (56).
Platone, tuttavia, come abbiamo notato (24), aveva già proposto con una grande chiarezza la formula del
metodo idealistico. Brunschvicg obietta che egli non si è attenuto a questo metodo e che il pensiero platonico
sembra aver compiuto il suo ciclo «rivolgendosi contro se stesso». (Le progrès de la conscience dans la
philosophie occidentale, Parigi, 1927, I, p. 32). Ciò è esatto, almeno materialmente. Ma Cartesio non si è attenuto al metodo idealistico più di Platone. Del resto, è possibile attenervisi?
2. IL DUBBIO METODICO - L'apparato del dubbio metodico, come viene esposto nel Discours de la Méthode e nelle Méditations (nelle Oeuvres de D., ed. di Adam e Tannery, 11 voll., Parigi, 1897-1909; cfr. Discorso del metodo, tr. di Carrara, 11a ed., Firenze, 1954; Meditazioni metafisiche, tr. di Tilgher, 3a ed., Bari,
1954), sembra abbia di mira solo la confutazione dello scetticismo, mediante la valorizzazione di una verità
talmente evidente che nessuna contestazione al riguardo sia realmente possibile, tale che su di essa si possa
ricostruire l'edificio intero del sapere. Il suo fine reale invece è quella di dare un fondamento di diritto al metodo matematico in filosofia come nelle scienza della natura (dove esso rappresenterà almeno l'ideale di una
scienza interamente deduttiva e a priori) e di escludere ogni metodo d'ispirazione realistica.
Sappiamo come Cartesio constati ch'egli può dubitare (fosse pure a prezzo di «supposizioni stravaganti»)
della realtà delle cose esteriori e perfino del proprio corpo (57), della verità assoluta delle proposizioni matematiche (58), e in generale della veracità di ciò che è evidente ai sensi e alla ragione (ipotesi del «genio maligno», vòlto a turbare e a falsare per ogni riguardo la conoscenza umana). Cartesio stabilisce però che in ogni
caso, si inganni o no, sogni o sia sveglio, sia da altri ingannato o subisca delle allucinazioni, gli è assolutamente impossibile dubitare del proprio pensiero e per ciò stesso della propria esistenza: Cogito, ergo sum.
L'essere, colto nel pensiero: ecco dunque il principio primo di ogni certezza e nel contempo la forma di ogni affermazione certa, nel senso che non vi è affermazione apoditticamente valida all'infuori di quella che
pone l'essere-pensiero o l'idea, poiché tutto ciò che sta al di là del pensiero è necessariamente oggetto di un
dubbio radicale. Dunque, il criterio della certezza risiederà nella chiarezza e nella distinzione dell'idea. (Discours de la Méthode, 4a parte, ed. e tr. cit.).
Questa formula, che è ritenuta comunemente come il criterio d'ogni verità, è invero l'espressione meno equivoca dell'idealismo e può essere intesa solo in esso. Infatti, solo nell'ipotesi che il pensiero non raggiungesse veramente se non idee (e non cose reali mediante le idee), si potrebbe e si dovrebbe cercare nell'idea
stessa il criterio della verità. Quest'ultima non sarebbe più dunque una adeguazione o una conformità dello
spirito con il reale, ma una semplice qualità interna dell'idea (I, 103). È quanto avviene nella conoscenza
matematica, in cui per verità si intende puramente e semplicemente la coerenza interna dei concetti matematici (cioè la loro chiarezza e distinzione e il rigore del loro concatenamento formale). Anche per questo ap-
punto il metodo matematico diventa, in Cartesio, il tipo universale di ogni conoscenza. Come Cartesio stesso
nota (Méditation première, ed. e tr. cit.), «l'aritmetica, la geometria e le altre scienze di questa natura» hanno
il vantaggio di non darsi troppa pena di sapere se le cose di cui trattano «siano nella natura oppure no».
43 - 3. IL PROBLEMA DEL MONDO ESTERNO - È ormai facile capire che l'esistenza di un universo
esterno al pensiero non è più un dato dell'esperienza né un'evidenza immediata, ma un problema da risolvere. Noi apprendiamo intuitivamente solo un universo di idee: si tratta di sapere se fuori dello spirito gli corrisponda una realtà.
Cartesio ritiene che convenga rispondere affermativamente, per la ragione che Dio ha messo nell'uomo,
creandolo con tutto il sistema delle idee innate, una potente e incoercibile inclinazione a credere che a queste
idee corrispondano delle cose. Dio non inganna, dunque noi dobbiamo pensare che la nostra inclinazione naturale ha un fondamento. A motivo di tale conclusione, si classifica talvolta Cartesio tra i realisti. Kant, nello
stesso senso, definisce il sistema cartesiano come un «idealismo problematico». A dir vero, questo termine di
realismo non si può usare per Cartesio che in un senso molto improprio. Anzitutto «realismo» (nella misura
in cui si vuol designare un sistema come quello di Aristotele o di san Tommaso) si adopera in opposizione a
«nominalismo». Ora, da questo punto di vista, è impossibile ritenere Cartesio un realista: egli è decisamente
e integralmente nominalista. Si adopera anche il termine di «realismo» in opposizione a «idealismo», per designare quelle dottrine che ammettono la realtà del mondo esterno. In questo senso, Cartesio è realista, così
come tali sono Malebranche, Spinoza, Kant, Fichte stesso, per il quale la nostra conoscenza progredisce solo
sotto la spinta di «chocs» o di accadimenti contingenti, cioè esterni (senza sufficiente conoscenza del come
ciò avvenga, d'altronde). La parola «realismo» non significa dunque, così usata, più nulla di preciso. Dire
«realismo» è ammettere non solo che vi sono delle cose, ma che la loro realtà è colta immediatamente, senza
alcuna inferenza, e di conseguenza senza dubbio possibile, sia pure iperbolico, in quanto anche il semplice
dubbio riguardo a tale realtà implica un'assurdità radicale. Ora Cartesio (come Malebranche, Kant e tutti
gli idealisti) è agli antipodi di questa concezione. Il suo realismo infatti, nel sistema, non è che un'aggiunta, e
per di più completamente inutile, della quale si può fare a meno di tener conto senza la minima difficoltà e
persino con grande vantaggio.
Si sa che Cartesio credeva che questo realismo fosse necessario alla scienza. Tale convincimento però non
trova spiegazione in una dottrina, in cui i dati sono sempre «idee» (o stati soggettivi). Che cosa si può chiedere infatti alle leggi della fisica, se non di permetterci di prevedere la sola cosa che noi possiamo cogliere e
che interessi il fisico, cioè l'ordine del mondo, il quale è qui niente più che l'ordine della percezione? Ammettere che domani vi sarà un'eclissi non significa per nulla porre l'esistenza del sole, della luna, della terra e
della luce fuori del soggetto conoscente, ma solamente prevedere la serie esattamente determinata delle percezioni che, in una coscienza umana, rispondono alla parola eclissi. Allo stesso modo, i dati delle geologia
non significano affatto l'esistenza di un passato anteriore al geologo e indipendente dal suo atto di conoscere,
ma solo che questi «dati» sono necessari alla coerenza delle sue osservazioni (o «percezioni») attuali.
L'ipotesi realistica non era dunque d'obbligo nel contesto cartesiano. Ma la logica del cartesianesimo (e
dell'idealismo in generale) conduceva molto più lontano: al solipsismo, cioè alla negazione pura e semplice,
non solo delle cose, ma anche delle persone all'infuori del soggetto conoscente. Infatti le persone non si impongono alla nostra esperienza in modo diverso dalle cose e non possono quindi avere alcun privilegio nei
riguardi di queste ultime. Io sono dunque solo e l'universo intero, persone comprese, viene ridotto in maniera
adeguata al sistema della mia rappresentazione.
La maggior parte dei filosofi idealisti hanno esitato davanti a questa conseguenza che contraddice evidenze tanto palesi e che finisce col togliere ogni significato ai problemi della filosofia e della scienza. Ma
tale esitazione davanti al salto nell'assurdo è il più chiaro segno possibile di una cattiva coscienza filosofica.
4. IL NOMINALISMO
44 - a) Il privilegio dell'intuizione. Un'altra conseguenza del «matematismo» cartesiano è che gli universali
sono respinti nel nulla dell'immaginazione ontologizzante. Cartesio dichiara, nella sua Réponse alle obiezioni
di Gassendi: «Ciò che voi allegate contro gli universali dei dialettici non mi concerne, giacché io li concepisco in una maniera del tutto diversa dalla loro» (Des choses qui ont été objectées contre la 5a Méditation, I,
§ 52, ed. e tr. cit.); Gli universali possono, infatti, essere concepiti come astratti dall'esperienza solo se e nella
misura stessa in cui si ammette che il primo oggetto offerto alla conoscenza è l'universo delle nature materiali (ens in quidditate sensibili existens) (III, 424). In un contesto dottrinale in cui l'oggetto immediato del
pensiero è l'idea, cioè l'intelligibile, quale bisogno vi è di astrazione per produrre delle nature universali?
Ogni conoscenza deve inevitabilmente essere ridotta all'intuizione del singolare. Cartesio lo spiega nelle Re-
gulae, in cui egli propone nello stesso tempo una logica adattata a questo nominalismo e costruita interamente. sul tipo delle matematiche (I, 72).
«Noi enumereremo qui - scrive Cartesio (Regulae ad directionem ingenii, III, ed. cit.; cfr. tr. it., Bari, 1954)
- tutti gli atti della nostra intelligenza mediante i quali possiamo giungere alla conoscenza delle cose senza
alcun timore di errare. Di tali atti, se ne ammettono solo due: l'intuizione e l'induzione. Intendo per intuizione, non la credenza alla testimonianza mutevole dei sensi o i giudizi fallaci dell'immaginazione, cattiva regolatrice, ma la concezione di uno spirito sano ed attento, talmente facile e distinta che non rimane alcun dubbio su ciò che noi comprendiamo; ovvero, ciò che è lo stesso, la concezione ferma che nasce in uno spirito
sano ed attento dai soli lumi della ragione». La deduzione non è che una forma dell'intuizione successiva o
una successione di intuizioni, cioè «un movimento continuo e ininterrotto del pensiero o una intuizione chiara di ogni cosa». «Noi sappiamo così che l'ultimo anello di una lunga catena è unito al primo, benché non
possiamo abbracciare con un solo colpo d'occhio tutti gli anelli intermedi che li uniscono, purché noi li abbiamo percorsi successivamente e ci rammentiamo che, dal primo all'ultimo, ogni anello è collegato à quello
che lo precede e a quello che lo segue».
Queste dichiarazioni mostrano da una parte che ogni dimostrazione autentica è razionale o a priori, cioè
che proviene «dai soli lumi della ragione», dall'altra che essa consiste unicamente nel percepire delle idee. La
percezione è immediata e perfetta allorché l'idea è chiara e distinta (evidenza). Spesso però l'idea è complessa e non può essere oggetto di una percezione chiara e distinta, cioè essa manca di evidenza immediata. Per
idea complessa non bisogna intendere idea generale. Secondo Cartesio, non vi sono idee generali o universali. L'idea generale non è che una pseudo-idea e in realtà si riduce a una immagine grossolanamente confusa.
Un'idea autentica è sempre una idea singola; ma essa può essere complessa allorché esprime nello stesso
tempo la causa e l'effetto, l'essenza e gli attributi, il tutto e le parti, il modello e la copia, la misura e gli oggetti misurati, ecc. (Regula VI). Quando ci si trova di fronte a un'idea complessa, l'intuizione deve volgersi
anzitutto all'idea (o elemento) più semplice e più facile (che è necessariamente ciò da cui tutto il resto dipende o l'assoluto) e passare in seguito, per movimento continuo o intuizioni successive, da un elemento all'altro
della serie (Regula VI). Quanto all'induzione (o enumerazione), non è che un procedimento complementare
per verificare metodicamente la deduzione, percorrendo con un sol movimento, senza omettere un sol elemento intermedio, «tutta la catena delle conclusioni», in modo da cogliere con un sol colpo d'occhio, «quasi
senza il soccorso della memoria», tutti i rapporti stabiliti (Regula VII).
45 - b) Meccanicismo e nominalismo. Il nominalismo cartesiano è dunque una conseguenza del dubbio metodico. Ma si può dubitare che questa sia proprio la via seguita da Cartesio (59). Ciò che potrebbe essere
chiamata la «messa in scena» del dubbio metodico, è soltanto un artificio nel modo di esporre, destinato a
introdurre l'idealismo e di conseguenza determinato da questo stesso idealismo. All'argomentazione scettica
del dubbio, infatti, si può sottintendere tutta una concezione nominalistica del conoscere e dell'essere, senza
la quale la dialettica del dubbio metodico non sarebbe stata nemmeno concepibile.
È certo infatti, secondo quanto ha sempre dichiarato Cartesio (60), come pure secondo l'ordine che egli
istituisce nel sapere - la metafisica alla base, che regge con i suoi princìpi la fisica, le scienze meccaniche,
la medicina e la morale (61) - che il fine primo ed essenziale cui egli mirava era di fondare tutta la scienza
su princìpi meccanici. Era questo verosimilmente l'inventum mirabile di cui parlavano gli Olympica (62).
Ora, per raggiungere questo scopo, bisognava innanzi tutto demolire l'edificio della scienza aristotelica e
specialmente la metafisica di Aristotele, sulla quale questo edificio era fondato. In tale divisamento, Cartesio fu condotto a sostituire al realismo moderato che gli era stato insegnato a La Flèche (e che, come tale, dava luogo a una fisica puramente qualitativa), il nominalismo più deciso e più atto, secondo lui, a far
da sostegno ad una concezione meccanicistica dell'universo. A questo nominalismo Cartesio doveva essere stato iniziato dalle dispute scolastiche che si tenevano a La Flèche. Niente tuttavia permette di supporre
che egli avesse conosciuto le tesi meccanicistiche che i terministi medievali avevano già così nettamente
dedotte dal nominalismo (37). La logica che lo legava al nominalismo era così rigorosa, che Cartesio
comprese subito che questa posizione gnoseologica era esigita dalle sue ambizioni scientifiche (cfr. il nostro Sources de l'Idéalisme, Parigi, 1936, pp. 78-83).
B. IL PROBLEMA CRITICO DOPO CARTESIO
46 - Cartesio lascia ai suoi successori soprattutto dei problemi da risolvere, che vengono componendo ormai i diversi capitoli di quello che è stato chiamato poi il problema critico.
1. PROBLEMA DELL'ESISTENZA - Anzitutto si incontra il problema del mondo esterno, destinato a diventare una specie di rompicapo filosofico. Se l'atto del conoscere non raggiunge direttamente e immediatamente che il pensiero, sorge il problema se, fuori del nostro pensiero, vi siano veramente delle cose che corrispondano alle idee. In altri termini, e con ciò si fa evidente l'assurdità di questo pseudo-problema generato
da un errore iniziale (nominalismo) sulla natura del conoscere: si tratta di scoprire mediante il pensiero e nel
pensiero un universo esterno al pensiero (63).
2. PROBLEMA DELL'ORDINE - L'idealismo dovrà risolvere anche quel problema che nei secoli XVII e
XVIII ha ricevuto il nome di problema della comunicazione delle sostanze (III, 625-627). La questione dell'unione dell'anima e del corpo ne costituisce soltanto un aspetto particolare. Sotto la forma più generale,
questo problema consiste nel chiedersi come le «cose» possano agire le une sulle altre e come possano formare tra di loro delle totalità naturali, dei sistemi, costituire un ordine stabile.
Questo problema è la crux philosophica del nominalismo. L'esclusione delle nozioni e delle realtà metafisiche - essenze, nature, forme e sostanze - lascia sussistere dinanzi al pensiero solo cose singole, tra le quali
la sola distinzione intelligibile è la distinzione reale maggiore (implicante separabilità: I, 43). Donde la formula così netta di Nicola d'Autrecourt, ripresa da tutti gli empiristi e nominalisti: «Quod quaecumque distinguuntur, summe distinguuntur». È proprio la concezione di Cartesio: ogni distinzione fondamentale implica,
egli dice, sussistenza e separabilità delle cose distinte; inversamente, ogni qualvolta è impossibile concepire
due cose come sussistenti o capaci di sussistere una senza l'altra, queste cose non sono realmente distinte
(cfr. Principes de la Philosophie, parte I, c. LX-LXII, ed. cit.; cfr. tr. it., 3a ed., Bari, 1934). Perciò Cartesio
afferma che tutta la sostanza dell'anima consiste solo nel pensiero e che tutta la sostanza del corpo consiste
solo nell'estensione. Più generalmente ancora, risulta da questa dottrina che gli aspetti delle cose (cioè i
gradi dell'essere) che non si possono identificare tra di loro, diventano tante cose distinte e che la loro unità
costituisce un mistero impenetrabile. Si constata così che l'empirismo e il nominalismo, rigettando gli enti
metafisici, rompono i legami segreti delle cose e rendono inintelligibile l'unità complessa dell'ente singolo, di
cui tuttavia essi fanno l'oggetto unico del conoscere.
Come abbiamo mostrato in Psicologia (III, 628), ne deriva che l'unione dell'anima e del corpo (considerati, secondo la dottrina precedente, come due sostanze complete: pensiero ed estensione) è inintelligibile nel
cartesianesimo. Per la medesima ragione, tale riusciva anche presso i terministi medievali: Ockam si vedeva
costretto ad ammettere che l'uomo formava plura esse partialia ed era composto di tre anime: vegetativa,
sensitiva e razionale (Ockam, Quodlibet, II, q. 10, Bologna, 1422).
Questo è dunque il problema che Cartesio o, più generalmente, il nominalismo propone ai filosofi fenomenisti ed idealisti posteriori: partendo dalle idee, spiegare i sistemi e le totalità organiche di cui si compone
l'universo, o, in altri termini, per dirla con Lachelier, rendere reale il pensiero, facendogli raggiungere, dal
punto di partenza dell'idea o del fenomeno, il concreto e l'individuale dell'esperienza.
Gli idealisti, come i fenomenisti, hanno talvolta pensato di poter risolvere questo problema mediante il
meccanicismo. Fu l'illusione di Cartesio, così vivacemente criticata da Leibniz (64). In realtà, come mostrammo prima (37), l'organizzazione meccanica degli elementi non è una soluzione, ma essa stessa il
problema da risolvere. Nondimeno, se si ammette che la spiegazione meccanicistica sia ad un tempo valida e sufficiente, si sarà condotti a chiedersi a che cosa può ancora servire lo «spirito» o il «pensiero» nel
render ragione dell'uomo: non è forse una di quelle «qualità occulte» che i princìpi stessi del cartesianesimo bandiscono da qualsiasi sapere intelligibile? A cose-macchine, ad animali-macchine non può corrispondere che un «uomo-macchina». (Cfr. La Mettrie, L'Homme-Machine, London, 1751; cfr. tr. it., Milano, 1955): il pensiero è nient'altro che l'aspetto cosciente delle modificazioni che si producono nella macchina umana (III, 611-617). Lo spiritualismo cartesiano dunque (spiritualismo spinto o angelismo, risultante dal nominalismo iniziale) conduce diritto al materialismo (65).
47 - IL PROBLEMA DELLA VERITÀ - È il problema essenziale della critica. Ora Cartesio, per risolverlo, non propone che una psicologismo insufficiente (66). La sua ambizione qui non va oltre l'analisi del soggetto pensante o della «cosa che pensa» e rimane ancora decisamente empirica. Lo rileva Husserl nelle sue
Méditations cartesiennes (Parigi, 1931, p. 20 sgg.), contestando che la «riduzione eidetica» del Cogito conduca realmente a un principio primo irriducibile e tacciando questa riduzione di semplice concessione all'empirismo. Invero, il movimento speculativo abbandonerà la via aperta da Cartesio e ritornerà a una forma
di riflessione che si può ben chiamare trascendentale, inserita nella più autentica tradizione agostiniana e
tomistica, e consistente nel tentativo di scoprire, nell'atto stesso del pensiero, le leggi che governano il pensiero stesso e che ne fondano (almeno di diritto) il valore assoluto.
CAPITOLO SECONDO
NATURA E METODO DEL PROBLEMA CRITICO
SOMMARIO (67)
Art. I - OGGETTO DELLA CRITICA. Lo pseudo-problema del mondo esterno - Gli argomenti idealistici
- Discussione - I fatti di relatività sensoriale - L'ipotesi del sogno coerente - Le contraddizioni dell'idealismo
- L'oggetto formale della critica - Il valore della conoscenza intellettuale - I fondamenti della certezza.
Art. II - METODO DELLA CRITICA. La riflessione critica - Natura della riflessione critica - I presupposti
della riflessione critica - Il punto di partenza della critica - Il «cogito» realistico - Il dubbio critico - Natura
del dubbio critico - Forma del problema - Il dubbio cartesiano - Il dubbio ipotetico - Problematica della critica della conoscenza - Critica dell'intelligenza - Critica dei processi della conoscenza.
48 - L'esposizione storica precedente ci aiuterà a definire con precisione la natura e la forma del problema
critico, ed il metodo da quest'ultimo richiesto. Abbiamo visto, infatti. che parecchi problemi vengono posti
quali conseguenze da princìpi discutibili o da postulati erronei. Questi problemi si riducono dunque a pseudo-problemi, come tali, quindi, del tutto insolubili. Essi entrano solo abusivamente nel contesto della critica.
Dobbiamo dunque eliminarli dalla nostra ricerca, non per una decisione a priori, ma mostrando da una parte
che questi pretesi problemi non si pongono che in funzione di teorie controverse o false, e dall'altra che lo
stesso porli è una cosa assurda. La discussione che ora intraprendiamo ci condurrà a delimitare in senso
stretto l'oggetto della critica, che a poco a poco aveva invaso tutto il campo filosofico. Certo è però che il
primo dovere della critica è quello di farsi essa stessa critica nei propri riguardi.
Art. I - Oggetto della critica
49 - Il problema dell'esistenza del mondo esterno ha costituito dopo Cartesio il problema critico essenziale,
mentre la questione fondamentale circa il valore della conoscenza intelligibile si trovava nello stesso tempo
ad essere risolta dal postulato nominalistico, presso la maggior parte dei filosofi. Vi è qui un capovolgimento
dell'ordine dei problemi, che non solo falsa gravemente il punto di vista critico, ma non permette nemmeno
d'arrivare a una concezione coerente e ferma della conoscenza.
§ 1 - Lo pseudo-problema del mondo esterno
Abbiamo visto che questo problema trovava la sua formulazione come conseguenza del postulato nominalistico e del principio d'immanenza, derivato a sua volta dal nominalismo ed affermante che l'oggetto primo e
diretto del pensiero è l'idea o l'immagine. Ne segue immediatamente che l'esistenza delle cose diventa un
problema che cerca soluzione (68). Non così avviene nella concezione realistica del conoscere, in cui la realtà
di un oggetto indipendente dal soggetto conoscente è una evidenza immediata ed assoluta, come tale escludente ogni specie di dubbio. Ciò che dunque è in questione qui, è anzitutto ed essenzialmente la natura della
conoscenza intellettuale. Si può però mostrare ad hominem che il porre lo pseudo-problema del mondo esterno è essa stessa cosa assurda e contraddittoria.
A. GLI ARGOMENTI IDEALISTICI
1. IL CRITERIO DELL'APODITTICITÀ - Il problema della realtà del mondo esterno si presenta come
fondato su due specie di argomenti, tendenti a stabilire che l'esistenza non è apoditticamente certa, cioè assolutamente evidente. Ora, dal punto di vista critico, deve essere ammesso, secondo Cartesio, solo ciò che è al
di là del dubbio, fosse pure il dubbio più stravagante; cioè deve essere ammesso solo ciò che rende assolutamente inconcepibile il non-essere (o l'asserzione contraddittoria) di ciò che è dato come una certezza evidente. (Cfr. E. Husserl, Méditations cartésiennes, ed. cit., p. 13).
Possiamo ammettere questo principio al punto di partenza, poiché è chiaro che la critica non deve pregiudicare nulla e deve al contrario spingere la discussione fino alle radici stesse del conoscere. Tuttavia, conviene osservare che l'inconcepibilità assoluta della non-esistenza, che serve a definire l'evidenza apodittica,
non deve essere limitata all'inconcepibilità astratta o logica. Quest'ultima non si riferisce che alle pure essenze e non vale, di conseguenza, che per i possibili. Ora, la critica ha per oggetto ciò che è, e per ciò stesso,
l'inconcepibilità che servirà di criterio s'intende relativa all'esperienza, altrimenti noi saremmo nell'ordine
logico e non nell'ordine reale, posto che quest'ultimo viene definito dall'insieme dell'esperienza (ma, a questo punto, senza affermarne ancora l'oggettività o la soggettività) (69).
2. FORMA DEL PROBLEMA - L'intera questione dunque può porsi così: 1'esperienza totale essendo
quello che è, è possibile formulare l'ipotesi idealistica? Se, infatti, è semplicemente possibile formularla
senza assurdità, si sarà condotti a mettere in questione la realtà di un universo extra-mentale. Ora Cartesio
e gli idealisti sono soliti porre innanzi qui due specie di ragioni, che, in realtà, sono i soli argomenti dotati
di una parvenza di fondatezza (70). Si tratta, da un lato, dell'argomento tratto dai fatti di relatività senso-
riale (errori e illusioni dei sensi), dall'altro, dell'argomento che considera l'insieme dell'esperienza come
fosse molto probabilmente un sogno coerente (71).
E. Husserl (Méditations cartésiennes, p. 15) riassume chiaramente questa argomentazione: «L'esperienza
sensibile, universale, in cui il mondo ci viene perpetuamente dato, non può essere considerata senz'altro come apodittica, cioè come escludente in maniera assoluta la possibilità di dubitare dell'esistenza del mondo,
cioè la possibilità della sua non-esistenza. Una esperienza individuale può perdere il suo valore e vedersi degradata a una semplice apparenza sensibile. Ancor più, tutto l'insieme delle esperienze, delle quali noi possiamo abbracciare l'unità, può rivelarsi semplice apparenza ed essere solo un sogno coerente».
B. DISCUSSIONE
50 - In virtù del criterio di apoditticità ammesso, possiamo mostrare che i due argomenti invocati dagli idealisti sono assurdi e di conseguenza che la non-esistenza del mondo è assolutamente inconcepibile.
1. I FATTI DI RELATIVITÀ SENSORIALE - Qui ci basta riferirci ai risultati della psicologia per sapere
se realmente i fenomeni classificati sotto i nomi di errori e di illusioni dei sensi o di allucinazioni siano suscettibili di far dubitare dell'oggettività della percezione.
a) Immagini e percezione. L'intera argomentazione cartesiana riposa sul postulato implicito che è impossibile distinguere un'immagine da una percezione. Ora la psicologia accusa di falso questo postulato, che Kant
da parte sua ha confutato con forza. Immaginazione e percezione differiscono essenzialmente, tanto che non è
possibile alcuna confusione tra una pura coscienza immaginante e una coscienza percettiva (III, 176-180).
Psicologicamente, è certo che i problemi relativi all'esteriorizzazione degli oggetti e alla loro localizzazione
nello spazio sono sprovvisti di senso, in quanto noi nella percezione, non abbiamo mai da «esteriorizzare»
degli oggetti, che invece ci son dati già originariamente come esterni (III, 149).
L'intera argomentazione di Cartesio e degli idealisti dipende dall'illusione di immanenza. Sembra loro che
l'immagine sia nella coscienza, come una specie di ritratto o di oggetto da osservare, il che riduce evidentemente l'immaginazione alla percezione. A causa di questa riduzione arbitraria e falsa, si è indotti a domandarsi se, procedendo l'immaginazione come la percezione, quest'ultima non si debba ridurre all'immaginazione. Si tratta di un vero pseudo-problema.
b) Errori e illusioni dei sensi. Anche su questo punto, i dati più sicuri della psicologia non ammettono l'ipotesi idealistica. Anzitutto, gli «errori dei sensi» in realtà sono semplicemente degli errori di giudizio, e riguardano non l'esistenza di un oggetto indipendente dai sensi, ma la natura di questo oggetto. Risulta invece
chiaramente che i sensi si correggono a vicenda, il che implica l'evidente realtà di un'esistenza esterna ai
sensi, poiché, se tale esistenza mancasse, i giudizi non sarebbero suscettibili di alcuna rettifica, ma si presenterebbero come necessariamente veri, non avendo per oggetto che il puro stato soggettivo, il quale è quello
che è e non può dar luogo a nessun errore. Di conseguenza, se è possibile parlare di «errori dei sensi», ciò
avviene in funzione dell'evidenza immediata e assoluta dell'esistenza di una realtà che sopravanza il senso,
cioè, in questo caso, il puro fenomeno soggettivo. Quanto alle «illusioni della percezione» (III, 156), esse
potrebbero effettivamente dar fondatezza a un dubbio riguardante l'esatta percezione degli oggetti, ma per
nulla riguardante la loro esistenza.
L'ipotesi che il mondo esterno possa essere effetto di una specie di allucinazione («allucinazione vera») è
stata formulata da Taine, ed esprime assai bene un aspetto della concezione idealistica. Ora questa ipotesi è
assurda, poiché, in un mondo in cui l'allucinazione fosse lo stato normale, non potrebbe sorgere il problema
dell'«allucinazione» (III, 147). Psicologicamente parlando, i fatti allucinativi hanno senso solo in funzione
della realtà dell'universo.
La stessa osservazione fa Kant riguardo alle difficoltà che sorgono dai fatti di relatività sensoriale (Critica
della ragion pura, tr. it. di Gentile e Lombardo-Radice, 2 voll., Bari, 1910; Analitica trascendentale. Confutazione dell'idealismo, 3a annotazione): «Ogni rappresentazione intuitiva delle cose esterne - egli scrive non implica senz'altro l'esistenza di queste, giacché questa rappresentazione può ben essere il semplice effetto dell'immaginazione (nei sogni, come nel delirio); ma questa immaginazione non ha luogo se non per la riproduzione di percezioni esterne passate, le quali, come abbiamo mostrato, sono possibili solo per la realtà di
oggetti esterni».
51 - c) L'illusione dell'intervallo. La maggior parte delle difficoltà che si presentano qui riguardo alla sensazione, provengono da ciò che si potrebbe chiamare «l'illusione dell'intervallo», che è soltanto una forma
dell'illusione dell'immanenza: si suppone che tra la sensazione come processo soggettivo e la percezione dell'oggetto, vi sia una specie di spazio da superare. Ora, la psicologia ci ha mostrato l'inconsistenza di tale supposizione, come pure che ogni sensazione è percezione (III, 128, 132). Da questo punto di vista, l'«io sono»
idealistico (cioè l'esperienza certa ridotta alla pura soggettività) è impossibile, in quanto ciò che ci è dato è,
immediatamente, «l'essere-nel-mondo». Mi è tanto vietato di separare la mia esistenza da quella dell'universo quanto di separarmi dal mio proprio corpo. Io mi sento esistente sentendo «l'altro» esistere con me. L'idealismo, che si sforza di minimizzare questo sentimento, è la negazione più arbitraria che esista di un dato
immediato indubitabile. Questo dato immediato è tale, che non bisogna nemmeno dire che la certezza, l'evidenza vertano sugli oggetti dati nella sensazione, poiché ciò farebbe supporre un intervallo tra l'atto del soggetto e l'oggetto stesso. In realtà, non vi è alcun intervallo: sensazione, certezza, evidenza si presentano qui
come ciò che (si) dà, cioè sono ciò stesso che è sentito, che è certo, che è evidente. La sensazione «è una partecipazione immediata di ciò che noi chiamiamo abitualmente il soggetto a un ambiente dal quale nessun limite lo separa» (72), e che egli non può rifiutare senza rifiutare contemporaneamente se stesso, poiché il soggetto non è più nulla dal momento che se ne stacca. Per questo appunto Aristotele e san Tommaso affermavano che il senso e il sentito (sensus et sensatum), e in generale il conoscente in atto di conoscere e il conosciuto in atto d'essere conosciuto, fanno una cosa sola.
52 - 2. L'IPOTESI DEL «SOGNO COERENTE» - Questa ipotesi è in contraddizione sia con l'esperienza
che con se stessa.
a) La smentita dell'esperienza. Non intendiamo far valere dei pregiudizi, ma riferirci semplicemente, tra le
esperienze che costituiscono il nostro universo (e qualunque sia il senso di questa esperienza), all'esperienza
del sogno. Ora questa esperienza, all'analisi fenomenologica, risulta essa stessa dipendente da esperienze anteriori al sogno. D'altra parte, un «sogno coerente» si rivela essere una cosa impossibile, e ciò non a motivo
di una qualsiasi nozione a priori del sogno o per un pregiudizio, ma in virtù dell'«esperienza» stessa, che sola
può servire qui di criterio, in quanto la nostra esperienza del sogno è, per opposizione all'esperienza di veglia, un'esperienza di incoerenza. Infine, il sogno, come è dato nell'esperienza, esclude assolutamente la riflessione sul sogno, poiché nel sogno la coscienza è prigioniera del gioco delle immagini e ogni riflessione su
questo gioco equivarrebbe alla soppressione del sogno stesso (73). Al contrario, la coscienza riflessiva conferma la percezione. Coscienza percettiva e coscienza onirica sono dunque radicalmente differenti (74). Da
tutto ciò segue che se l'universo fosse soltanto un sogno coerente, questo sogno diverrebbe talmente «reale»
che l'idea stessa di sogno ci sarebbe assolutamente estranea. L'ipotesi di una esperienza interamente ridotta a
un sogno coerente sopprimerebbe perfino la possibilità dell'idealismo. In un simile universo, Cartesio non
sarebbe mai esistito.
L'ipotesi del sogno coerente è dunque inconcepibile, se si tiene conto dell'insieme dell'esperienza. Può essere formulata solo sulla carta ed ha potuto essere accettata solo grazie ad un artificio, del quale sono esempi
tipici l'argomentazione di Cartesio come quella di Husserl. Allorché noi accettiamo, in via d'ipotesi, di ridurre l'intera esperienza a un sogno coerente, questa ipotesi non riguarda la nostra esperienza, ma un pensiero
possibile, tale da pensare solo un universo immanente; cioè noi sostituiamo inconsciamente al problema intorno a ciò che è concepibile in rapporto a noi, il problema del concepibile o dell'inconcepibile in sé. Da
questo punto di vista, nulla impedisce di formare la nozione di un pensiero tale che la sua esperienza si esaurisca tutta nell'essere esperienza di sé. Ci si può chiedere, è vero, in che modo un pensiero simile potrebbe
subire l'evidenza invisibile dell'esistenza di un mondo esterno a sé. Questo problema riconduce l'idealismo ad
affrontare ciò che è reale. Tuttavia, ancor prima di incontrare questo problema, l'ipotesi, come tale, dell'«universo sogno-coerente» racchiude una contraddizione interna che fa sì che essa venga scartata come assolutamente inconcepibile: «universo-sogno-coerente» è una nozione del tipo «cerchio-quadrato», poiché in
un universo di sogno, l'idea stessa di sogno sarebbe impossibile.
53 - b) L'illusione dell'Ego puro. Gli idealisti una volta rinchiusisi nella pura soggettività, devono spiegare
come avvenga che il soggetto pensante o l'io puro contenga l'universo nel suo pensiero, sotto forma di idee o
di immagini. Vedremo a quali artifici i filosofi idealisti siano stati costretti, per render ragione di questo universo immanente. In realtà, essi non riescono a spiegare nulla, ma, non potendo generare l'universo, lo accettano come un dato; il che li riconduce (con una cattiva coscienza, però) alla posizione realistica.
La «cattiva coscienza» è evidente nel processo cartesiano, in quanto la forma stessa del dubbio metodico
prova che Cartesio introduce questo dubbio paradossale circa la realtà del mondo (e del suo proprio corpo,
che fa parte del mondo) solo in conseguenza della decisione pregiudiziale (imposta dal nominalismo) di partire dal puro pensiero, e con lo scopo di giustificare la scelta di questo metodo (45). Infatti, che significa in
tale contesto l'appello alla veracità divina, che trasforma l'idealismo iniziale in un realismo d'intenzione, se
non che il realismo è un'evidenza immediata e che metterlo in dubbio rappresenta soltanto uno pseudoproblema? Se il metodo idealistico (cioè un metodo che prende le mosse da un pensiero il quale attinge immediatamente solo se stesso) fosse imposto dalla realtà stessa delle condizioni del conoscere, come potremmo noi provare il bisogno di cercare una garanzia estrinseca delle nostre affermazioni «soggettive », di cui
non solo l'illusione sarebbe evidente, ma perfino la stessa esistenza sarebbe inconcepibile?
Così, l'evidenza dell'esistenza del mondo è realmente apodittica, nel senso che la sua non-esistenza è, per
me, assolutamente inconcepibile (75). L'epoché o la messa tra parentesi del mondo oggettivo, se potesse essere attuata, mi porterebbe davanti al puro nulla di un pensiero vuoto, impotente a pensare se stesso. Pretendere, dunque, che «in fatto di realtà assoluta e indubitabile, il soggetto meditante ritenga soltanto se stesso in
quanto Ego puro (e le sue cogitationes) come esistente indubbiamente e tale da non poter essere soppresso,
anche se questo mondo non esistesse» (Husserl, op. cit., p. 18) (76), significa cadere nel circolo vizioso più
palese. L'ego puro (o il cogito), infatti, è realmente possibile solo in funzione dell'esperienza totale della nostra coscienza, e questa coscienza implica assolutamente la realtà esistenziale del mondo. Invero, l'io si pone
per sé, solo grazie ad un oggetto altro da sé (77), e di conseguenza le cogitationes, ammesse con l'ego puro,
sono necessariamente l'espressione di realtà esistenziali esterne all'io.
Si può ribattere che l'io, astratto dalle sue cogitationes, conserverebbe la sua posizione assoluta. Ciò però
non porta alcun mutamento nelle nostre osservazioni, in quanto l'io, da questo punto di vista, potrebbe esser
posto, affermato o conosciuto soltanto da un pensiero diverso da quello dell'io stesso, il quale ultimo, per ciò
stesso, non sarebbe più un soggetto (un «per sé»), ma un oggetto. Con ciò si ritorna ancora a un universo indipendente dal pensiero come condizione del pensiero stesso.
54 - LE CONTRADDIZIONI DELL'IDEALISMO
a) L'esistenza è data nel dubbio stesso. L'idealismo non può porsi senza negare nello stesso tempo se stesso, esattamente come lo scetticismo non può affermarsi senza sopprimersi per ciò stesso. Infatti, il dubbio
sulla realtà esistenziale dell'universo implica in una maniera talmente evidente l'esistenza stessa di questo
universo, che il dubbio stesso sarebbe rigorosamente impossibile se questo universo non fosse dato fin dall'inizio. È un altro aspetto dell'aporia del sogno. lo posso supporre, dicevamo, che lo stato di veglia è solo
forse uno stato di sogno, unicamente grazie al fatto che io distinguo già lo stato di sogno dallo stato di veglia.
Allo stesso modo, io non posso fingere che il mondo esterno non esista, poiché possiedo già, con evidenza
irresistibile, l'opposizione di un mondo di immagini e di un mondo di oggetti. Nell'ipotesi secondo la quale il
mondo esterno non esistesse e tutto si riducesse a un universo immanente (con l'illusione dell'esteriorità e
dell'esistenzialità), l'epoché sarebbe impossibile e inconcepibile. L'illusione sarebbe assoluta, irriducibile e
definitiva.
b) Il paralogismo idealistico. Tutta l'argomentazione idealistica appare fondata su un paralogismo del tipo
seguente. Poiché «l'esistenza naturale del mondo - del mondo in cui io posso parlare - presuppone, come un'esistenza di per sé anteriore, quella dell'ego puro e delle sue cogitationes», ne segue che «il campo d'esistenza naturale non ha che un'autorità di second'ordine e presuppone sempre il campo trascendentale», cioè il
campo dell'ego e delle cogitationes (Husserl, op. cit., p. 18). Ora, nulla è più certo di ciò: il mondo non esiste
per me che pensato da me e, come tale, esso è posteriore all'io e al pensiero, che lo condizionano in quanto
universo pensato. Ma ciò è evidente e non viene posto in questione: si tratta, infatti, di tutt'altra cosa, cioè di
determinare non ciò che è condizione del pensiero dell'universo, ma ciò che è condizione assoluta del pensiero stesso, ciò che pone l'io per sé, con il sistema delle sue cogitationes. Ora, da questo punto di vista, bisogna
esattamente rovesciare la formula di Husserl e dell'idealismo e dire che l'ego puro e le sue cogitationes presuppongono l'esistenza naturale del mondo, poiché senza di essa, come abbiamo visto prima, non vi sarebbero né cogitationes né io cosciente di sé (78).
Sono le stesse osservazioni che bisogna opporre alla dialettica che vuole fondare tutto sul «primato del
pensiero» e che Ed. Le Roy ha sviluppato come segue. Anzitutto, egli dice, è impossibile pensare, a qualsivoglia titolo o grado, «un di fuori, un al di là del pensiero: una asserzione qualsiasi, anche un'asserzione che
neghi, presuppone nondimeno sempre il pensiero […]. Un secondo fatto, vicino al primo, risplendente come
esso di evidenza immediata non appena lo si consideri un po', è che il pensiero è essenzialmente ingenerabile
[...]. Così dunque il pensiero si rivela radicalmente indeducibile e incostruibile, ogni indizio di deduzione o
di costruzione lo suppone già presente e in azione [...]. Ecco in breve come si prova la verità di ciò che io
chiamo l'esigenza idealistica. È il principio di ogni metafisica». (L'exigence idéaliste et le fait de l'Évolution,
Parigi, 1927, pp. X-XII). Il pensiero costituisce dunque l'ultimo punto di regressione possibile. Il pensiero
tutto racchiude, e tutto deve giustificarsi davanti a lui, mentre esso si giustifica solo davanti a se stesso.
Questa dialettica procede da un'illusione che è facile porre in evidenza, consistente nel considerare l'essere
come una determinazione del pensiero. È invece il pensiero che si rivela come una determinazione dell'essere: cogito significa «io sono pensante» (79), cioè il pensiero qualifica l'essere e ne è una determinazione. Se
no, l'essere stesso essendo idea, non ci sarebbe più essere dell'idea, cioè non ci sarebbe pensiero, perché
non ci sarebbe assolutamente più essere. L'essere, assolutamente parlando, è dunque anteriore al pensiero
(80).
§ 2 - L'oggetto formale della critica
55 - 1. IL VALORE DELLA CONOSCENZA INTELLETTUALE - Noi siamo in grado ora di definire esattamente l'oggetto formale della critica, cioè di definire i problemi reali che essa ha da risolvere. Questi
problemi si riducono essenzialmente alla determinazione del valore della conoscenza intellettuale. L'evidenza prima e assoluta, spontaneamente vissuta dall'intelligenza, è quella con cui si coglie l'essere e il reale; in
critica dunque si tratterà di prender coscienza in maniera riflessa di quanto tale evidenza fondamentale significa ed implica, cioè di determinare sotto quali condizioni e in quale misura il pensiero sia conforme all'essere che esiste con evidenza, suo oggetto primo e proprio.
Il paradosso dell'idealismo è di essere (per ipotesi) una «filosofia del soggetto» e di possedere una psicologia manchevole. «Filosofie dell'essere», come quelle di Aristotele e di san Tommaso, posseggono al contrario una psicologia del conoscere ricca di profonde e minuziose analisi. Un'osservazione di questo genere viene fatta da N. Hartmann (Zum Probleme del Realitätsgegebenheit, in «Kant-Gesellschaft», n. 2, p. 9, 1931):
nell'idealismo «si dimentica l'essenziale, il rapporto alla cosa (das Seiende) per la quale vale la conoscenza.
Cosicché nel porre il problema (critico) si perde di vista il fenomeno del conoscere. Di qui deriva uno stato
di cose singolare: sono proprio quelle teorie che parlano di più della conoscenza, ad ignorare assolutamente il
vero problema del conoscere».
2. I FONDAMENTI DELLA CERTEZZA - La determinazione del valore della conoscenza intellettuale
può farsi solo sulla base di una analisi psicologica dei processi della conoscenza, con lo scopo di definire
(ed è questo l'aspetto propriamente critico del problema) quali sono le cause, oggettive e soggettive, della
certezza. È così infatti che noi saremo in grado di precisare qual è il rapporto del pensiero all'essere, cioè
come l'essere diviene presente al pensiero e nello stesso tempo come il pensiero si inserisce nelle complessità dell'essere, e per ciò stesso saremo in grado, in certo modo, di provare la certezza fondamentale
del fatto che l'intelligenza è misurata dall'essere.
Constatiamo così che la critica compie un doppio cammino che si svolge tra quelli che si potrebbero chiamare i due poli del conoscere, cioè lo spirito in atto di conoscere e l'oggetto conosciuto. Duplice movimento
che ritorna ogni volta su una delle fonti della conoscenza, al fine di svelarne nello stesso tempo la natura e il
rapporto che intrattiene con l'altro termine. La critica è dunque nello stesso tempo una critica dello spirito e
una critica della scienza. Questo, almeno, è il piano che le assegna san Tommaso (De Veritate, q. 3, a. 2, ad
2um, Ed. taurinensis, Torino, 1895 sgg.): «In cognitione est duo considerare, scilicet ipsam naturam cognitionis, et haec sequitur speciem secundum comparationem quam habet ad intellectum in quo est [...] et determinationem cognitionis ad cognitum, et haec sequitur relationem speciei ad rem ipsam».
Art. II - Metodo della critica
56 - Il metodo imposto dalla forma stessa del problema critico consisterà, per definizione, in quanto si tratta di giudicare la conoscenza, in una riflessione dell'intelligenza su se stessa, allo scopo di determinare la sua
natura essenziale e il valore delle sue operazioni. Con più precisione ancora si potrebbe dire, servendosi dei
termini stessi di san Tommaso (De Veritate, q. 3, a. 2, ad. 2um), che la critica è una riflessione sulla specie
intelligibile o concetto, per definire, da una parte, la sua relazione all'intelligenza da cui procede, e dall'altra
la sua relazione alla cosa stessa, che essa esprime in forma immateriale e universale. Questa riflessione critica, per aver valore, non deve evidentemente ammettere, al suo punto di partenza, alcun presupposto, cioè essa è condizionata da un dubbio iniziale che abbraccia, nell'ordine del conoscere, tutto ciò che è suscettibile
d'essere messo in questione (81).
§ 1 - La riflessione critica
57 - 1. NATURA DELLA RIFLESSIONE CRITICA - La critica della conoscenza suppone evidentemente
il fatto della conoscenza; il giudizio sulla facoltà del conoscere presuppone l'esercizio di questa facoltà. Sarebbe assurdo pretendere (come hanno fatto i moderni seguendo Cartesio e Kant) che la riflessione critica
possa costituire il punto di partenza assolutamente primo di tutta la filosofia. Come chiedere alla conoscenza
di tracciare a priori i suoi propri limiti e di presiedere così a un'indagine che dovrebbe trascendere l'ordine
del conoscere? (82) In realtà, le condizioni e i limiti della conoscenza si scoprono solo con un ritorno dell'intelligenza sulle sue operazioni nel loro esercizio spontaneo, scientifico e filosofico.
Questa riflessione critica deve dunque essere distinta dalla riflessione spontanea dell'intelligenza (o riflessione in actu exercito) sulla sua attività, riflessione che è implicita in ogni giudizio (I, 53) e che fa corpo con
esso (III, 437, 448). Per il fatto stesso che l'intelligenza si pronuncia su ciò che è, essa coglie e afferma la
sua propria conformità con l'essere: sta qui l'essenza del giudizio (83). La riflessione critica (in actu signato)
costituisce invece un atto nuovo, che è un ritorno esplicito dell'intelligenza sul suo atto e che termina ad un
nuovo concetto. Questa riflessione si distingue formalmente da quella, implicita, che costituisce il giudizio
(84).
Perciò non si può definire semplicemente la critica come «la revisione delle nostre adesioni spontanee» (D.
Mercier, Critériologie générale ou Traité général de la certitude, 5a ed. [1906], p. 86). Tale revisione delle
adesioni spontanee è l'oggetto stesso di tutta la filosofia. Ciò significa certamente che la filosofia suppone
una critica, almeno implicita, continuamente in atto, tuttavia la critica in quanto riflessione espressa (in actu
signato) sull'intelligenza e sulle sue operazioni, ha un oggetto formale diverso dalla revisione delle adesioni
spontanee: essa tende a giudicare, in certo modo, questa stessa revisione, a darle un fondamento di diritto,
mediante l'esplicita giustificazione dei procedimenti messi in opera da quella (cfr. J. De Tonquédec, La critique de la connaissance, Parigi, 1929, p. 445).
58 - 2. I PRESUPPOSTI DELLA RIFLESSIONE CRITICA - La riflessione critica, per ciò stesso che essa
suppone il fatto della conoscenza, cioè che essa è e non può essere che un atto secondo, implica evidentemente la conoscenza previa (data nella riflessione vissuta, in actu exercito, dell'attività del giudizio) della natura dell'intelligenza a della sua finalità naturale, che è d'essere conforme a ciò che è (III, 443), dell'atto di
giudicare, come attività propria dell'intelligenza, e della facoltà da cui quest'atto procede, della natura dell'habitus, che è principio immediato dell'atto di conoscere, dell'esistenza dell'anima in quanto principio radicale o soggetto dell'attività intellettuale, infine dell'esistenza (reale o possibile) dell'oggetto sul quale verte il
giudizio.
3. IL PUNTO DI PARTENZA DELLA CRITICA - Si vede in questo modo quanto sia arbitrario e irreale il
punto di vista cartesiano e idealistico, che pretende di assumere come punto di partenza assoluta della critica
un cogito ridotto alla pura affermazione di un pensiero che pensa se stesso. In realtà, il punto di partenza della critica sarà bensì, se si vuole, un cogito, cioè una riflessione sul pensiero, ma sul pensiero reale, cioè su
un pensiero che conosce solo misurandosi sull'essere, e che si conosce vero soltanto in quanto si conosce
conforme a ciò che è: ciò implica nello stesso tempo l'irrecusabile evidenza del principio d'identità come legge universale del pensiero conforme all'essere, che è necessariamente ciò che è (III, 471).
Il compito proprio della critica consisterà nell'applicare la riflessione dell'intelligenza espressamente su
questi dati primi (cioè logicamente primi, in quanto impliciti in ogni esercizio del pensiero), per giudicarli e
giustificarli riferendoli alle loro condizioni assolute.
59 - 4. IL COGITO REALISTICO
a) Ego cogito ens. Si è obiettato talvolta contro questo metodo riflessivo che esso dovrebbe condurre inevitabilmente all'idealismo (É. Gilson, Réalisme thomiste et critique de la connaissance, Parigi, 1939, p. 49).
Questa obiezione ha tuttavia il torto di ridurre ogni riflessione sul pensiero al tipo di riflessione definito dal
cogito cartesiana. Ora, non è la considerazione del pensiero che conduce all'idealismo, ma il porre a priori
(come fanno gli idealisti) che nel pensiero c'è unicamente il pensiero. In realtà, ogni riflessione critica, in
qualsiasi dottrina, parte necessariamente da un cogito, come implicitamente osserva san Tommaso dicendo
che la giustificazione del conoscere consiste in una critica della species. Il problema critico è essenzialmente
il problema del rapporto all'essere, e dunque la critica situerà il sua punto di partenza nel pensiero stesso,
là dove l'essere e il pensiero si identificano (intenzionalmente) (85). Bisogna dunque partire dal cogito, ma
dal cogito reale. Non cerchiamo, quindi, di provare, partendo dal puro pensiero, la realtà assoluta dell'essere
presente al pensiero: questa realtà, abbiamo visto, è evidente in maniera assoluta al di là di ogni dubbio, poiché il dubbio stesso la suppone. Si tratta di tutt'altra cosa, cioè di trovare nel pensiero mediante il quale io
penso l'essere e penso me stesso in quanto pensante l'essere, le ragioni che danno un fondamento alle mie
affermazioni sull'essere e che forniscono loro la giustificazione di essere ciò che tali asserzioni appunto sono.
b) Cogito o cognosco? Gilson conviene implicitamente con questa considerazione allorché egli ammette
che la riflessione dell'intelligenza deve aver di mira un cognosco (e non un cogito di tipo idealistico), il che è
quanto esattamente diciamo noi qui (cfr. pure il nostro studio su Le Thomisme et la Critique de la connaissance, Parigi, 1933, pp. 19-28, 91-110, 135-143). La riflessione sul cogito, come noi la intendiamo, anche
per noi dev'essere «una analisi riflessiva delle condizioni totali della conoscenza, che concede a se stessa
come dato tutto ciò che in realtà è dato, sia nell'oggetto che nel soggetto» (Gilson, op. cit., p. 90, n. 1). Il problema del cogito si ridurrebbe dunque a una questione di termini. Quanto a dire, come Gilson, che partire dal
cognosco (o da ciò che noi chiamiamo il «cogito reale») significherebbe «l'esclusione rigorosa di ogni critica
della conoscenza», è ancora questione di termini, perché se si tratta in realtà di escludere assolutamente ogni
critica di tipo idealistico, tesa a ritrovare l'essere, ipoteticamente problematico, partendo dal puro pensiero,
questa è proprio la forma stessa di una critica di tipo tomistico, in cui il realismo non è e non ha da essere
messo in questione, ma in cui si tratta essenzialmente di ritornare sull'atto dell'intelligenza per definirne la
legittimità e il valore (86).
Concludiamo dunque dicendo che il cogito deve significare soltanto l'atto di conoscere che noi conosciamo, di conoscerci come conoscenti e conoscenti l'essere; di conseguenza la critica non potrà essere che una
riflessione sulla conoscenza in atto, per fondarne la legittimità, e definirne nello stesso tempo i modi e i limiti, le condizioni assolute e la finalità ultima.
§ 2 - Il dubbio critico
60 - Abbiamo detto che la critica, per essere sincera, non deve presupporre nulla di tutto ciò che può essere
messo in questione. D'altra parte, poiché qui è posto in gioco il valore stesso della conoscenza intellettuale,
ne consegue che il dubbio critico dovrà avere necessariamente una portata universale. E quanto affermano
Aristotele e san Tommaso allorché pongono quale condizione della critica una «universalis dubitatio de veritate» (87). Come conciliare questa universalità necessaria del dubbio con l'impossibilità, da noi riconosciuta,
di mettere realmente in questione le evidenze immediate dateci nell'esercizio diretto della conoscenza? Proprio qui sta il problema del dubbio critico.
A. NATURA DEL DUBBIO CRITICO
1. LA FORMA DEL PROBLEMA - Il problema può essere riassunto nel seguente dilemma: o il dubbio
deve essere universale e, in questo caso, non può essere reale; oppure deve essere reale, ma allora non può
essere universale. Il dilemma è rigoroso, cioè bisogna optare per l'uno o per l'altro termine dell'alternativa.
In realtà, se si sceglie un dubbio reale, bisognerà necessariamente che ne vengano eccettuate le evidenze
immediate. Anzitutto un'evidenza immediata e apodittica non viene mai realmente messa in questione,
perché è assolutamente impossibile. Nessun artificio, nessuno sforzo, nessuna iperbole (come si esprime
Cartesio) rende possibile il dubbio circa un'evidenza. E poi, il fatto solo di pretendere di sottomettere l'evidenza immediata a un dubbio reale costituisce un'impresa contraddittoria in se stessa e tale da rovinare
in anticipo ogni tentativo di giungere alla certezza.
61 - 2. IL DUBBIO CARTESIANO - Sappiamo che il dubbio cartesiano, che vuoI essere nel contempo reale e universale, ha per scopo di scoprire una verità assolutamente evidente. Come tuttavia potrà giungere allo scopo, se ammette che le verità evidenti, spontaneamente ammesse prima del dubbio, proprio a causa della loro evidenza, potrebbero essere dei semplici errori? Sia dopo che prima, è sempre la medesima facoltà
che conosce: se essa ha potuto errare in maniera così grave prima, quale garanzia abbiamo che essa non sarà
ingannata dopo? Se l'evidenza non ha valore prima del dubbio, come ne avrebbe durante o dopo? La critica
diventa in tal modo un'impresa assurda, poiché essa consiste nel rifiutare e nel demolire in anticipo il criterio
che deve servire a fondare con certezza la verità, cioè l'evidenza immediata.
È quanto Gassendi, giustamente, opponeva a Cartesio, nelle sue Objections contre la Cinquième Méditation, § 96 (ed. cit.; cfr. tr. it., 3a ed., Bari, 1954). Come ammettere, egli diceva, la validità della dimostrazione dell'esistenza di Dio e della veracità divina, quando si è stimato possibile, già prima, dubitare della verità
delle dimostrazioni geometriche «che sono d'una tale evidenza e certezza che, senza attendere la nostra deliberazione, da se stesse ci strappano l'assenso»? La dimostrazione dell'esistenza di Dio è, al paragone, meno
certa, com'è provato dal fatto «che ci sono parecchi che mettono in questione l'esistenza di Dio, la creazione
del mondo e una quantità d'altre cose che si dicono intorno a Dio...». Ancor più, dal punto di vista cartesiano,
la certezza che in ogni triangolo rettangolo il quadrato costruito sull'ipotenusa è equivalente ai quadrati costruiti sui cateti dipende essa stessa dalla certezza che vi è un Dio, che egli non inganna, ecc. Siamo in pieno
circolo vizioso, poiché le dimostrazioni matematiche si fondano sul principio delle idee chiare e distinte, che
serve a provare Dio, il quale a sua volta garantisce il valore e la certezza delle idee chiare e distinte!
In realtà, il dubbio carte siano è nello stesso tempo troppo esteso (in quanto reale) e indebitamente ristretto
(in quanto dubbio).
a) Il dubbio cartesiano è troppo esteso. Quale ragione si deve anzitutto invocare per prendere in considerazione «le più stravaganti supposizioni degli scettici»? Senza dubbio, dal momento che tali supposizioni hanno avuto una formulazione, devono anche poter essere confutate. Ma il modo migliore di far ciò, non è quello di consentire a tenerle per legittime sia pure in via provvisoria, quando è chiaro che esse urtano contro l'evidenza immediata. Nei loro riguardi sarebbe valida solo la confutazione per assurdo, come mostrano Aristotele e san Tommaso, confutazione che, in fondo, è soltanto un richiamo indiretto all'evidenza immediata. Da
questo punto di vista, il dubbio cartesiano oltrepassa i limiti di quel campo in cui può realmente porsi il
problema, in cui cioè può esservi materia per un dubbio metodico reale (88).
D'altra parte, si può mostrare concretamente quanto siano ingiustificate e ingiustificabili le ragioni di dubbio addotte da Cartesio. Tali ragioni vertono sulla realtà di un universo indipendente dal pensiero (e sulla realtà del mio proprio corpo), sulle verità matematiche, sulla veracità radicale dell'intelligenza (ipotesi del genio maligno). Abbiamo mostrato più su che è assolutamente impossibile mettere realmente in questione l'esistenza dell'universo (ipotesi dell'universo-sogno-coerente). Quanto al dubbio sulla realtà del mio proprio
corpo, non è che una finzione, risultante dall'illusione per la quale io riduco il corpo, per pensarlo, alla idea
del corpo (III, 64), cioè a un oggetto, mentre esso mi è dato, nella totalità concreta dell'esperienza, come
soggetto.
Si può, d'altronde, dubitare realmente delle verità matematiche, anche delle più semplici, come, per es.,
che 2 + 2 faccia 4? Si dovrebbe poter dubitare, allora, dello stesso principio di identità, cioè poter ammettere, come suppone Cartesio, che un «genio maligno, non meno scaltro e ingannatore che potente, ha impiegato tutta la sua industria a ingannarmi», ipotesi che mette espressamente in causa il criterio della evidenza immediata. Ora, in questo caso, verrebbe definitivamente eliminata qualsiasi certezza, poiché ogni
dimostrazione può farsi solo in funzione dell'evidenza del principio di identità. Anche se si ammette che
la certezza dell’«io sono pensante» possa resistere a tutte queste ragioni di dubbio, sarà impossibile procedere oltre. Il progresso verso la certezza viene bloccato a fondo fin dall'inizio.
È quanto osserva, giustamente, K. Jaspers (Descartes und die Philosophie, Berlino, 1937; cfr. tr. fr., Parigi,
1938, p. 15): «La certezza prima è dunque di tale natura che Cartesio, per colpa di essa, si arena, per così dire, su un banco di sabbia. Essa non può servirgli di punto di partenza per dedurne un'altra con la stessa evidenza indiscutibile. Certo, egli ha trovato una base, ma questa non gli permette né di avanzare né di restare
dov'è». Cartesio pensa di uscire dall'imbarazzo mediante il principio delle idee chiare e distinte come fondamento di ogni certezza. Questo principio è stato tuttavia esso stesso messo in causa dal dubbio applicato alle
verità matematiche. Certo, Cartesio crede di stabilirne il valore assoluto servendosi della garanzia della veracità divina. Con ciò siamo in un circolo vizioso lampante, poiché l'esistenza di Dio non può essere stabilita
che sulla base della verità assoluta delle idee chiare e distinte. Così il cogito, come lo intende Cartesio, non
serve a provare niente di più all'infuori di se stesso e non garantisce alcuna verità ulteriore. Il dubbio è definitivo e irriducibile.
62 - b) Il dubbio cartesiano è troppo ristretto. Si può d'altra parte stimare che il dubbio, come è proposto da
Cartesio, non ha tutta quell'ampiezza ch'esso dovrebbe avere. Esso è, sì, radicale, ma questo radicalismo è
solo apparente, poiché le «ragioni» che invoca (anche quella del «genio maligno») sono ragioni particolari
che, come tali, non hanno alcuna portata reale, e per ciò stesso, non essendo efficaci, lasciano effettivamente
fuori dal dubbio critico asserzioni che logicamente dovrebbero esservi sottoposte. La critica infatti deve riguardare tutta l'attività dello spirito e, a questo titolo, anche ciò che sfugge assolutamente al dubbio reale,
come la realtà di un universo indipendente dal soggetto, il valore dei princìpi della ragione, l'ordinamento essenziale dell'intelligenza alla conoscenza del vero, entra in certo modo nel campo del dubbio, che, per essere
sincero, non deve ammettere alcun giudizio anticipato, cioè deve essere universale (89).
L'intuizione dell'io in Cartesio, è presentata a torto come la certezza più assoluta che possa concepirsi. Pure
Husserl, come si è visto, adotta questa posizione: «Il mio ego, egli dice, dato a me stesso in una maniera apodittica - solo ente che io possa porre come esistente in una maniera assolutamente apodittica» (Méditations
cartésiennes, p. 118). È certo che la mia propria esistenza è per la mia riflessione una certezza assoluta, ma
non una necessità assoluta (che, nell'ordine dell'esistenza, appartiene solo all'Atto puro). Ora, dal punto di vista critico, si tratta di scoprire una necessità assoluta (fondante una evidenza del pari assoluta) nell'ordine
delle essenze o dell'esistenza possibile, poiché solo questa necessità assoluta è capace di garantire la certezza
in tutta la sua estensione, cioè è capace di fondare la scienza. Una evidenza di fatto, come quella dell'io, può
fondare unicamente se stessa. Solo un'evidenza di diritto, risultante dalla necessità assoluta delle essenze
(come quella del principio di identità) può fondare la scienza su una base incrollabile (90).
63 - 3. IL DUBBIO IPOTETICO - Tutta questa discussione ci mostra che il dubbio critico, che dev'essere
universale, non può essere un dubbio reale, cioè esercitato e vissuto, a meno di cadere nell'assurdità. Può
trattarsi solo di un dubbio artificiosamente inventato, fittizio o ipotetico, di un modo di procedere come se lo
spirito sospendesse le sue adesioni spontanee, per poter cogliere in maniera riflessa il valore delle ragioni che
esso ha di affermare la verità e di credersi fondato ad affermarla (91).
L'epoché fenomenologica di Husserl darebbe ansa alle stesse osservazioni. La concezione del dubbio critico è qui molto più radicale che in Cartesio, in quanto si tratta di ricostruire tutta la filosofia senza uscire dall'epoché (o «messa tra parentesi») di tutto l'essere extra-mentale. È questa un'illusione completa, che finisce
col trasformare la fenomenologia in un realismo ingenuo, dello stesso tipo del realismo finale di Cartesio. Infatti Husserl reintegra a poco a poco all'interno dell'epoché tutto ciò che ne è stato eliminato, tantoché, in fin
dei conti, «non c'è più parentesi e non c'è più epoché. Mantenendo l'epoché fino alla fine, si è soppressa l'epoché, il che costituisce una bella riuscita d'illusionismo trascendentale, ma anche un'innegabile contraddizione vissuta» (J. Maritain, Distinguer pour unir, ou Les degrés du savoir, Parigi, 1932, p. 205). È la contraddizione che pesa su tutto l'idealismo, come abbiamo mostrato. Partito per ricostruire l'universo, muovendo da un dubbio radicale circa tutto il reale esistenziale, per sostituire ovunque il diritto al fatto, reputato ir-
razionale, esso ricorre costantemente all'arbitrato del puro dato. Mentre dovrebbe ammettere unicamente ciò
che è necessario, non cessa di fare appello al contingente. Esso è ridotto ad accettare, senza comprenderli né
spiegarli, quelli che Fichte chiamava gli «chocs» dell'esperienza. Sfocia così nel realismo bruto meno intelligibile, poiché è costretto a porre un reale esterno allo spirito senza esser capace di dire né ciò che esso sia
né donde venga né che significhi. Ordinato per essenza a ridurre tutto al diritto, non sa far altro che subire, in
ultima analisi, la servitù del fatto.
B. PROBLEMATICA DELLA CRITICA DELLA CONOSCENZA
64 - Siamo ora in possesso del solo metodo possibile nell'esame del problema critico. Questo metodo consisterà nel prender coscienza in maniera riflessa delle ragioni che fondano la nostra convinzione d'esser capaci di conoscere e d'affermare la verità. Esso parte dunque dall'esperienza che noi facciamo, nella conoscenza
diretta, della nostra intelligenza come facoltà dell'essere, esercitantesi sotto la luce del primo principio dell'essere, cioè del principio d'identità. Da quanto diciamo, la problematica della critica della conoscenza riceve esattamente i suoi limiti.
1. CRITICA DELL'INTELLIGENZA - In quanto il pensiero si presenta originariamente come determinato
e misurato da un essere indipendente da esso, bisogna verificare in maniera riflessa la realtà di questo ordinamento essenziale. Questo problema viene effettivamente posto dal fatto dei molteplici errori dell'intelligenza. Proprio su questi errori si fonda infatti lo scetticismo, che consiste nel mettere in causa il principio
stesso dell'oggettività del conoscere, cioè l'ordinamento essenziale dell'intelligenza alla conoscenza del reale.
2. CRITICA DEI PROCESSI DELLA CONOSCENZA - Ci imbattiamo qui nel fatto, messo in luce dall'analisi e dalla descrizione dei processi dell'intelligenza, che il sapere - apprensione e giudizio, scienza e filosofia -, è frutto di una elaborazione del dato sensibile. Bisogna verificare se l'intelligenza resti fedele fino alla fine alle esigenze oggettive dell'essere.
Mediante la riflessione dell'intelligenza sul suo atto, noi abbiamo certamente l'evidenza della presenza
dell'essere. Questo essere è tuttavia l'essere astratto, che pone il problema dell'esatto valore ontologico
della «similitudine» mediante la quale noi lo raggiungiamo e ce ne impossessiamo. Questa similitudine
comporta dei gradi, esige distinzioni e precisazioni. san Tommaso nota, a questo proposito, che «il modo
della conoscenza (e di conseguenza il suo valore) dipende dal rapporto di convenienza della similitudine
con l'oggetto di cui essa è la similitudine » (De Veritate, in Ed. Leonina, 16 voll., Roma, 1882 sgg., q. 8,
a. 1). Per questo appunto egli vuole che dopo la verifica della natura dell'intelligenza, si determini il rapporto della specie alla cosa stessa (De Veritate, q. 3, a. 2, ad 3.um). Quanto conduce qui ad ammettere
che c'è un problema, è dunque il fatto che conoscere è, in certa maniera, costruire l'oggetto, o, come mostra san Tommaso, ricorrere a una composizione e a una divisione che sono proprie dello spirito e non
della cosa (De Veritate, q. 1, a. 3, in c.). Nello stesso senso, san Tommaso spiega ancora che, poiché il vero si dice dei complessi, mentre l'essere si dice soltanto di una cosa esistente indivisa fuori dell'anima, il
problema consiste nel giustificare l'affermazione d'essere, fornita dal giudizio, mediante la prova che l'attribuzione è determinata dalla percezione dell'oggetto, e non da una induzione illusoria (92).
La conoscenza per essentiam sopprimerebbe, al contrario, il problema critico, poiché essa significa che
l'essere è presente, non solo esso stesso, ma per se stesso, al pensiero. Se c'è un vero problema della conoscenza intellettuale, è proprio in quanto e nella misura in cui essa comporta degli intermediari, poiché essa si
attua solo per la mediazione dell'idea astratta e universale, e, di conseguenza, anche attraverso la composizione e la divisione del discorso. Anche la conoscenza sensibile implica un'attività propria del senso e offre i
suoi oggetti all'elaborazione del sensus communis e dell'immaginazione: percepire non è semplicemente sentire, ma anche costruire (benché in un senso tutto diverso da quello dell'associazionismo, III, 138-145).
PARTE SECONDA
NATURA DELLA CONOSCENZA INTELLETTUALE
65 - La questione circa la natura della conoscenza intellettuale riguarda essenzialmente il valore ontologico
dell'intelligenza. In realtà, ogni nostra attività conoscitiva è fondata sulla convinzione di questo valore: spontaneamente, per un'intuizione simultanea al suo esercizio, l'intelligenza conosce se stessa come misurata
dall'essere. Noi partiamo da questa convinzione, e cerchiamo di verificarne le ragioni con la riflessione sulla natura e sui processi della conoscenza. Si tratta dunque, da una parte, di stabilire contro lo scetticismo la
realtà di fatto della certezza, dall'altra, di verificare il fondamento di questa certezza, nelle sue cause soggettive e oggettive, onde poter emettere un giudizio sul valore ontologico dei processi della conoscenza e stabilire così qual è il fondamento ultimo e assoluto della certezza.
CAPITOLO PRIMO
L'ESISTENZA DELLA CERTEZZA
SOMMARIO (93)
Art. I - IL FATTO DELLA CERTEZZA. Il dogmatismo degli scettici - Lo scetticismo come dottrina. Lo
scetticismo assoluto - Lo scetticismo probabile - Il dubbio che dubita di sé - Lo scetticismo come fatto - Le
certezze prime - Certezze dell'ordine speculativo - Certezze dell'ordine pratico.
Art. II - LA LEGITTIMITÀ DELLA CERTEZZA - L'argomento dell'errore Gli errori dell'intelligenza Le contraddizioni dei filosofi - Le variazioni del pensiero individuale - Discussione L'umanità crede alla verità - L'umanità progredisce nella conoscenza del vero - Il gusto dell'assoluto - L'errore è solo accidentale Gli errori dei sensi - Argomento del diallelo - La mancanza di criterio definitivo - La petizione di principio Discussione - Il criterio dell'evidenza - L'evidenza dei princìpi - Valore della conoscenza - Inconsistenza del
probabilismo - I nuovi problemi.
66 - Lo scetticismo consiste nel pretendere che la ragione non possegga effettivamente alcuna certezza
e non possa, realmente, possederne alcuna. Lo scetticismo universale e il probabilismo sono d'accordo su
questo punto. Quando i probabilisti consentono nel dire che la ragione può giungere alla verosimiglianza,
non fanno che aumentare di una contraddizione ulteriore quelle che già gravano sullo scetticismo pirroniano (come si può, infatti, sapere che un'asserzione ha le apparenze della verità se non si conosce la verità?), ma non introducono alcun mutamento, in fondo, nella posizione scettica: la verità e la certezza giacciono al di fuori dei nostri poteri; noi non siamo mai sicuri di nulla, e non possiamo esserlo. Sono queste
le due affermazioni fondamentali che noi dobbiamo discutere, stabilendo, da una parte, la realtà di fatto
della certezza, e dall'altra, l'inefficacia degli argomenti tendenti a provare, in generale, l'impossibilità radicale della certezza.
Art. I - Il fatto della certezza
Ora ci proponiamo soltanto di stabilire il fatto della certezza provando l'impossibilità di eliminare ogni certezza, impossibilità talmente assoluta che la certezza fa corpo persino con l'affermazione scettica stessa e la
ferisce di una contraddizione radicale. Affermare, credendo alla verità dell'affermazione, è un'operazione vitale altrettanto naturale e necessaria quanto quella di respirare, ed esercitata in maniera tale che l'intelligenza coglie se stessa spontaneamente come fatta per la verità.
§ 1 - Il dogmatismo degli scettici
67 - Lo scetticismo speculativo non può porre se stesso senza distruggersi nello stesso tempo. A causa del
suo rifiuto di ogni certezza, esso include una contraddizione fondamentale, che lo rende impensabile e praticamente insostenibile. Ciò è palese se si consideri lo scetticismo sia come dottrina, sia semplicemente come
affermazione del fatto dell'universale incertezza.
Si potrebbe distinguere, accanto allo scetticismo teorico, uno scetticismo pratico. È lo stato proprio di coloro che, senza rifarsi esplicitamente ad alcuna dottrina filosofica sul valore della ragione, si chiudono, per
quanto riguarda l'azione, in un'indifferenza più o meno totale circa il vero e il bene, come se la verità e il bene giacessero fuori della nostra capacità e avessero un valore puramente relativo. Tuttavia, si scorge facilmente come questo scetticismo pratico comporti esso pure una teoria della conoscenza, nonostante le apparenze, e in una forma implicita: le ragioni che motivano l'indifferenza al vero restano in secondo piano, ma
non sono per questo meno reali. Nella misura in cui questo atteggiamento pratico è tratto a giustificarsi, esso
perviene sempre ad invocare uno o l'altro degli argomenti dello scetticismo speculativo. Sovente anche, è pur
vero, esso è il risultato di un cedimento o debolezza intellettuale e morale e le serve da palliativo: in questo
caso lo scetticismo pratico, a prezzo di una cattiva coscienza, cerca di nascondere la viltà davanti alle esigenze della vita. È compito del moralista più che del logico e del critico fornire un apprezzamento su questa
condotta di vita. (Cfr. M. Blondel, L'Action, t. II, Parigi, 1937, pp. 39-88; cfr. tr. it. a cura di Vedaldi, Torino,
1950).
Abbiamo incontrato, d'altra parte, e incontreremo ancora, nell'ordine propriamente speculativo, studiando
la storia del problema critico, parecchie forme o gradi di scetticismo, in particolar modo la forma empiristica
e nominalistica (nominalisti antichi o medievali: Eraclito, Epicuro, Zenone, Ockam), fenomenisti (Hume), e
positivisti (Comte) moderni. Non dobbiamo occuparcene qui, dove consideriamo solo lo scetticismo esplicito
e di principio, e non le teorie che hanno come conseguenza l'introduzione di uno scetticismo parziale, relativo all'uno o all'altro degli aspetti del conoscere.
A. LO SCETTICISMO COME DOTTRINA
In qualunque modo si ponga, come certa, probabile o dubbia, la dottrina scettica include necessariamente un certo numero di certezze.
1. LO SCETTICISMO ASSOLUTO - Se lo scetticismo dottrinale si pone come certo, esso incorre in una
palese contraddizione: è impossibile, infatti, affermare che non vi è nulla di certo, poiché tale affermazione
stessa è data come certa.
È vero che l'incoerenza della quale gli scettici vengono qui accusati è in funzione della validità del principio di non contraddizione; ma lo scettico è ben obbligato ad ammettere, almeno implicitamente, il valore di
questo principio, altrimenti ne seguirebbe che l'affermazione che non vi è nulla di certo equivarrebbe all'affermazione che non vi è nulla di dubbio o che tutto è certo. Quando enuncia l'affermazione scettica, lo scettico deve convenire, sotto pena di non dir nulla, che il certo è certo, il dubbio è dubbio, il «nulla» non è «qualche cosa», ecc. Inevitabilmente esso mette in esercizio, a titolo di certezza fondamentale, il principio di non
contraddizione.
68 - 2. Lo SCETTICISMO PROBABILISTICO - L'affermazione scettica può porsi come semplicemente
probabile. Essa non evita, tuttavia, le contraddizioni interne che abbiamo ora segnalate. Perché se essa è probabile, è tale necessariamente in funzione di princìpi che pure sono probabili e sono tali certamente. Infatti,
se essi non fossero certamente probabili, tra i due corni dell'alternativa si dovrebbe scegliere: o essi non sono
per nulla probabili, e, in questo caso, lo scetticismo non sarebbe probabile in misura maggiore, o essi sono
assolutamente certi e, di conseguenza, lo scetticismo, anche semplicemente probabile, sarebbe impossibile.
Ora, se i princìpi dello scetticismo sono certamente probabili, cioè se la loro probabilità è certa, ciò implica
più certezze: quella della probabilità dei princìpi e delle conclusioni, quella del principio di non contraddizione, che garantisce la deduzione corretta delle conclusioni muovendo dai princìpi, la falsità degli enunciati
contraddittori, l'intelligibilità dei termini usati. Come è evidente, v'è tutto un dogmatismo necessariamente
incluso nella più modesta delle affermazioni dello scetticismo dottrinale.
3. IL DUBBIO CHE DUBITA DI SÉ - Lo scetticismo ha un'ultima difesa, consistente nell'asserto secondo
cui esso stesso si sottomette al dubbio scettico. Il dubbio si applica al dubbio stesso, cioè lo scetticismo è
niente più che una astensione universale dal giudizio.
Questa scappatoia, nondimeno, rimane inefficace. Anche in questo caso, lo scettico è un dogmatico senza
sapere di essere tale. Infatti, se lo stesso scetticismo è oggetto di dubbio, ciò deve risultare sia da ragioni uguali in favore del dogmatismo e dello scetticismo, sia dall'assenza di ragioni in favore dell'uno e dell'altro.
Ora, se le ragioni sono uguali per le due tesi, ciò suppone la certezza circa l'eguaglianza delle ragioni, e, per
ciò stesso, la discriminazione delle ragioni pro e contro (le ragioni pro non sono le ragioni contro, esse differiscono tra di loro, opponendosi in maniera contraddittoria), il ricorso a un criterio del loro valore rispettivo,
della loro eguaglianza, ecc. Se non ci sono ragioni né pro né contro, è certo che non ce ne sono di alcuna
specie, e questa certezza ne implica altre, come il valore della ragione in cerca di ragioni valide e sicure (e,
per ipotesi, quand'essa non ne scopra), il valore del principio di non contraddizione (altrimenti l'assenza di
ragioni equivarrebbe alla presenza di ragioni, il non-valore delle ragioni al loro valore).
B. LO SCETTICISMO COME FATTO
Lo scetticismo può presentarsi semplicemente come un fatto, senza pretese dottrinali. Esso consiste nel dire
che di fatto (comunque stiano le cose per ciò che potrebbe o dovrebbe essere) non c'è nulla di certo. Anche
questa affermazione tuttavia implica l'esercizio del principio di non contraddizione, e per più motivi, poiché
bisogna affermare come un fatto certo che non vi è nulla di certo, e distinguere necessariamente il certo dall'incerto, il che implica una definizione e un criterio della certezza.
§ 2 - Le certezze prime
69 - Vediamo così che lo scetticismo, quale esso sia, non può formularsi senza implicare, tanto nell'ordine
speculativo quanto nell'ordine pratico, da una parte la certezza assoluta del principio di non contraddizione, e
dall'altra più certezze legate a quella di questo principio.
1. LE CERTEZZE DELL'ORDINE SPECULATIVO - Lo scettico, qualunque cosa faccia, manifesta assieme con la certezza vissuto del principio di non contraddizione, quella dell'esistenza del soggetto che esercita il dubbio scettico e quella dell'ordinamento essenziale dell'intelligenza alla conoscenza certa della verità.
L'esistenza del soggetto esercitante il dubbio è evidentemente implicita nell'atto stesso di dubitare o di pensare. Anche la certezza dell'ordinamento essenziale dell'intelligenza al vero vi è implicita; e per due ragioni.
Anzitutto, l'intelligenza conosce o esperimenta se stessa come fatta per la verità; quest'ultima è il fine dell'intelligenza, la ragione del suo esercizio: il dubbio scettico ha senso solo in funzione di questo sentimento invincibile. E poi, essa conosce se stessa come misurata dall'essere, da un essere indipendente da lei. Infatti, la
necessità che l'affermazione sia identica con se stessa può comprendersi solo se l'affermazione non è una
forma vuota. Altrimenti, donde deriverebbe la sua necessità? Anche se l'affermazione si riduce alla formula
«x è x», essa è affermazione dell'essere. È inutile precisare se l'essere così posto sia materiale, immateriale o
logico, poiché già la «posizione» d'essere oltrepassa, nella sua universalità, tutti i modi possibili dell'essere.
Qui si tratta di una «posizione» d'essere assoluta. Così si constata che il principio di non contraddizione,
come è esercitato dall'intelligenza, si presenta come la legge dell'essere: la sua necessità (talmente assoluta
che lo scetticismo può formularsi solo soggiacendovi) è vissuta come una necessità oggettiva.
Queste certezze, ben inteso, in quanto semplicemente vissute, non ci bastano dal punto di vista critico. Dovremo verificarle riflessivamente, (cioè dovremo prender coscienza di ciò che è), ma non dovremo provarle,
poiché esse sono al di là di ogni dubbio ed immediatamente evidenti. Tuttavia, abbiamo almeno constatato
che esse si impongono assolutamente e necessariamente.
70 - 2. LE CERTEZZE DELL'ORDINE PRATICO - La discussione astratta che abbiamo ora fatta mostra
che in realtà non c'è nella vita speculativa «prirronismo effettivo perfetto», come dice Pascal (Pensées, ed.
Brunschvicg, n. 434, p. 530; cfr. tr. it, Milano, 1953). A più forte ragione non ce n'è nella vita pratica. Aristotele osservava giustamente che ogni azione è necessariamente affermazione o posizione d'essere. Se fosse
logico, lo scettico non dovrebbe nemmeno limitarsi, come Cratilo, a muovere il dito mignolo: ciò sarebbe
ancora troppo, in quanto costituirebbe già un'affermazione; egli dovrebbe limitarsi a vegetare, come le piante
(Aristotele, Metaphysica, ed. cr. di Ross, Londra, 1936; cfr. tr. it. di Carlini, 2a ed., Bari, 1950). Si può chiedersi anche se il fatto di ricevere la luce, di trarre i succhi dal terreno, di crescere e di portare fiori e frutti non
sia ancora un'oscura affermazione della realtà dell'essere. Invero, se si va fino al fondo dell'atteggiamento
scettico, si vede che esso conduce al puro nulla; la sua tendenza profonda è diretta infatti contro la vita, che è
invece perpetua affermazione. Solo il nulla sta al di fuori dell'affermazione come della negazione: esso è ciò
che non si può pensare, perché è al di fuori dell'essere. Lo scettico, rifiutandosi di riconoscere l'essere, postula dunque implicitamente il nulla; tale sarebbe il termine ultimo di uno scetticismo coerente.
Si può d'altra parte osservare che questo nulla viene arbitrariamente caricato di tutto il dogmatismo che altri mettono nell'azione. Infatti lo scetticismo si presenta come una dottrina di vita e un metodo di saggezza;
sovente anche, esso si rifiuta di affermare, perché non vuole rifiutarsi a nulla. Affermare infatti è scegliere, e
lo scettico non vuol scegliere perché non vuole escludere nulla. Tuttavia, anche in questo atteggiamento, che
sembrerebbe così profondamente indifferente al vero e al falso, al bene e al male, ci sono, sempre impliciti,
dei giudizi sull'essere e sulla verità: una concezione della natura dell'uomo, del fine del suo agire, dei mezzi
per procurarsi la felicità, in breve: tutta un'etica che si pone implicitamente come verità. Lo scettico tenterà o
di giustificare questa etica, ed egli lo farà rendendo esplicita la metafisica che sta sotto al suo modo di comportarsi, oppure si rifiuterà di farlo e, in questo caso, egli aggiungerà all'incoerenza del suo atteggiamento un'evidente rinunzia alla moralità: presentando il suo atteggiamento come quello che conviene a una vita saggia e felice, confesserà di ignorare nello stesso tempo in che consistano la felicità e la saggezza (94).
Art. II - La legittimità della certezza
71 - Gli argomenti che gli scettici pongono innanzi per stabilire che la certezza è impossibile e illegittima
si riducono ai due tipi seguenti: gli uni si basano sugli errori dell'intelligenza umana e sulle contraddizioni
delle dottrine, gli altri tendono a mostrare che ogni tentativo di provare il valore della ragione implica un circolo vizioso.
§ 1 - L'argomento dell'errore
È l'argomento che gli scettici impiegano con più forza ed è certamente il più capzioso di tutti.
A. GLI ERRORI DELL'INTELLIGENZA
1. LE CONTRADDIZIONI DEI FILOSOFI - Non ci si deve mai affidare, dicono gli scettici, a ciò che erra; ora, la ragione umana erra di continuo. «La ragione, scrive Bayle, è come una vagabonda che non sa dove fermarsi; novella Penelope, essa disfa ogni giorno ciò che ha fatto alla vigilia». La storia delle dottrine lo
mostra a sufficienza: che cos'è, in fondo, se non la storia degli errori del pensiero umano? Sistemi che ogni
volta si presentano come l'ultima espressione del vero, vengono spazzati via, non appena formulati, da altri
sistemi contrari, in attesa che anche questi ultimi venuti vadano a raggiungere i precedenti nella fossa comune dove marciscono, una dopo l'altra tutte le opinioni umane. «Affidatevi alla vostra filosofia, scrive Montaigne (Essais, 1. II, c. XII, ed. Villey, Parigi, 1922-1923, t. II, p. 252; cfr. tr. it., Roma, 1953); vantatevi d'aver
trovato la fava alla focaccia, nell'assistere a questo frastuono di tanti cervelli filosofici!».
2. LE VARIAZIONI DEL PENSIERO INDIVIDUALE - Ma c'è bisogno di considerare la storia delle dottrine? Basta che noi consideriamo le nostre oscillazioni, i nostri perpetui passaggi dal pro al contro, le nostre
ferme convinzioni attuali su ciò che ieri ci appariva falso in maniera evidente, la nostra incertezza presente
sulle verità della vigilia.
MONTAIGNE, nei suoi Essais, ha ripreso questo argomento più volte: «Per il travaglio che il nostro giudizio procura a noi stessi, egli scrive, e per l'incertezza che ciascuno sente in sé, è facile scorgere quanto poco
sicura sia la nostra posizione. Quanto diversamente giudichiamo noi delle cose? quante volte cambiamo le
nostre fantasie? Ciò che io oggi ritengo e credo, lo ritengo e lo credo con tutta forza; tutti i miei strumenti e
le mie risorse afferrano questa opinione e me la confermano per quanto possono; io non saprei abbracciare né
conservare alcuna verità con più forza di quanto non faccia con questa. Sono in essa tutto intero, vi sono veramente. Ma non mi è accaduto, non una, ma cento, mille volte, e tutti i giorni, di aver abbracciato qualche
altra cosa con questi stessi strumenti, in questa stessa condizione, e di averla poi giudicata falsa?» (1. II, c.
XII, p. 316). «Se mi sono ritrovato sovente tradito sotto questo colore [apparenze], se il mio paragone [pietra
di paragone] risulta ordinariamente falso, e la mia bilancia ineguale e ingiusta, quale assicurazione posso averne per questa volta più che per le altre? Non è una stoltezza lasciarmi abbindolare a riconoscere una guida?» (p. 316). Del resto, il fatto «che non esista alcuna proposizione la quale non sia dibattuta e controversa
tra noi, o che non possa esserlo, mostra bene che il nostro giudizio naturale non coglie in maniera ben chiara
quanto esso coglie; infatti, il mio giudizio non può imporsi al giudizio del mio compagno, segno questo che
ciò che io ho colto, l'ho colto per qualche altro mezzo che per una naturale facoltà che sia in me e in tutti gli
altri uomini» (p. 315).
B. DISCUSSIONE
72 - l fatti allegati dagli scettici sono certi, ma, anzitutto, essi sono ben lungi dal definire adeguatamente la
posizione dell'uomo in rapporto alla verità; in secondo luogo, sono male interpretati.
1. L'UMANITÀ CREDE ALLA VERITÀ - Infatti, che cosa significano in fondo questi movimenti contrastati del pensiero umano, che di continuo riprende gli stessi problemi, che mai si scoraggia dei suoi fallimenti
e che si ostina nel costruire, contro gli elementi scatenati, nuovi edifici intelligibili? Essi confermano in maniera evidente che l'umanità crede alla verità e alla capacità che ha la ragione di raggiungerla e di possederla
fermamente. E’ impossibile che una simile convinzione, esprimente una delle tendenze più profonde della
natura umana, sia assolutamente illusoria. Altrimenti vi sarebbe un vizio radicale nella nostra costituzione
mentale: mentre noi vediamo che tutti gli esseri dell'universo posseggono i mezzi per conseguire quel fine
che è dato loro dalla natura, l'uomo solo, fatalmente, non vi perverrebbe, restando, nonostante tutto, vittima
di una stupefacente illusione. C'è qualche cosa di assurdo in tutta questa tesi, che è impossibile ammettere.
2. L'UMANITÀ PROGREDISCE NELLA CONOSCENZA DEL VERO Questa fiducia dell'uomo nel
proprio potere di scoprire il vero, si manifesta d'altra parte chiaramente in quel dialogo degli spiriti che si
svolge, senza sosta, lungo la traiettoria della storia umana. È un modo superficiale di considerare le cose,
quello che bada soltanto al succedersi dei sistemi; questa stessa successione include in sé una continuità reale: al di là della molteplicità si trova assai spesso un'unità autentica, un accordo che va compiendosi a poco a
poco. L'umanità, diceva Pascal, è come un sol uomo che progredisca di continuo nell'apprendere. Da un sistema all'altro, si può scorgere uno sforzo per penetrare più a fondo i problemi, per assimilare le nuove scoperte, per abbracciare un maggior numero di fatti. A mano a mano che l'umanità invecchia, si forma quasi
un concerto delle intelligenze fuori del tempo, attorno ai più alti pensieri che furono proposti lungo il corso
dei secoli.
La storia non è dunque madre del pessimismo scettico; essa ci mostra che, di tutte le passioni dell'uomo, la
passione della verità è una delle più invincibili. Certamente il progresso non si opera in linea retta: procede
per linee spezzate, ammette degli ondeggiamenti, degli arresti, dei regressi, e quindi non ha nulla di meccanico. Considerando tuttavia nel suo insieme l'evoluzione della ragione umana, non si può fare a meno di provare il sentimento che il pensiero mai abbia cessato di arricchirsi. Una somma immensa di verità è venuta alla luce, poco per volta, dalle discussioni degli uomini, ed essa forma il tesoro comune di tutta l'umanità.
73 - 3. IL GUSTO DELL'ASSOLUTO - È vero che le acquisizioni più certe sembrano essere rimesse in
questione ogni giorno. Si prova talvolta una specie di scoraggiamento di fronte all'accanimento degli uomini
nel rifiutare certezze che, per la loro stessa evidenza, sembravano al riparo delle dispute. Tuttavia, se si lascia
da parte il gioco, indubbio, delle passioni e dei pregiudizi, che cosa si scopre nel maggior numero dei casi al
fondo di queste negazioni paradossali, se non un bisogno e un desiderio di maggior verità? Infatti, se è vero
che noi molto sappiamo, è pur vero che di nulla sappiamo tutto ciò che ne è conoscibile. La scienza, pur
quella del singolo elemento, sarebbe perfetta solo se conoscessimo il tutto, in quanto le cose hanno la loro
perfetta definizione solo allorquando, prese nella loro realtà concreta, sono viste in relazione a tutto il resto.
Vi è quindi dovunque un residuo di oscurità: le nostre luci hanno delle ombre, i nostri calcoli sono solo approssimativi. È questa dolorosa impressione di mistero racchiuso in ognuna delle nostre conoscenze che
spinge il più delle volte gli uomini a rimettere in questione ciò che è stabilito. Quantunque, anche sotto questo aspetto, sono invero proprio la fame e la sete degli uomini per la verità assoluta, che sono all'opera: lo
stesso scetticismo, che sovente è solo l'espressione di una insofferenza di fronte alle imperfezioni e alle lacune del nostro sapere, potrebbe essere considerato da questo punto di vista come un'altra forma di questa passione dell'assoluto.
4. L'ERRORE È SOLO ACCIDENTALE - Dopo ciò che abbiamo detto, è purtroppo certo che l'errore è
destino non disgiungibile dalla condizione umana. La ricerca della verità si opera a prezzo di molti passi falsi, il vero si conquista in lotte lunghe e difficili, in cui abbondano le battaglie perdute. Da questa constatazione però a concludere che non bisogna mai affidarsi alla ragione umana, ce ne corre. Poiché, se è vero che la
ragione erra sovente, essa non erra sempre né necessariamente; sa riconoscere i suoi errori e correggerli, e
spesso gli errori le sono più giovevoli che facili successi. Per quanto ripetuto e corrente sia l'errore, esso rimane sempre un accidente, dà all'uomo un consiglio di prudenza e non di scetticismo, di umiltà e non di disperazione.
C. GLI ERRORI DEI SENSI
74 - Gli scettici hanno del pari sempre insistito molto sugli «errori dei sensi». (Cfr. nel Contra Academicos
di sant'Agostino, Oeuvres, Parigi, in corso, t. IV, p. 61 sg., l'esposizione e la discussione dei principali temi
scettici). I loro diversi argomenti sono stati esaminati in Psicologia, nei capitoli dedicati alla percezione, alle
sue condizioni sensoriali, e all'immaginazione (in particolare: III, 100-106; 128-132; 151-157; 174-182).
Non è il luogo di riprendere qui questi diversi punti, che convergono tutti nell'ammettere, da una parte, che
tra l'oggetto sensibile e i sensi non c'è alcun intermediario e che la percezione è una conoscenza immediata e
diretta, e di conseguenza che il senso è infallibile riguardo al suo oggetto proprio, e dall'altra, che le cose
sono percepite solo nella misura e secondo la maniera con cui agiscono sui sensi. Possiamo così concludere
(III, 132) che, dal punto di vista psicologico, il realismo sensibile (cioè il fatto che i sensi ci presentano senza errore, se non accidentale, il mondo oggettivo) è una certezza dell'esperienza.
§ 2 - Argomento del diallelo
75 - Questo argomento va molto più in là del precedente ed ha una portata così generale che, se fosse valido, la nostra credenza nel potere di conoscere il vero sarebbe definitivamente compromessa. Esso infatti consiste nel mettere in causa la realtà di un criterio autentico della verità.
A. L'ARGOMENTO
1. LA MANCANZA DI CRITERIO DEFINITIVO - Sesto Empirico, nel primo libro delle sue Ipotiposi
pirroniane (ed. di R. G. Buey, 3 voll., Londra-Cambridge, 1933-35; cfr. tr. it. di O. Tescari, Bari, 1926) argomenta nella maniera seguente: se c'è una verità, si dovrà riconoscerla dal fatto che essa possiede dei caratteri per i quali si distingue assolutamente dal falso (95). Ora noi non abbiamo alcun mezzo per definire questi
caratteri o, se si vuole, ogni tentativo di definirli costituisce un circolo vizioso. Invero, per determinare questo criterio della verità, avremmo bisogno di un altro criterio, o, in altri termini, per provare questo strumento
col quale vorremmo misurare il vero, avremmo bisogno di un nuovo strumento e, di bel nuovo, per provare
quest'ultimo, di un altro strumento ancora. Così ogni affermazione di verità esige che noi retrocediamo all'infinito; ossia la verità ci sfugge perpetuamente (96).
2. LA PETIZIONE DI PRINCIPIO - In forma un po' diversa, lo stesso argomento varrà a mostrare che si evita il processo all'infinito solo ricorrendo alla petizione di principio o al circolo vizioso, il che non può passare
per una soluzione. Si dirà, per esempio, che ogni dimostrazione della capacità della ragione a conoscere la
verità postula la capacità stessa, che è oggetto di dimostrazione, o ancora che essa postula la validità dei
princìpi primi della ragione, mentre questi stessi princìpi, come tutto il resto, sono posti in causa.
B. DISCUSSIONE
76 - L'argomento del diallelo ha solo le apparenze del rigore. Lo si può mostrare ponendosi nei due punti
di vista che abbiamo considerati.
1. IL CRITERIO DELL'EVIDENZA - È certissimo che il vero deve possedere caratteri per i quali esso si
distingue assolutamente dal falso. In altri termini, bisogna che ci sia un criterio ultimo della verità, uno strumento che permetta di discernere sicuramente e definitivamente il vero. Sennonché, questo criterio, per definizione stessa, sarà valido per sé e non esigerà minimamente di essere giudicato da un altro criterio (I,
108-109): se non valesse per se stesso, se avesse bisogno di una ulteriore giustificazione, non sarebbe più un
criterio. Ora, questo criterio supremo ed universale del vero esiste realmente e non è altro che l'evidenza, cioè
il fatto che l'oggetto sia presente all'apprensione (sensibile o intellettuale). L'evidenza è una presenza: poiché
è data, non abbiamo da cercare nulla al di là di essa, né possiamo sognarci di chiederle titoli diversi da ciò
che essa è; dubbio e discussione possibili sono eliminati (97). Non siamo dunque in un circolo vizioso, come
sosteneva Montaigne, dacché nella nostra ricerca della verità possiamo giungere al punto in cui lo spirito attua la sua fondamentale aspirazione, quella cioè di vedere il vero in piena luce e di compiere il suo movimento in questa visione, che è prova a se stessa.
2. L'EVIDENZA DEI PRINCÌPI - Le osservazioni precedenti permettono di risolvere l'obiezione scettica
relativa ai princìpi della dimostrazione. Da una parte, infatti, non si tratta di dimostrare i princìpi, né tanto
meno di postularne la verità; in entrambi i casi si darebbe luogo a un circolo vizioso. In realtà, i princìpi
primi, che sono effettivamente messi in esercizio dalla ragione (perfino nell'enunciazione dello scetticismo,
come abbiamo visto), hanno la proprietà di essere evidenti per se stessi e di esser dati allo spirito in un'intuizione che non lascia alcun posto al dubbio o all'esitazione. (È vero che taluni hanno preteso di dubitare
realmente del principio di non contraddizione: ma, dice Aristotele (Metaph., IV, c. 4), non è necessario si
pensi tutto ciò che si dice!). Questa è propriamente l'intuizione dell'essere e l'evidenza dei princìpi è nient'altro che la presenza dell'essere allo spirito, dato con le sue esigenze assolute (III, 477-483). Contro il negatore dei princìpi, non si può usare qui che la confutazione per absurdum.
«Certo, anche di esso (il principio di non contraddizione) si può dimostrare - scrive Aristotele (Metaph.,
IV, c. 4, trad. Carlini, Bari, 1928, p. 110) - in via di confutazione, che è impossibile negarlo, solo che, chi lo
mette in dubbio, dica qualcosa. Che se non dicesse nulla, sarebbe ridicolo andare in cerca di ragioni contro
chi, in quanto non ragiona, non ha ragioni di nulla. Il dimostrare poi in via di confutazione, io dico che differisce dal dimostrare vero e proprio, perché chi si accingesse a dimostrare lui quel principio, mostrerebbe di
presupporre ciò che deve dimostrare; ma, qualora la colpa (del circolo vizioso) fosse di un altro, si tratterebbe di una confutazione, e non di una dimostrazione».
77 - 3. VALORE DELLA CONOSCENZA - Il valore della conoscenza umana, in quanto atto dell'intelligenza, è dunque stabilito senza petizione di principio, poiché dipende dal valore dell'intelligenza e poiché
quest'ultima è vissuta e conosciuta come una facoltà essenzialmente ordinata all'essere e ad esso misurata.
C'è qui, se si vuole, una giustificazione reciproca, ma senza circolo vizioso, in quanto si opera in certo modo
su due piani diversi: l'intelligenza in atto di conoscere risulta giustificata dapprima come facoltà dell'essere,
- e da ciò sgorga la giustificazione della conoscenza intellettuale in generale, garantita dal valore ontologico essenziale dell'intelligenza.
4. INCONSISTENZA DEL PROBABILISMO - Il probabilismo non è che una maniera ingegnosa di adattare il dogmatismo naturale della ragione allo scetticismo dottrinale. Vero è che il probabilismo è assai poco
logico; come dire che le apparenze si avvicinano più o meno al vero, se la verità ci è assolutamente inaccessibile? In questo asserto v'è una tale contraddizione, che il probabilismo ha preferito più spesso presentarsi
come un metodo di condotta, piuttosto che come una posizione teoretica. Abbiamo visto sopra che, con tutto
ciò, esso non diventa più plausibile.
Sant'Agostino ha discusso a lungo nel Contra Academicos (ed. cit., in particolare II, 10-30) la teoria probabilistica. Da parte sua, Montaigne (Essais, II, c. XII) ha ben mostrato che lo scetticismo non può arrestarsi
per strada e che, se vuol esser coerente, deve pure essere integrale: «L'opinione dei seguaci di Pirrone - egli
dice - è più ardita e più verosimile. Infatti questa inclinazione accademica e questa propensione a una proposizione più che a un'altra, che altro è se non il riconoscimento di qualche verità più apparente in questa che in
quella? Se il nostro intendimento è capace della forma, dei lineamenti, del portamento e del volto della verità, esso la vedrebbe intera tanto quanto a metà, nascente e imperfetta. Questa apparenza di verosimiglianza
che lo fa pendere a sinistra più che a destra, aumentatela; questa oncia di verosimiglianza che inclina la bilancia, moltiplicatela di cento, mille once: ne verrà alla fine che la bilancia si deciderà del tutto, e fisserà una
scelta e una verità intera. Ma come si lasciano essi piegare alla verosimiglianza, se non conoscono il vero?
Come conoscono essi la somiglianza di ciò di cui non conoscono l'essenza? O noi possiamo giudicare interamente, o non lo possiamo del tutto. Se le nostre facoltà intellettuali e sensibili sono senza fondamenta, se
esse non fanno che andar qua e là, non lasciamo per nulla che il nostro giudizio sia tratto ad alcuna parte della loro operazione, qualsiasi apparenza quest'ultima ci presenti; e la posizione più sicura del nostro intendimento e la più felice, sarà quella in cui esso si manterrà racquetato [calmo], dritto, inflessibile, senza oscillazione e agitazione».
C. I NUOVI PROBLEMI
78 - La discussione intorno allo scetticismo ci ha già permesso di precisare alcuni aspetti del problema delle fonti della certezza. Non basta tuttavia aver stabilito l'esistenza della certezza né aver mostrato che essa è
necessariamente implicita in ogni attività dello spirito, come in ogni attività pratica. Bisogna ancora che noi
determiniamo quali siano i fondamenti prossimi di questa certezza, o, se si preferisce, i modi secondo i quali
si attua questa presenza dell'essere all'intelligenza, della quale abbiamo or ora parlato. Talvolta, invero, si è
voluto ridurre ogni certezza legittima all'apprensione dei dati sensibili (fenomeni o sensazioni), che sembrano imporsi da se stessi senza alcun intervento dello spirito (nominalismo e empirismo). Talvolta, al contrario,
si è preteso ridurre tutte le certezze valide a quelle che risulterebbero (in via di ipotesi) dalla pura attività del
soggetto conoscente, sia che l'esperienza sensibile appaia illusoria (idealismo materiale), sia che, ammessa
come reale, essa sembri essere, quanto alla sua forma, solo un effetto dell'attività soggettiva di colui che conosce (idealismo formale).
Contro queste concezioni, mostreremo che la certezza della conoscenza può spiegarsi e giustificarsi solo
in funzione sia dell'oggetto che del soggetto. In altri termini, la certezza ha delle cause oggettive e soggettive:
essa è opera comune del soggetto e dell'oggetto.
Questi nuovi problemi si devono distinguere, dal punto di vista critico, da quello dell'origine delle idee, che
è un problema psicologico (III, 409-433). Si tratta infatti, in psicologia, di descrivere concretamente il gioco dell'intelligenza, mentre in critica si giudica questa intelligenza come facoltà dell'essere. Tuttavia, come
abbiamo osservato (III, 409), è ben evidente che il punto di vista critico è strettamente legato al punto di vista psicologico.
CAPITOLO SECONDO
LE CAUSE SOGGETTIVE DELLA CERTEZZA
SOMMARIO (98)
Art. I - LE DOTTRINE EMPIRISTICHE. La corrente fenomenistica - Il fenomenismo di Hume - L'origine
delle idee - Analisi delle idee - Dissoluzione del soggetto - L'immaterialismo di Berkeley - La corrente positivistica - Nominalismo ed empirismo - Il positivismo come metodo - Il positivismo come dottrina - La corrente antintellettualistica - Il pragmatismo - Il bergsonismo - L'esistenzialismo.
Art. II - L'ATTIVITÀ DEL SOGGETTO CONOSCENTE. La relazione dell'essere al pensiero - La relazione di conformità - La conoscenza non è una copia - I due modi d'esistenza - La verità L'adeguazione
formale - Il rapporto all'esistenza - La divisione e la composizione - La relazione del pensiero all'essere La determinazione dell'intelligenza - L'impressione rappresentativa - Il concetto - Il segno formale.
79 - Tutti i sistemi moderni, da Cartesio a Bergson, passando per Hume, Kant, Hegel e Comte, sono di fatto tributari dei due princìpi che stanno alla base del fenomenismo e dell'idealismo e che sono, come abbiamo
visto, il principio nominalistico, secondo il quale l'idea o il concetto non corrispondono a nulla nella realtà, e
il principio della immanenza (conseguenza del nominalismo), secondo il quale, essendo l'idea o l'immagine
l'oggetto immediato e diretto del conoscere, il solo universo accessibile alla conoscenza è l'universo immanente al soggetto conoscente. Empirismo positivistico e idealismo, storicamente e logicamente, si riducono a
due soluzioni contrarie di un postulato comune, il postulato nominalistico.
L'empirismo, dal secolo XVIII, ha assunto tre forme diverse, che costituiscono il fenomenismo, il positivismo e quello che si può chiamare l'anti-intellettualismo. Lo studieremo e lo discuteremo sotto questi tre aspetti, in modo da svolgere gli elementi di una dottrina coerente riguardo alla funzione del soggetto nella conoscenza.
Art. I - Le dottrine empiristiche
§ 1 - La corrente fenomenistica
80 - La corrente fenomenistica può essere sostanzialmente caratterizzata come una critica del concetto di
sostanza o di soggetto. Gli argomenti messi innanzi, partendo dal principio nominalistico, tendono a stabilire
che, per nessuna via, né attraverso l'intuizione sensibile, né attraverso il ragionamento fondato sul principio
di causalità, è possibile provare la realtà di sostanze o di soggetti. Di conseguenza, tutto viene ridotto a fenomeno: la «cosa» verrà alfine eliminata contemporaneamente dal mondo del conoscere e dal mondo dell'essere. Questa corrente dottrinale comporta schematicamente due forme principali: il fenomenismo di Hume e
l'immaterialismo di Berkeley.
A. IL FENOMENISMO DI HUME
1. L'ORIGINE DELLE IDEE - Locke e Hume fondano tutta la loro dottrina sul postulato empiristico secondo il quale la conoscenza è limitata ai dati dell'esperienza sensibile. Partiamo, dice Locke, dall'ipotesi
della tabula rasa, cioè dall'ipotesi per cui non esistono idee innate. In qual modo lo spirito giunge a conoscere? Per l'esperienza, che è sia esterna (sensazione), sia interna (riflessione). Si può mostrare per induzione
che nello spirito non c'è alcuna idea che non sia dell'una o dell'altra specie. Si constata d'altronde che presso i
bambini il progresso della conoscenza procede di pari passo con lo sviluppo delle facoltà sensibili e della riflessione e che, presso gli adulti, le idee nuove provengono dagli oggetti nuovi che l'esperienza offre loro.
Locke ne conclude, non, come converrebbe, che ogni conoscenza ha il suo punto di partenza nell'esperienza,
esterna e interna, ma che ogni conoscenza certa è strettamente limitata all'esperienza sensibile, e che tutte le
nostre «idee» hanno valore solo nella misura in cui si riducono alla sensazione o alle trasformazioni della
sensazione. (Cfr. Locke, Essay concerning human Understanding, 2 voll., Oxford, 1894, II, c. I, n. 2-9; cfr.
tr. it., Saggio sull'intelletto umano, Bari, 1951).
Sappiamo già (III, 355-356) che questa tesi è il punto di partenza del sistema con cui Condillac pretende spiegare universalmente la conoscenza, che non sarebbe in fin dei conti, fino nelle sue forme più alte, se non una «sensazione trasformata».
81 - 2. ANALISI DELLE IDEE - La stessa dottrina è esposta da Hume all'inizio della sua An Enquiry
Concerning Human Understanding (99). Vi è sicuramente, egli osserva, una grande differenza tra una sensazione e la memoria di questa stessa sensazione. Memoria e immaginazione possono imitare o copiare le percezioni sensibili, ma esse non possono mai (salvo il caso di malattia o di follia) raggiungere la forza o la vivacità della sensazione originale. Il pensiero o immagine mnemonica più forte è sempre inferiore alla sensazione più debole. Lo stesso succede per tutte le altre percezioni dello spirito (affezioni e sentimenti), assai
meno vive delle emozioni che esse richiamano. Possiamo così distinguere due specie di percezioni, appoggiandoci sul criterio della vivacità: le impressioni (percezioni vive) e le idee (percezioni deboli).
In realtà, il pensiero (o sistema delle idee) non costituisce un'attività originale: tutto il suo potere si limita a comporre, trasporre, aumentare o diminuire i materiali fornitici dall'esperienza; si può dire così, per
es., che l'idea di una «montagna d'oro» risulta da due idee date dalla sensazione. Tutto ci viene dall'esperienza sensibile e le nostre idee, in definitiva, non sono che copie delle nostre impressioni. Valgono dunque solo nella misura in cui possono essere riportate a impressioni o sensazioni. L'astratto, come tale, non
significa nulla e non corrisponde a nulla.
3. DISCUSSIONE DEL FENOMENISMO
a) Il postulato empiristico. L'empirismo ha certo ragione di affermare che ogni nostra conoscenza ha la sua
origine prima o il suo punto di partenza nell'esperienza sensibile (III, 417). Tuttavia, a meno di identificare
le nozioni di origine e di causa, non si può passare immediatamente da questa constatazione certa all'affermazione che la causa unica e totale delle nostre idee sia l'esperienza sensibile, cioè la sensazione e l'immagine. Abbiamo stabilito, dal punto di vista psicologico, che è impossibile ridurre l'idea astratta e universale all'immagine e alla sensazione (III, 403-408). Non abbiamo da ritornare su quanto è già stato detto; ma dobbiamo osservare che il punto di vista empirico misconosce o falsa il gioco dell'astrazione nella elaborazione
del sapere intelligibile.
Infatti, l'empirismo riduce l'astrazione a una pura separazione degli elementi concreti dell'esperienza, ordinata a mettere sotto lo sguardo di colui che conosce l'uno o l'altro di questi elementi, isolato dal resto. Processo meccanico, che l'empirismo ritiene sia l'unico processo di formazione delle idee astratte; che, nello
stesso tempo, respinge come pura illusione, osservando, e con ragione, che l'astrazione così intesa non risponde più alla pretesa dei filosofi di farci penetrare con essa le nature e le essenze, e osservando che essa ci
dà sempre solo il concreto. Ben comprendendo che la conoscenza, per essere reale, esige che vi sia fuori del
soggetto conoscente un dato che gli stia di fronte, cioè esige che l'oggetto sia presente alla coscienza sotto
forma di sensazioni o di immagini sensibili, atte a rendere conto della specificazione della conoscenza, l'empirismo tuttavia non tiene conto del fatto che lo spirito, in ragione stessa della sua natura immateriale, non
può ricevere passivamente le immagini che rappresentano l'oggetto, ma deve produrre dall'interno il concetto, elaborarlo attivamente in funzione dell'immagine sensibile, col gioco d'una attività spirituale spontanea,
di una funzione illuminatrice, il cui compito è di render visibile l'essere in ciò che appare, il necessario nel
contingente e l'eterno nel temporale. (Cfr. S. Tommaso, In Boethii de Trinitate, q. V, a. 3).
82 - Dissoluzione del soggetto. L'empirismo nominalistico ha per conseguenza la riduzione dell'essere al
puro fenomeno o a collezioni di fenomeni, legati fra loro in forma di totalità organiche, non si sa bene come.
Infatti le nozioni metafisiche di sostanza o di soggetto, di forma e di fine, non possono avere alcun senso in
un contesto dottrinale, in cui si possono pensare solo «cose», cioè oggetti sensibili. I concetti di essenza e natura, di genere e specie, mediante i quali si costituiscono i quadri logici dell'essere, sono ormai privati di ogni
qualsiasi valore ontologico. Il reale è dunque ridotto ad un polverìo di fenomeni, la cui coesione e unità costituisce un mistero insondabile.
c) Il concetto di causalità. La critica del concetto di causalità non è fatta per togliere questi ostacoli. Hume
infatti, come già prima Nicola d'Autrecourt (38) e in virtù degli stessi princìpi nominalistici, riduce i rapporti
di causalità a rapporti di successione dei fenomeni, cioè, psicologicamente, a pure associazioni meccaniche
d'immagini (III, 468).
Kant, mostrando l'inconsistenza di questa teoria, osservava che essa doveva per necessità generare lo scetticismo più radicale. Al che si può aggiungere che essa introduceva nel sistema di Hume una contraddizione
ulteriore: Hume infatti considera illusoria l'idea di causalità, ma vuole spiegare la genesi di questa illusione
con la sua necessità. Ora, ciò è proprio far appello alla causalità, perché una spiegazione genetica e psicologica è una spiegazione causale; in altri termini, Hume spiega con la causalità l'origine dell'illusione della
causalità (100).
83 - Fallimento del meccanicismo. Ci si può certamente appellare al meccanicismo: è l'ipotesi cartesiana
(II, 51-54), la sola possibile, d'altronde, dal punto di vista nominalistico e fenomenistico. Appare chiaro tuttavia che questa ipotesi non è, qui, che un enorme circolo vizioso. Si tratta, infatti, di spiegare come dei puri
fenomeni, cioè degli atomi, formino con il loro mutuo legame degli edifici o dei «tutti» organici costanti, dei
sistemi e dei sistemi di sistemi. Rispondere, come fanno Democrito, Nicola d'Autrecourt, Cartesio e i meccanicisti, che ciò avviene perché una forza meccanica produce dal di fuori questa coesione dei fenomeni, è evidentemente solo una soluzione verbale del genere «oppio-virtù dormitiva», consistente nell'asserto secondo il
quale i fenomeni formano dei «tutti» perché esiste qualcosa che li organizza sotto questa forma di «tutti».
Non si è progredito molto!
In realtà, è pura illusione immaginare di trovare una spiegazione della natura nel meccanicismo. Tanto poco ciò ch'è concepito meccanicisticamente spiega la realtà, che esso pure si riduce ad essere una delle forme
del problema da risolvere. Si può anche dire che esso non esiste come tale o allo stato puro; ma è solo l'aspetto di un'altra realtà, metafisica, cioè della finalità, forma o idea (termini sinonimi). È per questo che
l'empirismo nominalistico, ponendosi nell'impossibilità di dare un senso a queste nozioni metafisiche, rende
l'universo e la sua conoscenza inintelligibili. Le discussioni critiche di Hume e di Stuart Mill, con la loro
confessione finale d'impotenza (III, 558), hanno proprio questo significato.
LOCKE, HUME e MILL finiscono d'altra parte col prendere in considerazione (almeno ipoteticamente)
una soluzione ancora più assurda del puro fenomenismo: i fenomeni, secondo loro, riposano, in qualche modo, su un substrato inerte e immobile, assolutamente estraneo al campo accessibile all'intuizione (101). È questo «sostanzialismo», o, più esattamente, questo «cosismo» grossolano che Bergson considera come il tipo di
una concezione metafisica dell'essere. (Cfr. La perception du changement, L'Évolution créatrice, p. 2 sgg.;
La Pensée et le Mouvant, pp. 37, 38, 51, 88, 185, nota, ecc.). Si capisce che egli contesti risolutamente la realtà e l'intelligibilità di una tale «sostanza», ma non che egli parta da tale critica per proporre a sua volta un
fenomenismo così radicale, che quello di Hume, a petto del suo, è solo un timido saggio. (Cfr. il nostro Essai
sur le Bergsonisme, Lione-Parigi, 1931, pp. 80-91).
B. L'IMMATERIALISMO DI BERKELEY
84 - 1. IL NOMINALISMO BERKELEYANO - Queste concezioni sono partecipate pure da Berkeley, che
propone, sulla base di un nominalismo assoluto, la duplice critica del concetto universale e del concetto di
sostanza o soggetto. L'idea astratta, dice Berkeley, non serve a nulla, in quanto essa non fa che surrogare oggetti singoli in numero indefinito; non ha nemmeno una realtà mentale: ogni volta che si cerca di scoprire in
essa un contenuto proprio e originale, si finisce ad immagini grossolanamente confuse ed informi.
Berkeley, d'altra parte, mostra che il concetto di sostanza, che egli intende come substrato inerte dei fenomeni, non corrisponde a nulla di reale e d'intelligibile (III, 554).
2. IL PASSAGGIO ALL'IDEALISMO - Berkeley si batte contro un fantasma, ma la sua logica è rigorosa. Se si parte dalla nozione empiristica di soggetto, la critica di Berkeley dimostra vittoriosamente che sostanze o soggetti, così concepiti, sono un vero nulla per lo spirito e in realtà. Ormai davanti allo spirito sussistono solo i fenomeni o qualità, che Berkeley facilmente mostra essere solo idee, in modo che esistere si riduce da ultimo a percepire o a essere percepito: esse est percipere vel percipi. L'empirismo, questa volta in
piena coscienza, va fino al limite della sua logica, e Berkeley non manca di osservare che la sua dottrina si
limita a portare una giustificazione definitiva alle tesi idealistiche comuni a tutti i moderni ( 102).
Che il sistema berkeleyano sia propriamente una reazione contro le concezioni fisicistiche che prevalevano
al suo tempo nella filosofia ed erano una conseguenza del meccanicismo cartesiano, è del tutto certo (103).
Anzi, in certo senso, l'idealismo di Berkeley non è un idealismo deciso, in quanto, per esso, le idee sono dei
dati veramente oggettivi e indipendenti dal soggetto conoscente. (Cfr. Principi, I, 91) (104). Ma è pur sempre
vero che, sia pure a contraggenio, Berkeley orientava l'idealismo verso le sue forme panteistiche. Poiché l'universo è ridotto a un sistema di idee, la tendenza naturale sarà quella di cercare nello spirito stesso la sorgente prima delle idee. L'averroismo è così una delle conseguenze logiche di un sistema, col quale Berkeley
si illudeva di aver definitivamente tolto di mezzo l'ateismo, il materialismo e il panteismo.
§ 2 - La corrente positivistica
85 - 1. NOMINALISMO ED EMPIRISMO - Il positivismo, in A. Comte, Stuart Mill, H. Spencer, non è
che una forma dell'empirismo fenomenistico. Nominalistico per principio, il positivismo predica una specie
di ascesi filosofica o, se si vuole, un nuovo dovere di astinenza metafisica. Esso rinuncia, infatti (con un'apparente saggezza), a cercare la soluzione dei problemi insolubili posti dalla concezione fenomenistica dell'universo. Vi è un substrato dei fenomeni, esistono «cose in sé» (come dice Kant), dietro le mobili apparenze?
Poco importa, poiché substrati e «cose in sé» sono del tutto inutili.
Il positivismo si presenta così come una soluzione ai problemi posti dal kantismo e dal fenomenismo.
Ma, come vedremo, questi problemi sono gli stessi di Kant e di Hume, poiché in entrambi i casi derivano
dal postulato nominalistico. Si tratta essenzialmente di spiegare l'ordine e la regolarità dei fenomeni, senza ricorrere per nulla alla metafisica.
Come rendere conto, tuttavia, senza ricorrere a un soggetto, delle totalità organiche della natura, dell'ordine
e della regolarità dei fenomeni? E perché, rispondono i positivisti, cercare delle spiegazioni ipotetiche e d'altronde inutili? L'ordine è un fatto; la costanza del susseguirsi dei fenomeni è un fatto: a noi basta constatare
questi fatti e generalizzarli sotto forma di leggi. Compito della scienza è solo quello di discernere i legami
empirici dei fenomeni e tutta la filosofia non serve ad altro che a intendere la scienza e ad unificarne i risultati, sul terreno stesso dell'esperienza (105).
Questa argomentazione è estremamente ambigua, in quanto si presenta ora come puramente metodica, ora
come realmente teoretica; questi due punti di vista dovrebbero essere nettamente distinti.
86 - 2. IL POSITIVISMO COME METODO - Il termine di positivismo serve talvolta a designare un metodo d'investigazione della natura. In quest'ordine, si dice, tutto è ridotto alla ricerca delle leggi empiriche
dei fenomeni, facendosi astrazione dalle cause propriamente dette e dalle essenze, che sono di pertinenza
delle discipline metafisiche, o delle discipline religiose. Niente da obbiettare a ciò (I, 134-136) se non si
pretendesse, da una parte, che questo metodo positivo possa bastare assolutamente a se stesso, e, dall'altra,
che le ricerche ulteriori della metafisica, come le asserzioni religiose, rappresentino solo estrapolazioni azzardate e ipotesi gratuite. Il culto del metodo positivo implica di frequente un positivismo latente, cioè la credenza nella validità esclusiva dei metodi sperimentali.
Mostreremo la falsità di questo punto di vista. Si può comunque già stabilire, per la questione del metodo,
che esso è contraddetto dalla pratica stessa delle scienze positive. È certo, infatti, che il fisico (e il chimico, e
il biologo a più forte ragione) è ben lungi dall'obbedire alle ingiunzioni di Comte. «Egli cerca sempre e ovunque, scrive E. Meyerson (Essais, Parigi, 1936, p. 140), di conoscere ciò che vi è al disotto dei fenomeni,
cerca di conoscere ciò che è, la cosa, il quid (Was)». L'uomo fa della metafisica allo stesso modo come respira; lo scienziato è metafisico quanto un altro, sebbene, è vero, senza averne espressamente coscienza, ma così profondamente da poter dire che le scienze più positive esistono e progrediscono solo sotto l'impulso del
bisogno metafisico.
87 - 3. IL POSITIVISMO COME DOTTRINA - Dal punto di vista teoretico, il positivismo si riduce a una
pura e semplice negazione del valore della metafisica, cioè della ragione come facoltà dell'essere intelligibile. Come tale, esso vale tanto quanto valgono i princìpi che invoca. Ora, noi sappiamo che questi princìpi
non sono altro che quelli del nominalismo e dell'empirismo: tutta la realtà oggettiva legittimamente affermabile, risulta ridotta a ciò che è percepito o che potrebbe essere percepito dai sensi. Abbiamo discusso questi
postulati e non dobbiamo tornarvi sopra; ma possiamo osservare che questa dottrina condurrebbe alla rovina
della scienza positiva stessa.
a) La scienza e la ricerca delle cause. Abbiamo messo in evidenza, dal punto di vista metafisico, ciò che si
potrebbe chiamare la metafisica degli scienziati; qui bisogna andare ancora più lontano e parlare della metafisica della scienza. Infatti, in relazione alla considerazione delle cause, al senso propriamente ontologico di
questa nozione, E. Meyerson (De l'Explication dans les sciences, 1.a ed., Parigi, 1921, t. I, p. 57) ha mostrato
esaurientemente che se le scienze della natura si sforzano di stabilire le leggi funzionali (I, 126, 182), non
sembra le considerino termine ultimo delle loro ambizioni, in quanto leggi e funzioni sono evidentemente solo simboli della causa propriamente detta, che è il vero reale.
«Ci si studia, scrive Meyerson (Essais, p. 41 sg.), di ridurre la ricerca della causa alla determinazione delle
condizioni del fenomeno, cioè alla ricerca della legge (...). Essa è sovente contraddistinta dal fatto che si fa
intervenire il concetto matematico di funzione (I, 144), che è, infatti, la forma ideale verso cui tende la legge
fisica; si finge di credere che tutto ciò che è attinente alla causa si riduca o almeno debba ridursi alla determinazione di questa funzione o di qualche particolarità relativa a questa funzione. Ora, non è punto così: la
causa non può, in nessun caso, confondersi con la legge e con la funzione, dato che noi vediamo, nella storia
della scienza, che la ricerca della causa prosegue instancabilmente, appassionatamente e a lungo dopo che la
funzione e tutto ciò che la concerne sono stati determinati a perfezione (...). Noi sappiamo che lo spirito richiede imperiosamente cause reali per ciò che esiste realmente; che, secondo l'espressione di Hartmann, solo
dei pazzi potrebbero fare il tentativo di spiegazioni fisiche con l'aiuto di concetti scientemente irreali. È questo il motivo per cui il fisico non può in alcun caso ridursi ad essere un matematico e ancor meno un algebrista puro».
88 - b) Scienza e filosofia. Il positivismo, sia pure al semplice livello della scienza sperimentale, non si può
veramente mantenere in pratica ed è contraddittorio. Così in fisica un positivista, per essere logico, dovrebbe
limitarsi a descrivere i fatti nell'ordine in cui appaiono e attenersi strettamente ai fatti bruti, cioè alle percezioni, quali esse sono per un osservatore ordinario. Ora, è ben evidente che il fisico, anche quello positivista,
va sempre molto al di là: egli ritiene le qualità sensibili solo come indizi di realtà soggiacenti (particelle, vibrazioni, ecc.) che non è possibile percepire direttamente; egli crede a un ordine più ampio di quello della
percezione sensibile e si sforza di ricostruirlo in un sistema in cui ciò che è percepibile è come immerso in
ciò che è concepibile (I, 169-171). Se il postulato positivistico fosse strettamente rispettato, l'uomo si troverebbe ridotto a constatare senza comprendere. La constatazione stessa rimarrebbe assai imperfetta, in quanto
essa implica sempre, anche al livello scientifico, un abbozzo d'interpretazione e di spiegazione, cioè l'appello
ad elementi che non appartengono al campo sensibile (106).
A più forte ragione, se la scienza implica già e mette in gioco un'intera filosofia, sarà impossibile ridurre la
filosofia ad essere esclusivamente una pura sintesi delle scienze positive. In realtà, oltrepassando il sapere
positivo, la filosofia non fa che proseguire un movimento già dato nelle scienze e portare all' atto le esigenze
metafisiche incluse virtualmente nell'esperienza sensibile e nelle scienze della natura. Tutto il nostro studio
precedente, in logica, in cosmologia, in psicologia, ci ha costantemente ricondotto a questa evidenza (sottolineata più su ancora una volta): che il meccanicismo non è mai una spiegazione, ma un problema. Indubbiamente, si ha il diritto di partire proprio dall'ordine della natura, considerato come un dato: è quanto fanno le
scienze positive; ma una constatazione non è una spiegazione. La ragione, anche nella scienza stessa, aspira a
scoprire le ragioni dell'ordine, a conoscere le cose mediante i loro princìpi e le loro cause. Per questo appunto
avevamo buon fondamento nel dire (I, 13) che la metafisica è meno al di là del sapere positivo e sperimentale che all'interno di questo sapere stesso, sia pure sotto forma potenziale o virtuale; essa è propriamente
l'atto di una ragione obbediente alle esigenze intelligibili dell'essere, dato nella percezione e nella scienza.
§ 3 - La corrente anti-intellettualistica
89 - Le dottrine anti-intellettualistiche sviluppatesi verso la fine del sec. XIX e all'inizio del sec. XX
reagiscono contro le negazioni metafisiche del positivismo e del criticismo kantiano. Sennonché, invece
di discutere i postulati fondamentali (nominalismo e empirismo) di questi sistemi, le dottrine antiintellettualistiche partono da questi stessi postulati, considerati come ovvii e indiscutibili, e pretendono di
ristabilire la metafisica nei suoi diritti per vie diverse da quelle razionali, reputate impraticabili. Così il
pragmatismo propugna la via della vita e dell'azione e fa appello al criterio specifico dell'azione e della
vita, costituito dal successo: il vero sarà, in generale, ciò che riesce. Il bergsonismo, da parte sua, crede di
scoprire in un'intuizione sopra-intellettuale lo strumento appropriato di una metafisica sperimentale e positiva, mentre le dottrine esistenzialistiche stimano che solo i fatti emozionali possano giustificare e garantire l'affermazione di una realtà extra-mentale.
A. IL PRAGMATISMO
1. ORIGINI DEL PRAGMATISMO - Il movimento pragmatistico, scrive William James (Le Pragmatisme, tr. fr. di Le Brun, Parigi, 1914, p. 57), «sembra essersi formato bruscamente, come un precipitato nell'aria-ambiente. Un certo numero di tendenze, che erano sempre esistite in filosofia, hanno tutto ad un tratto
preso coscienza di sé e della loro missione collettiva». Di fatto il pragmatismo, almeno in quanto filosofia, è
prima di tutto un prodotto anglosassone: l'iniziatore fu, fin dal 1878, Ch. Sanders Peirce. In un articolo intitolato: «Come rendere chiare le nostre idee?» (pubblicato in «Popular Science Monthly», gennaio 1878, e tradotto in francese nella «Revue Philosophique», vol. VII, gennaio 1897), Peirce osservava che le credenze
hanno la loro ragione essenziale non nel mettere lo spirito d'accordo con la realtà (senza che questo risultato,
d'altronde, venga escluso), ma nel guidare e regolare l'azione, così che, per sviluppare il contenuto di un'idea, basta determinare la condotta pratica che essa per sua natura è volta a suscitare.
«Il fatto tangibile che si constata alla radice di tutte le distinzioni del pensiero, per quanto sottili esse siano, è che non ce n'è una sola, fosse pure la più elaborata, la più fine, che non riguardi una differenza possibile
nelle conseguenze pratiche. Così per ottenere una perfetta chiarezza nelle idee relative a un oggetto, dobbiamo unicamente considerare se gli effetti di ordine pratico che noi concepiamo esso sia suscettibile di comportare». (W. James, Le Pragmatisme, p. 58).
Questo punto di vista, al quale W. James doveva dare una rinomanza considerevole, applicandolo alla religione, si accordava facilmente con la dottrina che John Dewey, in America, esponeva nei suoi Studies in Logical Theory (Chicago, 1903) e con l'umanesimo di S. Schiller. D'altra parte parecchie correnti, diversissime
per più riguardi dal pragmatismo secondo la sistematizzazione di W. James, ma affini, pure, per diversi punti
di vista alle opinioni che egli difendeva, creavano un'atmosfera favorevole alle teorie di Peirce. Per precisare,
bisognerebbe citare qui Newman e la sua Grammar of Assent (Londra, 1875), M. Blondel e il suo libro su
L'Action (Parigi, 1893), l'uno e l'altro lontanissimi dalle teorie pragmatiste, ma che sembrano favorire un certo anti-intellettualismo, soprattutto Ed. Le Roy e la concezione del dogma da lui esposta in Dogme et Critique (Parigi, 1907), infine, per essere brevi, le dottrine simbolofideiste che cominciavano allora a diffondersi,
e che consistevano essenzialmente nell'attribuire alle enunciazioni dogmatiche e metafisiche un semplice valore di azione. Anche nell'ordine puramente scientifico, le idee di Henri Poincaré sul valore della scienza potrebbero, per certi riguardi, essere avvicinate alle vedute pragmatistiche.
Non dobbiamo esporre qui queste diverse dottrine, che sono state talvolta confuse, in maniera alquanto indiscreta, sotto la comoda rubrica del pragmatismo. Ciò che abbiamo di mira anzitutto è la teoria di W. James,
poiché da nessun altro autore il pragmatismo è stato esposto, difeso e sviluppato in modo più coerente e più
chiaro. Essa ha il vantaggio di offrirci, già bell'e formata, ciò che si potrebbe chiamare una dottrina-tipo. Lo
stesso W. James fa osservare (op. cit., p. 74) che questa dottrina si può considerare sotto due aspetti: come
metodo e come teoria genetica della verità. Cercheremo di definirla sotto questi due aspetti.
Se si dovessero cercare le fonti remote della corrente pragmatistica, bisognerebbe risalire a Schleiermacher, poiché è lui che apre la via preconizzando il metodo del sentimento religioso, non accettando il valore
del metodo razionale. (Cfr. Reden uber die Religion, Berlino, 1799). Sentimento ed emozione, egli dice, sono
i soli mezzi che ci permettono di introdurci profondamente nel seno della Vita infinita che è Dio, e di raggiungere il reale al di là delle apparenze. La rivelazione non è la comunicazione misteriosa di verità determinate fatta nel tempo all'umanità, meno ancora un sistema di conoscenze di cui noi possiamo andar debitori
all'attività speculativa della nostra ragione. Essa è in ogni momento una partecipazione alla vita profonda
dell'universo, una intuizione e un sentimento, una emozione, situati al di là della coscienza chiara, e per mezzo dei quali noi esperimentiamo, grazie all'accrescimento di vita che dobbiamo ad essi, la nostra coincidenza
con la corrente creatrice universale. Da questo punto di vista, i concetti risultano del tutto indifferenti: hanno
valore solo il sentimento, l'emozione, lo slancio vitale, che noi traduciamo in sistemi speculativi del pari difettosi.
90 - 2. IL METODO PRAGMATISTICO - W. James, irritato dagli ondeggiamenti e dalla varietà delle opinioni metafisiche, prende il partito di tutti gli empiristi, consistente nel negare un senso e una portata reali
ai problemi metafisici, e propone un metodo nuovo per sopprimere le controversie riguardo ai problemi speculativi. Come noi chiamiamo vere le nozioni fisiche che ci permettono di prevedere i fenomeni e nello stesso tempo di agire su di essi, così terremo per vere, nel campo filosofico e morale le nozioni e le asserzioni
che ci procurano il successo.
«Ecco, scrive James (op. cit., p. 57), come [il metodo pragmatistico] pone il problema: se questa conseguenza fosse vera, e non un'altra, quale differenza ne risulterebbe praticamente per un uomo? Se nessuna differenza pratica può essere scorta, si giudicherà che le due alternative si pareggiano, e ogni discussione sarà
allora inutile. Perché una controversia sia seria, bisogna saper mostrare quale conseguenza pratica è necessariamente congiunta al fatto che questa alternativa è la sola vera».
3. LA DOTTRINA PRAGMATISTICA - La dottrina di W. James comporta essenzialmente un nuovo concetto della verità. Questa non potrà essere una copia in rapporto a un originale: come potrebbero le nostre idee, che sono astratte, immutabili, universali, essere copie di originali, che sono concreti, mutabili e contingenti?, e neppure la rivelazione o l'apprensione di tipi ideali eterni e incorruttibili esistenti oltre lo spazio e il
tempo, ipotesi che il nominalismo e l'empirismo escludono, col mostrare l'origine umile, puramente sensibile, delle nostre idee.
Infatti, la verità non preesiste alla nostra azione; essa è una qualità di questa azione stessa, vale a dire essa è
una specie del bene. Il vero è il nome di tutto ciò che mostra e prova se stesso come buono nell'ordine della
credenza; e che si mostra e prova se stesso come buono, per ragioni fondate sul successo, nell'ordine dell'azione.
«Ammettete, scrive James (op. cit., pp. 83-84), che nelle idee vere non vi sia nulla che sia buono per la vita; ammettete che il possesso di queste idee rappresenti uno svantaggio positivo e che le idee false siano le
sole vantaggiose: allora bisogna che voi ammettiate che la nozione di verità concepita come una cosa divina
e preziosa, e la nozione della sua ricerca concepita come obbligatoria, non avrebbero mai potuto svilupparsi
o divenire un dogma. In un mondo in cui fosse così, il nostro dovere sarebbe piuttosto quello di fuggire la verità [...]. Se c'è un bene, al contrario, una vita che sia bene condurre, a preferenza di ogni altra, e se c'è un'idea che, ottenendo la nostra adesione, possa aiutarci a vivere tale vita, ebbene!, sarà per noi realmente meglio
credere a questa idea, purché tale credenza non sia, beninteso, in opposizione con altri beni vitali d'interesse
superiore».
91 - DISCUSSIONE - Abbiamo già discusso (I, 114; III, 144) diversi aspetti di questa dottrina. Dal punto di vista critico, la discussione si sviluppa in dipendenza anzitutto da quella sul nominalismo e sull'empirismo; si possono tuttavia aggiungere alcune osservazioni.
a) Il concetto di verità. Su questo punto, si nota che la critica di W. James è una critica a vuoto, in quanto
si accanisce a confutare delle concezioni assurde. La verità non è una copia, né tanto meno l'apprensione di
tipi intelligibili esistenti al di là dello spazio e del tempo. Essa è conformità dello spirito con la realtà, conformità che si esprime nel e mediante il giudizio e che verifica se stessa universalmente, anche in metafisica,
mediante riferimento al reale e, addirittura, al reale sensibile, donde provengono, in fin dei conti, tutte le nostre conoscenze. Il che significa che il vero non è una cosa, come l'immagina W. James, ma la qualità o la
proprietà di un'attività intellettuale ordinata a cogliere l'essere secondo un modo immateriale che le è proprio.
b) Il criterio del successo. W. James vuole che con successo si intenda il bene o tutto ciò che favorisce la
nostra più grande espansione morale. Si tratterà tuttavia allora di definire in che cosa consista questa «più
grande espansione morale». Ciò necessariamente ci riconduce a una concezione determinata dell'uomo, della
sua natura, delle sue esigenze morali, dei fini della vita umana e dei valori assoluti, cioè alla metafisica come
scienza.
Quanto a dire che il vero è un aspetto o una specie del bene, questo è moltiplicare gli equivoci. Il vero è il
bene dell'intelligenza, della quale esso soddisfa le aspirazioni; ma esso non è il bene in maniera assoluta, il
quale può definirsi solo per rapporto al volere. Senza dubbio, il vero e il bene si identificano nell'essere, del
quale sono aspetti trascendentali, nel senso che è sempre l'essere come vero, in rapporto all'intelligenza, e
come bene, in rapporto alla volontà, il termine delle nostre attività formalmente diverse. Da questo punto di
vista, è evidente che il vero e il bene non possono mai opporsi tra di loro, e che essi devono in qualche modo
confermarsi l'un l'altro. Ciò rappresenta l'ordine assoluto, di cui è la ragione che giudica. Il successo, al quale
James pretende riferirsi, sarà sempre, per un'attività che oltrepassa immensamente il campo del sensibile, un
criterio empirico, parziale, inadeguato e spesso illusorio. Parimenti, nell'ordine morale, lungi dal chiedere
alla riuscita dell'azione di decidere circa il vero, è alla ragione che noi chiederemo di definire l'ordine di diritto al quale deve conformarsi l'azione, per essere efficace e feconda, e qualunque siano le apparenze.
92 - 5. LA DOTTRINA DELL'AZIONE - La dottrina dell'azione, esposta da M. Blondel nella sua tesi del
1893, non si deve confondere con il pragmatismo di W. James. Anteriore alla diffusione di quest'ultimo, essa
risponde piuttosto a preoccupazioni che hanno condizionato la genesi del pragmatismo, ma sotto una forma e
in un contesto dottrinale del tutto diversi, e potrebbe essere considerata come una soluzione degli intrichi inestricabili, in cui il pragmatismo anti-intellettualistico di James ha finito per aggrovigliarsi. Essa si riallaccia infatti a una tradizione di cui fanno parte nomi illustri, da sant'Agostino a Pascal, tradizione di filosofia
concreta, meno preoccupata, in generale, dello studio tecnico e scientifico dei problemi che «del valore pratico e nutritivo della verità»; tradizione di pensiero che nella luce cerca soprattutto il calore.
Volendo caratterizzare questa dottrina, si noterà anzitutto che essa è nettamente orientata, contro l'associazionismo empiristico, verso l'instaurazione di un realismo integrale; realismo della vita psicologica, col mettere in luce l'interdipendenza essenziale delle diverse funzioni umane; realismo della conoscenza, con l'affermazione che quest'ultima non trova il suo compimento e termine nella scienza astratta (che tuttavia è una
tappa indispensabile del conoscere), ma nel cogliere l'essere concreto; realismo metafisico, in cui la dialettica
dell'azione, più efficace ancora dell'analisi astratta, ci conduce a scoprire in noi e nelle cose «qualche realtà
più piena di realtà, un'esistenza ulteriore e superiore ad ogni altra, e principio dell'esistenza propria di questa»; realismo morale, con l'affermazione che «la sovrana originalità della vita interiore ammette solo ciò che
essa ha in certo modo assimilato e vivificato». (Cfr. P. Archambault, L'oeuvre philosophique de Maurice
Blondel, Parigi, 1928). Questa dottrina porta dunque a porre nella sua indivisibile unità il triplice problema
del pensare, dell'agire e dell'essere: dal pensiero, naturalmente meccanico, generatore di astrazioni, fabbricatore di atomi intelligibili, operatore di molteplicità concettuale, all'essere, che è complessità ordinata, unità
sintetica, del tutto irriducibile agli elementi riuniti, l'abisso è superato mediante l'azione, che è come un vinculum in atto. L'azione «forma l'unità vivente di un composto, incarnando il pensiero stesso nelle membra e
facendo partecipare la molteplicità di un organismo materiale al valore spirituale di intenzioni trascendenti».
(L'Action, 1893, p. 132; cfr. tr. it. di A. Vedaldi, Torino, 1950).
M. Blondel si è sempre preoccupato (cfr. L'Action, 2a ed., 1936, t. I, p. 297 sgg.) di rimuovere le interpretazioni errate e ingiuste del suo pensiero. Nell'ordine del conoscere, come egli stesso ha sottolineato, Blondel
ammette i procedimenti dell'intelligenza discorsiva, del pensiero «nozionale», come un gradino necessario, e
valido nel suo ordine, della ricerca speculativa; nell'ordine dell'essere, egli afferma la realtà, subordinata, ma
certa, delle condizioni elementari. Tuttavia, ogni dottrina segue la propria china; preoccupata anzitutto di
mettere in luce il compito dell'azione, le implicazioni e le esigenze di quest'ultima, la dialettica di M. Blondel
è sembrata talvolta cedere al rischio di deprezzare eccessivamente il valore e la portata del pensiero concettuale, rischio tanto più vivamente sentito a causa delle critiche che gli vennero mosse, in quanto alcune correnti contemporanee assai potenti spingevano in quel senso. Blondel, a più riprese, ha tenuto a ripudiare nettamente ogni solidarietà con queste correnti; il rischio, se esiste, minaccerebbe dunque meno Blondel che
quell'ente di ragione che si potrebbe chiamare il «blondelismo». Ciò può essere segnalato senza togliere nulla
alla simpatia e all'ammirazione, veramente assai grandi, che merita un pensiero tra i più profondi e i più benefici della nostra epoca.
Rimane invero il fatto che Blondel, in tutta la sua opera, ha mostrato con una forza singolare il termine in
cui un realismo coerente, cioè integrale, troverà il suo compimento intelligibile: questo termine sarà raggiunto solo col riconoscimento di una Realtà suprema e trascendente che, presente a tutto l'universo e a ciascuno
degli enti dell'universo e rivelante si nel contempo nelle esigenze di un pensiero conforme all'essere e di una
azione integralmente fedele al suo slancio profondo, essa sola fonda il reale, nella sua totalità e gli conferisce
la sua consistenza e la sua unità, al di là delle apparenze alle quali una filosofia sommaria ha voluto ridurre
tutte le cose (107).
B. IL BERGSONISMO
93 - Dal punto di vista critico, il bergsonismo è una concezione nominalistica della conoscenza e un'apologia dell'intuizione sopra-intellettuale come strumento di conoscenza metafisica.
1. L'INTUIZIONISMO
a) Critica dell'associazionismo. La squalifica del concetto come strumento di conoscenza è legata in Bergson a una critica vigorosa dell'atomismo associazionistico. Bergson ha mostrato giustamente che l'associazionismo era un tentativo di spiegare meccanicamente la vita dello spirito mediante il gioco delle sensazioni
e delle immagini, concepite come cose in seno alla coscienza. In una tale concezione, lo spirito e la coscienza
diventano inutili: sono realmente, come pensava Taine, puri epifenomeni o pure apparenze legate alle attività
organiche.
Per reagire contro queste teorie, Bergson scrisse il suo Essai sur les données immédiates de la conscience
(Parigi, 1889). Egli pensava, infatti, che lo spirito è una realtà originale, assolutamente irriducibile alla materia, e che questa realtà può essere conosciuta mediante l'intuizione. L'errore principale di quelle concezioni
che facevano della conoscenza il risultato meccanico di una specie di chimica mentale consiste, secondo
Bergson, nel considerare l'io come una somma di elementi omogenei discontinui. Ora, nulla vi è di più contrario all'esperienza: quando noi ci studiamo di cogliere nel profondo la corrente della conoscenza, la successione in seno a questa - lungi dall'apparirci come un passaggio discontinuo da stati isolati a stati isolati, di cui
ciascuno debba cacciare lo stato che precede in attesa di essere a sua volta rimpiazzato dallo stato che segue
si impone alla nostra osservazione come «una penetrazione mutua, una solidarietà, una organizzazione intima di elementi, ciascuno dei quali, rappresentativo del tutto, se ne distingue e se ne isola soltanto per un pensiero capace di astrazione» (Essai, p. 77). Chiunque è attento alla realtà di questo dinamismo interiore e alla
sua continuità eterogenea, non può non cogliere in sé la presenza di qualche cosa di irriducibile alla materia,
la quale è discontinuità, dispersione spaziale, omogeneità e passività.
Così Bergson, su due punti essenziali, ristabiliva un esatto concetto del reale: egli mostrava, da una parte,
che gli enti godono, ciascuno, dell'unità intrinseca e che la loro unità organica non può risultare da una
composizione meccanica di elementi separabili, che gli stati di coscienza sono interiori all'io e che l'io è immanente agli stati di coscienza; e mostrava poi che gli enti sono integralmente posti nella durata.
94 - b) Critica del concetto. Qual è la fonte prima dell'errore associazionistico? È, dice Bergson, la pretesa
di conoscere il reale mediante il concetto. Il concetto, in realtà, non è strumento di conoscenza, ma strumento d'azione. Infatti i bisogni dell'azione ci obbligano costantemente a spezzare la continuità fluida e eterogenea del reale in stati stabili, omogenei e discontinui, in «cose distinte», in breve, a spazializzare la pura durata che costituisce l'essenza profonda del reale. Questo spezzettamento (morcelage) e questa solidificazione
sono necessari alla vita pratica; l'uomo maneggia facilmente solo i numeri e le cose.
Il concetto è il mezzo appropriato di questa spazializzazione e di questa frammentazione. Mediante il concetto la vita riesce ad adattarsi alla materia per vincerla, creando con questa, che rappresenta la necessità
stessa, uno strumento di libertà; fabbricando una meccanica che riesca a trionfare del meccanismo, impiegando il determinismo della natura per passare attraverso le maglie della rete che esso aveva tesa (Evolution
créatrice, Parigi, 1907, p. 286; cfr. tr. it. di A. Vedaldi, Firenze, 1951). Lo spirito arriva dunque a penetrare
nella materia solo «perché è capace di accostarsi ad essa per degradazioni successive e di inserirvisi imitandola» (La perception du changement, p. 62). In tal modo l'intelligenza concettuale trascura l'essenza del reale per occuparsi solo dei rapporti; essa crea quelle forme vuote che sono i concetti astratti, che permettono
di manipolare facilmente un numera indeterminata di cose raggruppate in serie omogenee. In cambio, agendo così, l'intelligenza diviene il grande mezzo di liberazione, in quanto essa giunge nello stesso tempo a far
circolare la vita in ciò che è inerte, ad aggirare gli ostacoli della materia, a preparare, mediante la sua azione
laboriosa, la conoscenza disinteressata, cioè metafisica, del reale.
Tale è il compito dell'intelligenza concettuale. Ora, il grande errore dei filosofi fin qui è stato di considerarla come uno strumento di conoscenza, mentre essa non è che uno strumento d'azione, l'utensile proprio dell'homo faber; di credere che essa sia capace di «tutto abbracciare, non solo la materia sulla quale
ha naturalmente presa, ma anche la vita e il pensiero» (Evolution créatrice, p. 173).
95 - c) L'intuizione sopra-intellettuale. Bisogna dunque risolutamente volgersi verso l'intuizione, se vogliamo giungere a una conoscenza metafisica del reale. Se l'essere è puro mutamento, cioè mutamento senza
cosa che muta, movimento senza mobile, divenire senza nulla che diviene (108), solo l'intuizione, che ci permette di coincidere col divenire, ci permetterà di cogliere il reale dall'interno. Questa intuizione è, infatti,
una specie di auscultazione mediante la quale noi giungiamo a «serrare dappresso quanto è possibile l'origi-
nale stesso», a sentirne «palpitare l'anima» (Introduction à la Métaphysique, «Rev. de Métaphysique et de
Morale», gennaio 1903, p. 10). Conoscenza per simpatia e non utilitaria, conoscenza perciò singolare, concreta e ineffabile, che si fonda sulle analisi concettuali, ma per oltrepassarle: tale l'intuizione, che è come una
«facoltà complementare», sopra-intellettuale, che ci apre una prospettiva sullo spirito e sulla vita e che ci
introduce nelle profondità stesse dell'essere (Evolution créatrice, p. 217).
96 - 2. DISCUSSIONE - Il paradosso della dottrina bergsoniana consiste nel presentarsi come una confutazione dell'empirismo fenomenistico e tuttavia sopravanzarlo nella sua stessa direzione. Lo si può facilmente constatare riprendendo i tre punti che abbiamo or ora esposti.
a) La dottrina della durata pura. Abbiamo già più volte notato ciò che vi è di contrario all'esperienza e nel
contempo di inintelligibile nell'ontologia bergsoniana, che definisce l'essere mediante il divenire o il puro
mutamento. Abbiamo infatti mostrato in cosmologia (II, 44) che durata e mutamento non sono concetti equivalenti e che tutta l'argomentazione di Bergson si riconduce a un paralogismo evidente: dal fatto che tutto
il reale di cui abbiamo esperienza è soggetto al mutamento (ens mobile), Bergson deduce immediatamente
che tutto il reale non è che mutamento senza nulla che muta, cioè senza soggetto del mutamento. Questa proposizione non solo è, dal punto di vista logico, un sofisma vero e proprio, ma è pure un'assurdità, in quanto il
mutamento, che è e può essere soltanto un accidente, non può esistere senza soggetto (II, 30-31; III, 475557-558) (109).
Non è arduo scoprire l'affinità fenomenistica di questa dottrina. Essa procede in linea diretta dalla critica
empiristica di Hume, che tentava di spiegare mediante il gioco della immaginazione (Hume diceva, come
Bergson: del concetto) la costruzione delle sostanze e dei soggetti dell'esperienza. La differenza tra Hume e
Bergson consiste in questo: Hume, dopo aver ridotto l'universo a puro flusso fenomenico, confessava che
questa conseguenza era veramente poco intelligibile (III, 558); mentre Bergson, più audace, accetta risolutamente la conseguenza e l'erige a sistema. Quanto alla formazione dell'«illusione statica», Hume era ricorso,
per spiegarla, all'associazione, che Bergson sostituisce con i bisogni dell'azione. Il fondo delle dottrine è comunque lo stesso.
Bergson ha mantenuto questa strana teoria della «sostanzialità intrinseca del mutamento» fino nelle sue ultime opere. La Pensée et le Mouvant (Parigi, 1933) la riprende decisamente. È vero che, in una nota di quest'opera (p. 185), Bergson parla di «malintesi» riguardo a questa dottrina. In realtà i malintesi tra Bergson e i
suoi critici non riguardano, come questa nota li definisce, il senso della dottrina, ma le sue conseguenze, in
quanto Bergson afferma che il reale-puro-mutamento mantiene la consistenza e lo spessore richiesti per essere ancora «qualche cosa», il che nega, non senza buone ragioni, i suoi contraddittori. La dottrina deve essere
intesa in senso stretto, alla lettera, «Vi sono mutamenti, scrive Bergson, ma non ci sono, sotto il mutamento,
cose che mutano; il mutamento non ha bisogno di un supporto. Vi sono movimenti, ma non c'è oggetto inerte, invariabile, che si muove» (p. 185). Dal fatto certissimo che sotto al mutamento non c'è supporto inerte e
immobile, Bergson deduce immediamente (reiterando il paralogismo che segnalavamo dianzi) che «il movimento non implica un mobile».
97 - b) Il nominalismo bergsoniano. Se le dottrine di Hume e di Bergson sono fondamentalmente le stesse,
ciò avviene perché dipendono entrambe dallo stesso postulato nominalistico. Per Bergson, il concetto astratto
non è apprensione di essere, ma costruzione artificiale di oggetti o di cose, operata da un pensiero che trascura il conoscere a vantaggio dell'agire. Anche Hume sottolineava che le nostre costruzioni concettuali di cose
sono determinate da bisogni pratici.
Bergson tuttavia si è sforzato di attenuare l'aspetto nominalistico di questa dottrina: egli ha tenuto a sottolineare che il concetto poteva servire da punto di partenza per una conoscenza metafisica del reale. Resta comunque il fatto che non solo non ha visto come fosse proprio l'essere reale a dar senso e valore al concetto;
ma, per di più, neppure ha ammesso che vi fosse continuità dal concetto alla intuizione, essendo quest'ultima
definita come una «inversione» del movimento naturale o abituale del pensiero orientato d'istinto verso lo
spezzettamento e l'immobilità. (Cfr. Introduction à la Métaphysique, op. cit., pp. 21-22).
È necessario intendere che la conoscenza concettuale, l'analisi minuziosa del discorso, gli enunciati delle
scienze positive, soprattutto quando si tratta di realtà generali e complesse come la vita, l'istinto e l'evoluzione, sono condizioni dell'intuizione metafisica. Sennonché, le condizioni sono qui estrinseche all'intuizione;
esse la preparano, ma non la costituiscono. Non si passa dal concetto all'intuizione, che sono eterogenei: dall'uno all'altra, direbbe Kierkegaard, vi è un salto qualitativo necessario.
98 - c) L'intuizione sopra-intellettuale. La teoria dell'intuizione sopra-intellettuale ci riconduce ancora al
fenomenismo di Hume. Poiché, come ha ben osservato Kant, partendo dal fenomenismo radicale di Hume
non si può concepire alcuna soluzione del problema metafisico se non mediante l'ipotesi di una intuizione
intellettuale, che penetri, oltre il diverso e il flusso fenomenico, fino all'intimità dell'essere, o, come si espri-
me Bergson, fino in seno al reale «nelle sue profondità». Hume stesso aveva d'altronde suggerito una ipotesi
del genere, allorché affermava che la critica fenomenistica non poteva condurre a negare in modo assoluto la
realtà delle sostanze (cioè di something simple and individual), ma solo a dire che, se tali sostanze esistono,
esse sono, in quanto distinte dalle qualità, al di là della percezione sensibile. (Cfr. Treatise of Human Nature,
Nuova York, 1955,1. I, parte IV, appendice; cfr. tr. it. di A. Carlini, Bari, 1926). Ragionamento questo che
introduce già la «cosa in sé» di Kant e che lascia intravedere la possibilità (teorica) di un'intuizione diversa
dalla sensibile.
Kant contesta la realtà di tale intuizione; Bergson, invece, l'afferma; ma è chiaro che sia l'uno che l'altro dipendono qui dal postulato nominalistico. Poiché se l'essere fosse concepito come interno al concetto, quale
bisogno vi sarebbe di introdurre (per ammetterla o negarla) l'ipotesi di un'intuizione sopra-intellettuale, esteriore e al di là del gioco del pensiero concettuale?
Quanto alla natura di questa pseudo-intuizione, essa comporta molte difficoltà. Le espressioni con le quali
Bergson tenta di chiarirla (auscultazione, conoscenza per simpatia, coincidenza con l'oggetto, identificazione
con l'originale stesso, atto di cogliere dall'interno, ecc.) tradiscono più imbarazzo che precisione. La sola cosa che appaia chiara è che Bergson, esattamente come Ockam, come Locke, Hume e tutti gli empiristi, propone un ideale di conoscenza tale, che l'oggetto debba essere nel conoscente come una cosa. Se l'intuizione
deve farci coincidere con l'oggetto, non è per effetto di un'assimilazione vitale dell'oggetto, ma per una identificazione materiale dell'oggetto e del soggetto. Hume e Bergson respingono il concetto con eguale energia
perché vi scoprono l'attività propria del soggetto conoscente. Tutto il nominalismo empiristico (Cartesio
compreso) è d'accordo nel fare della conoscenza autentica un fatto di pura passività, cioè, in fin dei conti, una
operazione meccanica.
Le intuizioni metafisiche concrete che ci propone il bergsonismo sembrano sconfinare nel campo della mitologia. L'intuizione che ci farebbe toccare nella sua realtà «assoluta» «il principio di ogni vita e di ogni materialità» (Évolution créatrice, p. 258), è una semplice immaginazione, del tutto gratuita. Ugualmente, la Vita, come tale (Évolution créatrice, p. 28), è solo un'astrazione fatta realtà. Quanto alla «mobilità universale»,
al divenire puro senza nulla che diviene, è chiaro che questo è un mito impensabile.
Nelle Deux Sources de la Morale et de la Religion (Parigi, 1932; cfr. tr. it. di M. Vinciguerra, 2a ed., Milano, 1950), Bergson ha infine invocato l'esperienza o l'intuizione mistica. Ma egli conviene nello stesso tempo
nel pensare che l'esperienza mistica può essere accettata dal filosofo solo se essa si adatta alle certezze razionali, portandole, se si vuole, al di là di ciò che è ad esse direttamente accessibile, ma nella loro stessa direzione.
99 - c) Le teorie assiologiche.
1. IL PRIMATO DEL SENTIMENTO E DEL VALORE - Sotto forme diverse, le teorie assiologiche moderne affermano che il solo mezzo per giungere fino al reale sta nel sentimento o nell'emozione. M. Scheler,
N. Hartmann, K. Jaspers sono d'accordo con Husserl nel riconoscere il carattere essenzialmente intenzionale
della conoscenza, cioè la sua relazione a una realtà indipendente dallo spirito ( 110). Solo, questi filosofi, separandosi da Husserl su questo punto, pensano che lo strumento di tale relazione non sia altro che il sentimento
o l'apprensione del valore (fatti emozionali-trascendenti).
Al di là della forma, categoria o struttura logica, la sola accessibile secondo Kant, Scheler vuol ritrovare
il reale e l'essere. Il suo punto di partenza è «l'uomo totale, con la sintesi unificata delle sue forze spirituali più alte». Il primato dell'intelligenza è dunque, dice Scheler, un abuso e un pregiudizio. Per entrare in
rapporto con le cose noi possediamo alcunché di meglio dell'intelligenza, cioè una specie di esperienza i
cui oggetti sono del tutto inaccessibili alla intelligenza concettuale. Questa esperienza ci è fornita dal
«sentimento originale, intenzionale», cioè dal sentimento di una realtà appresa formalmente sotto il suo
aspetto di valore, e per nulla sotto il suo aspetto di essere. Grazie a questa intenzionalità propria del sentimento, possiamo penetrare nell'essenza stessa del reale, direttamente, senza discussione critica possibile. (Cfr. M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik, 1913-1916, Halle, 1927; cfr. tr. it. parz. Il formalismo
nell'etica di G. Alliney, Milano, 1943). Il fine di questa «conoscenza emozionale» è dunque dato dai valori; il suo contenuto si definisce come una tendenza attiva verso i valori. Conseguentemente, essa non dipende dalle categorie «vero» e «falso», ma dalle categorie «inclinazione» e «avversione». «L'amore e l'odio, dice Scheler (Der Formalismus, p. 262), formano le due sommità della nostra vita intenzionale emozionale» (111).
100 - IL SOGGETTIVISMO - Le dottrine assiologiche contemporanee si presentano volentieri sotto l'etichetta di neo-kantismo: riprendono infatti un tema sfruttato da Kant nella sua Critica della Ragion pratica,
dove l'esistenza di Dio, la libertà e l'immortalità dell'anima vengono affermate come puri postulati del valore
(cioè, per Kant, del dovere). Esse tuttavia oltrepassano questo punto di vista kantiano professando la portata
trascendente delle asserzioni fondate sul puro sentimento. L'intera questione sta nel sapere se l'emozione
possa essere separata dai fatti propriamente conoscitivi che l'accompagnano e se, d'altra parte, possa da sola sostenere il peso della metafisica. Se ne può dubitare assai. In realtà, queste concezioni ci lasciano in pieno soggettivismo. Se, come afferma M. Scheler, i valori costituiscono un mondo intelligibile senza realtà ontologica, non si riesce a scorgere come debba riuscire possibile render conto dell'aspetto reale del valore.
Questo pure, come pensava Kant, diverrà un semplice oggetto di credenza irrazionale e di convinzione soggettiva. Infatti, come abbiamo mostrato in Psicologia (III, 441-442), si giustifica il valore (e di conseguenza
l'emozione che esso provoca) solo riferendoci all'essere rivestito di valore, cioè all'attività razionale ordinata
all'essere e all'intelligibile.
Art. II - L'attività del soggetto conoscente
101 - Ciò che vi è di comune a tutte le dottrine or ora studiate, consiste nella negazione dell'attività propria
del soggetto nella conoscenza, cioè dell'attività mediante la quale i concetti universali vengono astratti dalle
condizioni particolari del reale concreto. Queste dottrine propongono, implicitamente o esplicitamente, un
tipo di conoscenza in cui lo spirito si manterrebbe del tutto passivo e si limiterebbe a registrare le impressioni prodotte dalle cose, come una lastra fotografica. In altri termini, la conoscenza è riconosciuta valida e oggettiva solo se si esercita secondo un modello meccanico.
Ora, non vi è nulla di più contrario alla nozione di conoscenza, la quale significa per il soggetto l'atto di divenire vitalmente l'oggetto, e per l'oggetto l'atto di nascere, come conosciuto, a una nuova forma di essere.
Lungi dal compromettere il valore del conoscere, è proprio questa attività vitale e assimilatrice del soggetto
che garantisce l'oggettività della conoscenza. È quanto ci accingiamo a stabilire, mostrando che la conoscenza è una relazione non deformante con la cosa conosciuta, e che proprio la stessa realtà esiste nel con
tempo, benché in modi diversi, nella natura come cosa e nel pensiero come essenza intelligibile o idea.
§ 1 - La relazione dell'essere al pensiero
A. 1. RELAZIONE DI CONFORMITÀ
102 - Nelle teorie che abbiamo esposte e discusse, si osserva che vi è un appello comune in favore del realismo della conoscenza. L'empirismo, come il nominalismo da cui procede, vuole, anzitutto, una verità che
non sia, se così si può dire, fabbricata; esso vuoI cogliere, senza deformazione né alterazione, ciò che è. Tutta
la critica del concetto procede da questa esigenza. Il torto di queste teorie è di non comprendere che è proprio
il concetto ad offrire ciò che esse reclamano, purché ci si sforzi di coglierne la vera natura e la funzione.
1. LA CONOSCENZA NON È UNA COPIA - L'empirismo riconosce verità solo nella copia o, come si
esprime Bergson, solo nell'«identificazione con l'originale» (112). Sennonché, da una parte, non esiste conoscenza di questo genere e, dall'altra, non può nemmeno essercene, in quanto la nozione di copia o di
calco è contraddittoria rispetto alla nozione di conoscenza.
a) Pensiero e realtà. L'impossibilità di concepire la conoscenza come quella che riproduce tutte le condizioni della cosa (se non vuol essere inesatta), allo stesso modo come una copia riproduce adeguatamente il
modello (o si suppone che lo riproduca), dipende in primo luogo dal fatto dell'errore. Infatti non c'è copia
concepibile di ciò che non è. Indubbiamente, vi sono cattivi calchi, come vi sono cattive fotografie; solo, non
si tratta di errori in questo caso, poiché non si tratta di conoscenza, ma di imperfezione nella riproduzione
meccanica degli originali. Se è certo, d'altronde, che l'atto di copiare, per esempio, un quadro può comportare
inesattezze e deformazioni, queste dipendono sia dall'incapacità dell'esecutore, sia da una visione imperfetta
dell'originale, vale a dire che nelle due ipotesi la conoscenza (vera o falsa) è presupposta alla copia. Non è
dunque la conoscenza ad essere una copia, ma è la copia che procede dalla conoscenza ed è quest'ultima
che dà ragione dell'errore. Altrimenti il quadro-copia riprodurrebbe la conoscenza-copia e l'errore sarebbe
impossibile e inintelligibile.
Constatiamo così che le forme conoscitive non possono assolutamente essere ridotte a copie. Ciò è chiaro
per l'idea o concetto, che sono universali, mentre nella realtà si riscontrano solo cose singole (è proprio da
qui, d'altra parte, che prende le mosse il nominalismo per negare il valore ontologico del concetto), ma è certo anche per la sensazione (o l'«impressione» di Hume) e per 1'immagine. La sensazione ci dà solo un aspetto
delle cose; abbiamo mostrato in Psicologia (III, 105) quale distanza vi sia tra gli stimoli e l'oggetto sensibile. Lo stimolo, come tale, dipende da condizioni assolute e differenziali, che vietano radicalmente che si possa parlare di copia, sia pure in un senso metaforico (III, 83). Quanto alla percezione e all'immagine, esse ci
danno delle forme e delle strutture, secondo leggi che caratterizzano l'attività percettiva e immaginativa e che
implicano sotto un aspetto elaborazione e costruzione (III, 142-145, 154-156).
In tutto ciò, d'altra parte, si tratta solo di forme spaziali e visive. Ma se bisogna, per esempio, conoscere
il vivente, quale copia avremo delle sue attività vitali? Bisognerebbe che noi stessi le vivessimo, tali e
quali come sono effettivamente date nell'«originale», il che, evidentemente, non ha alcun senso.
103 - b) Il conoscere come attività vitale. L'ipotesi della conoscenza-copia non significa dunque nulla di
intelligibile. Abbiamo appena visto che copiare implica necessariamente la conoscenza precedente dell'oggetto copiato. Se si volesse immaginare una copia senza conoscenza precedente dell'oggetto, la copia sarebbe nient'altro che un effetto meccanico, subìto passivamente per l'azione di una cosa su un'altra, cioè escludente ogni idea di conoscenza. Cartesio, che ha voluto fare del conoscere un fenomeno essenzialmente passivo, non ha visto che la sua teoria implicava la materialità assoluta del soggetto e rendeva impossibile la conoscenza stessa (113).
Conoscenza significa dunque essenzialmente l'esercizio di un'attività vitale, mediante la quale il conoscente
prende possesso dell'oggetto e lo assimila, in qualche modo, alla sua propria sostanza, assimilandosi esso
stesso all'oggetto. Questa assimilazione è veramente una con-nascenza (l'Autore gioca sul termine francese,
scritto da Lui così «connaissance» - N. d. T.), la nascita dell'oggetto a un'altra forma di esistenza, la nascita
del soggetto a una forma d'essere diversa dalla sua in quanto soggetto. Duplice divenire, che ha in realtà un
solo effetto: il conoscere in atto, e che costituisce un solo principio dell'atto di conoscere ( 114). Siamo ben oltre tutto ciò che potrebbe significare, rappresentativamente, la copia più esatta, in quanto la conoscenza, così
intesa, suppone la più intima unità possibile della cosa e del pensiero.
104 - 2. I DUE MODI DI ESISTENZA - Per comprendere la natura di questa unità, bisogna partire dalla
distinzione dei due modi di esistere della cosa. Quest'ultima può esistere su due piani differenti: in se stessa,
come realtà di natura (secundum esse naturae) e nel conoscente come realtà intenzionale (secundum esse intentionale). Questi due modi sono evidentemente differenti, poiché la cosa è singola e concreta, mentre, nell'intelligenza, essa è astratta e universale. Tuttavia essa esercita qui come là la medesima esistenza, sebbene
sotto modi distinti, senza che questa differenza di modo implichi (di diritto almeno) alcuna deformazione.
Infatti la relazione della cosa all'intelligenza è una relazione di ragione che non può produrre alcuna modifica
nella cosa stessa. Vengono solo modificate le sue condizioni di esistenza, e non la sua natura o essenza, che è
singolare nella realtà e universale nello spirito, ma sia qui che là realmente la stessa natura e la stessa essenza
(115).
Ne consegue che nell'atto di conoscenza, il concetto oggettivo, cioè la cosa stessa in quanto conosciuta (e
nella misura in cui essa è conosciuta o rappresentata) è identica alla realtà extra-mentale. Secondo la formula di Aristotele, intellectus in actu est intellectum in actu.
J. Maritain (Les degrés du savoir, Parigi, 1932, p. 219) osserva molto giustamente che la formula «divenire
altro in quanto altro» definisce realmente la conoscenza, ma in ciò che la caratterizza in quanto umana. Poiché il conoscere non è per essenza volto verso l'altro; l'Angelo conosce se stesso prima di conoscere le cose;
Dio non conosce che sé e conosce nella sua essenza infinita tutto ciò che è o può essere. Una definizione della conoscenza dovrebbe, per abbracciare tutte le forme del conoscere, prendere la seguente forma: «Conoscere è essere o divenire una cosa - se stesso o gli altri - diversamente che in virtù dell'esistenza attuante un soggetto».
B. LA VERITÀ
105 - Da quanto precede, siamo stati introdotti a una nozione della verità più intelligibile dell'operazione
meccanica sostenuta dall'empirismo. La verità è, secondo la formula di san Tommaso, una conformità tra
l'intelligenza e la cosa (adaequatio rei et intellectus). Dobbiamo ora afferrare bene il senso di questa formula.
1. L'ADEGUAZIONE FORMALE - È subito chiaro anzitutto che bisogna evitare di intendere materialmente il termine adeguazione, poiché ciò significherebbe ritornare alla teoria della copia, che abbiamo già
scartata. È piuttosto con l'idea di corrispondenza o di proporzione (secundum proportionalitatem: san Tommaso, IV. Sent., d. 49, q. 2, a. 1, ad 7) che viene espresso con più esattezza il senso della relazione di conformità dell'intelligenza alla cosa. Infatti, ciò che l'intelligenza enuncia della cosa, mediante il giudizio, corrisponde a ciò che la cosa è in se stessa (116). Propriamente in questa corrispondenza risiede la verità, che è,
dice san Tommaso, «conformità dello spirito con l'essere, secondo che dice essere ciò che è e non essere ciò
che non è» (In Metaph. IV, lect. 8, Pirotta, n. 651).
2. IL RAPPORTO ALL'ESISTENZA - La verità significa dunque essenzialmente un rapporto all'esistenza.
Verum sequitur esse verum. Abbiamo visto, infatti, che l'unità dell'intelligenza e della cosa, nell'atto di conoscere, si fonda sul fatto che la cosa esercita proprio la stessa esistenza, lo stesso «esse», sebbene sotto modi
differenti, nella natura e nello spirito. Ne segue immediatamente che, perché lo spirito sia vero, è necessario
che il modo in cui esso afferma questa o quella relazione della cosa all'esistenza corrisponda al modo in cui
la cosa esercita in atto l'esistenza (reale o possibile). Se io enuncio che «Pietro è sapiente», il mio giudizio è
vero nella misura in cui l'esse sapientem è esercitato da Pietro, realtà ontologica (III, 437).
Ecco perché san Tommaso afferma che la verità ha il suo fondamento nell'esse rei più che nella quiddità,
col che vuol dire che la verità risiede propriamente nel giudizio, perché è nell'atto di giudicare che lo spirito
non solo diviene conforme alla cosa per una specie di assimilazione vitale a quest'ultima, ma conosce anche,
almeno implicitamente (in actu exercito), la propria conformità al reale (117).
106 - 3. LA DIVISIONE E LA COMPOSIZIONE - L'idea di corrispondenza viene imposta dallo stesso
processo del giudizio, che è essenzialmente una composizione o sintesi di concetti, preparata da una divisione o analisi della realtà. Il lavoro intellettuale che condiziona l'elaborazione dei nostri giudizi è, se si vuole,
una specie di spezzettamento, come si esprime Bergson, che parte da questa osservazione per contestare il
valore ontologico dell'intelligenza concettuale. Questa frammentazione tuttavia, questo lavoro di disgiunzione, di analisi e di confronto, è solo una preparazione del giudizio, resa necessaria sia dalla debolezza di penetrazione della nostra intelligenza, sia dalla complessità del reale. Nell'atto di giudicare, mediante il quale essa si pronuncia sull'essere delle cose, l'intelligenza afferma essenzialmente che due concetti (o due essenze),
distinti in quanto oggetti di pensiero, si identificano di fatto nell' esistenza (reale o possibile), col che si vuol
dire che lo spezzettamento (o la divisione) concerne solo il modo di esistenza concettuale della cosa e viene
in certo modo annullato dalla composizione del giudizio, che pone e afferma l'unità esistenziale (Subiectum
et praedicatum sunt idem re seu subiecto, diversa ratione) (118).
E quanto non comprendono i nominalisti che, fin dall'antichità greca, riprendono immancabilmente la
stessa obiezione. Come si può affermare, essi dicono, che «Socrate è filosofo», senza con ciò significare
che Socrate è diverso da Socrate? Invero l'intelligenza qui afferma solo che l'oggetto di pensiero «Socrate», distinto, come tale, dall'oggetto di pensiero «filosofo», si identificano di fatto nella realtà; è il medesimo ente che è Socrate ed è filosofo. Che la divisione di ciò che è medesimo in «Socrate» e in «filosofo»
non sia falsa e non alteri la realtà ontologica, risulta dal fatto che quanto vien così diviso comporta veramente questi diversi aspetti ontologici, sebbene assunti da un unico esse, o esercitati da un unico soggetto,
che è, come tale, esso appunto l'oggetto del giudizio. Quest'ultimo restituisce così all'oggetto l'unità che
l'apprensione astratta e concettuale avevano sciolta, non per sopprimerla, ma al contrario per comprenderla e per porla in atto. In questo senso il giudizio è compimento della conoscenza, preparata a sua volta
dalla semplice apprensione delle essenze (119).
§ 2 - La relazione del pensiero all'essere
107 - La relazione che la conoscenza stabilisce tra la cosa e il pensiero non implica, abbiamo detto, nulla di
nuovo nella cosa conosciuta; questa non viene modificata in alcun modo. Per contro, dal lato dell'intelligenza
che conosce, la relazione di conoscenza crea una realtà nuova: l'oggetto formale o intelligibile, mediante il
quale la cosa diviene presente al conoscente o addirittura diviene il conoscente come tale (Cognitum in actu
et cognoscens in actu sunt idem). Quale sia il rapporto all'essere (o «cosa») di questa realtà entitativa stessa,
vale a dire del concetto in quanto oggetto formale, è quello che ora ci domandiamo.
A. LA DETERMINAZIONE DELL'INTELLIGENZA
1. L'IMPRESSIONE RAPPRESENTATIVA - L'unione del conoscente e del conosciuto non è evidentemente una unione secondo l'essere di natura; è, abbiamo detto, un'unione secondo un modo intenzionale. Il
conosciuto è intenzionalmente presente al conoscente; quest'ultimo diviene intenzionalmente il conosciuto.
Lo strumento di questa unione è la forma intenzionale o intenzione, che gli Scolastici chiamavano col nome
di specie (species) o di similitudine (similitudo). Abbiamo già esposto in Psicologia (III, 128-132, 421422) il senso di questa nozione e le differenti qualità di species che conviene distinguere nell'analisi del conoscere, sia sensibile che intellettuale. Qui dobbiamo solo osservare, partendo da queste analisi propriamente
psicologiche, che la conoscenza è rigorosamente inconcepibile senza una determinazione soggettiva o impressione rappresentativa (species impressa) specificante la facoltà conoscente come quella che deve conoscere quella determinata cosa. In altri termini, l'intelligenza umana, sotto questo aspetto, è una potenza passiva. Ciò dipende dal suo rapporto all'essere universale: l'intelligenza è in potenza rispetto a tutti gli intelligibili, ma non è in atto alcuno rispetto a questi stessi intelligibili; in origine essa è, riguardo ad essi, secondo
l'espressione di Aristotele, come una tavoletta sulla quale non c'è scritto nulla (tabula rasa). Di conseguenza,
l'intelligenza conosce questo o quello solo per effetto di una determinazione che la fa conoscente in atto, o,
più esattamente, capace di conoscere in atto questo o quell'intelligibile. È la species impressa (astratta dall'intelletto attivo) che compie la funzione di determinante conoscitivo (san Tommaso, Summa Theol. Ia, q. 79, a.
2).
108 - 2. IL CONCETTO - Gli empiristi hanno visto nella conoscenza solo la necessità di questa determinazione interna dell'intelligenza. Tutto ciò che sopravviene d'ulteriore a questa pura determinazione soggettiva, sembra loro suscettibile di alterare o di viziare il conoscere. Donde la loro opposizione a ogni conoscenza
concettuale. Essi errano tuttavia profondamente nell'immaginare che la conoscenza possa compiersi nell'impressione rappresentativa. In realtà, a questo livello, la conoscenza non esiste ancora; solo vengono create le
condizioni del conoscere, cioè la presenza intenzionale della cosa al soggetto capace di conoscere. Ma ciò
non basta, bisogna ancora che questo soggetto si impadronisca attivamente di questa forma stessa e che esprima a se stesso (o divenga in atto secondo) ciò che esso è intenzionalmente divenuto in atto primo mediante l'impressione rappresentativa (o specie impressa). Frutto di questa espressione o assimilazione attiva
(species expressa) è l'idea o verbo mentale (o anche concetto).
Così, come espone san Tommaso, la cosa conosciuta e il conoscente costituiscono veramente insieme un
unico agente del conoscere (De Veritate, q. 8, a. 6), e sono sia l'uno come l'altra necessari per spiegare la conoscenza. Pretendere di dar ragione di quest'ultima, come fanno gli empiristi, con la pura determinazione
soggettiva, cioè col solo oggetto, è evidentemente, come abbiamo visto, concepirla secondo un modello
meccanico e tentare di far a meno dell'intelligenza. L'idealismo, come vedremo più innanzi, non ha miglior
riuscita nel voler spiegare tutto col solo soggetto, in quanto allora la specificazione di quest'ultimo, in quanto
conoscente, diviene un mistero impenetrabile.
B. IL SEGNO FORMALE
109 - 1. IL CONCETTO COME SEGNO FORMALE - Il concetto è un segno formale, vale a dire (a differenza del segno strumentale che, conosciuto per primo, fa conoscere una cosa diversa: così il fumo fa conoscere il fuoco), un segno la cui completa essenza sta nel significare e si esaurisce in questa significazione.
Ne consegue che esso può essere conosciuto in se stesso, come realtà entitativa, solo per un atto di riflessione. Direttamente e primieramente, esso ha un valore intenzionale e ci dà la cosa stessa che esso significa. Per
essere conosciuto mediante riflessione, esso suppone ancora la formazione di un altro concetto, mediante il
quale esso venga colto come realtà entitativa o come oggetto. Ne deriva che, se il concetto fosse l'oggetto diretto del pensiero, non solo tutte le scienze sarebbero scienze del soggetto e confluirebbero nella psicologia,
ma anche che l'intelligenza mai potrebbe cogliere il concetto come similitudine oggettiva, poiché esso si raddoppierebbe indefinitamente in nuovi concetti.
2. L'IMMANENZA DEL CONOSCERE
È chiaro ora come la conoscenza sia un'operazione immanente, cioè che si compie nel conoscente stesso
come perfezione sua propria. È nel pensiero, in quanto esprimente l'idea o concetto (verbo mentale), che
l'oggetto viene raggiunto e conosciuto. Tuttavia, questo oggetto, termine immanente del conoscere, costituisce realmente un termine solo con la cosa extra-mentale: l'oggetto conosciuto e la cosa sono la stessa realtà,
esercitante l'esistenza sotto due modi differenti: nell'intelligenza, sotto forma immateriale e universale; nella
natura, sotto forma concreta e singola. La cosa non è nel concetto, propriamente parlando; ma il concetto, in
quanto natura intelligibile, è la stessa natura attuata dalla cosa fuori dello spirito. L'atto di intellezione, terminandosi nel concetto, si termina così nella cosa stessa sotto la condizione astratta e immateriale della concettualità. Se il concetto, come termine dell'intellezione, è conosciuto necessariamente nello stesso tempo
che la cosa da esso significata, è conosciuto solo come termine significante, in quanto è in esso e per esso
che l'intellezione si compie (120).
110 - 3. GLI ERRORI DEL CONOSCERE - La nostra dottrina, diversamente dalla teoria della veritàcopia, lascia comprendere la possibilità dell'errore, all'infuori di quei casi (apprensione delle «nature semplici» o non complesse e dei primi princìpi) in cui l'intelligenza si esercita necessariamente con un'infallibilità
assoluta: allora la conoscenza è vera oppure non c'è conoscenza affatto. (S. Tommaso, De Anima, III, lect.
11, n. 763). Quando si tratta, invece, di nature complesse (definizioni), l'intelligenza, muovendo dalle impressioni rappresentative (species impressae), deve formare attivamente tutta una varietà di concetti che esprimeranno gli aspetti multiformi dell'essere intelligibile, mediante analisi, confronti, classificazioni, ragionamenti e inferenze (componenti ciò che san Tommaso chiama la divisio), che comportano evidentemente un
largo margine di errori possibili nella formazione dei concetti, e quindi nell'enunciato dei giudizi.
a) L'errore al livello della semplice apprensione. Nella formazione dei concetti, l'errore può introdursi per
accidens, come effetto di una sintesi errata. Ciò avviene in due modi, sia allorché una definizione (enunciante una essenza vera) è enunciata falsamente di una cosa alla quale essa non conviene (quando, per es., si dà
per il triangolo la definizione del cerchio), sia allorché gli elementi della definizione si escludono a vicenda
(quando, per es., si attribuisce la sensibilità alla pietra). Non possediamo un'intuizione immediata delle essenze, perciò si rende necessario un lavoro di approssimazione più o meno faticosa, che si serve di procedimenti (analogia, negazione, simbolizzazione, ecc.) che aprono una possibilità all'errore. Per di più, è un fatto che il nostro sapere intelligibile trae alimento da se stesso quanto dalla realtà, e che i nuovi concetti che
l'avanzamento del sapere obbliga a formare, si formano spesso in funzione dei concetti già posseduti e corrispondono solo in maniera imperfetta alle essenze oggettive, nella loro realtà extra-mentale (S. Tommaso, De
Anima, III, lect. 11, n. 760-763).
b) L'errore al livello del giudizio. Quanto agli enunciati del giudizio, nei quali solamente possono riscontrarsi propriamente la verità e l'errore, quest'ultimo, dato che il giudizio è una sintesi, dipende sempre dal fatto che l'intelligenza separa ciò che è unito o unisce ciò che è separato nell'essere. L'errore, in questo caso,
come la verità, è sempre relativo all'esse, in quanto esso afferma come date nell'esistenza (reale o possibile)
realtà che non sono date o che non lo possono essere (S. Tommaso, De Anima, III, lect. 11, n. 743).
È evidente così che tanto la verità quanto la falsità del conoscere si possono intendere solo per l'attività
propria dell'intelligenza (121) .
CAPITOLO TERZO
LE CAUSE OGGETTIVE DELLA CERTEZZA
SOMMARIO (122)
Art. I - L'IDEALISMO. L'idealismo formale di Kant - Il contesto storico del kantismo - Le forme a priori I problemi del kantismo - L'idealismo nel XIX secolo - Il problema del reale - Il nuovo averroismo - Il neocriticismo - La fenomenologia - Il metodo fenomenologico - La dottrina - Realismo o idealismo? - L'esistenzialismo - Il neorealismo - La reazione anti-idealistica - Il neorealismo anglosassone.
Art. II - LA CAUSALITÀ DELL'OGGETTO. I princìpi del realismo - L'immanenza della conoscenza Cosa e oggetto - Lo pseudo-problema della cosa in sé - L'idea è reale - Il giudizio, i principi e la scienza Conclusione - Realismo e idealismo - La partecipazione alla luce divina - L'attività dell'intelligenza - L'universalità della conoscenza - L'intuizione dell'essere.
111 - Abbiamo stabilito, contro il nominalismo empiristico che la certezza della conoscenza non può spiegarsi senza l'attività propria del soggetto conoscente. Questa, lungi dal compromettere l'oggettività del conoscere, ne è la garanzia necessaria, in quanto essa è essenzialmente una assimilazione vitale dell'oggetto da
parte del soggetto e implica, a questo titolo, l'unità dell'intelligenza e dell'intelligibile. Ciò non significa tuttavia per nulla che la conoscenza possa spiegarsi adeguatamente mediante la pura attività dello spirito. Si dà
ragione in maniera intelligibile dell'attività conoscitiva e si dà un vero fondamento alla certezza, solo se si
riconosce nello stesso tempo, con la funzione del soggetto, la funzione attiva dell'oggetto. Ne daremo ora la
dimostrazione discutendo le diverse teorie idealistiche, attribuenti valore alla conoscenza solo nella misura in
cui essa può essere spiegata integralmente con la sola causalità dello spirito.
Art. I - L'idealismo
112 - Abbiamo distinto in Psicologia (III, 428-432) tre tipi di idealismo: l'idealismo problematico di Cartesio, l'idealismo formale di Kant e l'idealismo dogmatico dei post-kantiani. Sotto queste tre forme, l'idealismo stesso, come abbiamo constatato (37-40), non è che un tentativo per risolvere i problemi derivanti dal
nominalismo. Per una dottrina che neghi il valore ontologico dei concetti universali, non c'è infatti altra soluzione, una volta scartato l'empirismo, che tentare di spiegare le idee mediante la pura attività soggettiva del
conoscente.
Noi abbiamo già studiato questa concezione in Cartesio e abbiamo mostrato quali problemi essa poneva,
senza risolverli, riguardo al valore oggettivo della conoscenza (problema del mondo esterno), riguardo alla
natura dell'essere (problema della («comunicazione delle sostanze»), infine riguardo al fondamento della certezza (problema della verità). Ci resta da esaminare in qual modo Kant e i suoi successori abbiano tentato di
risolvere, dal punto di vista dell'idealismo, le difficoltà derivate dal cartesianesimo.
§ 1 - L'idealismo formale di Kant
A. IL CONTESTO STORICO DEL KANTISMO
113 - Storicamente, l'opera di Kant si presenta come un tentativo di soluzione dei problemi posti dall'empirismo fenomenistico di Hume. Questi problemi sono quelli stessi che formano il problema critico nato dalla
dottrina cartesiana: problemi del mondo esterno, dell'ordine dell'universo, della verità. Il cartesianesimo aveva fallito nel cercare di dare ad essi una soluzione soddisfacente (123). Hume tentò una via nuova, più psicologica, ricorrendo all'associazione, come principio di una spiegazione generale, capace di dar ragione sia della realtà che dell'ordine dell'universo.
1. CRITICA DELL'ASSOCIAZIONISMO - Kant giudica questa spiegazione radicalmente inadeguata.
L'universo, in quanto sistema ordinato di fenomeni, come è dato nella rappresentazione, non può assolutamente venire spiegato dal semplice gioco della coesistenza e della successione dei fenomeni. Coesistenza e
successione implicano una necessità determinata nelle cose solo quando gli oggetti della percezione sono legati tra loro da relazioni di natura intelligibile. Ce ne si convincerà considerando che il rapporto di un oggetto
all'altro, per es. di A e B, poco importa se di coesistenza o di successione, può sempre essere invertito reciprocamente, mentre al contrario sarebbe impossibile tale reciproca inversione se si trattasse di un rapporto di
causa a effetto o di sostanza ad accidente. Bisogna dunque convenire che gli oggetti, se li pensiamo nel loro
essere o nella loro costituzione interna, sono dei fasci di qualità di natura affatto diversa da quelli che può
produrre l'associazione psicologica. Proprio per questo motivo, allo stesso modo come non sono nati per un'associazione, così un'associazione differente o contraria non potrà mai distruggerli né, per conseguenza,
potrà modificare in qualsiasi maniera l'organismo oggettivo dell'intelletto (Critica della ragion pura). Avvertito dal fallimento di Hume, Kant si orienterà in un'altra direzione, quella delle forme a priori della sensibilità e dell'intelletto. Ma bisogna tener per fermo che si tratta per lui solo di legalizzare in certo modo il nominalismo, risolvendo in maniera intelligibile i problemi ch'esso pone alla speculazione.
114 - 2. IL POSTULATO NOMINALISTICO - Kant è integralmente nominalista. Il concetto, egli dice,
non deriva in alcun modo dall'esperienza (124); esso è assolutamente a priori. Infatti, un'astrazione operata
nel sensibile non può darci concetti che oltrepassino il livello della conoscenza sensibile, poiché, per quanto
spinta possa essere l'astrazione, essi rimangono sempre dei concetti empirici o sensibili (o immagini) (125).
La petizione di principio è evidente. Essa consiste nel negare la possibilità dell'astrazione metafisica (o intuizione intellettuale) per la sola ragione che l'astrazione operata sul sensibile darebbe sempre nient'altro
che ciò che è sensibile, cioè sarebbe sempre un semplice processo di generalizzazione delle immagini fornite
dall'esperienza sensibile, e proprio in ciò sta il problema! (III, 415). L'intera critica kantiana riposa su questa petizione di principio, e la sua divisione in giudizi analitici e sintetici a priori non ne è che uno degli aspetti (I, 59; III, 483).
Nel suo punto di partenza Kant è dunque, come dichiara egli stesso (Critica della ragion pura, Logica trascendentale, § 13, nota della 28, ediz.), perfettamente d'accordo con Hume, il quale ha ben veduto che i concetti metafisici sono a priori. Il punto debole del sistema di Hume è stato di non aver compreso che questi
concetti a priori sono forme o strutture soggettive dell'intelletto. Così egli viene a smentire in certo modo la
scoperta capitale dell'apriorità dei concetti puri, allorché tenta di farli derivare dall'esperienza mediante il
gioco delle leggi d'associazione.
B. LE FORME A PRIORI
115 - Secondo Kant, il problema della conoscenza è dunque stato formulato chiaramente dagli empiristi,
ma da essi risolto assai male. Locke favorisce le stravaganze della ragion pura (126). Hume sfocia nello scetticismo. Tra i due, esiste una via di mezzo, consistente nell'ammettere che le categorie sono delle semplici
forme del pensiero. Con questa ipotesi e con essa sola verrà risolto il duplice problema dell'esistenza (o del
mondo esterno) e dell'ordine (o dell'unità complessa del reale), che è nello stesso tempo il problema della
scienza.
1. LA REALTÀ OGGETTIVA DELL'UNIVERSO - È del tutto impossibile, dichiara Kant, dubitare della
realtà delle cose. Kant è categorico al massimo su questo punto e propone le sue osservazioni come una
«confutazione dell'idealismo» (Critica della ragion pura. Analitica trascendentale, 1. II, cap. II, 78. sezione,
n. 4). Infatti, egli dice, la semplice coscienza della mia esistenza è nello stesso tempo coscienza immediata
dell'esistenza di altre cose fuori di me. La mia esperienza interna è una esperienza di determinazione nel
tempo (che è quanto dire che la successione delle mie rappresentazioni è determinata). Ora, questa determinazione implica qualche cosa di permanente, esistente fuori di me, in quanto l'esperienza interna pura (definita dal cogito) mi darebbe la mia esistenza, ma non le sue determinazioni nel tempo (cioè l'esperienza). La
mia esperienza interna può dunque spiegarsi solo mediante la percezione di cose esterne a me.
Riguardo a questo argomento, Kant aggiunge le osservazioni seguenti: «Si noterà nella prova precedente
che il gioco dell'idealismo viene rivolto contro questo sistema. Esso ammetteva che la sola esperienza immediata sia l'esperienza interna e che da essa ci si limiti a concludere all'esistenza delle cose esterne, ma che
qui, come in tutti i casi in cui si conclude da dati effetti a determinate cause, la conclusione è incerta, perché
la causa delle rappresentazioni può anche essere in noi stessi, e noi forse le attribuiamo falsamente a delle
cose esterne. Ora qui è dimostrato che l'esperienza esterna è propriamente immediata e che solo mediante
questa esperienza è possibile non la coscienza, è vero, della nostra propria esistenza, ma la determinazione di
questa esistenza nel tempo, cioè l'esperienza interna».
Non c'è dunque, per Kant, dimostrazione della realtà del mondo esterno, ma solo dell'immediatezza della
percezione del mondo esterno. Il mondo esterno non si dimostra, si percepisce. L'atteggiamento critico consiste qui semplicemente nell'assumere una coscienza riflessa del carattere immediato della nostra esperienza
del mondo esterno. Kant collega questo problema a quello della distinzione dell'immagine e della percezione.
«E’ chiaro, egli scrive, che, anche perché noi possiamo immaginarci qualche cosa come esterna, bisogna che
abbiamo già un senso esterno, e che così noi distinguiamo immediatamente la semplice recettività di una intuizione esterna dalla spontaneità che caratterizza ogni immaginazione» (III, 180).
116 - 2. L'ORDINE DELL'UNIVERSO - L'universo che io percepisco è un universo ordinato, sottomesso
alla giurisdizione delle intuizioni di spazio e tempo e delle categorie della ragion pura (127). Ora queste categorie, grazie alle quali l'universo forma un sistema e un sistema di sistemi, non possono in alcun modo, dichiara Kant (postulato nominalistico), provenire dall'esperienza, che ci offre solo puri fenomeni singoli e
contingenti, e mai ciò che è assoluto e necessario. Sono dunque dei concetti puri, cioè a priori, dell'intelletto,
risultanti dalla funzione logica di quest'ultimo, o, in altri termini, dalla nostra struttura mentale. Questi concetti ci servono per organizzare il dato fenomenico e per costruire la scienza. La natura, cioè l'universo in
quanto organizzazione intelligibile, è dunque un prodotto dello spirito (128). Questa è la dottrina che Kant ha
definita come idealismo formale (o trascendentale).
Kant dà come prova (che egli giudica assolutamente decisiva (129) di questa dottrina i giudizi da lui detti
sintetici a priori, cioè i giudizi nei quali il predicato aggiunge alcunché alla nozione del soggetto (attua
una sintesi), ma in una maniera puramente a priori. Kant offre come esempi: «tutto ciò che comincia ad
essere ha una causa»; «tra due punti, la linea retta è la più breve»; 7 + 5 = 12». In questi giudizi, dice
Kant, non è l'intuizione che rende possibile la sintesi del soggetto e del predicato, poiché l'esperienza è
sempre singolare, mentre questi giudizi sono universali e necessari. Bisogna concludere che essi sono effetto della nostra struttura mentale.
Abbiamo mostrato in logica (I, 59) che non ci sono giudizi sintetici a priori. L'errore di Kant sta nel limitare il giudizio analitico al primo modo di attribuzione per sé (I, 45), in cui il predicato forma sia l'essenza
(l'uomo è un animale ragionevole), sia una parte dell'essenza (l'uomo è un essere ragionevole) del soggetto.
Ora i giudizi nei quali il predicato è una proprietà del soggetto devono anch'essi essere ritenuti come analitici, nel senso che queste proprietà implicano necessariamente il loro soggetto (secondo modo di attribuzione
per sé). Così se non si può trarre la nozione di «essere causato» dalla nozione «ciò che comincia ad essere»,
né la nozione di 12 da quella di 7 + 5, vuol dire che le nozioni di «essere causato» e di 12 sono proprietà essenziali di «ciò che comincia ad essere» e di 7 + 5, il che significa che queste nozioni sono collegate tra loro
in maniera necessaria e il loro legame è percepito proprio in virtù delle esigenze dell'oggetto (130).
C. IL PROBLEMA DEL KANTISMO
117 - Kant, come Cartesio, ci ha lasciato in eredità un numero maggiore di questioni in sospeso che di problemi risolti, o, più esattamente, le sue soluzioni comportavano tali difficoltà che è stato impossibile attenervisi. Questa constatazione è avallata dai tre punti essenziali che costituiscono il problema critico moderno:
problema del mondo esterno (divenuto con Kant il problema della «cosa in sé»), problema dell'ordine del
mondo (divenuto con Kant il problema della natura e della scienza), problema della verità e della sua giustificazione trascendentale.
1. PROBLEMA DELLA «COSA IN SÉ»
a) Fenomeni e noumeni. La teoria delle forme a priori conduce ad ammettere che il reale è costituito da due
gruppi distinti e separati di realtà: i fenomeni, oggetti di esperienza sensibile (sensazioni) e i noumeni o cose
in sé, misterioso aldilà dell'esperienza, substrato sconosciuto e inconoscibile in se stesso del flusso fenomenico. Chiamandole noumeni (νούμενον = ciò che è oggetto di νόησις = intuizione intellettuale), Kant non
vuol dire che queste cose in sé siano realmente date all'intelligenza, ma solo che esse si presentano (senza
prova) come oggetti di intuizione intellettuale. Invero nulla permette di affermare legittimamente ciò che è
metafisico: l'esperienza, per definizione, non ce ne fa conoscere nulla; e così pure il ragionamento, poiché
tutti i princìpi della nostra ragione, essendo condizionati dall'esperienza, sono validi solo nel dominio dell'esperienza sensibile.
Questa concezione della «cosa in sé» è una conseguenza naturale del nominalismo empiristico, che può
pensare solo con la categoria di cosa, come abbiamo constatato più volte; ogni distinzione è reale, come tra
cosa e cosa. san Tommaso osservava che i peggiori errori in filosofia consistono nel prendere le forme (princìpi o aspetti del reale) per cose (131). come sempre fanno il nominalismo e il fenomenismo o l'idealismo che
ne derivano. Queste dottrine ci danno l'esempio di due tipi di «cosismo» integrale; senza tener conto che la
loro teoria dell'idea-copia o dell'immagine-copia non è che una materializzazione pura e semplice della coscienza.
118 - b) L'irrazionalità della «cosa in sé». La posizione kantiana non poteva essere mantenuta, e per due
ragioni. Da una parte, essa era contraddittoria, poiché, come osserva Jacobi (Werke, 6 voll., Lipsia, 1812-25,
II, p. 303), la «cosa in sé» è nello stesso tempo necessaria al sistema (in quanto idealismo semplicemente
formale o trascendentale), e inconoscibile perfino quanto alla sua esistenza. Dall'altra, fenomeni e cose in sé
sono separati, così che questa «cosa in sé» necessaria e inconcepibile ripete esattamente l'assurda sostanzasubstrato dell'empirismo. Queste sono le difficoltà che ricorrono lungo tutta la speculazione del XIX secolo
(ad eccezione di qualche pensatore isolato, come Maine De Biran, Ravaisson, Cournot) ( 132). Di questa «cosa
in sé», che il kantismo lasciava sussistere davanti all'intelletto come un dato irrazionale, si tratta ormai di non
tener assolutamente conto, non potendosi esorcizzarla o spiegarne la genesi paradossale. Gli uni, idealisti puri, la elimineranno del tutto: l'idealismo formale di Kant si trasforma, con Fichte, Schelling, Hegel, in conformità alla logica del fenomenismo, in un idealismo radicale. Kant, suo malgrado, ha portato acqua al mulino idealista (133). Altri pensatori, diffidando delle speculazioni astruse degli idealisti, stimeranno assai più
semplice astrarre completamente dal problema metafisico e limitare l'ambizione della filosofia ad essere
nient'altro che una riflessione sulla scienza.
119 - 2. PROBLEMA DELL'ORDINE - Kant si era lusingato di spiegare il successo della scienza; ma
il suo sistema non riusciva a spiegarne i fallimenti, e nemmeno i brancolamenti e le approssimazioni. Se
invero siamo noi ad introdurre nei fenomeni l'ordine e la regolarità che costituiscono ciò che chiamiamo
natura, è difficile comprendere come questa natura ci resista fino a tal punto e come ci rimangano gelosamente preclusi i suoi segreti. L'ipotesi delle forme a priori mal si adatta al fatto che sempre si ripete
delle approssimazioni e degli errori della scienza. Ma, ancor più, non si comprende come si accordino fino a tal punto nel loro. gioco le due sorgenti separate della rappresentazione, ossia le forme a priori della sensibilità e quelle dell'intelletto. Kant postula questo accordo senza darne la ragione, così che la giustificazione della scienza (cioè, in questo caso, della natura o dell'ordine dell'universo), lungi dall'avere il
carattere trascendentale che Kant si proponeva di conferirle, è solamente empirica e arbitraria.
L'argomento di Kant è che deve esistere accordo tra la sensibilità e l'intelletto, benché essi siano «due sorgenti del tutto differenti di rappresentazioni» (Critica della ragion pura, Analitica trascendentale, c. III, Appendice), poiché, senza armonia, il pensiero non sarebbe possibile, non avendo più alcun oggetto. C'è qui un
evidente circolo vizioso: l'accordo tra sensibilità e intelletto, di cui il sistema deve mostrare la necessità di
diritto, è giustificato dal sistema critico stesso.
3. PROBLEMA DELLA VERITÀ
120 - a) Un nuovo tipo di certezza. Kant rimproverava a Hume e, in generale, all'empirismo fenomenistico,
di condurre allo scetticismo; questo è un rimprovero fondato. Nominalismo e scetticismo sono, storicamente
e logicamente, congiunti; ne abbiamo fatto or ora la constatazione. Infatti le sostanze, le nature e le essenze,
in quanto compenetrate di un'intenzione di universalità, le forme, i generi e le specie, i princìpi universali, in
breve, tutti gli aspetti dell'essere attinti dall'esperienza sensibile, vengono considerati solo come prodotti dell'immaginazione ontologica. Unicamente gli attributi, qualità o fenomeni, che formano, da soli, tutto l'universo (134), sussistono come conoscibili e reali. Poiché, d'altra parte, non ci si poteva accontentare di questa concezione atomistica, i fenomeni stessi, sprovvisti, se così si può dire, di coesione metafisica, vengono abbandonati al gioco delle forze meccaniche, che hanno il compito di spiegare i loro collegamenti accidentali. In
altri termini, è proprio il caso che diviene principio universale dell'ordine; così il nominalismo sfocia in pieno scetticismo. È quanto constata Kant, dopo Cartesio. La mirabile originalità di questi due grandi pensatori
è consistita nel rifiuto di accontentarsi di uno scetticismo infecondo, e contrario d'altronde alle tendenze più
profonde della nostra natura razionale: sia l'uno che l'altro, partendo dal nominalismo (e di conseguenza dallo
scetticismo stesso), tentarono, per vie diverse, di erigere sulle rovine del realismo intellettuali sta una nuova
forma di certezza e un nuovo tipo di scienza.
b) Ritorno allo scetticismo. Bisogna ora vedere se ci siano riusciti. Per quanto riguarda il cartesianesimo,
abbiamo già accertato l'esito negativo del tentativo da esso compiuto. Il criticismo kantiano non può pretendere a un successo maggiore. Da una parte, infatti, la giustificazione trascendentale della scienza non è che
una lusinga, in quanto essa viene ridotta, come abbiamo appena mostrato, al puro postulato dell'accordo
della sensibilità e dell'intelletto. Per di più, il capovolgimento operato dalla Critica della ragion pratica, col
postulare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima come condizioni assolute del dovere, non può essere
considerato come una giustificazione autentica delle asserzioni metafisiche, in quanto il procedimento, così
come viene concepito da Kant, rimane irrazionale e costituisce un processo analogo a quello della fede (135).
Infine, Kant non giunge ad eliminare lo scetticismo, poiché non perviene a dare un contenuto oggettivo alla
verità. L'idealismo formale, nonostante le illusioni di Kant, non si presenta come un progresso reale sul fenomenismo di Hume. Se infatti il reale, nella sua essenza, necessariamente ci sfugge, se tutte le nostre affermazioni d'ordine metafisico sono necessariamente sofistiche, l'idea di verità diviene illusoria, nella misura in
cui essa significa accordo dello spirito con il reale, perché ormai si tratta tutt'al più d'un accordo del pensiero
con sé stesso, cioè di semplice coerenza formale (I, 102). Di conseguenza, come osserva assai giustamente
Lachièze-Rey, la conoscenza umana perde «l'interesse religioso che essa possedeva anteriormente, quando le
si proponeva come scopo di risolvere l'enigma e di penetrare il mistero; l'uomo sa che ritroverà solo se stesso
in atto d'esprimersi in modi diversi», che egli apprenderà nient'altro che il grado della propria abilità pratica,
e questo ideale non potrà bastargli (136).
§ 2 - L'idealismo del XIX secolo
121 - L'idealismo, dopo Kant, diviene idealismo dogmatico, nel senso che le dottrine, assai diverse per
forma ed ispirazione, che vengono elaborate, si propongono di spiegare in modo adeguato la conoscenza
mediante la pura attività soggettiva dello spirito, senza ricorso alcuno alle «cose», che appaiono ai filosofi,
per il nominalismo ch'essi hanno in comune, come degli irrazionali, che costituiscono un inutile «duplicato»
dell'universo intelligibile, arrestando così il progresso del sapere e rendendo impossibile la certezza (137).
Verso la fine del XIX secolo, si delineano diverse reazioni anti-idealistiche. Il pragmatismo e il bergsonismo,
già da noi studiati, sono presi in parte da una preoccupazione di realismo, ma, per non aver messo in questione il nominalismo, pervengono di fatto solo a un empirismo tanto poco intelligibile quanto l'idealismo dog-
matico che essi respingono. Nello stesso tempo si manifestano altre correnti, in particolare la fenomenologia
di Husserl e il neo-realismo anglosassone, ma sotto forme tali da far dubitare che essi costituiscano veramente, come pretendono, un ritorno al realismo autentico.
122 - 1. IL PROBLEMA DEL REALE - La «cosa in sé» di Kant sembrava decisamente la concezione meno assimilabile. Mai, nella storia della filosofia, il «cosismo» aveva preso una forma così grossolana e opaca
all'intelletto. Nessun pensiero poteva dispiegarsi in questo universo in cui la ragione veniva costantemente a
urtare, se così si può dire, contro il muro dell'inconoscibile. Così ormai viene eliminata la «cosa in sé»; rimane solo da spiegare, da una parte, la presenza dell'universo nella coscienza (la presenza del pensiero pensato
davanti al pensiero pensante), e dall'altra, l'ordine di questo universo. In altri termini, si tratta di ritrovare il
reale. «Bisogna trovare - dice Lachelier, eco in ciò di tutto l'idealismo moderno - un mezzo per rendere il
pensiero reale» (Du fondement de l'Induction, 2a. ed., Parigi, 1896, p. 77). Se si rende ora necessario scoprire
un tale mezzo, causa ne è che il «pensiero pensante» si dispiega in una specie di vuoto ontologico, in un
mondo di puri possibili. Si tratterà dunque di scoprire il processo dialettico che spiegherà, partendo dall'io
puro o dal puro pensiero, la genesi necessaria del mondo degli oggetti, delle coscienze e delle persone. In
altri termini, bisognerà dedurre ciò che Hamelin chiama «l'universo e la sua organizzazione straordinariamente vasta e profonda», o, ciò che è lo stesso, costruire a priori l'oggetto della conoscenza. Tale è il compito che si assumono le dottrine idealistiche, ad orientamento panteistico di Fichte, Schelling ed Hegel.
123 - 2. IL NUOVO AVERROISMO - Le ipotesi possibili, partendo dalle premesse nominalistiche ed idealistiche, non sono in numero indefinito; sono state tutte tentate, all'inizio del XIX secolo, già da lungo tempo. Tuttavia i filosofi tedeschi eredi di Kant pensano di riuscire là dove i loro predecessori hanno fallito. Vediamo ora quanto poco sia giustificata questa pretesa.
a) Fichte. Fichte osserva che ogni giudizio implica necessariamente, come tale, affermazioni dell'io (ciò
che è solo una variante del cogito cartesiano), ma con questa differenza: che 1'«io» in questione non è più
l'io-sostanza o la «cosa che pensa» di Cartesio (eliminata dalla critica kantiana) (138), ma solo la coscienza di
porre un giudizio. L'io si pone dunque affermando. Nello stesso tempo, esso si limita, in quanto pone del
non-io. Per sé, l'io è assoluto e infinito, poiché col giudizio esso pone l'essere, che come tale è illimitato. Ma
l'io si conosce solo mediante la serie indefinita dei giudizi della scienza che, sviluppandosi, costituiscono davanti all'io il non-io (cioè l'universo) e di conseguenza implicano la limitazione dell'io. La limitazione (o coscienza) costituisce così la sintesi o unità dell'affermazione e della negazione, dell'io e del non-io. La coscienza particolare (io fenomenico) è solo l'aspetto finito dell'Io noumenico universale, infinito e impersonale, e le scienze (o la natura) non sono che le manifestazioni di questo lo infinito, che cerca di conoscersi
sempre meglio.
b) Schelling. Schelling afferma che il punto di partenza della deduzione non può essere né il soggetto né
l'oggetto, né l'io, né la natura, ma un assoluto che trascenda l'uno e l'altra. Il torto di Fichte, secondo lui, è di
ammettere ancora nel suo sistema tutto l'irrazionale della dottrina kantiana. ponendo come assoluto uno dei
termini antitetici, cioè l'Io o autocoscienza. La natura, da questo punto di vista, diviene puramente relativa
allo spirito, cioè essa è concepita come oggetto. Di fatto, l'assoluto può essere solo qualcosa che trascenda il
soggetto e l'oggetto e sia indifferente ai due termini antitetici. All'idealismo soggettivo di Fichte, bisogna sostituire un idealismo oggettivo, e dire, non più: «l'Io è tutto», ma: «il Tutto è io», il che significa identità assoluta della Natura e dello Spirito.
c) Hegel. Hegel ritiene che se l'idealismo soggettivo di Fichte e l'idealismo oggettivo di Schelling concludono in maniera differente, cionondimeno procedono ugualmente da un identico dualismo, quello della Natura e dello Spirito. Hegel afferma che la cosa in sé è il Pensiero stesso o l'Idea, che vi è identificazione completa del reale e del razionale, della metafisica e della logica. Mediante la dialettica delle Idee, l'intelletto
riprodurrà l'ordine stesso e lo svolgersi necessario delle cose. Dialettica e Storia sono due aspetti della medesima realtà.
Idea (Essere, Soggetto o Spirito), Natura (o Oggetto), Concetto (o sapere filosofico) sono l'Assoluto stesso,
secondo la sua dialettica interna propria. «La Logica dialettica [è] la presentazione di un soggetto universale, che si riflette, ma che non è esteriore alla sua riflessione, che è costituito semplicemente del movimento
stesso di questa riflessione, movimento ch'è circolare. La sua progressione è il suo proprio fondamento. L'essere (Idea o Soggetto), l'essenza (Natura o Oggetto), il concetto sono le categorie dell'Assoluto o piuttosto
sono l'Assoluto stesso nella sua riflessione su di sé» (139).
3. IL NEO-CRITICISMO
124 - a) La sconfitta della deduzione. Kierkeegaard, criticando l'hegelismo, fa un'osservazione che vale
tanto per Fichte quanto per Schelling: «La logica, egli dice, è eleatica; [...] tanto eleatica che il sistema hegeliano non può, per così dire, levar l'ancora; esso deve, per mettersi in rotta e per rimanervi, fare appello a idee
senza spiegazione, non-logiche, come quelle di passaggio, di negazione (il negativo, «questo mastro Giacomo della filosofia hegeliana»), di mediazione. Il divenire non può venir trattato come una parte della logica.
Esso contiene irriducibili contingenze» (S. Kierkegaard, Begrebet Angest, Copenhagen, 1844; cfr. tr. fr., Le
concept d'angoisse, Parigi, 1935, introd. di J. WAHL, pp. 2-3).
Hegel, è vero, non si scoraggia per queste difficoltà. Lo Spirito, egli dice, nel suo sforzo per conoscere
se stesso, genera successivamente tutte le forme del reale, anzitutto le strutture del suo pensiero, poi la natura e infine la storia. Perciò si deve ritrovare il reale e il contingente senza uscire dal razionale. Sennonché, questa argomentazione ha il torto di supporre risolto il problema; infatti è fin troppo chiaro che essa
non opera alcun passaggio dal concettuale al reale, dall'astratto al concreto. La dialettica, in qualunque
modo ci si appigli ad essa, rimane una costruzione ideale, e se essa sembra porre il reale in virtù delle sole
esigenze logiche, è perché fa costantemente appello (contrariamente al suo principio) all'intuizione del dato contingente, alla pura esperienza sensibile.
b) Renouvier. Il neo-criticismo di Renouvier e di Hamelin non significa (almeno nell'intenzione di questi
pensatori) né un ritorno all'idealismo formale di Kant, né ancor meno una rottura col nominalismo. Al contrario, ciò che essi rimproverano a Kant e ai post-kantiani, particolarmente a Hegel, è piuttosto di non essere
andati fino in fondo alle conseguenze idealistiche derivanti dal principio nominalistico e d'aver conservato,
sotto il fallace pretesto di razionalizzarla, quella «cosa in sé» decisamente opaca all'intelletto. Bisogna costruire un sistema che sia infine integralmente razionale, cioè tale che l'essere sia ridotto al solo concetto che
nulla deve all'immaginazione ontologica: quello di relazione.
L'essere, afferma Renouvier, è dunque solo relazione, cioè fenomeno, e l'idea di assoluto (o di cosa) non
ha senso. Non vale obiettare che ogni rapporto, implicando dei termini, implica per ciò stesso qualche cosa
che non è relativo, poiché i termini sono intelligibili solo nei loro rapporti. Ciò che è reale non sono i termini, ma la relazione (Ch. Renouvier, Essais de Critique générale, 1. Traite de Logique générale, Parigi, 1854,
p. 108). Con ciò stesso abbiamo la rappresentazione dell'ordine, che è l'insieme delle relazioni, cioè il fenomeno generale costituente tutto il reale accessibile alla rappresentazione ( 140).
Lachelier, nel Fondement de l'Induction, op. cit., e in Psychologie et Métaphysique (Parigi, 1896, nella 2a
ed. dell'op. precedente), propone una dottrina che si ispira alla tradizione cartesiana per risolvere, nel senso
dell'idealismo fichtiano (escludendo tuttavia il panteismo di quest'ultimo), i problemi sorti dal kantismo.
Questa dottrina consiste nel dire che «quale possa essere il fondamento misterioso su cui riposano i fenomeni, l'ordine nel quale essi si succedono è determinato esclusivamente dalle esigenze del nostro pensiero»
(Fondement de l'Induction, p. 38) (141). Queste esigenze fanno sì che l'essere si ponga in se stesso come soggetto esistente, come ciò che è. Il pensiero, infatti, «tende per se stesso ad oltrepassare la sfera dell'astrazione
e del vuoto: esso pone spontaneamente l'essere concreto, al fine di divenire esso stesso, ponendolo, pensiero
concreto e vivente» (Psychologie et Métaphysique, p. 162).
È molto difficile capire come si sviluppi e nel contempo si spieghi tutta la realtà, partendo da questo essere
concreto che è così generato dal pensiero. In nome di quale necessità si dovrà ammettere che il pensiero - fino a questo momento pensiero di nulla e, di conseguenza, neppure coscienza di sé, che coincide (secondo
Lachelier) con l'ordine astratto dei fenomeni, puro fenomeno esso stesso -, generi il suo oggetto, e nella natura intelligibile così posta prenda se stesso come oggetto? Vi è qui un appello evidente al fatto che contraddice l'esigenza essenziale del sistema di fondare tutto sul diritto, cioè di essere integralmente razionale, di eliminare ogni dato, a profitto di colui solo che dà, cioè dello spirito.
125 - c) Hamelin. Hamelin non poteva schierarsi completamente né con la dottrina di Renouvier né con
quella di Lachelier. Ad entrambi egli rimproverava di lasciar sussistere dell'irrazionale e di fallire così nella
costruzione di quell'universo intelligibile che essi ci promettevano. Da una parte infatti, per Renouvier, la relazione costituisce il reale di fatto: l'empirismo, accolto così all'origine del sistema, non giunge a trasformarsi
in razionalità, così che Renouvier si limita, insomma, a giustapporre le categorie dell'essere senza preoccuparsi di dedurle, cioè di spiegarle (142). Quanto a Lachelier, la sua concezione della «spontaneità pura» dello
spirito ha l'apparenza di un deus ex machina, incaricato di dar ragione, con un brusco intervento, della svolta
arbitraria della dialettica in direzione del concreto.
Il problema, per Hamelin, consiste nel trovare una spiegazione totale dell'universo, tale tuttavia che la necessità rispetti tutta la realtà complessa del concreto, fino alla contingenza, introdotta al suo posto, come un
anello necessario, nella catena della costruzione sintetica. Solo così si riuscirà a non separare mai «il fondo
reale racchiuso in una determinazione, da questa determinazione stessa» (Essai sur les éléments principaux
de la Représentation, Parigi, 1907, p. 35) (143).
Il metodo di Hamelin urta contro due ostacoli principali. Essa comporta anzitutto, come ogni nominalismo,
un «cosismo» intemperante (certo la peggior disgrazia che possa toccare a un sistema che pretende di elimi-
nare ogni dato ontologico). Infatti, se l'essere è essenzialmente relazione, ogni relazione è essere, il che equivale a conferire realtà a tutti gli enti di ragione. Senza dubbio, Hamelin si guarda bene dal fare questo
salto nell'assurdo, ma a prezzo di una contraddizione insostenibile, in quanto egli è costretto a distinguere il
reale dall'astratto o dall'ideale, ciò che non ha senso nell'idealismo. Quindi, poiché il sistema delle relazioni
tende, si ritiene, a quell'ultima determinazione che è costituita dalla personalità concreta, l'insieme delle relazioni anteriori, in qualche modo, o inferiori alla personalità, costituiscono gli elementi di quest'ultima (144).
Ritorniamo in questo modo al concetto di un tutto, cioè, nel senso aristotelico della parola, di un atto, del
quale gli elementi sono l'aspetto potenziale e, di conseguenza, sono reali soltanto in virtù dell'atto che dà loro
l'essere. Con ciò si viene a porre l'essere prima della relazione e a spiegare quest'ultima con l'essere, e non
viceversa, come sosteneva Hamelin. Infine, il metodo sintetico progredisce solo per la mediazione occulta
del dato. L'idealismo, come in Cartesio, come in Kant, come in Fichte e in Hegel, nega se stesso mentre si
afferma.
§ 3 - La fenomenologia
126 - La fenomenologia d'Edmund Husserl è senza dubbio, nell'epoca contemporanea, la corrente filosofica che ha esercitato l'influenza più profonda ed estesa. L'esistenzialismo stesso (M. Heidegger, K. Jaspers, J.P. Sartre, Merleau-Ponty, G. Marcel, N. Abbagnano, ecc.), in gran parte, può essere collegato, direttamente o
indirettamente, alla Fenomenologia, pur quando s'orienta in direzione diversa da quella di Husserl (145).
A. HUSSERLl
1. IL METODO FENOMENOLOGICO - Il metodo di Husserl comporta due regole essenziali. La prima è
quella della epochè (o del «mettere tra parentesi»): si tratta di eliminare radicalmente ogni giudizio anticipato
e ogni teoria preconcetta, e di conservare davanti allo sguardo dello spirito solo ciò che è certo apoditticamente. In virtù di questa epochè, il solo dato certo è costituito dai fenomeni; la cosa in sé e l'esistenza non
sono evidenze apodittiche. La seconda regola è quella della intuizione delle essenze (Wesenschau): lo sforzo
del filosofo andrà a cogliere immediatamente ed a descrivere esattamente le essenze oggettive dei fenomeni
offerti alla coscienza (riduzione eidetica).
2. LA DOTTRINA - L'epochè dev'essere spinta risolutamente fino all'estremo e deve riguardare di conseguenza lo stesso soggetto empirico e i suoi atti soggettivi (la «cosa che pensa» di Cartesio), che si troveranno
così ridotti allo stato di puri fenomeni. Mediante questa riduzione, si raggiungerà infine l'Io trascendentale,
che è la sola esistenza apoditticamente certa che la regressione fenomenologica incontri. E’ impossibile, infatti, supporre che l'Io trascendentale non sia esso stesso che un fenomeno, in quanto altri menti ci si troverebbe presi in una regressione all’infinito, che farebbe dell'intero universo dei fenomeni una illusione assoluta, il che è assurdo.
D'altra parte, l'investigazione fenomenologica non si termina con la scoperta dell'Io trascendentale. Questo
Io, in realtà, è molteplice, poiché comprende tutta la serie degli altri Io trascendentali; questi costituiscono,
cioè determinano i fenomeni della coscienza trascendentale e naturale in tutta la loro varietà.
Infine, tutti questi Io trascendentali, impliciti nell'Io trascendentale raggiunto dalla regressione fenomenologica, devono avere, al di là della loro molteplicità, un principio di unità, che sarà il primo costituente, 1'Io
assoluto, universalmente costituente e mai costituito, e che è Dio. Dio vive la sua propria vita costituendo,
entro e in virtù del suo Io trascendentale, tutti gli Io trascendentali secondari, con tutte le soggettività che li
costituiscono e da essi costituite a loro volta.
127 - 3. REALISMO O IDEALISMO? - Senza alcun dubbio, la fenomenologia segna una netta reazione
contro l'empirismo e il kantismo. Essa insiste felicemente sulla verità capitale che solo il concreto (o fatto
sensibile) è un dato di fatto, e che l'essenza stessa può divenire oggetto di una conoscenza scientifica e fondare la scienza metafisica. Per contro, in un certo senso, è ancora il nominalismo che sta all'inizio di questo metodo. Il mondo delle essenze della fenomenologia equivale all'universo di atomi intelligibili o di idee del platonismo, e, in generale, dell'idealismo (146), e non all'universo di quiddità di Aristotele e di san Tommaso, derivate per astrazione dal sensibile e conservanti per ciò stesso necessariamente il loro collegamento con l'esistenza. Nella fenomenologia le essenze bastano a se stesse e sono realtà complete, senza riferimento all'esistenza, che interviene solo come fenomeno e dato di coscienza, ma non come realtà oggettiva. La Wesenschau sarà dunque (teoricamente) una intuizione completa ed esaustiva dell'oggetto e implicherà un idealismo radicale. In altri termini, la fenomenologia, che dà per fine a se stessa di pensare l'essere, interdice a sé
nello stesso tempo di pensarlo come essere.
A ciò si può obiettare che, dal punto di vista fenomenologico, l'esistenza è un dato quanto l'essenza (147).
Questo è vero, ma tale dato rimane fenomenico: il fenomeno empirico, che racchiude l'esistenza, rappresenta
solo, nel contesto dell'epochè, una determinazione contingente e irrazionale dell'essenza all'interno della coscienza. L'esistenza, salvo quella dell'Io trascendentale, è dunque solo fenomenica (esse ut signifìcatum). Pure qui, il nominalismo, che si esprime nell'epochè, blocca ogni possibilità di ritorno al reale.
128 - 4. L'ILLUSIONISMO TRASCENDENTALE - Abbiamo già mostrato (62) come l'epochè fenomenologica costituisca solo, di fatto, secondo l'espressione di J. Maritain , una forma di quell'«illusionismo trascendentale» che caratterizza l'idealismo dogmatico. L'idealismo pretende di raggiungere, o meglio di costituire a priori il reale mediante semplice analisi del contenuto della coscienza soggettiva, cioè, come dice
Husserl (Méditations cartésiennes, p. 116) «Partendo dalle sorgenti dell'«essere proprio» del soggetto. Ma
questa costituzione procede da una pura illusione; essa non è che una ri-costituzione e, come tale, suppone
la realtà di un originale. L'universo «reale» che la fenomenologia restituisce nella coscienza dell'io, è per
una doppia ragione quello del realismo ingenuo. Da una parte, infatti, l'oggettività a tutti i suoi gradi è derivata dai dati dell'esperienza bruta. Dall'altra, i princìpi utilizzati dalla fenomenologia sono quelli imposti dai
procedimenti concettuali di una intelligenza applicata a una realtà che essa deve necessariamente elaborare
per astrazione, ma sono qui ammessi senza critica né giustificazione.
La fenomenologia, contrariamente alle altre forme dell'idealismo, pretende di non dovere spiegare la genesi dell'illusione di una realtà extra-mentale, poiché, dal suo punto di vista, non vi sarebbe più illusione, essendo la credenza alla realtà extra-mentale implicita essa stessa, come un dato fenomenologico, nell'interno
dell'epochè. Ma questa argomentazione è solo, ed evidentemente, una petizione di principio, in quanto il realismo scoperto nella parentesi della epoché è nient'altro che quello che preesisteva all'epoché. Questo, il realismo ingenuo cioè, non era dunque più assurdo di quello, che in realtà esiste solo in virtù del primo. Dunque, il realismo della fenomenologia, che è illogico, equivale rigorosamente al realismo ingenuo, e l'epoché è
niente più che una vasta illusione, gravata da una fondamentale contraddizione (148).
B. L'ESISTENZIALISMO
1. L'EVOLUZIONE DELLA FENOMENOLOGIA - Husserl si è tuttavia sforzato; dopo le Méditations
cartésiennes, di sfuggire al platonismo a cui conduceva il «mettere tra parentesi» l'esistenza. Egli sottolinea
che il compito della filosofia non è solo di constatare o di descrivere, ma di spiegare, e si spiega veramente
solo ciò che si può generare e costituire. Questo passaggio dalla fenomenologia descrittiva alla fenomenologia genetica (evidente soprattutto negli inediti) opera di fatto una trasformazione profonda nelle prime vedute
di Husserl, in quanto essa consiste nel ricorrere a una coscienza trascendentale destinata a generare i dati oggettivi del l'esperienza. Ma come concepire una tale coscienza? Husserl non ha mai espresso una opinione
chiara e definitiva in proposito. Ciò che pare certo è che Husserl è stato condotto a insistere sempre più sul
carattere logico-intellettuale dell'esperienza e a sostituire a un idealismo di tipo platonico un idealismo trascendentale.
L'esistenzialismo contemporaneo, adottando il metodo fenomenologico, orienterà la fenomenologia in un
senso del tutto differente (già presentito, d'altronde, da Husserl, verso la fine della sua vita). Heidegger, Sartre, Merleau-Ponty osservano che l'analisi riflessiva non può raggiungere un soggetto empirico liberato da
ogni esteriorità, in quanto il soggetto si conosce solo tuffato in seno a un mondo già dato, ed è da questo
mondo che esso trae tutti i significati mediante i quali definisce se stesso assieme col mondo e con gli oggetti
nel mondo. «Il mondo c'è già, scrive Merleau-Ponty, prima di qualsiasi analisi che io possa fame, e sarebbe
un artificio farlo derivare da una serie di sintesi che collegherebbero le sensazioni, poi gli aspetti prospettivi
dell'oggetto, mentre le une e le altre sono appunto dei prodotti dell'analisi e non devono essere intesi come in
atto prima di essa. Il reale si deve descrivere, e non costruire o costituire» (149). Muovendo da queste vedute,
si affermano delle posizioni assai differenti; da quella di Heidegger, che si potrebbe definire come «un idealismo del significato basantesi su un realismo dell'esistenza bruta» (ciò che ha le apparenze di una specie di
neo-kantismo), a quello di Sartre e di Merleau-Ponty, in cui «il significato è concepito come incontro del
progetto e della qualità, cioè del per-sé e dell'in-sé, così come questo incontro appare al per-sé» (150).
2. REALISMO E IDEALISMO ESISTENZIALISTICI - Bisogna distinguere qui tra Heidegger e J. P. Sartre.
a) Heidegger. L'esistente, nota Heidegger, non è l'oggetto di un «mondo teorico», ma essenzialmente di
quel mondo la «preoccupazione» del quale (cioè il rapporto del Dasein - o individuo concreto - al mondo in
cui vive) gliene impone la presenza. Noi cogliamo il mondo dunque, dapprima, in un modo pratico e utilitario. La totalità nella quale l'esistente è impegnato è tale che essa si presenta come l'insieme delle possibilità
costituenti il Dasein e, per ciò stesso, è il medesimo Dasein che conferisce agli oggetti nel mondo il loro senso e la loro intelligibilità, cioè che li fa essere (altrimenti essi non sarebbero che «cose», esistenti bruti non
ancora emersi dall'oscuro caos). L'ordine degli utensili nel mondo è dunque l'immagine proiettata delle mie
possibilità, vale a dire di ciò che io sono (poiché io sono le mie possibilità), e il mondo è ciò a partire da cui
il Dasein si fa annunciare ciò che esso è (Sein und Zeit, p. 88, Halle, 1927; cfr. tr. it. di P. Chiodi, Essere e
tempo, Milano-Roma, 1953). Heidegger precisa (Ibid., pp. 202-208) che questa posizione è assai distante
dall'idealismo e che essa dovrebbe piuttosto essere definita come realista. Per lui, il famoso problema dell'e-
sistenza del mondo esterno è uno pseudo-problema. Questa esistenza, infatti, non richiede alcuna prova: essa
è immediatamente evidente, in quanto il Dasein non si può assolutamente pensare senza il mondo. Ma il realismo, a sua volta, sbaglia quando crede che il ricorso all'esistente (cioè, in questo caso, alla sostanza) possa
bastare, mentre si tratta di spiegare l'essere dall'esistente - come pure, e per ciò stesso, sbaglia nel credere che
la realtà del mondo esiga di essere provata e che questa prova sia possibile. Invero, il mondo è al di là di ogni
prova, in quanto Dasein e mondo sono insieme e indissolubilmente «l'essere-nel-mondo».
Questa argomentazione pare assai discutibile, e mal giustificata la sua convinzione di eliminare l'idealismo. J. P. Sartre (L'Etre et le Néant, Parigi, 1943, p. 306) osserva con ragione che «la trascendenza heideggeriana è un concetto in mala fede». Essa vuole, sì, superare l'idealismo, sottolineando il carattere strutturale
dell'essere-con, che non può pensarsi senza il mondo. Ciò tuttavia non può bastare, poiché l'io appare in questo contesto solo come una soggettività contemplante le sue proprie immagini. L'idealismo così superato non
è, in fondo, che una forma bastarda dell'idealismo, una specie di «psicologia empirico-criticista». Senza dubbio, il Dasein «esiste fuori di sé», ma l'inconveniente è che questo «esistere fuori di sé» è, in Heidegger, la
definizione del sé. Heidegger non riesce dunque a sfuggire all'idealismo; il suo procedimento è infine lo stesso dello pseudo-realismo (poiché il realismo autentico è altra cosa da ciò che pensa Heidegger): esso vuole
provare la «realtà» del mondo e non vi riesce.
b) Sartre. «Il pensiero, scrive Sartre (L'Ètre et le Néant, p. lI), ha ottenuto un progresso considerevole riducendo l'esistente alla serie delle apparizioni che lo manifestano. Si mirava con ciò a sopprimere un certo numero di dualismi che imbarazzavano la filosofia e a sostituirli con il monismo del fenomeno». Ci si è riusciti? Senz'alcun dubbio, non si deve più distinguere, nell'esistente, un di fuori e un di dentro, un'apparenza accessibile all'osservazione e una «natura» che sarebbe nascosta dietro ad essa come da uno schermo. Questa
natura non esiste. L'essere dell'esistente è precisamente ciò che esso sembra. L'apparenza, vale a dire l'oggettività del fenomeno, costituisce tutta la realtà della cosa. Essa è un relativo-assoluto; relativo, in quanto essa
si riferisce a qualcuno al quale appare, ma assoluto, in quanto essa non rimanda a nient'altro che stia al di là
di essa stessa. Ciò che il fenomeno è, lo è assolutamente; esso si svela come è e lo si può studiare e descrivere come tale. Questa descrizione sarà un'ontologia, in quanto essa considera l'essere, ma un'ontologia fenomenologica, in quanto l'essere è nient'altro che l'oggettività del fenomeno (Ibid., p. 12). Noi rifiutiamo dunque l'idealismo, aggiunge Sartre, perché se l'idealismo ha visto bene che l'essere si riduce al fenomeno ed è
coestensivo ad esso, commette il grave errore di soggettivizzare il fenomeno e l'essere assieme con esso. In
realtà, l'essere del fenomeno è veramente un'apparizione d'essere; il «fenomeno di essere» esige, proprio in
quanto fenomeno, un fondamento che sia esso stesso «transfenomenico», cioè che sfugga, come tale, alla fenomenicità.
Riesce veramente Sartre a eliminare l'idealismo? Noi ammettiamo che la descrizione fenomenologica della
percezione, in virtù della quale l'oggetto percepito non è né puramente oggettivo né puramente soggettivo
(III, 144-145), imponga il concetto di una soggettività che non può bastare a se stessa e che dovrà dunque
essere definita mediante la trascendenza e l'apertura sul mondo. Se è vero che la «trascendenza» così definita è niente di più che un al di là della soggettività, rimane che il duplice aspetto della percezione permette di
ritrovare sia una struttura ontologica che una universalità, senza la quale non c'è filosofia, e con ciò stesso,
permette di fondare una speculazione orientata verso una trascendenza capace di spiegare l'esistenza umana e
il mondo in seno al quale essa si dispiega. Tutto ciò, in linea di diritto. Di fatto però, nel contesto sartriano,
quest'orientamento verso la Trascendenza risulta bloccato fu dall'inizio dalla negazione sistematica dell'esistenza di Dio e dall'affermazione correlativa dell'assurdità essenziale dell'essere universale (contingenza pura, increata, gratuita, superflua per l'eternità). Sartre dichiara di essere oltre l'idealismo e il realismo. Invero,
la sua dottrina presa nel suo insieme apparirà, dal punto di vista metafisico, come un realismo assoluto, in
quanto essa pone un essere dell'esistenza che è ingiustificato e ingiustificabile, e dal punto di vista epistemologico apparirà come un idealismo assoluto, in quanto, riconducendosi tutta la realtà alla cosa all'oggettività
del fenomeno, l'essere stesso si riconduce alla serie delle sue apparizioni, e, per ciò stesso, al soggetto al quale appare. Questo realismo e questo idealismo si congiungono nell'assurdo.
Questa conclusione (dopo tutto assai logica in una filosofia dell'assurdo) è il risultato fatale dell'eliminazione del dualismo del fenomeno e dell'essere, che Sartre ha il torto anzitutto di intendere in senso kantiano. La nozione kantiana e empiristica di un essere (sostanza o noumeno) che sarebbe nascosto, inafferrabile in se stesso, dietro l'apparenza, è evidentemente impensabile. Il fenomeno è l'essere stesso in quanto si manifesta; l'essere non è una cosa sotto altre cose, come un corpo sotto gli abiti che lo nascondono.
Da ciò non consegue tuttavia che ciò che si manifesta sia il tutto dell'essere: nell'unità concreta dell'essere, vi è la dualità del manifestato e del manifestante, vale a dire, da una parte, il fenomeno, che è veramente aspetto dell'essere, è tuttavia solo un aspetto dell'essere, e, dall'altra, il fenomeno rimanda sia al
conoscente che all'essere, in forza di una duplice relatività che potrebbe servire a definirlo, cioè in quan-
to esso determina il conoscente, specificando il suo atto di conoscere, e in quanto esso è una determinazione dell'essere mediante la quale quest'ultimo si annuncia al conoscente. Ora, tutte queste tesi non sono
state sviluppate da Sartre, non per una previa delucidazione del concetto di essere, ma per effetto di una
semplice decisione che fin dall'inizio concede gratuitamente che «l'esistente deve ridursi alla serie delle
apparizioni che lo manifestano».
§ 4 - Il neo-realismo
129 - 1. LA REAZIONE ANTI-IDEALISTICA - Sotto il nome generale di neo-realismo, si dovrebbero
raggruppare diverse correnti filosofiche che hanno molto meno il carattere di dottrine che di tendenze, e molto più il carattere di posizioni negative che di tesi positive. Dalla fine del XIX secolo, numerosi pensatori, delusi dall'idealismo hegeliano, si sforzano di ritrovare, mediante procedimenti diversi, quella realtà che le speculazioni idealistiche si illudono da molto tempo di generare, mentre invece bisognerebbe cominciare con il
constatarla. Si confessa ormai che è impossibile raggiungere il reale per via logica, perché il reale è alogico,
irriducibile al concetto. L'idealismo non può essere che una sterile tautologia e un puro eleatismo. La sua
dialettica perde ogni contatto con l'essere e si libra nel vuoto assoluto, incapace di trovare un principio di coesione e di movimento. Bisogna dunque ritornare al reale e partire dall'esistenza, che non si deve costruire,
ma sperimentare.
2. IL NEO-REALISMO ANGLOSASSONE - La scuola che si è definita essa stessa come un neo-realismo e
i cui principali rappresentanti sono stati, in America, Montague, Perry e Spaulding, e in Inghilterra, B. Russel
e Santayana, reagisce vivamente, come il pragmatismo di Peirce e di W. James, contro l'idealismo hegeliano.
Questo neo-realismo ha proceduto a una vigorosa critica dell'idealismo, condotta soprattutto dal punto di vista del senso comune. Quanto al «realismo» di questi filosofi, esso è generalmente di forma empiristica, così
che alcuni di essi, per meglio assicurare il realismo della conoscenza, vengono a misconoscere ogni specie di
distinzione tra la cosa e l'oggetto conosciuto e di conseguenza a sopprimere l'intelligenza e a finire nel materialismo meno intelligibile.
Tuttavia, il neo-realismo ha avuto per risultato, particolarmente grazie alla sua critica dell'idealismo, di orientare numerosi pensatori verso le tesi essenziali dell'intellettualismo aristotelico ed ha preparato la via ad
una restaurazione di un realismo meno «cosista» e più preoccupato della vita dello spirito (151). Così l'opera
di L. Lavelle (152) in Francia è il segno e lo strumento di questo nuovo realismo, in accordo con le tesi fondamentali della tradizione aristotelica e tomistica, sui punti più importanti.
Art . II - La causalità dell'oggetto
130 - In qualunque modo si presenti, l'idealismo, come abbiamo visto, non riesce ad eliminare la causalità
propria dell'oggetto della conoscenza. Quest'ultima è intelligibile nel suo contenuto e nella sua forma, solo se
e nella misura in cui la si concepisce come attribuita a un essere esistente per sé e indipendente dal soggetto, e misurata da quest'essere. Se le dottrine idealistiche si sono potute illudere di costituire l'universo con le
sole risorse di un pensiero che pensi se stesso, ciò avvenne sempre, contrariamente al loro principio essenziale, perché il punto di partenza fu un dato trasformato in un puro oggetto di pensiero, ma che, come tale, era
realmente soltanto il sostituto e l'espressione mentale di una cosa per ipotesi inaccessibile e illusoria.
Bisogna dunque accettare, come s'impongono all'analisi, le condizioni della conoscenza e ammettere,
assieme con la causalità principale del soggetto, senza il quale nessuna conoscenza sarebbe possibile, la
causalità dell'oggetto extra-mentale, senza il quale non sarebbe concepibile alcuna specificazione del conoscere. Questo è quanto ci proponiamo di mostrare, studiando i princìpi e il senso del realismo.
§ 1 - I princìpi del realismo
131 - I princìpi che manifestano o costituiscono l'evidenza del realismo possono essere raggruppati attorno
a tre punti essenziali, e cioè, l'immanenza della conoscenza, la relazione tra l'oggetto di pensiero e la cosa, la
relazione di dipendenza del giudizio e dei princìpi rispetto all'essere. Come abbiamo mostrato prima, allorché
discutemmo l'empirismo, che la conoscenza e la certezza sono possibili solo se il reale diviene idea e prende
la forma del pensiero, così stabiliremo che la conoscenza e la certezza esigono che l'idea sia reale, cioè
ch'essa sia in qualche modo informata dall'oggetto reale. Non è dunque in questione qui l'immanenza della
conoscenza, ma solo una maniera erronea di intendere questa immanenza.
A. L'IMMANENZA DELLA CONOSCENZA
1. IL PUNTO DI VISTA IDEALISTICO - La storia del problema critico ci ha già reso familiari con la concezione idealistica dell'immanenza del conoscere. Questa concezione consiste essenzialmente nell'affermare
che la conoscenza e la coscienza fanno una cosa sola e che la coscienza è niente più che la conoscenza di sé.
Ne segue immediatamente che non si può mai pretendere di conoscere in una maniera apoditticamente certa
altra realtà che se stessi.
Questa dottrina (principio dell'immanenza) è stata proposta sotto forme diverse. Abbiamo visto che i terministi medievali la deducevano dal nominalismo (36). Le idee, essi dicevano, non corrispondono a nulla di
reale fuori dello spirito; e perciò, ogni conoscenza intelligibile si riduce alla conoscenza di un contenuto immanente del pensiero. Cartesio riprende questo punto di vista facendolo sistematico. L'idea, secondo lui, è
«la forma di ogni percezione» cioè, secondo il senso che egli dà a questa formula (Réponses aux troisièmes
objections, in Oeuvres de D., ed. Adam e Tannery, 11 voll, Parigi, 1897-1909, § 53; cfr. tr. it. di A. Tilgher,
3a ed., Bari, 1954), essa serve a far conoscere nient'altro che se stessa e il suo contenuto intelligibile: l'idea è
il termine immediato della conoscenza e non può farci conoscere nulla, per se stessa, circa la realtà di un universo extra-mentale, che diviene ora problematico. Kant afferma ugualmente che noi non possiamo conoscere nulla se non in noi: cogliere una cosa fuori di noi è un'asserzione priva di senso, in quanto essa implicherebbe che noi apprendessimo mediante il pensiero qualche cosa che è, per definizione, fuori del pensiero.
Invero, la nostra coscienza ci fa conoscere solo le sue proprie determinazioni. Questo tema è ripreso da tutti
gli idealisti, che lo ritengono evidente in maniera assoluta, e fondano su di esso tutte le loro speculazioni.
L'essere si riduce al pensiero (153).
132 - 2. IL PARALOGISMO IMMANENTISTICO - Questo principio dell'immanenza, come lo intendono
gli idealisti, è un enorme paralogismo, che assomma la triplice disgrazia della petizione di principio, del sofisma di falsa conversione e dell'errore di fatto.
a) La petizione di principio. Senza ritornare qui sulla dipendenza del principio d'immanenza dal postulato
nominalistico, si può mostrare che esso costituisce solo una pura petizione, vale a dire che l'affermazione
gratuita di ciò che è in questione non costituisce una prova dell'idealismo, ma è l'idealismo stesso. Si tratta
di sapere se vi è identità assoluta tra la conoscenza e la coscienza: non si può considerare come una prova di
questa identità l'affermazione di questa stessa identità (sotto la forma del principio d'immanenza)! In fatto di
«evidenza lampante» (come si esprime Éd. Le Roy), c'è qui solo quella di un circolo vizioso specifico.
b) Il sofisma di falsa conversione. Considerato in se stesso, il principio d'immanenza risulta da una specie
di quiproquo. Il mondo, si dice, è necessariamente la mia rappresentazione, vale a dire: ciò che è conosciuto
deve essere nel pensiero; un oggetto che non fosse nel pensiero non sarebbe conosciuto. Al che noi rispondiamo che infatti ciò che è conosciuto deve essere nel pensiero; è questa la definizione stessa di conoscenza
(103). Ma non ne consegue che la mia rappresentazione sia il mondo stesso, vale a dire che ciò che è nel
mio pensiero sia esclusivamente nel mio pensiero o che il conosciuto esista soltanto come conosciuto. Quest'ultima asserzione è puramente sofistica (154).
c) Il falso concetto del conoscere. Infine, l'argomento tratto dal fatto che l'idea o concetto è il termine della
conoscenza, è egualmente paralogico, Si tratta infatti di sapere se il termine della conoscenza è l'idea, in
quanto realtà soggettiva, o se è l'idea in quanto termine significante, intenzione a direzione, cioè come puro
segno formale di una realtà extra-mentale. Se il concetto è essenzialmente di natura intenzionale, non è ad
essa, in quanta forma soggettiva, che termina il nostro pensiero, ma alla casa stessa da esso significata ed
espressa sotto la forma che conviene al concetto. Questo ultimo punto di vista, come abbiamo mostrato
(109), lascia intera l'immanenza del conoscere, ma permette di intendere come l'idea, nella quale e per la
quale io conosco, sia essenzialmente correlativa a un oggetto indipendente dal soggetto.
B. COSA E OGGETTO
133 - Ora che abbiamo definito il significato del problema, si tratta di mostrare che la conoscenza, come è
data di fatto, è del tutto inesplicabile se non si ammette che gli oggetti della coscienza sono necessariamente
correlativi a cose o realtà esistenziali (attuali o possibili) indipendenti dalla coscienza.
1. LO PSEUDO PROBLEMA DELLA «COSA IN SÉ» - L'idealismo affermando che il termine immediato
del pensiero non è altro che l'idea (oggetto mentale), conduce a separare l'oggetto dalla cosa. Questa diventa
così un doppio dell'oggetto, posto al di là dell'oggetto e di conseguenza al di là del pensiero, inaccessibile e
inconoscibile in se stessa. È la posizione di Cartesio e di Kant, come di tutti gli idealisti. Ormai, vi sono due
oggetti: l'oggetto pensato (o oggetto puro) e l'oggetto-cosa (o cosa in sé), e si sa quali problemi nascano da
questo concetto. Infatti bisognerà spiegare come l'oggetto possa esistere nello spirito ed essere ciò che esso è,
cioè determinato in una maniera o nell'altra, in virtù delle sole esigenze della coscienza, senza alcun ricorso a
una cosa che si presume separata da esso e per ciò stesso perfettamente illusoria, ma che non cessa pertanto
di essere invincibilmente presente alla coscienza. Abbiamo visto che questi problemi, ai quali l'idealismo non
ha mai potuto dare alcuna soluzione intelligibile, sono soltanto degli pseudo-problemi, generati da una concezione erronea della conoscenza.
134 - 2. L'IDEA È REALE - Non solo la cosa non è separata dall'oggetto, ma data con esso e in esso, ma
bisogna affermare, per di più, che l'oggetto è la cosa stessa, come natura intelligibile. L'oggetto, né nella sua
esistenza, né nella sua forma, non può spiegarsi senza lo cosa che esso esprime e significa nella coscienza.
a) L'esistenza degli oggetti di pensiero. In un certo senso, il problema dell'esistenza non è soppresso dalla
concezione idealistica degli oggetti puri in seno alla coscienza. Poiché, se questi oggetti non esistano più
come cose, esistano come oggetti e bisogna render conto di questa esistenza coscienziale. Si tratta di sapere
se la coscienza come tale sia necessariamente oggettivante, cioè se la costituzione di un mondo di oggetti sia
una proprietà essenziale di ogni coscienza, e nell'ipotesi affermativa, se la coscienza sia necessariamente
costitutiva di un tale universo, cioè più precisamente del mio universo, con le sue persone e le sue cose e con
la sua storia.
Ora, sul primo punto, si può dire che la coscienza, come tale, è necessariamente oggettivante, poiché nell'oggettivare sta la sua stessa definizione. Ogni coscienza è coscienza di qualche casa, cioè d'oggetto. Una
coscienza di nulla sarebbe un nulla di coscienza. Quando la psicologia parla di «coscienza vuota», non si
tratta, come nell'ordine fisico, che di un vuoto relativo e piuttosto di uno stato di confusione che di uno stato
di vacuità. Per una coscienza reale la necessità di oggettivare è tale che essa stessa non può essere coscienza
di sé se non facendosi oggetto per sé, e che, se si tratta almeno di una coscienza umana, non può divenire oggetto per sé attraverso riflessione se non con l'intermediario di un altro oggetto distinto da sé. Infatti senza
questo oggetto la coscienza sarebbe un nulla di coscienza e di conseguenza non potrebbe oggettivarsi.
Questa analisi del concetto di coscienza ci conduce dunque a constatare che se la coscienza è necessariamente oggettivante, non è in alcun modo tale di per sé. Non vi è coscienza senza oggetto, ma l'oggetto esiste
indipendentemente dalla coscienza. Di conseguenza, supporre la coscienza, è sì supporre un mondo di oggetti, ma anche e necessariamente supporre un mondo di oggetti indipendenti dalla coscienza, un mondo di oggetti transoggettivi o di cose (vale a dire di soggetti che esistono per se stessi allo stesso tempo che per me).
Questa evidenza è rinforzata dal fatto assai certo che l'universo degli oggetti di coscienza (quel determinato universo con quella determinata storia) è una specificazione puramente contingente e irrazionale (o
piuttosto metalogica) della coscienza in generale: Nessuna analisi dell'essenza «coscienza» permetterà
mai di dedurne necessariamente l'universo d'aggetti che è di fatta data alla mia coscienza. È contro questa constatazione che viene a urtare l'idealismo, il quale, obbligato a costituire l'universo, non può che riceverlo già costituito, il che significa che gli oggetti possono spiegarsi solo mediante le cose o ancora che
gli oggetti sono le cose stesse in quanto presenti alla coscienza.
135 - b) La natura degli oggetti di pensiero. Da questo nuovo punto di vista, giungeremo alle stesse conclusioni, considerando l'essenza in rapporto all'essere e l'astratto in rapporto al concreto. L'oggetto, infatti, è
astratto o, se si preferisce, esso include in sé una natura intelligibile («una vera e immutabile natura», dice
Cartesio), esprime un'essenza. Ma questa essenza è sempre riferita all'esistenza (reale o possibile) (155), vale a
dire concepita come esistente in atto o in potenza all'esistere. Questa relazione all'esistenza non è accidentale
ed estrinseca all'essenza, né legata semplicemente (attraverso l'esperienza sensibile) alle condizioni di fatto
della sua costituzione in oggetto. Essa è essenziale all'essenza, la quale si definisce solo con ciò che si potrebbe chiamare il suo valore d'essere o la sua potenza esistenziale. Un'essenza autentica è un'essenza capace
di esistere. Un oggetto incapace di esistere (cerchio quadrato) non è che un nulla di essenza: chi lo pensa non
pensa niente, o pensa un'altra cosa. (Quando si crede di pensare «cerchio quadrato», si pensa soltanto cerchio
e quadrato). Ora ciò non è intelligibile che in rapporto all'essere extra-mentale. Infatti, l'essere al quale sono
riferite le essenze non può identificarsi con il loro essere soggettivo, poiché questo si identifica invece con
esse (156). Ne segue che tutti gli oggetti di pensiero sono misurati dall'essere, concepiti e pensati in funzione
dell'essere. Proprio quest'essere extra-mentale impone allo spirito, come evidenza identica a quella della sua
realtà transoggettiva, la legge universale dell'essere, cioè il principio d'identità e condiziona così, in tutta la
sua estensione e in tutto il suo rigore, l'intelligibilità, legge delle essenze. Così si constata che gli oggetti di
pensiero (o le essenze), lungi dal chiuderci nella pura soggettività di un pensiero che pensi se stesso, ci introducono per così dire in seno all'essere, del quale essi sono soltanto determinazioni. La nostra percezione
intellettiva ci mette dunque in presenza di un oggetto ritrovato ovunque sotto la sua inesauribile diversità,
cioè l'essere stesso, nel quale si risolvono tutte le nostre nozioni o concetti (157).
Da un altro punto di vista, si potrebbe mostrare che l'oggetto di pensiero, che è astratto e universale, è
relativo al concreto, cioè a qualche cosa di determinato nel piano dell'esistenza. Ogni essenza è essenza di
qualche cosa (reale o possibile), vale a dire serve di predicato a un soggetto. Ora questa relazione al concreto esistenziale non può trovare la sua ragione sufficiente nelle pure essenze, perché esse sono indeterminate di loro natura, suscettibili di determinazioni molteplici e diverse. L'essenza «animale ragionevole»
è indifferente, come tale, alle determinazioni che si chiamano Socrate, Aristotele e Cartesio. Se dunque le
essenze sono qualificate da queste o da quest'altre determinazioni, se rivestono le forme contingenti del
concreto, è in ragione delle cose stesse in cui sono attuate e che esse significano come nature intelligibili,
senza esaurirne il contenuto reale. Pure da questo punto di vista è l'essere extra-mentale, esistenziale, che
esplica la coscienza e non inversamente, la coscienza che esplichi l'essere, come pretende l'idealismo (158).
§ 2 - Il giudizio, i princìpi e la scienza
136 - Se dal piano del concetto si passa a quello del giudizio, si deve nuovamente constatare che il pensiero sia nella semplice attribuzione predicativa come nell'enunciato dei princìpi primi della conoscenza e nella
costituzione della scienza, non si esercita che in funzione dell'essere trans-oggettivo.
1. IL GIUDIZIO - La simplex apprehensio coglie l'esistenza solo sotto forma di quiddità (per modum quidditatis), vale a dire semplicemente in quanto concepibile e come costituente una essenza o oggetto intelligibile (existentia ut significata). Come abbiamo mostrato più sopra, l'esistenza vi è già implicata a titolo di possibilità, in quanto l'essenza, come tale, non ha senso né valore se non in relazione all'esistenza (possibile).
Ma non è l'essenza che esercita l'esistenza: questa è esercitata in atto solo da un soggetto, al quale l'essenza è
attribuita come predicato (Pietro è un animale ragionevole. Socrate è filosofo), e solo nel giudizio l'esistenza
è colta come esercitata (o esercitabile) fuori dello spirito da parte di un soggetto (existentia ut exercita). Ciò
è caratteristico del processo giudicativo, consistente nell'affermare che due concetti, distinti in quanto oggetti
di pensiero, s'identificano di fatto nell'esistenza reale o possibile (106).
Ora, questa affermazione di unità o d'identità, nella quale consiste il giudizio, non è veramente possibile e
intelligibile che per effetto delle esigenze oggettive della cosa, realmente o possibilmente esistente, poiché,
dal punto di vista della simplex apprehensio degli oggetti di pensiero, nulla obbliga lo spirito a identificare o
ad unificare oggetti di pensiero diversi e distinti (159).
137 - 2. I PRINCÌPI PRIMI - Tutte le dottrine, siano esse idealistiche o realistiche, ammettono che il pensiero è sospeso a princìpi assolutamente primi. Si tratta di sapere se questi princìpi abbiano un senso e in qual
modo lo abbiano. Vi sono pochi nominalisti che si siano spinti fino a sostenere che essi non significhino nulla e che lo spirito, pensandoli, non pensi nulla. Abbiamo d'altronde mostrato, discutendo lo scetticismo, che
l'affermazione dei princìpi è implicata persino nella loro negazione. Infatti, gli scettici (empiristi) hanno creduto di trovare una via di mezzo nell'asserzione che i princìpi erano soltanto degli indimostrabili e di conseguenza che ogni verità, essendo stabilita in funzione di essi, era relativa e condizionale. Ma si tratta sempre
di sapere se il senso dei princìpi sia arbitrario e convenzionale o, al contrario, se esso sia loro realmente intrinseco, cioè se i princìpi siano necessari di per sé e donde provenga la loro necessità.
L'ipotesi della convenzione o della comodità non può essere sostenuta dal punto di vista idealistico, poiché
significherebbe l'irrazionalità pura. Bisogna dunque ammettere che i princìpi abbiano un senso in se stessi e
che siano necessari. Ma come render conto di questa necessità? Non vi sono che due risposte possibili: bisogna dire o che la necessità dei princìpi è quella dell'atto dello spirito, il quale li pone in ragione di se stesso,
oppure che essa è l'espressione di una necessità intelligibile colta nell'essere presente al pensiero.
La prima è la risposta dell'idealismo e può assumere due forme differenti. Vedremo che sotto queste due
forme, essa conduce a sopprimere ogni significato intrinseco ai princìpi, cioè a farli dipendere da una necessità esterna. Da una parte, infatti, Kant spiega i princìpi necessari mediante le forme a priori dell'intelletto,
vale a dire mediante la struttura mentale. È chiaro, in questo caso, che il loro senso è interamente relativo a
un fatto che è al di fuori d'essi. Di per sé, e come tali, essi non hanno senso: sono puramente accidentali, in
quanto dipendono da una necessità esterna. Altri pensatori idealisti, eliminando la soluzione kantiana, dicono
che i princìpi si giustificano in quanto esprimono l'intuizione dello spirito che coglie se stesso come sorgente
di verità: l'affermazione trae tutta la sua certezza unicamente dall'atto di affermare. L'essere posto dal giudizio non è un oggetto, ma un atto intellettuale. (Cfr. L. Brunschvicg, La modalité du jugement, Parigi, 1897, p.
13). Ma questa soluzione non è più felice della precedente. I princìpi non si spiegano maggiormente da se
stessi; essi non portano in sé l'impronta della verità, poiché il loro significato riesce ad essi estrinseco, relativo a uno spirito ritenuto in grado di produrli del tutto spontaneamente. In altri termini i princìpi non hanno
senso. Essi sono un dato bruto, e l'essere, ridotto, come tali pensatori ritengono, a un atto dello spirito, non è
qui che il sostituto della «cosa in sé» del kantismo. Questo idealismo assoluto si riduce alla forma meno intelligibile del «cosismo» (160).
Non c'è dunque altra soluzione che ammettere il primato dell'intelligibile, cioè dell'essere. Il giudizio, al
livello empirico, si spiega mediante la cosa stessa alla quale lo spirito tende a conformarsi componendo i
concetti in misura dell'essere che essa esercita, nell'ordine della realtà o in quello della possibilità. I princìpi
primi hanno essi stessi senso e portano in sé l'impronta della verità e il carattere della necessità solo perché
esprimono la legge universale dell'essere, presente a un pensiero ordinato per natura a conformarglisi. Il loro
senso è loro intrinseco, perché l'essere è intrinseco al pensiero e perché essi sono propriamente l'essere in
quanto pensato. Lungi dall'essere «l'antipodo del reale» (Brunschvicg, La modalité du jugement, p. 118), il
pensiero si esplica e si giustifica solo attraverso il reale.
Queste osservazioni permetteranno di rispondere alle obiezioni che Renouvier (Introduction à la Philosophie analytique de l'histoire, Parigi, 1864, t. I, cap. XVI) oppone alla nozione dell'evidenza come criterio
della verità. Infatti Renouvier osserva che, rendendo la certezza necessaria, irresistibile e, per ciò stesso uni-
versale, l'evidenza renderebbe l'errore automaticamente inesplicabile o, più esattamente, identico alla verità,
cioè necessario e irresistibile com'essa. Secondo questa concezione dell'evidenza, noi non saremmo responsabili né delle nostre verità, che s'imporrebbero a noi senza di noi, né dei nostri errori, che sarebbero il risultato, non di una deficienza soggettiva dell'intelligenza o della volontà (III, 445-446), ma di un impedimento
esterno, indipendente dal soggetto conoscente. In realtà, aggiunge Renouvier, se si vuol salvare la verità, bisogna fame un'opera di libertà, il frutto di un patto che l'uomo fa con se stesso e per cui conviene affidarsi ai
lumi della ragione, accettando i giudizi che le sono apparsi come veri dopo la prova del dubbio.
Per dare il giusto valore a questa argomentazione, concediamo a Renouvier che l'evidenza non può avere
quel carattere per così dire meccanico e quella fatalità contro la quale egli si leva, senza essere obbligati con
questo a fare della verità un'«opera di libertà», nel senso in cui egli la intende, vale a dire l'effetto di una
scommessa o di una convenzione. Senza dubbio bisogna che l'evidenza sia (di diritto) necessaria e universale; ma questa necessità non è una costrizione esterna, che possa porre in causa la libertà dello spirito e per ciò
stesso, come osserva Renouvier, renda l'errore inesplicabile. L'evidenza è un lume di cui l'intelligenza prende
attivamente coscienza in quanto essa costituisce il doppio effetto della natura delle cose e insieme della finalità essenziale dell'intelligenza. L'intelligenza, lungi dal subire una costrizione meccanica dell'evidenza,
quando l'evidenza le sia data, esperimenta se stessa in quanto in atto di esercitarsi secondo la sua propria
legge; l'impossibilità in cui si trova di rifiutarsi all'evidenza del vero equivale all'impossibilità di rifiutarsi a
se stessa e di rinnegarsi nel suo movimento più naturale e più spontaneo.
È anche per questa ragione che non si può qui parlare di scommessa né di convenzione, poiché l'atto stesso
con il quale l'intelligenza obbedisce al lume dell'evidenza coincide con la coscienza che essa ha di esercitarsi
seguendo la sua natura e la sua finalità, quella cioè d'essere conforme all'essere: l'atto con il quale lo spirito
aderisce al vero è un solo e medesimo atto con quello per cui è appieno ciò che esso è ed opera secondo la
sua legge più profonda. La libertà dello spirito culmina dunque nell'adesione all'evidenza del vero, che è per
l'intelligenza la piena padronanza di sé e, più precisamente ancora, la coincidenza perfetta di sé con sé.
138 - 3. IL SENSO DELLA SCIENZA - In senso ancor più generale, la scienza, come di fatto si costituisce, è inintelligibile senza la realtà di un universo transoggettivo, su cui il pensiero si misura per conoscerlo.
Si può non assegnare un valore decisivo al fatto che lo scienziato; come tale, è naturalmente realista (161),
poiché la sua fede dipende qui solamente dal senso comune e può ricevere la taccia d'infra-filosofica. Ma è
evidente che il sapere scientifico, in ogni sua estensione, dipende da un'esperienza che non si può ridurre a
quella di un pensiero che pensi se stesso. La costituzione della scienza, le sue approssimazioni successive, i
suoi progressi e i suoi brancolamenti, i suoi errori e le sue riprese, sono condizionati da una realtà che ci resiste e si sa che la scienza giunge a dominare la natura soltanto cominciando con l'obbedirle (162). Si può dire
senza dubbio che lo spirito deve «rispondere solo per sé, per l'intelligibile e per il vero, e non per l'esistenza
della natura» (L. Brunschvicg, L'idéalisme contemporain, Parigi, 1905, p. 79). Ciò tuttavia equivale a confessare chiaramente una cattiva coscienza in fatto d'idealismo, poiché è un riconoscere implicitamente che il
pensiero non costruisce l'universo, ma che esso lo riceve innanzi tutto come un dato.
CONCLUSIONE
139 - Per concludere questi studi di Critica, ci resta non tanto da riepilogare i punti essenziali della nostra
esposizione, quanto da mostrare ciò che significa il realismo che tutta la nostra discussione ci ha imposto
come la sola soluzione suscettibile di render conto adeguatamente della conoscenza umana.
1. REALISMO E IDEALISMO
a) Il reale è idea. Si sarà visto che la nostra posizione, per quanto realista, ammette tutto ciò che di giusto
e di vero comporta l'idealismo. L'ontologia alla quale ci conduce il nostro studio è realista nel senso che le
cose, quali noi le concepiamo, grazie ai princìpi metafisici che esse comportano e che ricevono, secondo il
caso, i nomi di essenza, di forma, di soggetto, hanno abbastanza consistenza per affermarsi in sé e per fondare un cosmo coerente. I fenomeni non formano più delle unità discrete davanti allo spirito e tali che solamente una forza meccanica potrebbe riunirle; ma sono invece gli esseri di un essere, di un soggetto da cui procedono, e che conferisce loro unità. Questo soggetto stesso non deve concepirsi come un blocco inerte sotto il
movimento delle apparenze, bensì nello stesso tempo come un principio permanente e perpetuamente muoventesi, e come un'essenza o un'idea, definiente un essere in seno al reale (163). Essenza e idea: il reale così
concepito risulta dunque adattato allo spirito, poiché esso stesso è o spirito o analogo allo spirito.
140 - b) L'idea è reale. Dunque, per l'intelligenza umana, conoscere, è sempre essere misurata da una cosa. L'intelligenza umana non è creatrice. Essa non può che assoggettarsi al dato. È di fronte a tal condizione
che gli idealisti hanno protestato con maggior vivacità. La «cosa», nella loro visione, sarebbe un ostacolo allo slancio del pensiero (164). Ma ciò significa mal intendere la posizione dell'intelligenza di fronte alla cose.
Infatti, queste bloccherebbero l'impulso dello spirito se (come nell'empirismo) fossero considerate come fatti
bruti. Il nominalismo costringe a limitarsi a questo «cosismo» e l'idealismo stesso è ridotto infine alla mede-
sima disgrazia ch'esso tuttavia voleva soprattutto evitare. Per contro, una filosofia dell'essere rischia tanto
meno di urtare contro l'ostacolo del «cosismo», cioè d'immobilizzare il pensiero in un mondo finito e incoordinato di cose, in quanto il concetto, una volta che se ne colgano il senso e la funzione, lungi dall'opporsi alla relazione e al giudizio, si definisce e si intende solo mediante la relazione, per modo che il sapere umano,
generale e astratto, è essenzialmente un sistema di relazioni stabilite fra gli enti dell'universo, poi fra questi
enti e il Principio primo dal quale essi procedono: ordo universi, qui ordine et connexione causarum contexitur (S. Tommaso, De Veritate, q. XI, 1, in c.).
Questo processo è in certo modo inscritto nel concetto stesso. Infatti, il concetto, in quanto cerca di esprimere una essenza, termine ideale dell'intelligenza, deriva da quella compositio et divisio in cui Aristotele e
san Tommaso vedono la funzione propria dell'intelletto discorsivo. Il concetto è dunque veramente un sistema di relazioni, simbolo dell'unità complessa del reale (165). La scienza, da questo punto di vista, e precisamente per il fatto che ogni cosa si definisce attraverso la sua relazione a tutto il resto (166) - risulterà dunque,
nello stesso tempo nell'atto che la costituisce e nei concetti per mezzo dei quali si esprime, da una serie di
giudizi o di relazioni. In questa prospettiva, gli «oggetti» che la riflessione filosofica pone, gli enti ai quali il
processo razionale conduce, non sono affatto atomi d'intuizione generatori di un universo discontinuo e anarchico, bensì sorgenti di relazioni intelligibili, più precisamente, princìpi, cioè, non termini o limiti, ma
funzioni, funzioni reali, dalle quali il dinamismo intelligibile si traduce per noi effettivamente in una rete di
relazioni sempre più numerose, sempre più complesse, di mano in mano che ci si eleva nella scala degli enti,
fino al punto in cui, oltre l'universo e seguendo le esigenze, non dell'intuizione, ma del giudizio, s'incontra il
Principio supremo, sorgente prima delle relazioni universali, reali o possibili, e come tale, nella sua ricchezza
infinitamente semplice, oggetto di giudizi infiniti.
Tutto ciò significa che, secondo la visione realista dell'universo, apprensione dell'essere e sapere esplicativo, lungi dall'opporsi, s'implicano e si richiamano a vicenda. È questa la lezione che ci ha continuamente
fornita l'analisi del concetto. Infatti, costituito com'è da un sistema di relazioni e in quanto definisce propriamente la legge o l'ordine reale, il concetto comporta tuttavia l'intuizione di un oggetto, e tutto il sistema delle
relazioni necessarie, il «fascio di leggi» costituito dal nostro sapere (omnia ordinantur ad invicem, dice san
Tommaso, In lib. de Div. nom., cap. IV, lett. 5) è esso stesso intelligibile solo mediante l'intuizione degli oggetti della scienza. Ciò appunto implica il senso comune, quando parla di cose, vale a dire, etimologicamente, di cause: la cosa si definisce secondo il posto e secondo la funzione che occupa nell'insieme; ma se essa
diventa intelligibile, cioè reale per il pensiero, solo per il suo posto e la sua funzione nel tutto, posto e funzione, a loro volta, hanno senso solo in quanto riferiti all'oggetto dell'intuizione. Così, anche per questa via
siamo nuovamente condotti a questa evidenza: realismo e idealismo appaiono come due aspetti necessari e
complementari della nostra visione del reale.
141 - 2. LA PARTECIPAZIONE ALLA LUCE DIVINA - Si può andare anche più oltre e osservare, secondo quanto ha giustamente notato J. Maritain (Les Degrés du Savoir, p. 211) «che, facendosi misurare
[dalle cose], è dall'intelligenza stessa che in definitiva la nostra intelligenza si fa misurare, dall'intelligenza in
atto puro, dalla quale le cose sono misurate e dalla quale esse ricevono il loro essere e la loro intelligibilità».
Ed infatti quella idea che la cosa è vista in profondo, è essa stessa reale solo in quanto viene dal Pensiero
sussistente. Questo universo di idee, che si offrono allo spirito umano calate ad informare una materia infinitamente varia, è un riflesso, ma un riflesso reale del Pensiero divino, in virtù dell'atto creatore (l'imperium
rationis divino). È dunque Dio, in un certo senso, che noi conosciamo nelle cose (167). Dell'essenza divina
alla quale esse partecipano noi sappiamo qualche cosa, in maniera immensamente lontana, ma reale. Perciò
appunto, di conseguenza, quando conosciamo la scienza, conosciamo attraverso ragioni immutabili e necessarie, dal punto di vista di Dio (168). Noi raggiungiamo in un certo senso il Pensiero divino creatore, l'Essere
extra ordinem entium existens velut causa quaedam profundens totum ens et omnes ejus differentias (169).
142 - 3. LA VERACITÀ DELL'INTELLIGENZA - Le osservazioni precedenti, in realtà, costituiscono
un'anticipazione nel campo della Teodicea, poiché sono piuttosto una prova dell'esistenza di Dio, quella
che costituisce uno degli aspetti della quarta via. In Critica, interessa meno di scoprire il fondamento ultimo della verità che quello della conoscenza della verità. Conveniva tuttavia scorgere fin da questo momento tutto ciò che implica quella adeguazione del pensiero alle cose mediante la quale abbiamo definito
la verità.
Se si tratta della giustificazione ultima della conoscenza della verità, sappiamo che l'intelligenza la quale, giudicando, pone la verità del suo giudizio, può far ciò solo conoscendo la sua proporzione o la sua
adeguazione alla cosa di cui essa dà un giudizio, e ciò implica pure che l'intelligenza conosce allo stesso
modo la natura del principio attivo che essa stessa è, come la sua natura e la sua finalità essenziale, che
è di essere conforme alle cose (170). È questo quanto dà al realismo critico il suo senso profondo e la sua
portata. Questo realismo non è né un postulato, né il risultato di una costruzione arbitraria, né la pura e
semplice registrazione dei dati del senso comune: è l'espressione della vita stessa dell'intelligenza, colta
alla sua sorgente da un'intuizione che coincide con l'intelligenza in atto di conoscere. Il realismo è dunque meno una teoria che un fatto, di cui è stato compito della critica far prendere una coscienza riflessa.
Con ciò d'altronde siamo ben lungi da ogni psicologismo, poiché il fatto coincide qui con il diritto, in
quanto la vita dell'intelligenza è colta dal di dentro, nella sua essenza stessa e nelle sue esigenze assolute.
143 - 4. L'INTUIZIONE DELL'ESSERE - Così rispondiamo alla domanda che ci ponevamo all'inizio della
Metafisica: è l'intelligenza umana realmente capace di cogliere l'essere e di giustificare il valore delle affermazioni che enuncia sul reale? Abbiamo visto, infatti, che l'intelligenza, attraverso un'ordinazione costitutiva
della sua stessa natura, si conosce come ordinata ad essere conforme all'essere. È proprio questo, d'altra parte, ciò che ci hanno mostrato le nostre indagini sulle differenti operazioni dello spirito e sui procedimenti della conoscenza, stabilendo che l'intelligenza risulta costantemente misurata dall'essere, trovato da essa in tutti i suoi concetti e costituente la legge suprema di tutti i suoi giudizi. L'essere è, per così dire, l'atmosfera nella quale respira la nostra intelligenza.
Queste concezioni sono familiari a Rosmini e sono al centro della sua dottrina. L'idea dell'essere, essendo al fondo di tutte le nostre conoscenze, è, com'egli dice, la forma del nostro intelletto, nel senso che esso conosce tutte le cose nella luce di quella: l'idea dell'essere è la condizione e il mezzo universale dell'intelligibilità. L'essenza dell'essere, come forma dell'intelligenza, è dunque oggettiva, ed essa è data allo
spirito (o soggetto) in modo tale che il contatto d'esso con l'essere si compie senza mediazione ( 171). Tuttavia, in virtù dell'idea dell'essere, la ragione non è ancora pienamente costituita; essa è semplicemente
capace di produrre gli atti secondi che costituiscono la conoscenza propriamente detta. In noi, tale idea
significa soltanto l'esistenza possibile d'un essere qualsivoglia: essa è in noi «la potenza di pensare» (172).
Tuttavia, è proprio della filosofia e specialmente della Metafisica elevarsi a poco a poco al di sopra di tutte
le determinazioni dell'essere e liberare espressamente (in actu signato) questo oggetto di concetto, che è dato
nel gioco spontaneo dell'intelligenza solo in atto vissuto (in actu exercito) o implicitamente, e considerarlo in
se stesso, in quanto essere. Con ciò, la ragione ha ormai di che oltrepassare tutto il campo sensibile, poiché
comprende che l'essere, astratto dall'esperienza sensibile, ha un valore sopra-sensibile e soprasperimentale, e che i princìpi definienti le sue leggi universali e assolute, hanno una portata universale (come
l'essere che li fonda), fatta riserva per l'analogia (173). Nessuna necessità intelligibile esige che l'essere e i trascendentali convertibili con lui (l'uno, il vero, il bene) si attuino solo nella materia. Se l'intelligenza, ordinata
anzitutto all'essere esistente nel sensibile e dipendente di fatto nel suo esercizio da condizioni organiche, non
può cogliere sperimentalmente realtà nelle quali l'essere esiste senza materia, almeno essa può allo stesso
tempo concepire la possibilità assoluta di tali realtà positivamente immateriali e, come vedremo in Teodicea, inferire con fondatezza, con ragionamenti basati sulle esigenze dell'essere dato all'esperienza, l'esistenza
necessaria di un Essere, Atto puro e Principio primo dell'essere universale.
La Metafisica è così giustificata in tutta la sua estensione non sotto la garanzia fallace d'intuizioni sopra-intellettuali, di postulati indimostrabili, d'ispirazioni d'ordine affettivo, ma sotto la garanzia di quella
prima apprensione astrattiva (174) dell'essere, nella quale, dice san Tommaso, tutto il sapere e tutta la
certezza risultano virtualmente contenuti (175).
INDICE
INTRODUZIONE
Art. I - CONCETTO DI METAFISICA. Definizione - Confini della metafisica - Campo della
metafisica - Nozioni moderne della metafisica - Scienza dell'immateriale - Scienza del reale in se
stesso - Scienza dell'inconoscibile - Scienza dell'Assoluto - Conoscenza sistematica universale Conoscenza a priori e teoria critica
Art. II - OGGETTO DELLA METAFISICA - I gradi d'astrazione - Principio della distinzione - I tre
livelli d'astrazione - La scienza metafisica - Specificità della metafisica - Divisione
PARTE PRIMA
Posizione e metodo del problema critico
LIBRO PRIMO
CRITICA DELLA CONOSCENZA
Cap. I - STORIA DEL PROBLEMA CRITICO DALL'ANTICHITÀ A CARTESIO
Art. I - L'ANTICHITÀ - Il problema dell'essere e del reale - Eraclito - Parmenide - Le posizioni critiche - Lo scetticismo - Il nominalismo - Critica del concetto - Il fenomenismo e l'idealismo - Il realismo - Aristotele - Sant'Agostino
Art. II - IL MEDIOEVO - Il realismo critico - Il realismo tomistico - La questione del «realismo
critico» - Il realismo platonico - Il realismo delle essenze - Il panteismo - Il terminismo - Il principio
nominalistico - Il principio d'immanenza - L'idealismo problematico
Art. III - IL CARTESIANESIMO - La «via modernorum» - I temi del Medioevo - Il primato della
critica - L'idealismo cartesiano - La dottrina di Cartesio - Il problema critico dopo Cartesio
Cap. II - NATURA E METODO DEL PROBLEMA CRITICO
Art. I - OGGETTO DELLA CRITICA - Lo pseudo-problema del mondo esterno - Gli argomenti idealistici - Discussione - I fatti di relatività sensoriale - L'ipotesi del sogno coerente - Le contraddizioni dell'idealismo - L'oggetto formale della critica - Il valore della conoscenza intellettuale - I
fondamenti della certezza
Art. II - METODO DELLA CRITICA - La riflessione critica - Natura della riflessione critica - I
presupposti della riflessione critica - Il punto di partenza della critica - Il «cogito» realistico - Il
dubbio critico - Natura del dubbio critico - Forma del problema - Il dubbio cartesiano - Il dubbio ipotetico - Problematica della critica della conoscenza - Critica dell'intelligenza - Critica dei processi
della conoscenza
PARTE SECONDA
Natura della conoscenza intellettuale
Cap. I - L'ESISTENZA DELLA CERTEZZA
Art. I - IL FATTO DELLA CERTEZZA - Il dogmatismo degli scettici - Lo scetticismo come dottrina - Lo scetticismo assoluto - Lo scetticismo probabile - Il dubbio che dubita di sé - Lo scetticismo come fatto - Le certezze prime - Certezze dell'ordine speculativo - Certezze dell'ordine pratico
Art. II - LA LEGITTIMITÀ DELLA CERTEZZA - L'argomento dell'errore - Gli errori dell'intelligenza - Le contraddizioni dei filosofi - Le variazioni del pensiero individuale - Discussione - L'umanità crede alla verità - L'umanità progredisce nella conoscenza del vero - Il gusto dell'assoluto L'errore è solo accidentale - Gli errori dei sensi - Argomento del diallelo - La mancanza di criterio
definitivo - La petizione di principio - Discussione - Il criterio dell'evidenza - L'evidenza dei princìpi - Valore della conoscenza - Inconsistenza del probabilismo - I nuovi problemi
Cap. II - LE CAUSE SOGGETTIVE DELLA CERTEZZA
Art. I - LE DOTTRINE EMPIRISTICHE - La corrente fenomenistica - Il fenomenismo di Hume L'origine delle idee - Analisi delle idee - Dissoluzione del soggetto - L'immaterialismo di Berkeley La corrente positivistica - Nominalismo ed empirismo - Il positivismo come metodo - Il positivismo
come dottrina - La corrente antintellettualistica - Il pragmatismo - Il bergsonismo - L'esistenzialismo
Art. II - L'ATTIVITÀ DEL SOGGETTO CONOSCENTE - La relazione dell'essere al pensiero - La
relazione di conformità - La conoscenza non è una copia - I due modi d'esistenza - La verità - L'adeguazione formale - Il rapporto all'esistenza - La divisione e la composizione - La relazione del
pensiero all'essere - La determinazione dell'intelligenza - L'impressione rappresentativa - Il concetto
- Il segno formale.
Cap. III - LE CAUSE OGGETTIVE DELLA CERTEZZA
Art. I - L'IDEALISMO - L'idealismo formale di Kant - Il contesto storico del kantismo - Le forme a
priori - I problemi del kantismo - L'idealismo nel XIX secolo - Il problema del reale - Il nuovo averroismo - Il neo-criticismo - La fenomenologia - Il metodo fenomenologico - La dottrina - Realismo
o idealismo? - L'esistenzialismo - Il neorealismo - La reazione anti-idealistica - Il neorealismo anglosassone
Art. II - LA CAUSALITÀ DELL'OGGETTO - I princìpi del realismo - L'immanenza della conoscenza - Cosa e oggetto - Lo pseudo-problema della cosa in sé - L'idea è reale - Il giudizio, i princìpi e la scienza - Conclusione - Realismo e idealismo - La partecipazione alla luce divina - L'attività
della intelligenza - L'universalità della conoscenza - L'intuizione dell'essere.
RẾGIS JOLIVET
METAFISICA
(Tomo secondo: Ontologia e Teodicea)
Titolo originale dell'opera:
Traité de philosophie
III. Métaphisique
Emmanuel Vitte, Editeur - Lyon–Paris
Traduzioni di E. Gariffo, V. da Re, M. A. Inserillo
Nihil obstat
Sac. Tullio Goffi
Brixiae, 16-2-1960
Imprimatur
+ G. Bosetti
Hep. Hipp. Vic. Gen.
Brixiae, 25-2-1960
LIBRO SECONDO
ONTOLOGIA
INTRODUZIONE
SOMMARIO176
Art. I - METODO. Il metodo analitico-sintetico - L'a priori e l'a posteriori in metafisica - Metafisica e
scienze della natura - Metafisica e filosofia della natura - Osservazione e riflessione - Il metodo riflessivo L'intuizione dell'io - L'intuizione intellettuale dell'essere - Le tappe della metafisica ­ L'intuizione confusa L'intuizione estensiva - L'intuizione metafisica - Astrazione formale e intuizione - Intuizione e analisi.
Art. II - DIVISIONE. L'essere come principio d'esistenza - L'essere in se stesso - I modi speciali dell'essere
- L'essere come principio d'operazione.
L'ontologia, come già abbiamo notato (15), e come indica l'etimologia della parola, è la scienza dell'essere
in quanto essere, cioè considerato in ciò che costituisce la sua propria intelligibilità. Questa può essere considerata da un duplice punto di vista, cioè dal punto di vista statico, in quanto l'essere è principio d'esistenza
(principium essendi), e dal punto di vista dinamico, in quanto l'essere è principio d'operazione (principium
operandi).
Tale è l'oggetto del trattato che ora iniziamo, dopo aver stabilito, per mezzo della critica, la legittimità dei
procedimenti mediante i quali l'intelligenza umana pretende di prender possesso conoscitivo dell'essere, delle
sue divisioni e dei suoi princìpi.
Art. I – Metodo dell'Ontologia
§ 1 - Il metodo analitico-sintetico
144 (1 bis) - 1. L'A POSTERIORI E L'A PRIORI IN METAFISICA ­ Se l'oggetto della metafisica è l'essere in generale (ens in communi), astratto dall'esperienza sensibile mediante l'attività spontanea dell'intelligenza, il metodo proprio di questa scienza non potrà essere né esclusivamente deduttivo o a priori, né esclusivamente induttivo o a posteriori.
a) La metafisica come scienza induttiva. Il punto di partenza della metafisica si trova necessariamente nell'esperienza, poiché la conoscenza dell'essere e dei suoi generi supremi può essere attuata solo per opera dell'astrazione e, per conseguenza, sotto la condizione prima dell'intuizione sensibile. È questo il senso dell'assioma: omnis cognitio a sensu o, in modo ancora più preciso: nihil est in intellectu quin prius fuerit in sensu.
b) La metafisica come scienza deduttiva. Tuttavia, la metafisica non è esclusivamente induttiva. Essa non è
tale, di fatto, che in rapporto alla condizione prima e materiale. Una volta in possesso del suo oggetto, che è
l'essere (l'essere comune ai dieci predicamenti), l'intelligenza non ha più da ricorrere ai sensi, poiché nell'essere medesimo, dove essa in certo modo si stabilisce, deduce e verifica le proprietà dell'essere, indipendentemente dall'esperienza sensibile.
Non bisogna d'altronde intendere con ciò che la conoscenza delle proprietà dell'essere sia puramente a
priori e analitica. La riflessione che la esplicita ha il suo punto di partenza nell'esperienza, ma l'intelligibilità
di queste proprietà in funzione dell'essere, come pure le dimostrazioni di cui fa uso la metafisica, non sono,
come tali, sotto la giurisdizione dell'esperienza sensibile, poiché esse si servono di princìpi di dimostrazione
che non sono d'ordine sensibile, hanno di mira termini soprasensibili e ci appaiono, all'analisi, come date già
implicitamente, cioè prima d'ogni analisi, insieme nell'essere e nel pensiero riflettente sul concetto o nozione
d'essere.
145 - 2. METAFISICA E SCIENZE DELLA NATURA - Si coglie così tutta la differenza che corre tra il
metodo della metafisica e quello delle scienze sperimentali. Quest'ultimo è fondamentalmente induttivo e a
posteriori, nel senso che il punto di partenza delle scienze della natura (cioè l'esperienza sensibile come ta-
le177, i loro termini (le qualità o fenomeni sensibili), e i loro procedimenti di dimostrazione (verifica sperimentale), sono di natura sensibile.
Ciò non vuol significare che le scienze sperimentali non facciano appello alla deduzione. Sappiamo al contrario che questa ha una parte considerevole nella costituzione del sapere sperimentale (I, 159). Non è essa
tuttavia che definisce formalmente il metodo sperimentale. È ben certo d'altra parte che le scienze della natura fanno appello a un insieme di nozioni che non sono immediatamente di natura sensibile (I, 167). Sennonché queste nozioni restano ugualmente sotto la giurisdizione della verifica sensibile e non valgono che per
questa verifica, la quale torna in generale a mostrare che «tutto avviene come se» il simbolismo scientifico
equivalesse realmente a dati sensibili che sfuggono provvisoriamente alla presa dell'osservazione metodica.
3. METAFISICA E FILOSOFIA DELLA NATURA - La filosofia della natura dipende essenzialmente
dall'esperienza sensibile, poiché essa ha per principio e per termine, non l'essere nella sua più alta generalità,
ma l'essere in divenire, cioè l'essere in quanto mobile e sensibile. Essa deve dunque partire dal sensibile e ritornare al sensibile per verificarvi le sue conclusioni. Tuttavia, essa formula queste conclusioni per via di ragionamenti non d'ordine sperimentale, giacché essi vertono su essenze e su nature non sensibili, ma tali da
poter essere considerati come validi solo nella misura in cui rendono intelligibile l'esperienza sensibile stessa,
come tale.
§ 2 - Osservazione e riflessione
146 - Il metodo della metafisica ci appare dunque come oggettivo, intendendo con ciò che lo sguardo dello
spirito si dirige anzitutto alle cose dell'esperienza: il suo oggetto proprio è l'ens in sensibili existens. Bisogna
tuttavia precisare questo punto, al fine di caratterizzare il nostro metodo in rapporto ad altri, i quali si propongono egualmente come oggettivi o che, al contrario, vogliono fondarsi sulla riflessione.
A. IL METODO RIFLESSIVO
Non c'è bisogno di ritornare sul metodo idealistico, che abbiamo largamente discusso nella critica. Questo
metodo evidentemente può consistere soltanto in una riflessione sul pensiero e sul suo contenuto immanente,
giacché l'essere risulta ridotto al pensiero. Abbiamo visto contro quali insormontabili difficoltà urti questo
metodo soggettivo o sintetico. Resta tuttavia da vedere ciò ch'esso significa dal punto di vista metafisica.
1. LA SCIENZA DELLA LUCE NELLA SUA SORGENTE - J. Lachelier definisce in questi termini la
metafisica: «scienza del pensiero in se stesso, della luce nella sua sorgente» (Psychologie et Métaphysique,
op. cit., p. 173)178. Anzi, solo a questo titolo essa può essere, secondo Lachelier, la scienza dell'essere. Bisogna infatti, egli dice, che ci sia in noi «prima d'ogni esperienza un'idea di ciò che deve essere, un esse ideale,
come voleva Platone, che sia per noi il tipo e la misura dell'esse reale. Questa idea appunto è, e sola può essere, il soggetto della conoscenza: poiché essa non è affatto una cosa, ma la verità a priori di tutte le cose, e
la conoscenza è unicamente la coscienza che questa verità ideale prende di se stessa riconoscendosi nelle cose che l'attuano»179.
147 - 2. DISCUSSIONE
a) Il postulato nominalistico. Non crediamo che si possano respingere in blocco queste asserzioni di Lachelier. Vi è tuttavia un punto che bisogna fortemente sottolineare, poiché esso regge tutto il resto: ed è che Lachelier è tratto a proporre questo metodo puramente a priori della metafisica solo a titolo di conseguenza del
nominalismo radicale adottato al punto di partenza. Questo nominalismo, come abbiamo constatato altre volte, conduce a ritenere l'esperienza, cioè la realtà sensibile, come sprovveduta d'ogni carattere interno d'intelligibilità, vuota d'ogni elemento razionale, priva d'ogni «interno» metafisico che renda ragione dell'ordine
apparente delle cose180. Da questo punto di vista, il metodo riflessivo di Lachelier (come tutto l'idealismo)
non riposa che su un puro postulato.
b) Le esigenze della intelligibilità. Nondimeno non possiamo non scoprire nella tesi di Lachelier un elemento importante di verità, propriamente quello che permette all'idealismo di sussistere pur in mezzo alle
peggiori contraddizioni. Poiché è certo che la metafisica sarebbe impossibile se noi non potessimo riferire i
nostri giudizi a un esse ideale, tipo e misura dell'esse reale. Sappiamo che ciò può giustificarsi da un duplice
punto di vista. Anzitutto, se la metafisica parte dall'esperienza sensibile, essa non subisce in alcun modo la
servitù del sensibile e si può dire che tutto il sapere è in qualche modo preformato o addirittura innato nella
virtù dell'intelletto attivo, mediante la quale l'intelligibile è portato dalla potenza all'atto. L'esse ideale, in
rapporto al quale si enunciano tutti i giudizi e si effettuano tutte le dimostrazioni, è dunque, se così si può dire, costitutivo dell'intelligenza (o, secondo la terminologia moderna, della ragione) in quanto facoltà dell'essere e dei princìpi. In secondo luogo, una ulteriore ricerca stabilisce che il nostro pensiero è ricollegato al
Pensiero divino e che ogni verità è tale solo in virtù delle «ragioni (o norme) eterne» che la fondano e la misurano. L'idea che, in noi, enuncia l'esse ideale, è dunque una partecipazione della Ragione suprema 181.
148 - c) La funzione dell'esperienza. Di tutto ciò l'idealismo ha il vivo sentimento. Il suo errore tuttavia sta
nel pensare che questo esse ideale, questa idea, tipo e misura dell'essere, sia in noi prima di ogni esperienza,
interamente a priori, e ch'esso. ponga le condizioni assolute di ogni esistenza. Sarebbe così solo se noi fossimo la sorgente prima dell'essere. Poiché non lo siamo (come bastano a dimostrare i nostri pensieri legati al
corso della vita e finiti), solo mediante le cose - le quali partecipano anche esse, a loro modo, all'esse ideale,
tipo e misura di ogni ente - la nostra intelligenza entra in possesso dell'essere, delle sue proprietà e delle sue
leggi assolute, le quali fondano universalmente l'intelligibilità.
Perciò appunto il metodo della metafisica non può essere formalmente riflessivo. Esso è necessariamente
un metodo oggettivo, poiché, da una parte, ciò di cui trattasi, è l'essere che è dato al pensiero umano, non posto da esso o contenuto in esso (se non potenzialmente, nella capacità di attuare l'intelligibile), e, d'altra parte, la legge dell'essere è inscritta nelle cose dell'esperienza. Ma è vero, per contro, che né l'essere ci sarebbe
accessibile, né le sue leggi visibili, se non fossimo provveduti di quella luce interiore, partecipazione della
Luce increata, per la quale tutto il reale ci diventa intelligibile182.
Questo punto di vista, dove Il realismo integra tutto ciò che vi è di giusto nell'idealismo, impone un metodo
che si potrebbe definire molto bene, secondo l'espressione di A. Forest, di «consentimento all'essere». Con il
consentimento, infatti, è significata, insieme, un'attitudine del pensiero che si sforza di «rispettare le essenze», e un'attitudine del volere che si applica a conformarsi alla volontà divina, tal quale si manifesta «attraverso la mediazione dell'essere» (A. Forest, Du Consentement à l'être, op. cit., pp. 138-158). È proprio quello che noi chiamiamo, da un punto di vista puramente nozionale, il metodo oggettivo. Crediamo però che solo con la teologia naturale e con la luce ch'essa fa rifluire su tutto il sapere intelligibile i punti di vista della
partecipazione dell'intelligenza e del volere all'assoluto del Pensiero e dell'Essere saranno meglio stabiliti.
L. Lavelle, dal canto suo, propone un metodo che si presenta come quello della riflessione (De l'Acte, op.
cit., pp. 28-41). «La metafisica, egli scrive, riposa su un'esperienza privilegiata, che è quella dell'atto che mi
fa essere», p. 11. Questo metodo, sembra, non è da confondere con il metodo idealistico, di cui esso non conserva se non ciò che noi stessi ne conserviamo, e che, del resto, fa corpo con il realismo tomistico. Infatti, la
«riflessione» lavelliana significa, sì, un processo oggettivo, ma applicato all'essere che mi è rivelato nel e per
l'atto mediante il quale io sono principio di ciò che io penso, di ciò che produco e di ciò che sono. Soltanto
così, ritiene Lavelle, l'essere può essere colto «dal di dentro» (p. 174). Ora, anche noi crediamo che l'essere
non possa essere veramente conosciuto se non colto «dal di dentro». (L'essere, del resto, non ha «di fuori»
che il nulla). Se però Lavelle, con il suo metodo, si stabilisce immediatamente, invocando la «partecipazione», nel cuore stesso dell'essere, riteniamo anzitutto che vi è interesse a rispettare le tappe logiche e progressive della scienza dell'essere; inoltre ci sembra che la partecipazione, così invocata al punto di partenza, prima che sia stabilito il carattere analogico dell'essere, rischi di prendere un senso ambiguo e di orientare la teoria dell'essere verso i gravi scogli dell'univocità.
B. L'INTUIZIONE DELL'IO
149 - IL PRIVILEGIO DELL'INTUIZIONE CONCRETA - Alcuni filosofi, preoccupati di assicurare alla
metafisica un oggetto reale, cioè, coi caratteri ch'essi vi annettono, esistente e concreto, solo capace, essi dicono, di condizionare un'apprensione d'essere autentico, pensano che il punto di partenza della metafisica
può essere solo l'intuizione dell' esistenza dell'io. Infatti, la metafisica ha per oggetto formale l'essere reale, il
quale è per eccellenza l'essere esistente. Ora un'esistenza non può essere data che in una intuizione, e la sola
intuizione che, di fatto, ci dia un'esistenza, cioè un essere concreto come tale, è l'intuizione intellettuale dell'io. Questa sarà dunque la base e la base concreta della metafisica 183.
2. OSSERVAZIONI - Certo non si potrebbe negare il compito considerevole che bisogna attribuire in filosofia all'intuizione dell'io (III, 560-565), che è la nostra sola intuizione intellettuale concreta e diretta. Tuttavia, non sembra che questa intuizione sia realmente richiesta, a titolo privilegiato, dalla scienza metafisica.
Da una parte, infatti, secondo una dottrina solidamente stabilita in Psicologia (III, 401), l'intelligenza, che
è direttamente ordinata all'universale (essenza astratta), raggiunge, nel medesimo tempo che l'universale
(grazie all'immagine nella quale l'universale è stato astratto e che resta in continuità con questo), il singolare
esistenziale stesso. In altri termini, l'intelligenza coglie il modo nel quale l'universale esiste. D'altra parte, se
è vero che l'oggetto proprio della metafisica è l'essere reale e che l'essere reale si definisce nel senso pieno
della. parola solo mediante l'esistenza, non bisogna restringere questa esistenza all'esse attuale; il reale, come
mostreremo in seguito, abbraccia l'attuale e il possibile, e l'essere al quale si ordina il pensiero metafisica è
anzitutto l'essere possibile, poiché si tratta di giudicare non soltanto di ciò che esiste in atto, ma pure di tutto
ciò che può esistere.
Tuttavia conviene notare quanto v'è di valido nella istanza da cui procede il privilegio accordato all'intuizione dell'io. Essa rivela prima di tutto il bisogno di fondare la metafisica su un'esperienza intellettuale. Bisogna evidentemente che la metafisica sia radicata nel reale e che questo reale sia da noi colto direttamente
in se stesso, altrimenti le nostre speculazioni non sarebbero più che ipotesi e costruzioni campate in aria. (È
proprio ciò che pretende Kant, quando nega la realtà di ogni specie d'apprensione dell'intelligibile (114). Ma
senza dubbio v'è esperienza e esperienza! Niente prova a priori che l'esperienza soggettiva concreta, costituita dall'intuizione dell'io, sia più chiara dell'esperienza oggettiva costituita dalla nostra intuizione dell'essere
extra-mentale184. Quanto al riservare all'intuizione dell'io il nome di esperienza, ciò significa pregiudicare
tutta la questione e trascurare il fatto capitale che tanto qui quanto là vi è visione 185 e quindi presenza dell'intelligibile al pensiero.
§ 3. L'intuizione intellettuale dell'essere
150 - È certo che non è possibile una metafisica se non sulla base della conoscenza «oggettiva» dell'essere.
Siccome d'altra parte la metafisica deve trovare in questa conoscenza il suo principio primo e la sua giustificazione, bisogna necessariamente che l'essere sia dato in una intuizione, cioè in una apprensione immediata
e non discorsiva. Altrimenti, bisognerebbe cercare un fondamento ulteriore ai procedimenti nel discorso e
saremmo rinviati all'infinito186. La metafisica mancherebbe di fondamento nell'esperienza o in ciò ch'è oggettivo e potrebbe presentarsi solo a titolo ipotetico.
Partiamo dunque dall'intuizione dell'essere; importa però precisare con la massima esattezza la natura e la
portata di questa intuizione.
A. LE TAPPE DELLA METAFISICA
L'intuizione dell'essere è l'operazione più naturale della nostra intelligenza, intuizione che ha però una forma specificamente metafisica, preformata in potenza nelle intuizioni infrafilosofiche, sebbene se ne distingua
formalmente.
1. L'INTUIZIONE CONFUSA - Bene inteso, proprio con questo modo d'intuizione dell'essere noi necessariamente cominciamo ed altresì ne usiamo costantemente, nella misura in cui non facciamo opera di metafisici. Esso consiste nell'apprensione spontanea dell'essere avviluppato, in qualche modo, nelle qualità o cose
sensibili (ens concretum quidditati sensibili), il quale si offre dunque alla nostra intelligenza come investito
nei differenti oggetti dell'esperienza e insieme diversificato in ciascuno d'essi. L'essere così appreso non è
dunque formalmente né la diversità delle quiddità sensibili molteplici, né, tanto meno, ciò che vi è di comune
in tutti questi oggetti essenzialmente diversi, considerato in sé e per sé (ciò che è propriamente oggetto della
metafisica). L'intuizione, a questo stadio, comprende in potenza l'uno e l'altro di questi due aspetti, ma la visione resta oscura e vaga, analoga a quella che i nostri occhi hanno talvolta degli oggetti lontani.
La visione, dice san Tommaso (De Veritate, q. 8, a. 2, ad 2um) può essere considerata sotto aspetti differenti. Considerata come un'attività di chi vede ordinata all'apprensione di un oggetto, la perfezione della visione si definirà in funzione di questo oggetto: si dirà ch'essa è «totale» quando coglierà tutto il suo oggetto e
la perfezione di questa stessa totalità crescerà nella misura in cui la visione coglierà l'oggetto, non soltanto
dal di fuori, ma dal di dentro, nella sua essenza e fino alla radice della sua singolarità. Da questo punto di vi-
sta, l'intelligenza angelica ha una capacità di visione totale ben superiore alla nostra, la quale deve far uso
dell'astrazione. Nondimeno, questa totalità della visione angelica resta infinitamente particolare e parziale, in
rapporto alla visione dell'Intelligenza divina, che esaurisce l'intelligenza del suo soggetto creandolo (De Malo, q. 16, a. 2).
Insomma, dice san Tommaso (De Veritate, ibid.), la visione tanto è più perfetta quanto più eguaglia la visibilità dell'oggetto («Ita est perfectus modus visionis ipsius videntis, sicut est modus visibilitatis ipsius rei»).
Si comprende così come la nostra visione intellettuale dell'essere possa comportare gradi molto diversi, dall'intuizione vaga del senso comune alla visione intensiva del metafisico. Questa tuttavia resterà ancora molto
imperfetta in se stessa, poiché la «visibilità» (cioè l'intelligibilità) dell'essere sarà sempre molto superiore alla
capacità della nostra intelligenza. Nessuna visione metafisica, per acuta che sia, esaurirà mai il mistero dell'essere.
151 - 2. L'INTUIZIONE ESTENSIVA.
a) Il punto di vista dell'estensione. L'intuizione estensiva, che risulta dall'astrazione estensiva dell'essere
(abstractio totalis), consiste nel liberare il tutto universale da suoi particolari sottomultipli, secondo un procedimento mediante il quale lo spirito si eleva a poco a poco a universali sempre più generali, fondato su ciò
che nella Logica abbiamo chiamato il punto di vista dell'estensione (I, 41). Questa astrazione, questa intuizione, comune a tutte le scienze, non è ancora formalmente metafisica, poiché essa fornisce soltanto una cornice comune, nella quale è ammessa tutta la varietà molteplice degli enti. Essa non approda né mira, nell'essere, a ciò che costituisce la sua propria intelligibilità. In altri termini, l'essere non è colto in se stesso, nella
sua intima comprensione. Ciò s'attuerà solo per mezzo dell'astrazione formale (o intensiva), che, astraendo la
forma dalla materia (o, più generalmente ancora, ciò che è formale da ciò che è materiale), coglie negli enti
ciò ch'essi hanno di più formale, cioè l'esistenza (esse).
Il concetto estensivo di essere presenta, sì, una certa unità, giacché non significa esplicitamente gli inferiori
dai quali è stato astratto (per esempio, il genere «animale», pensato in estensione, non significa espressamente né l'una né l'altra delle specie animali); ma possiede una virtualità illimitata, essendo tutti i modi del reale
compresi sotto di esso. La qual cosa riconferma che l'idea di essere, fornita dall'astrazione estensiva, è caratterizzata dalla sua estrema confusione, ad essa essenziale, giacché non si potrebbe ridurla se non togliendo al
concetto di essere la sua applicabilità indefinita a tutto il reale.
Senza dubbio l'essere in comprensione, cioè la natura propria dell'essere in quanto tale è implicata nella visione estensiva dell'essere, intendendosi con ciò significare che l'oggetto proprio della metafisica è dato potenzialmente nell'intuizione estensiva la quale, come l'intuizione confusa, è propria del senso comune. Ma
appunto, la metafisica vi è soltanto implicita e in potenza, per nulla data in atto, perché se l'essere comune è
presente nell'intuizione (come la natura dell'«animale» è necessariamente e confusamente presente nella nozione estensiva del genere «animale»), l'essere non è colto formalmente come essere. (Altra cosa è, osserva il
Gaetano, cogliere una quiddità, e altra cosa è coglierla quidditativamente). L'essere dell'intuizione estensiva,
a causa della sua indeterminazione, non può fondare una scienza autentica, poiché ogni scienza esige un oggetto perfettamente determinato.
Alcuni logici, in particolare Hamilton e i logistici, come pure, in generale, tutti i nominalisti, hanno tuttavia
voluto far prevalere il punto di vista dell'estensione su quello della comprensione. Abbiamo parecchie volte
sottolineato, nella Logica (I, 41, 54, 77, 88, 92, 98-99), i gravi inconvenienti del procedimento estensivo,
il quale. quando venga eretto a sistema (come nella logica stoica e presso i logistici contemporanei della
Scuola di Vienna), finisce col rendere impossibile ogni metafisica. Da ciò consegue, infatti, una visione del
reale in cui fa «classificazione» abitua a trascurare il contenuto oggettivo delle idee, cioè gli oggetti del
pensiero in se stessi e a non riguardarli che come cornici vuote, suscettibili di essere sostituite con segni
qualsiasi. Sapere che Pietro e Paolo rientrano nella classe «uomo», che questa rientra nella classe «animale»
e questa nella classe «vivente», ecc.. significa avere una nozione soltanto implicita di ciò che costituisce
formalmente l'umanità, l'animalità, la vita. E se si vogliono definire, come fanno i logistici (I, 101) le classi
mediante un puro simbolo, si rinuncia definitivamente a ogni sapere autenticamente filosofico187.
152 - b) L'essere logico. Una tendenza abbastanza diffusa identifica il compito metafisico con il compito
del logico, nel senso almeno che il metafisico dovrebbe ricostruire dialetticamente il mondo reale, senza ri-
correre ad altre leggi che quelle del pensiero. Di fatto. tale concezione è di origine idealistica ed è stata attuata appunto solo dagli idealisti (Hegel, Hamelin). Essa doveva finire in un fallimento, poiché consiste nel confondere l'essere del logico con l'essere del metafisico. Infatti il logico ha, sì, come oggetto l'essere, ma sotto
l'aspetto di ente di ragione (o di seconda intenzione, I, 42), il quale è conosciuto solo per opera della riflessione: l'intelligenza, ritornando sui suoi concetti, mediante i quali le cose esistono in essa sotto forma astratta
e universale, coglie l'essere universale dal punto di vista della funzione che svolge nell'ordine del pensiero e
nell'organizzazione del sapere.
Pertanto è evidente che l'essere del logico, o ente di ragione, che è colto nello spirito e che può esistere soltanto nello spirito, suppone l'apprensione diretta dell'essere oggettivo (essere di prima intenzione o essere reale), cioè la metafisica. Se si pretendesse fare dell'ente di ragione l'oggetto proprio della metafisica, ne seguirebbe che quest'ultima verterebbe sul vuoto, poiché in tale ipotesi potrebbe essere concepito soltanto indipendentemente dal reale. Di più, questa concezione sarebbe dannosa tanto alla logica che alla metafisica,
perché essa obbligherebbe a considerare l'essere di ragione, oggetto della logica, come privo d'ogni fondamento nel reale. La confusione dell'essere metafisico con l'essere logico porta dunque al risultato, senza dubbio notevole, di rovinare insieme tanto la logica quanto la metafisica.
B. L'INTUIZIONE METAFISICA
153 - Ormai comprendiamo come l'essere del metafisico non può essere che l'ente in quanto ente (ens
secundum quod est ens, ens in quantum ens), cioè l'ente considerato nel suo tipo intelligibile e nei suoi caratteri propri. Resta a precisare la natura dell'intuizione formalmente metafisica.
1. ASTRAZIONE FORMALE E INTUIZIONE - Abbiamo esposto a più ripreso la teoria dei tre gradi d'astrazione, e mostrato che solo al terzo grado, (il quale è come il punto più alto della nostra potenza intellettiva), si astrae e coglie l'ens metaphysicum.
Non si confonderà dunque l'essere ch'è oggetto delle scienze né lo stesso essere della filosofia della natura
con l'essere della metafisica. Le scienze, come anche la filosofia della natura, vertono sull'essere, poiché ogni
conoscenza, qualunque essa sia, è dell'essere. Ma questo essere delle scienze e della filosofia della natura, è
sempre questo o quell'ente determinato o particolarizzato, o, se si preferisce, è sempre questo o quell'aspetto
particolare dell'essere, sia che si tratti degli aspetti tenuti di mira e appresi per mezzo dell'astrazione formale
di primo grado (nelle scienze sperimentali e nella filosofia della natura), sia che si tratti degli aspetti cui ci
dirigiamo per mezzo dell'astrazione formale di secondo grado (nelle matematiche)188.
L'astrazione propriamente e formalmente metafisica è immediata (statim et sine discursu, ripete costantemente san Tommaso): essa risulta effettuata, per opera dell'habitus metafisico (qualità intrinseca, che perfeziona la facoltà conoscente), con una spontaneità e una sorta di infallibilità che ne fanno una operazione naturale189. Conviene dunque che le si dia il nome di intuizione, sottolineando così il suo carattere non discorsivo e insieme il suo carattere primario, fondamentale, relativamente a tutti gli - altri procedimenti metafisici
del pensiero. Se infatti l'apprensione dell'essere fosse condizionata da ragionamenti metafisici, saremmo introdotti in un processo all'infinito (cioè la metafisica diverrebbe impossibile), poiché il ragionamento metafisico suppone esso stesso giudizi della medesima natura e questi non possono essere specificati che da una intuizione metafisica (III, 438-439).
Questo punto capitale è uno fra quelli che Rosmini ha continuamente ripresi in tutta la sua opera. Sottolineando che il metodo consiste qui nel partire dai diversi atti della conoscenza, al fine di determinare la natura
della facoltà in se stessa e di enucleare in tal modo l'essenza medesima del conoscere, l'elemento comune che
si ritrova in tutte le nostre conoscenze, Rosmini mostra che tale elemento comune è l'essere (o l'esistenza
possibile). Infatti l'analisi stabilisce che «l'uomo non può pensare nulla senza l'idea dell'essere»... «L'esistenza è di tutte le qualità comuni delle cose la comunissima ed universalissima»190. L'idea dell'essere è dunque
la più universale delle nostre idee: ogni volta che noi ritorniamo sul nostro pensiero per analizzarne forma e
contenuto ritroviamo immancabilmente tale idea dell'essere, che ci offre contemporaneamente il grado più
alto di generalità cui possiamo pervenire. L'idea dell'essere è dunque quanto vi è di più fondamentale e più
irriducibile e appunto in quanto tale essa è il punto di partenza di ogni speculazione filosofica, poiché è il
fondamento e la forma d'ogni verità. Essa costituisce quell'immediato assolutamente originale che la riflessione impone alla filosofia, poiché «ogni osservazione anche riflessa, è un conoscere diretto ed immediato, e
però incomincia da una notizia immediata, sì perché questa notizia è presente alla intuizione senza niun mediatore, sì perché è riconosciuta dalla riflessione con una osservazione immediata senza argomentazione di
sorta, e perciò senza alcun bisogno di mezzo termine». L'intuizione dell'essere è dunque invero - conclude
Rosmini - la chiave di ogni speculazione191.
Con ciò non si vuol affatto dire, d'altra parte, che l'intuizione metafisica dell'essere sia immediatamente e
sempre realizzata in atto. Noi sappiamo al contrario che questa intuizione, formalmente considerata, è difficile e rara. Ma non è meno vero ch'essa è data in potenza e virtualmente nell'intuizione dell'essere vago, come
nell'intuizione estensiva del senso comune. Per passare da questa intuizione all' intuizione formalmente metafisica, bisogna, come abbiamo notato al principio della filosofia (I, 26-27), sottomettersi a condizioni tecniche rigorose e insieme possedere l'habitus metafisico, cioè la luce soggettiva che proporziona l'intelligenza
all'opera ch'essa deve attuare.
154 - 2. INTUIZIONE E ANALISI - È necessario ancora notare che il metafisico non può fermarsi alla pura intuizione intellettuale dell'essere. Senza dubbio, tutto è contenuto in questa intuizione: l'essere col suo
mistero proprio, le sue leggi universali e anche, in un certo senso tutta la scienza, poiché tutto, in fin dei conti, si riporta all'essere e alle sue determinazioni192. Questa ricchezza tuttavia è data soltanto in maniera sintetica e potenziale. Bisogna che vi intervenga l'analisi per cogliere, per quanto possibile all' intelligenza, il
contenuto dell' essere, l'ordine interno ch'esso comporta, le sue cause e i suoi princìpi, cioè per cogliere l'intelligibilità dell'essere. Ciò suppone molteplici ragionamenti, condotti sotto la luce dell'intuizione dell'essere
e tendenti, per conseguenza, non a investirlo dal di fuori (l'essere, abbiamo detto, non ha un di fuori), ma a
penetrarne intensivamente le inesauribili ricchezze.
Per precisare le osservazioni precedenti, è necessario mostrare in qual senso e sotto quali riserve, si può
parlare dell'astrazione dell'essere metafisico (essere in quanto tale). A rigor di termini, infatti, non si tratta di
un'astrazione propriamente detta, nello stesso senso almeno in cui si parla dell'astrazione fisica o matematica
(di primo o secondo grado). Giacché se l'astrarre, per un atto di semplice apprensione (che non comporta
come tale né affermazione né negazione: I, 38) consiste nel considerare un aspetto della complessa realtà a
prescindere dagli altri aspetti, è evidente che è impossibile astrarre l'essere come tale, poiché tutto ciò che lo
distinguerebbe dall'essere sarebbe ancora essere. L'essere è immanente a ogni ente e a ogni aspetto dell'essere. Non si può dunque considerare l'essere a parte, poiché fuori dell'essere, non v'è che il nulla.
Tuttavia si può parlare dell'astrazione dell'essere in un altro senso, per designare un'operazione (ancora di
semplice apprensione) mediante la quale per l'intelligenza si tratti, non di mettere l'essere da parte, ma di elaborare, sotto forma di intuizione necessariamente confusa, una nozione comune dell'essere, che escluda tutte
le differenze sotto le quali l'essere è attuato e che valga proporzionalmente per tutti gli enti e per tutti gli aspetti dell'essere. Proprio questa nozione trascendentale dell'essere studieremo più avanti quando tratteremo
del problema dell'analogia della nozione di essere, notando ch'essa è irriducibile all'universale propriamente
detto (cioè ai concetti univoci) e per conseguenza anche all'astrazione propriamente detta.
Ora il punto capitale da sottolineare qui è che questa astrazione impropriamente detta dell'essere non è ancora l'atto che specifica la metafisica; essa ne è soltanto la preparazione e la condizione. Infatti, l'atto propriamente metafisico non può consistere in una semplice apprensione confusa; esso deve essere necessariamente un giudizio sull'essere. Lo si comprenderà bene osservando che la metafisica ha per oggetto la determinazione della struttura formale dell'essere, cioè la precisazione di ciò che definisce l'essere nella sua ragione formale o nel suo tipo intelligibile. Ora ciò si può compiere solo per mezzo di un giudizio (o atto di comporre e dividere) e, più precisamente, per mezzo di un giudizio negativo (chiamato da san Tommaso
separatio), consistente nel pronunciare che tale principio dell'essere non può essere considerato come ontologicamente solidale, nella sua ragione formale, con i differenti modi dell'essere sotto i quali esso ci è dato
nell'esperienza (l'angelo, l'uomo, l'animale, la pianta, la pietra, la quantità, la relazione, ecc. sono enti o esseri, ma non sono l'essere). È dunque mediante un giudizio negativo e non per astrazione che la metafisica dà a
se stessa il suo proprio oggetto193.
Art . II - Divisione dell'ontologia
155 - La divisione del complesso della metafisica risulta da ciò che abbiamo stabilito parlando dell'oggetto
proprio di questa scienza, che è l'essere comune. Dobbiamo infatti studiarne la natura intrinseca, le proprietà
e le cause. Da ciò le due parti principali, secondo che si tratti dell'intelligibilità intrinseca (natura e proprietà)
dell'essere (ontologia), o dell'intelligibilità estrinseca dell'essere (teologia naturale o teodicea).
San Tommaso parla della considerazione delle cause dell'essere comune e divide questa considerazione in
due parti: quella che concerne le sostanze separate finite (e gli angeli), e quella che concerne l'Essere infinito,
che è Dio194. Questa divisione deriva da Aristotele, che considera le sostanze separate (cioè separate dalla
materia sublunare o sussistente senza materia) come moventi il mondo sublunare per mezzo delle sfere celesti. Questi motori celesti, secondo Aristotele, erano cause, ma soltanto nell'ordine della generazione o del divenire (cfr. il nostro Essai sur le rapports entre pensée grecque et pensée chrétienne, Parigi, 1931, pp. 7 e
seg.), come il Primo Motore stesso, che Aristotele non ha mai, sembra, considerato come creatore del mondo. A questi motori celesti, che san Tommaso subordina, quanto all'essere e quanto all'agire, al Primo Motore, cioè a Dio (cfr. In XII Metaphys., lect. 5-12), la teologia cristiana ha sostituito gli angeli. Ma questi non
sono per nulla «cause dell'essere»; essi lo sono ancor meno delle sostanze separate di Aristotele. A rigore, il
capitolo delle sostanze separate o degli angeli, non dovrebbe essere incluso nella parte della metafisica relativa alla causa dell'essere, perché da una parte, l'esistenza degli angeli può essere conosciuta con certezza solo mediante la Rivelazione, e perché, d'altra parte, gli angeli non sono propriamente cause dell'essere. Infatti,
nella misura in cui la filosofia prende in considerazione gli esseri angelici, in psicologia, sembra, questo studio si può meglio situare, poiché gli angeli sono Intelligenze (o puri spiriti) e appunto partendo da ciò che
sappiamo della nostra propria intelligenza possiamo speculare per analogia sui puri spiriti.
Lasciando da parte per il momento la divisione della teologia naturale, troviamo le seguenti grandi divisioni dell'ontologia.
1. L'ESSERE COME PRINCIPIO D'ESISTENZA - È l'essere considerato staticamente o in se stesso e nei
suoi modi generali.
a) L'essere in se stesso. Dobbiamo metterci qui da un duplice punto di vista. Possiamo infatti considerare:
la natura dell'essere, secondo che si tratti sia dell'essere reale, sia dell'essere logico (o di ragione); la divisione dell'essere in potenza e atto, divisione che pone il problema della distinzione reale tra essenza ed esistenza; le proprietà trascendentali dell'essere, proprietà che sono assolutamente universali, come l'essere stesso:
unità, verità, bontà, alle quali si può aggiungere la nozione della bellezza.
b) I modi dell'essere. Questi modi generali sono i generi supremi dell'essere o predicamenti.
2. L'ESSERE COME PRINCIPIO D'OPERAZIONE - L'essere considerato come causa, può essere causa
materiale o causa formale, causa efficiente o causa finale.
CAPITOLO PRIMO
L'ESSERE IN SE STESSO
SOMMARIO195
Art. I - LA NATURA DELL'ESSERE. L'essere metafisico - Essenza ed esistenza - Essere attuale ed essere possibile - L'essere secondo Scoto e Suarez - L'analogia dell'essere - La trascendenza dell'essere - L'essere
è analogo - L'essere di ragione - Natura dell'essere di ragione - Divisione degli enti di ragione - Il concetto di
nulla.
Art . II - L'ATTO E LA POTENZA. Origini storiche della dottrina - I Fisiologi - Platone - Aristotele - Atto e potenza in generale - Analisi del mutamento - Concetto dell'atto e della potenza - Divisione della potenza - Divisione dell'atto ­ Rapporto tra atto e potenza - Punto di vista del valore ­ Punto di vista della causalità
- Punto di vista della composizione - Il punto di vista di J. P. Sartre.
Art . III - L'ESSENZA E L'ESISTENZA. Il problema della distinzione - I concetti di essenza e di esistenza
- Natura della distinzione - La distinzione reale - La distinzione adeguata dei concetti - L'esistenza ricevuta Difficoltà relative alla distinzione reale - I concetti di essenza e di esistenza ­ L'essenza, potenza soggettiva L'esse, come atto propriamente detto - Conclusione - Le obiezioni esistenzialistiche.
Art . IV - IL POSSIBILE. Natura dei possibili - La potenza oggettiva. Analisi - Condizioni assolute dei
possibili - Le proprietà delle essenze.
Art. I – La natura dell'Essere196
156 - La questione della natura dell'essere esige che ci si ponga successivamente dal punto di vista dell'essere reale o metafisico e dal punto di vista dell'essere di ragione o logico. Il punto di vista stesso comporta
due considerazioni distinte, secondo che si consideri l'essere, assolutamente in se stesso, o relativamente ai
suoi inferiori, cioè alle sue determinazioni.
§ 1 - L'essere metafisico
A. ESSENZA ED ESISTENZA
Abbiamo mostrato precedentemente che l'oggetto proprio e proporzionato dell'intelligenza umana era l'essere in quanto immanente nella quiddità sensibile (ens concretum quidditati sensibili). Dobbiamo ora analizzare il contenuto di questa intuizione intellettuale.
1. L'ESISTENZA SIGNIFICATA ED ESERCITATA - La distinzione dei due aspetti dell'essere, essenza
ed esistenza, ci è già familiare (136). È necessario tuttavia coglierne la significazione metafisica. L'essenza
(essentia, quidditas) è l'oggetto della prima operazione dello spirito. Sennonché, come tale, abbiamo già detto, essa non significa che una semplice attitudine all'esistenza, cioè all'essere (esse) propriamente detto: è
sempre in funzione di questo esse che la misura e la definisce, essendo propriamente un'autentica essenza
«ciò che può esistere», mentre una essenza contraddittoria in se stessa (cerchio quadrato; pietra pensante;
Dio ingiusto) non è che un nulla d'essenza, una essenza «che non può esistere».
L'esistenza, o atto di essere (actus essendi) è dunque il termine del pensiero, l'oggetto verso il quale si orienta primamente e per sé l'intelligenza. Per questo appunto san Tommaso afferma che nella seconda operazione dello spirito (giudizio) si compie propriamente l'apprensione dell'essere, perché mediante il giudizio
appunto l'esistenza è colta, non più soltanto come significata o indicata allo spirito (ciò che è il caso del
concetto), ma come esercitata in atto o esercitabile in potenza da un soggetto. Così si deve dire che la conoscenza si compie nel giudizio, in quanto essa è orientata a cogliere l'essere.
Si potrebbe dire, in altri termini, che l'esistenza attuale (in actu exercito) non può mai apparire come un
predicato: essa è, dice san Tommaso, extra genus notitiae (De Veritate, q. 3, a. 3, ad 8um). Essa è l'essere
stesso; fa corpo con l'essenza e compone con questa una totalità esistenziale, che non può divenire in quanto
tale un oggetto per l'intelligenza, perché un oggetto per l'intelligenza è sempre una essenza o un concetto.
Soltanto in funzione della ragion d'essere, cioè della causa che la esplica, l'esistenza può essere l'oggetto dell'intelligenza. - Certo si può dire che l'esistenza è intelligibile in virtù dell'essenza ch'essa attua. Bisogna ancora osservare che questa intelligibilità non rifluisce sull'esistenza dall'essenza finita, poiché questa non esige
di per sé l'esistenza. Non v'è che un solo caso in cui l'esistenza possa essere di per sé e adeguatamente intelligibile, il caso cioè in cui l'essenza sia identica alla esistenza.
157 - IMPLICAZIONE RECIPROCA DELL'ENS E DELL'ESSE ­ È chiaro che la conoscenza metafisica
- come è definita dall'orientamento naturale dell'intelligenza - tende a ciò che vi ha di più formale negli enti
(entia), cioè all'essere esistenziale (esse). Ma poiché è in un soggetto (ens, essentia) che noi cogliamo l'esistenza, l'ens e l'esse si implicano reciprocamente, sebbene a titolo diverso, nella nostra apprensione.
L'ente comune (ens) significa in primo luogo e di per sé, come abbiamo già visto, l'atto di esistere (actus
essendi), - allo stesso modo che studente, participio del verbo studiare, significa l'atto di studiare - ma esercitato in atto o esercitabile in potenza, da un soggetto (o essenza). il quale è dunque colto indirettamente con
l'esse. L'ente comune si definirà dunque come ciò che è (quod est), cioè «una cosa avente l'esistenza» (res
habens esse). (Cfr. S. Tommaso, In Perih., I, lect. 5, ed. Leonina, n. 20).
Tuttavia è anche possibile, nella cosa che ha l'esistenza, di riguardare direttamente la cosa e indirettamente
l'esistenza. Così «lo studente» (studens), che significa, come participio, l'atto di studiare, è stato preso concretamente per il soggetto stesso che esercita l'atto di studiare, anche se non lo eserciti attualmente. In questo
senso stesso è preso comunemente il termine di ens, cioè come designante il soggetto che esercita l'atto di
esistere. Da ciò la distinzione tra l'ens ut participium (esse, existentia) e l'ens ut nomen (essentia).
Nei due casi, è ben chiaro, ciascun termine connota l'altro. Il verbo «est», designando l'attualità assoluta
dell'essere, connota la composizione di essenza e di esistenza, poiché enuncia che un'essenza esiste. La parola ens, che designa direttamente l'essenza, connota l'esistenza, poiché significa «una cosa avente (attualmente
o possibilmente) l'esistenza»197. È dunque impossibile avere un concetto dell'essere che astragga completamente dall'uno o dall'altro di questi due aspetti.
B. ESSERE ATTUALE ED ESSERE POSSIBILE
158 - Abbiamo mostrato, a più riprese, che l'essere reale non si riduce unicamente all'essere attuale, cioè
all'essere che esercita in atto l'esistenza, ma comprende anche l'essere possibile o capace di esercitare l'esistenza.
1. ESISTENZA ATTUALE ED ESISTENZA POSSIBILE - L'esistenza attuale è affermata nei due tipi di
giudizio: i giudizi contingenti e i giudizi relativi a Dio. Da una parte, i giudizi in materia contingente o giudizi sintetici (Pietro studia; questo cielo è chiaro; questo albero è vecchio: I, 59), non fanno che enunciare fatti
singoli e accidentali e, come tali, non sono scientifici. D'altra parte, i giudizi relativi a Dio non possono che
affermare l'attualità perfetta dell'Essere che esiste per la sua propria essenza.
Al di fuori dei due casi precedenti, cioè in tutti i giudizi universali concernenti cose contingenti (L'uomo è
un essere corporeo. Il fuoco brucia), si tratta solo di esistenza possibile.
2. UNIVERSALITÀ E ANALOGIA DELLA NOZIONE DI ESSERE ­ Risulta da quanto precede che la
nozione di essere comune (ens), in quanto essa significa una essenza nel suo rapporto all' esistenza, può applicarsi universalmente ad ogni ente reale. Infatti, il concetto di essere, tal quale ci è dato nella sua indeterminazione, è di per sé illimitato e possiede una certa infinità. Non bisognerebbe concluderne che l'essere è la
Realtà suprema. In fatto di infinitezza, l'essere così concepito ha unicamente quella di un concetto: nessun
processo di astrazione ci può fare attingere l'Essere infinito. Non potremmo se non arguirne l'esistenza partendo dall'essere dato alla nostra esperienza.
Diciamo dunque solamente che la nozione di essere si applica universalmente a tutto il reale e a tutto il
possibile. Il rapporto all'esistenza ch'essa significa è posto in atto negli enti esistenti in atto; esso è soltanto
possibile negli enti o essenze non attuali. Egualmente, la nozione di essere conviene a tutte le divisioni del-
l'essere, cioè tanto alle sostanze che agli accidenti, ma in maniera diversa: alle sostanze, compete esistere in
sé, mentre all'essenza degli accidenti, compete esistere in un soggetto di inerenza.
159 - 3. UNITÀ PROPORZIONALE DELLA NOZIONE DI ESSERE - È chiaro nello stesso tempo che
la nozione oggettiva di essere, così intesa, se conviene universalmente a tutto ciò che è o può essere, possiede
questa convenienza in un modo soltanto analogo, nel senso che l'esistenza non è esercitata in modo assolutamente identico dai diversi enti che sono198. La nozione oggettiva di essere non è dunque una di un'unità essenziale, poiché essa conviene a enti essenzialmente diversi, ma è una di un'unità di proporzione o di rassomiglianza, nel senso che le essenze molteplici e diverse sono le une e le altre, in un rapporto proporzionalmente identico, relativamente all'esistenza. È così che il rapporto dell'accidente all'esistenza è proporzionalmente simile a quello della sostanza in relazione all'esistenza: come conviene alla sostanza di esistere in sé e
per sé (in se et per se), così conviene all'accidente di esistere in un altro come in un soggetto. È ciò che si
chiama, come vedremo più avanti, una analogia di proporzionalità.
Il carattere analogico dell'essere potrà essere perfettamente colto e compreso soltanto quando sarà operata,
per via di causalità, l'inferenza dimostrante l'esistenza dell'Essere per sé (a se). Al punto in cui siamo, l'analogia dell'essere si applica unicamente nella sfera della nostra esperienza. Non potremmo estenderla all'Essere divino senza petizione di principio. Tutto ciò che ci viene imposto fin d'ora dall'intelligibilità dell'essere,
colto a partire dagli enti diversi, gli uni mobili, gli altri relativamente permanenti, gli uni esistenti in sé e per
sé (sostanze), gli altri esistenti solo in un altro e mediante un altro (accidenti), è che l'essere risponde tanto
più alle esigenze del suo tipo intelligibile quanto più si avvicina a un ente o essere che sia veramente essere,
cioè esistente pienamente in sé e per sé, non sottomesso alle deficienze del divenire e alla servitù dell'inerenza. Ciò indica san Tommaso, quando scrive che «l'essere si dice in molti modi, ma - che - ogni ente si significa in rapporto a un essere primo» (In IV Metaphys., lect. 1). Così tutta l'ampiezza del reale è aperta, fin dalla nostra prima intuizione, all'analogia dell'essere, ma in un modo che resta indeterminato e confuso fino alle
chiarificazioni della teologia naturale.
C. L'ESSERE SECONDO SCOTO E SUAREZ
160 - 1. TEORIA DI DUNS SCOTO - Scoto ritiene che l'oggetto proprio dell'intelligenza umana sia, non
la quiddità delle cose sensibili, ma l'essere (ens), altrimenti, egli dice, la nostra conoscenza sarebbe limitata
alla fisica; la metafisica, che è scienza, non del sensibile, ma dell'essere come tale, sarebbe impossibile. Il ragionamento di Scoto sarebbe invincibile se di fatto non avessimo, come vedremo più avanti, la via dell'analogia, che ci permette di passare dall'essere sensibile alle nozioni metafisiche e alla nozione proporzionalmente una (e universale) dell'essere. Sennonché Scoto appunto crede che la metafisica non possa contentarsi
di un oggetto proporzionalmente uno; cioè analogo, esigendo, per costituirsi validamente, un oggetto univoco: se l'essere, egli osserva, non è strettamente uno, non v'è più unità nella mia conoscenza, né certezza nel
mio sapere. (Cfr. Op. oxoniense, I, dist. 3, q. 3, n. 3, in ed. Vivès, 23 voll., Parigi, 1891-1895, vol. VIII), In
quanto univoca, la nozione di essere può designare soltanto un concetto indeterminato, poiché significa qualcosa di determinabile, cioè il puro soggetto stesso dell'esistenza, considerato astrattamente, senza alcuna determinazione oggettiva.
Questo concetto è assolutamente semplice, in quanto non è scomponibile; esso è il solo che possa essere
concepito senza ricorrere ad alcun altro, mentre tutti gli altri concetti non sono intelligibili che per scomposizione nei loro elementi (uomo = animale ragionevole; animale = vivente sensibile, ecc.). Da ciò consegue,
aggiunge Scoto, che l'idea di essere è assolutamente prima e ch'essa servirà dunque a spiegar tutto, senza poter essere essa stessa spiegata da alcunché di anteriore ad essa199.
161 - 2. TEORIA DI SUAREZ - Per Suarez, come per Scoto e san Tommaso, l'essere come tale è l'oggetto
proprio della metafisica. Per sapere ciò che è l'essere come tale, conviene, egli dice, distinguere il concetto
formale (atto mediante il quale io concepisco una cosa) e il concetto oggettivo (la cosa stessa in quanto concepita e rappresentata). Proprio il concetto oggettivo di essere è l'oggetto della metafisica. Ma per coglierne
la natura, si può partire dal concetto formale e domandarsi se il concetto formale di essere è realmente uno,
comune a tutto ciò che è, e distinto, per conseguenza da tutti gli altri concetti. A questa questione, Suarez risponde affermativamente200: questo concetto non comporta infatti in se stesso alcuna composizione né determinazione: esso è uno perché è assolutamente semplice.
Ma, oggettivamente, come stanno le cose? Al concetto formale corrisponde un concetto oggettivo egualmente uno? Bisogna ben ammetterlo, dice Suarez, poiché l'unità del concetto formale risulta dall'unità dell'oggetto. Tuttavia, gli enti sono diversi: è dunque necessario conciliare l'unità e la diversità. Per questo, Suarez esclude l'unità proporzionale tomistica e ammette che l'unità è opera dello spirito, mentre la diversità è
reale. In altri termini, l'essere, oggetto della metafisica (concetto oggettivo), significa ciò che ha qualche realtà, ciò che è qualche cosa e che fa astrazione da ogni esistenza, reale o possibile, senza affermarla né negarla. L'essere così concepito è realmente universale e uno di una unità logica. Si tratta, per il pensiero che vi
si fonda, di farlo uscire dalla sua indeterminazione: il processo al quale esso ricorre per ottenere ciò consiste
nell'usare un procedimento inverso a quello che ha formato, per astrazione, il concetto oggettivo dell'essere,
cioè nel restituirgli il suo carattere concreto mediante la considerazione degli inferiori o realtà diverse da cui
è stato tratto201.
162 - 3. OSSERVAZIONI
a) Punti comuni alle due teorie. Non possiamo entrare nella discussione particolareggiata di queste teorie.
Tuttavia bisogna mettere in rilievo alcuni punti essenziali. Anzitutto si sarà potuta notare la rassomiglianza
fondamentale delle teorie scotista e suareziana, fondate l'una e l'altra, non soltanto sulla distinzione (che è evidente), ma sull'opposizione del reale e dell'idea. D'altra parte, Suarez come Scoto, propongono di ridurre il
concetto di essere al senso negativo di «ciò che esclude il nulla» o di «ciò che non è nulla» e questa concezione di un essere perfettamente indeterminato procede nei due casi dall'analisi formale dei concetti, che non
può infatti condurre a un'altra nozione. Così, nelle due dottrine, l'essere non può essere affermato per cose
diverse se non si astrae dalle loro diversità, poiché esso non include né esclude queste diversità: in altri termini, la trascendenza dell'essere deriva dalla sua perfetta indeterminazione. Infine, tanto per Suarez quanto
per Scoto, quando bisognerà pervenire alle determinazioni dell'essere come tale, nessuna analisi del concetto
di essere sarà utilizzabile, poiché il concetto di essere è uno solo negativamente: è impossibile scoprirvi, anche potenzialmente, alcuna determinazione. Non v'è dunque altro ricorso possibile che l'appello all'esperienza202.
La radice comune di queste due teorie dell'essere risiede nel concettualismo (o nominalismo moderato) di
Scoto e di Suarez. L'uno e l'altro, infatti, sembrano ammettere che il concetto oggettivo non si identifichi con
la cosa extramentale, tesi che ci allontana definitivamente dalla concezione tomistica (104). Questo concettualismo conduce Scoto, seguendo una logica che noi abbiamo spesso sottolineata (e che si ritrova nella teoria delle distinzioni cartesiane) a un realismo eccessivo. Suarez, il quale professa che l'universale metafisico
(o universale diretto) non è la natura reale stessa, ma la rappresentazione intenzionale di quella natura, procede nel medesimo senso di Scoto203. Il punto fondamentale qui sta dunque nel fatto che gioca una teoria dell'astrazione del tutto differente da quella di san Tommaso. Abbiamo visto che l'astrazione la quale specifica
le diverse scienze è, per san Tommaso, l'astrazione formale, cioè quella che astrae la forma dalla materia.
Per Scoto e Suarez, al contrario, l'astrazione è ciò che abbiamo chiamata l'astrazione estensiva (abstractio
totalis), cioè quella che astrae il tutto potenziale dai suoi inferiori (151). L'essere, da questo punto di vista,
non essendo più che una cornice vuota, non può essere oggetto di scienza, in ragione della sua indeterminazione assoluta.
b) Univocità scotista e analogia suareziana. La teoria di Scoto è nettamente univocista, poiché, per lui,
l'essere si dice dei suoi inferiori in un senso assolutamente identico. Tuttavia, se l'essere è univoco, gli enti,
dichiara Scoto, sono analoghi tra loro (Op. Oxon., I, 8-3, n. 26-27, ed. cit.). Ciò che permette a Scoto di evitare il panteismo, al quale conduce logicamente l'univocità dell'essere.
Suarez, per contro, respinge l'univocità dell'essere, che la sua tesi (secondo la quale il concetto di essere è
semplicemente uno - simpliciter unus) sembrerebbe introdurre. Egli può infatti attenersi alla tesi dell'analogia, in virtù della sua teoria concettualistica; essa gli permette di dire che, in ragione dell'opposizione dell'ordine reale e dell'ordine concettuale, il concetto semplicemente uno di essere comune può rappresentare cose
semplicemente diverse.
§ 2 - L'analogia dell'essere
A. LA TRASCENDENZA DELL'ESSERE
163 - 1. L'ESSERE NON È UN GENERE - Per comprendere questo punto capitale, bisogna partire dai concetti di genere e di specie (o di differenza specifica).
a) Genere e specie. La specie è un universale logico che designa un insieme di individui della medesima
natura (o della medesima essenza): la specie umana. Il genere è un universale logico comprendente nella sua
estensione specie molteplici che lo contraggono, cioè che lo determinano, con l'aggiunta di una differenza
specifica: il genere «animale», con l'aggiunta della ragione, è determinato a formare la specie umana («animale ragionevole») (I, 42). I generi e le specie sono enti di ragion fondata, cioè esistenti bensì nello spirito,
ma con fondamento nelle cose.
Il genere è in potenza in rapporto alla specie, questa è atto in rapporto al genere. Si dirà dunque che il genere contiene potenzialmente le sue specie: «animale» può essere determinato (o contratto) in «ragionevole»
(specie umana) e in «irragionevole» (insieme delle specie animali). Ciò implica che la differenza specifica è
estrinseca al genere: essa gli aggiunge realmente qualche cosa che non possiede se non in potenza, cioè a titolo di pura capacità o determinabilità.
b) L'essere e gli enti. Si potrebbe essere tentati di immaginare a tutta prima che l'essere sia il genere supremo, di cui gli enti diversi formerebbero le specie. Questo è però impossibile: infatti, come abbiamo detto,
quando vi è rapporto tra genere e specie, questa aggiunge realmente una nota che il genere non contiene. Ora, all'essere nulla si può aggiungere, poiché tutto ciò che è, in qualunque modo esso sia, è essere: le differenze o diversità dell'essere non sono esteriori all'essere; esse sono comprese nell'essere, di cui sono i modi
diversi. Dunque l'essere non è un genere.
Se l'essere fosse un genere, le differenze specifiche, cioè tutto quanto diversifica l'essere, sarebbero fuori
dell'essere, cioè non sarebbero. La qual cosa riconferma che vi sarebbe un solo essere e che la varietà degli
esseri sarebbe una pura apparenza illusoria. Tale era la teoria di Parmenide, il quale riteneva appunto l'essere
un genere.
164 - 2. L'ESSERE, CONCETTO TRASCENDENTALE
a) Universale e trascendentale. Si chiama universale il concetto che costituisce un genere, facendo astrazione dalle differenze specifiche, o una specie, facendo astrazione dalle differenze individuali. Questi universali logici possono fare astrazione dalle differenze, specifiche o individuali, perché essi non le contengono. E
così le attribuiamo ai loro inferiori (specie o individui) unicamente in rapporto a ciò che essi hanno di comune e non per ciò, che questi inferiori hanno di proprio in ciascuno d'essi: «animale» dice qualche cosa di comune a «ragionevole» e a «irragionevole», ma niente di ciò che loro è proprio. Il concetto trascendentale, al
contrario, è un concetto oggettivo che viene attribuito ai suoi inferiori, non soltanto in relazione a ciò ch'essi
hanno di comune, ma anche per ciò ch'essi hanno di proprio204.
b) L'essere come trascendentale. A rigor di termini, il concetto di essere non è dunque un universale, ma
un trascendentale, poiché non soltanto ciò che è comune agli altri enti molteplici è essere, ma anche tutto ciò
che ciascuno d'essi ha di proprio e che lo diversifica partecipa dell'essere. In conseguenza, il concetto di essere non risulta da una astrazione propriamente detta, poiché ciò che si astrae per ottenere la nozione di essere,
partecipa dell'essere: l'essere contiene in atto tutti i modi possibili sotto i quali esso può farsi realtà (154).
Così l'essere, in quanto trascendentale, è un concetto che trascende (o oltrepassa) tutte le categorie dell'essere e si applica a tutto ciò che è o può essere. L'essere è in ogni categoria, ma nessuna lo contiene totalmente. (Esso differisce essenzialmente in ciò dal genere o dalla specie, che si ritrovano in tutte le loro determinazioni, ma che queste contengono totalmente). Si dirà dunque che l'essere è immanente a tutte le categorie dell'essere, ma trascendente altresì tutte, in quanto, come tale, esso non è né l'una né l'altra. Infine, il concetto di
essere trascende non solo ogni categoria, ma ancora tutte insieme le categorie, perché abbraccia, quantunque sotto differenti rapporti, assolutamente tutti gli enti compresi sotto i predicamenti.
Appare chiaro con ciò il sofisma che è implicito nel concetto hegeliano dell'essere. Hegel osserva infatti
che l'idea di essere significa l'indeterminazione pura. Ora l'indeterminazione pura, egli dice, non è altra cosa
che il nulla. Il concetto di essere si confonde o identifica dunque con quello del puro non essere. (Cfr. Hegel,
Wissenschaft der Logik, op. cit.; cfr. tr. fr. di A. Vera, t. I, pp. 394-397; cfr. tr. it. Scienza della logica di Moni, Bari, 1925). È facile riconoscere che, in questo ragionamento, il termine medio (indeterminazione) è preso in due sensi completamente differenti, che Hegel arbitrariamente identifica. In un primo senso, il concetto
di indeterminazione pura si applica all'essere per specificare ch'esso contiene confusamente tutte le determi-
nazioni. Nel secondo caso, che conviene solo al nulla, l'indeterminazione pura è ciò che esclude tutte le determinazioni. Grazie a questa identificazione sofistica di due concetti contraddittori Hegel ha fatto la scoperta
molto sorprendente che l'essere, al punto più alto dell'astrazione, si confonde col nulla.
B. L'ESSERE È ANALOGO
165 - 1. L'ESSERE NON È NÉ UNIVOCO NÉ EQUIVOCO
a) Definizione. Qui non dobbiamo far altro che ricordare il senso di questi concetti (I, 48). Si chiama univoco il concetto che si può attribuire in modo assolutamente identico a tutti i soggetti nei quali esso è attuato
e da cui è astratto: tale il concetto di uomo, che si dice assolutamente nello stesso senso di tutti gli individui
della specie umana. Il termine equivoco è il contrario del precedente: esso si applica a enti diversi solo in un
senso totalmente differente per ciascuno d'essi: tale il cane, animale che abbaia, e il Cane, costellazione celeste. L'equivoco, invero, non è mai un concetto, ma un nome che maschera concetti semplicemente distinti.
b) Esclusione dell'univocità. L'essere non può essere univoco, perché esso non si predica dei suoi inferiori
in un senso assolutamente identico. Infatti, esso non può fare astrazione perfetta dai suoi inferiori: l'essere è
essenzialmente diverso, perché si identifica con cose essenzialmente diverse; l'uomo, il cane, la pietra, il pensiero, la vita, la verità, la giustizia sono enti o modi dell'essere. Avviene diversamente del genere e delle specie, nozioni univoche: queste nozioni non si identificano con quelle dei loro inferiori; l'uomo, il cane, il cavallo, in quanto diversi, non possono essere identificati con l'«animale», perché, come tali, essi dicono qualche cosa che non appartiene all'«animale». Il contrario può dirsi dell'essere: tutte le differenze dell'essere si
identificano nell'essere.
c) Esclusione dell'equivocità. Tanto meno l'essere è un termine equivoco. È un concetto autentico, ciò che
significa che l'essere possiede una certa unità. Non è bensì l'unità essenziale, poiché gli enti sono essenzialmente differenti, ma una unità relativa, che risulta dal fatto che il concetto di essere significa realmente, sebbene sotto forma universale, qualche cosa di comune a tutti gli enti diversi. Sappiamo infatti che appunto la
stessa natura delle cose esiste nel reale come singolare e nel concetto oggettivo come universale. Così dunque, quando concepiamo l'essere, noi concepiamo una natura oggettiva.
166 - 2. L'ESSERE È ANALOGO - L'analogia dell'essere risulta dalla doppia esclusione dell'univocità e
dell'equivocità. Si dirà dunque che il concetto di essere è una nozione che si applica a enti diversi in un senso
semplicemente diverso e insieme relativamente medesimo.
a) L'unità imperfetta del concetto di essere. L'unità del concetto di essere è quella di una essenza reale astratta (per una astrazione impropriamente detta, come già abbiamo visto) che contiene realmente in atto e in
modo confuso tutta la diversità essenziale degli enti con la quale questo concetto si identifica. Ciò vuol dire
che il concetto di essere, pur includendo vagamente una idea di diversità, ne fa sotto un certo aspetto astrazione. Questa unità del concetto di essere è dunque imperfetta, informe e confusa.
b) L'analogia di proporzionalità. Abbiamo già visto più indietro che l'unità del concetto di essere è propriamente una unità di proporzione o di rassomiglianza, affermazione ora da precisare. L'unità del concetto
di essere si fonda sul rapporto all'esistenza di enti essenzialmente diversi, rapporto che è proporzionalmente
identico in ciascuno d'essi (di qui l'unità del concetto di essere) e significante implicitamente la diversità delle essenze (di qui la polivalenza o la diversità essenziale del concetto di essere)205. Così, l'essere detto dell'accidente significa qualche cosa di simile all'essere detto della sostanza, cioè la rassomiglianza o proporzione del rapporto che sostanza e accidente hanno con l'esistenza. Ciò può tradursi così:
Essenza della sostanza
------------------------------Essere della sostanza
=
Essenza dell'accidente
------------------------------Essere dell'accidente
Ora questa è la definizione stessa dell'analogia di proporzionalità, cioè dell'analogia che risulta dalla somiglianza che cose essenzialmente diverse hanno tra loro in ragione del loro rapporto con l'esistenza. Diremo dunque qui che l'essere è un concetto analogo, nel senso che esso significa una somiglianza di rapporti tra
l'essenza e l'esistenza degli inferiori dell'essere: è in virtù di questa unità proporzionale o relativa che l'essere
può venire attribuito ai suoi inferiori in un senso puramente e semplicemente diverso e insieme relativamente
identico206.
167 - c) L'analogia d'attribuzione. La conclusione che precede risulta anche dalla necessità in cui ci troviamo (se almeno si fa questione dell'essere comune, id quod est) di escludere l'analogia d'attribuzione. In
questa, il termine analogo si attribuisce intrinsecamente soltanto all'uno degli analogati (analogato principale)
ed estrinsecamente agli altri (analogati secondari): così si dice propriamente del corpo ch'esso è sano, perché
esso possiede la salute a titolo di qualità intrinseca; gli alimenti e il viso sono detti sani solo in quanto producono o esprimono la salute, cioè estrinsecamente. Ora ciò non può applicarsi all'essere, altrimenti l'essere non
potrebbe essere affermato, propriamente e intrinsecamente, di alcuno dei suoi inferiori.
Tuttavia queste osservazioni valgono solo per l'essere comune. Poiché se si tratta dell'essere in atto (esse),
gli conviene l'analogia d'attribuzione. Se infatti si paragonano la sostanza e l'accidente dal punto di vista dell'esse esistenziale, si dirà che soltanto la sostanza possiede primamente e propriamente l'esistenza, in quanto
che spetta ad essa di esistere in sé e per sé (in se et per se), mentre l'essere si attribuisce solo secondariamente alle determinazioni o accidenti della sostanza, ai quali conviene esistere in un soggetto. L'accidente non è
dunque assolutamente essere, ma soltanto essere dell'essere (ens entis). A più forte ragione, il mutamento o il
divenire è essere in un senso ancora meno proprio. Infine, le privazioni o le negazioni non sono nulla, cioè
non hanno, come tali, alcun essere. Esse significano soltanto un atto dello spirito, mediante il quale questo
nega o la sostanza o un accidente o il mutamento.
Notiamo ancora che l'essere (esse) è attribuito analogamente non soltanto a ciò che chiamiamo i suoi inferiori, cioè alle differenti categorie di enti: è ancora attribuito in questo modo ai suoi propri princìpi costitutivi, che sono, come si vedrà, l'atto e la potenza, poiché la potenza ha un essere semplicemente analogo a quello dell'atto, realtà determinata, mentre la potenza è realtà indeterminata.
Vedremo in teodicea che l'essere (esse) si dice solo di Dio in un senso assolutamente intrinseco e assolutamente proprio, in quanto che Dio solo esiste per sua essenza, mentre tutte le creature non hanno l'essere, cioè
esistono soltanto per la partecipazione e non per loro essenza, poiché esse ricevono il loro essere da Dio. Tuttavia è per anticipazione che possiamo indicare qui il rapporto analogico tra l'essere divino e l'essere delle
creature. Come già abbiamo osservato, il senso pieno dell'analogia dell'essere potrà scoprirsi solo al termine
dell'analisi e di inferenze ulteriori.
§ 3 - L'essere di ragione
168 - In ragione della trascendenza che gli appartiene, il concetto di essere non può venire ristretto agli enti
reali, ma deve estendersi anche agli enti di ragione (entia rationis). Esso designa infatti, nel senso più generale (ens in communi: id quod habet esse), l'essenza nel suo rapporto con l'esistenza. Ora l' ente di ragione, se
è vero che può esistere solo nello spirito, esercita veramente nello spirito una esistenza che ne fa una sorta
di essere.
1. L'ESISTENZA MENTALE - È infatti evidente che alcuni oggetti del pensiero possono avere esistenza
solo nello spirito. È questo il caso di tutti gli enti logici o di seconda intenzione (predicabili: I, 42), delle negazioni o privazioni (la cecità, il male, il nulla) come pure delle relazioni. Non soltanto questi oggetti non
sono cose, ma essi non sono neanche essenze autentiche, essendo queste propriamente la capacità di esistere
realmente (esse).
Tuttavia, questi oggetti non sono pure finzioni. Essi hanno un fondamento nel reale, nel senso che sono costruiti con elementi tratti dal reale (attuale o possibile)207. Così la nozione di razionalità è fondata sulla realtà
oggettiva dell'anima ragionevole, la nozione di cecità è fondata sulla negazione della visione in un soggetto
al quale essa non conviene o sulla privazione della vista in un soggetto che normalmente debba esser dotato
di vista, la relazione di Giove all'astronomo che l'osserva con la sua lente è fondata sulla realtà di questa osservazione, il tempo è fondato sulla realtà del movimento misurato secondo il prima e il poi, ecc.
Questi enti di ragione, noi li trattiamo come se essi fossero cose. Sappiamo tuttavia che la verità o la falsità
del nostro spirito si valutano solo relativamente agli enti reali che loro servono di fondamento o di occasione.
2. DIVISIONE DEGLI ENTI DI RAGIONE - Questa divisione si fa in funzione dell'oggetto concepito. Si
distinguono così due specie di enti di ragione: la negazione (o privazione) e la relazione. Questa divisione è
adeguata, poiché al di fuori della negazione, che può evidentemente esistere solo nello spirito, il solo oggetto
positivo che non possa esistere fuori dello spirito è la relazione di ragione (esse ad). Questa designa il lega-
me estrinseco di un oggetto con un altro da cui esso non dipende: altrettanto è della misura relativamente a
ciò che essa misura, di ciò che dà l'essere o la perfezione in rapporto a ciò che lo riceve, ecc. (Cfr. San Tommaso, De Veritate, q. XXI, a. 1). Per contro, la relazione inversa (per esempio, del misurato alla misura, di
ciò che riceve la perfezione (o l'essere) a ciò che la dona), è relazione reale. L'ente di ragion logica (universale) entra nella categoria delle relazioni di ragione, in quanto essa significa essenzialmente riferimento a un
ente reale ed esiste realmente solo in virtù di questo riferimento. (Cfr. Giovanni di San Tommaso, Logica, in
Cursus philosoph.. a cura di B. Reiser, 3 voll., Torino, 1930-37, 2a p., q. 2, a. 4, t. I, p. 304).
§ 4 - Il concetto del nulla
169 - Il concetto del nulla è un ente di ragione che bisogna studiare a parte, a causa dell'importanza che gli
hanno data i filosofi contemporanei, specialmente H. Bergson e J. P. Sartre. Questo concetto è un concetto
negativo, che si forma in funzione dell'essere anteriormente conosciuto, poi negato. Se si tratta della negazione della totalità dell'essere, questa negazione può concernere sia la totalità degli esistenti (nulla positivo),
sia la totalità degli esistenti e insieme dei possibili (nulla negativo). Rimane il problema se queste differenti
negazioni siano possibili e pensabili o se esse siano pseudo-concetti.
A. IL CONCETTO DEL NULLA SECONDO BERGSON
1. IL NULLA COME PSEUDO-IDEA. - Bergson s'è sforzato di provare che il concetto del nulla è puramente uno pseudo-concetto, cioè una nozione contraddittoria (Évolution créatrice, Parigi, 1907, pp.
298­322). Il nulla, egli dice, non può essere né immaginato, poiché esso non è una cosa, e nemmeno concepito, poiché «pensare l'essenza di una cosa è possibile unicamente mediante la rappresentazione più o meno
esplicita della presenza di qualche altra cosa»; «Se l'abolizione significa anzitutto sostituzione, l'idea di una
‘abolizione di tutto’ è così assurda quanto l'idea di un cerchio quadrato».
2. OSSERVAZIONI. - Non si può accettare puramente e semplicemente questa argomentazione. Per discuterla equamente, bisogna distinguere i diversi aspetti. Osserveremo anzitutto che il nulla non è una pseudoidea più che, per esempio, la cecità. Come non si può affermare l'esistenza assoluta della cecità come tale,
così non si può affermare l'esistenza assoluta del nulla come tale. La negazione dell'essere è qui semplicemente significata e non «esercitata». L'idea del nulla non è dunque un nulla di idea. In realtà non v'è altro
concetto, insieme con quello di essere, che ci sia più necessario e familiare: è, infatti, sull'opposizione fondamentale dell'essere e del non essere che si appoggia l'intelligenza per stabilire le distinzioni mediante le
quali essa perviene a discernere l'ordine delle cose e a costituire la scienza e la filosofia. Del resto, nel negare
che la negazione sia possibile, ci sarebbe la stessa contraddizione rimproverata agli scettici, in quanto affermano che l'affermazione è impossibile.
La verità è che l'opposizione, la contraddizione e la negazione sono relazioni pure, che la ragione sola è
capace di cogliere. Ciò, sembra, non vide Bergson nella sua critica delle idee negative. Tutto ciò ch'egli riuscì a provare è che non vi sono immagini di negazione, la quale rimane tuttavia pensabile, se pure non immaginabile.
Tuttavia è vero che il nulla assoluto e totale di tutto l'essere è assolutamente impensabile: questo Bergson
voleva mostrare con la sua critica dell'idea del nulla. «L'argomentazione con la quale stabilisco l'impossibilità del nulla, egli scrive (Lettera al P. Tonquédec del 12 maggio 1918, in «Etudes» del 20 febbraio 1912, pp.
515-516), serve semplicemente a mostrare che qualche cosa è sempre esistito». Da questo punto di vista, il
pensiero di Bergson collima con quello di san Tommaso quando dice: «Se in un sol momento nulla esiste,
nulla sarà eternamente». L'errore di Bergson è stato di trasferire, al concetto del nulla in generale l'impossibilità che investe l'esistenza (se così si può dire) di un nulla assoluto e universale dell'essere. Poiché il nulla
assoluto del mondo o di tutto l'essere finito non è affatto una pseudo-idea: è solo una forma dell'idea della
contingenza radicale del finito, e lo si può rendere una pseudo-idea solo cadendo nell'errore dell'ontologismo
(che studieremo più avanti).
B. LA NEGAZIONE E IL NULLA SECONDO J. P. SARTRE
1. ESPOSIZIONE. - La questione dell'origine dell'idea del nulla deve essere trattata sulla base di una teoria
della negazione.
a) Teoria della negazione. Nel rapporto che implica l'essere­nel-mondo, dice Sartre, cioè la relazione «uomo-mondo», tutto l'essere è dalla parte del mondo o dell'in sé, e non dalla parte della coscienza (o per sé):
essa non è altro che pura relazione all'in sé. Infatti, il per sé non può in alcun modo essere concepito come
esistente prima, per cercare poi di cogliere l'essere. Se ogni coscienza è necessariamente coscienza di qualche cosa, vi può essere coscienza soltanto in virtù di questo qualche cosa; prima di tal processo non v'è niente, tranne l'in sé, che non è coscienza, ma oggettività pura. Il per sé non può neanche essere inteso come un
ente che possa essere, per se stesso, dotato di tendenze capaci di attualizzarsi mediante una relazione accidentale a un oggetto, perché ciò equivarrebbe a costituire il per sé in un in sé e a sopprimere la coscienza
come coscienza. Il per sé è e non può essere che relazione all'in sé: accerchiato da tutte le parti dall'in sé del
mondo, esso vi sfugge solo perché è niente «e non ne è separato da niente». Il per sé è dunque «il fondamento di ogni negatività e di ogni relazione; esso è la relazione» (L'Être et le Néant, Parigi, 1943, p. 429; cfr. tr.
it., Milano, 1958).
Queste conclusioni un po' astratte possono appoggiarsi su analisi di differenti contegni della realtà umana,
specialmente quelle dell'interrogazione e della malafede, che ci fanno cogliere concretamente l'origine della
negazione e l'insorgere del nulla in seno all'essere. Infatti, l'interrogazione implica la possibilità di rispondere
con un sì o con un no, cioè con una risposta che sarà o svelamento di essere, o svelamento di non essere. Nell'interrogare, ammetto dunque come possibile l'esistenza oggettiva di un non essere e il mio comportamento
suppone che il nulla non sia per me un semplice ente di ragione (che esiste, come tale, solo nel pensiero),
bensì una realtà transfenomenica. L'analisi dei contegni di malafede condurrebbe alle medesime conclusioni.
La malafede è menzogna verso se stesso. Non menzogna pura e semplice; il bugiardo nega nei suoi discorsi
soltanto la verità che afferma in sé; nega in rapporto a se stesso la negazione che enuncia. Nella malafede, al
contrario, io mentisco a me stesso e credo nella menzogna che mi faccio. Sono dunque simultaneamente ingannatore e ingannato: conosco io, come ingannatore, la verità che dissimulo a me come ingannato. Ma questo che altro significa se non che la coscienza possiede la proprietà di essere a se stessa il suo proprio nulla e
che il nulla dimora dentro di lei? (L'Être et le Néant, op. cit., pp. 85-93).
b) La transfenomenicità del nulla. L'obiezione contro la quale urta questa concezione della transfenomenicità del nulla è che la negazione si spiega molto meglio come una qualità del giudizio; da questo punto di vista, il Nulla avrebbe soltanto qualità e origine inerenti alla struttura dei giudizi negativi. La negazione sarebbe al termine del giudizio, ma non nell'essere. È un'obiezione che Sartre considera inefficace: per lui, non la
negazione, in quanto struttura del giudizio, è all'origine del nulla, ma, al contrario, il nulla, come struttura
del reale, è l'origine e il fondamento della negazione. La ragione di ciò è che, se il nulla non avesse una realtà transfenomenica, sarebbe impossibile la stessa negazione: se c'è essere dappertutto, se l'essere è pieno e
senza fessura, nessuna negazione è concepibile; vi saranno solo giudizi affermativi. Impossibile immaginare
una categoria a priori della negazione: da una parte, una categoria non dimora nella coscienza come una cosa; il no è sempre coscienza (del) no, - d'altra parte, la negazione è negazione di qualche cosa ed implica posizione negata e soppressa. Così, perché sia possibile dire no, bisogna che «il non essere sia presenza perpetua, in noi e al di fuori di noi», bisogna che «l'essere sia infestato dal nulla» (L'Être et le Néant, pp. 40:-47).
c) Natura del nulla. Dobbiamo dunque concepire il nulla come un ente? Certamente no, e niente sarebbe
più falso. Su questo punto, dice Sartre, Heidegger ha proposto vedute giudiziose. ma che abbisognano di correzione in un punto capitale. Heidegger, infatti, sostiene che il Dasein ha il potere di emergere nel mondo,
cioè è dotato di un'attività negatrice, consistente nell'annullare il mondo e nell'annullare se stessa. Appunto
questa attività negatrice si tratta di spiegare: essa è la forma del problema e non la soluzione. Con tutta evidenza, la negazione si deve giustificare mediante un essere negativo che la fondi. Siccome però sarebbe assurdo concepire che il nulla possa essere dato prima o dopo l'essere, in una maniera generale, al di fuori dell'essere, poiché il Nulla non è, bisogna proprio ammettere che esso si incontra nel seno stesso dell'essere e
che sta «nel suo cuore come un verme» (Ibid., pp. 47-58).
d) L'origine del Nulla. Notiamo anzitutto che il Nulla non può «nientificarsi», perché, per nientificarsi, bisogna essere. Soltanto l'Essere può nientificare: il nulla viene nientificato e in virtù dell'essere esso attinge le
cose: sorge «su un fondo d'essere». Ma come è possibile ciò? Conviene osservare che l'essere in virtù del
quale il nulla attinge le cose non può ricevere il nulla, poiché, in questo caso, il nulla attingerebbe questo essere soltanto in virtù di un altro essere, il quale a sua volta supporrebbe un altro essere dal quale avrebbe ricevuto il nulla: saremmo coinvolti in un processo all'infinito, il che è assurdo. D'altra parte l'essere, che è positività pura, non può produrre e far sussistere fuori di sé un Nulla di essere trascendente, poiché il Nulla tra-
scendente è un nulla di trascendenza. Resta dunque che l'essere «nientifichi il Nulla» (cioè faccia sorgere il
nulla) nell'essere stesso ch'esso è. Inoltre non bisogna intendere questo nulla come una cosa interiore all'essere, altrimenti, da una parte, il nulla sarebbe concepito di nuovo a mo' di essere, tesi inintelligibile, e, d'altra
parte, il nulla coesisterebbe con l'essere, ma non sarebbe in lui. V'è dunque una sola possibile soluzione ed
essa consiste nel dire che l'essere fa sorgere il nulla nel suo essere o, in altri termini, che esso deve essere il
proprio nulla (Ibid., pp. 58-59). Infatti, aggiunge Sartre, è l'uomo che si presenta qui «come un essere che fa
scaturire il nulla nel mondo, in quanto, a questo fine, si compenetra di non essere»: esso è «l'essere in virtù
del quale il Nulla viene al mondo», in quanto che, capace di sfuggire al processo della generazione dell'essere per opera dell'essere e tenendo il mondo sotto il suo sguardo come un insieme, l'uomo si mette al di fuori
dell'essere e si isola secernendo del nulla (Ibid., p. 61).
2. CRITICA. - La teoria di Sartre richiede le seguenti osservazioni:
a) Il postulato del pieno. Le asserzioni di Sartre lasciano apparire chiaramente i postulati della sua ontologia, i quali sono solidarmente d'ordine metafisico e insieme d'ordine psicologico. Il primo consiste nel considerare a priori l'essere, come tale, un in sé pieno e massiccio, totalmente e assolutamente in atto. Il secondo,
che ne consegue rigorosamente, consiste nel fare, in modo esclusivo, della sola affermazione un'apprensione
dell'in sé o dell'essere; l'essere, per se stesso, può essere oggetto soltanto di affermazione: esso è e niente di
più. Correlativamente, la negazione diventa necessariamente un'apprensione concreta e pregiudiziale del
nulla. Sennonché tutto ciò è arbitrario. Poiché tutto il problema sta nel sapere se l'essere, come tale, sia necessariamente «pieno» e assolutamente in atto. Pensiamo, al contrario, che la concezione dell'essere sia compatibile con l'ipotesi di una potenzialità interna: niente, nella nozione dell'essere, esclude a priori la possibilità di una certa inadeguazione dell'essere con se stesso, cioè la possibilità di un ente che non sia in atto tutto
ciò ch'esso può essere. Ora, se si accetta, almeno ipoteticamente, questo punto di vista, ne consegue subito
che la negazione, così come l'affermazione, e al medesimo titolo di questa, è un cogliere l'essere, poiché affermare che l'essere non è questo o quello, è ancora un modo di dire ciò che l'essere è, poiché è cogliere, nell'essere, quanto d'essere gli fa difetto (negativamente o privativamente). L'essere mancante, come tale, non è
un nulla assoluto, poiché il nulla non è una mancanza: soltanto l'essere può mancare e non il nulla. Così, si
tratti di affermazione o di negazione, ogni giudizio riguarda l'essere, per porlo come reale o non reale.
b) La positività del non essere. L'argomentazione di Sartre sulla «transfenomenicità» del nulla è giusta e
insieme errata; da vedute metafisiche esatte trae conseguenze false. Sartre ha ragione di osservare che, perché la negazione sia possibile, bisogna che il non essere abbia una certa oggettività o positività. Questo non
essere oggettivo, che infesta l'essere finito, è la potenza o indeterminazione obiettiva dell'essere, risultante
dalla sua finitudine. L'essere è ciò ch'esso è, ma anche tutto ciò ch'esso può essere. Nello stesso tempo tuttavia, ciò ch'esso può essere, non lo è ancora (in atto): la potenza è dunque simultaneamente posizione e negazione (posizione per la sua entità, negazione per la privazione o limitazione che l'accompagna), - cioè, essa è
«essere-assente» e «assenza di essere», «essere del non-essere» e «non-essere dell'essere». Solo che, contrariamente a ciò che pensa Sartre, questo nulla di essere, che è la potenza, si attualizza unicamente nel e per il
giudizio. Esso, nell'essere, non ha alcuna attualità: l'essere è (in atto) soltanto ciò che esso è: solo per il giudizio che faccio sull'essere la potenza ch'esso racchiude in sé, la quale è non essere, acquista l'attualità o positività che le dà l'essere da essa non posseduto e la rende perciò concepibile e pensabile.
c) La genesi del nulla. È facile vedere che l'esclusione categorica della potenza come nulla relativo in seno
all'essere, e l'affermazione correlativa che tutto è in atto, esclude, per Sartre, la sola via in cui si possa cercare
intelligibilmente l'origine del nulla. Sartre mostra che il nulla «non si nientifica» (cioè non si produce da se
stesso), cosa evidente, ma che esso è nientificato e suppone dunque un essere capace di «nientificare il nulla», cioè di fare del nulla di realtà una realtà negativa. Sennonché, in mancanza della nozione di potenza, che
spiegherebbe e giustificherebbe questa operazione, Sartre è obbligato a cercare l'origine del nulla, non più
nell'oggetto (dove esso non è, poiché potrebbe esservi solo sotto forma di potenza), ma nel soggetto, dove
acquista la positività o la realtà che non può avere in alcun modo al livello dell'oggetto. Il per sé si presenterà
dunque come nientificante. Ma tutto ciò è puramente una conseguenza del postulato iniziale che fa dell'in-sé,
o dell'essere, un pieno assoluto, ed è egualmente gratuito sotto questa nuova forma.
Resterebbe ancora, dopo aver scartato il postulato sartriano, da spiegare la genesi del nulla, come si presenta nella negazione, nell'interrogazione, nell'immaginazione. Diremo qui che il nulla si spiega mediante l'oggetto e insieme mediante il soggetto; mediante l'oggetto, nel quale esso «è» a titolo di potenza, mediante il
soggetto, che solo può «attualizzare» questo non essere conferendogli la forma di ente di ragione208.
Art. II - L'atto e la potenza209
170 - Se la dottrina dell'atto e della potenza è incontestabilmente opera del genio di Aristotele, sarebbe un
errore pensare che le speculazioni dei predecessori di Aristotele non abbiano contribuito a prepararla, cercando ostinatamente una soluzione del problema del mutamento. Se vogliamo comprendere bene a quali
problemi risponda la dottrina dell'atto e della potenza, sarà opportuno precisarne anzitutto gli antecedenti storici.
§ 1 - Origini storiche della dottrina
A. I FISIOLOGI
1. GLI IONICI - Il problema al quale vuol rispondere storicamente la dottrina dell'atto e della potenza è
quello del mutamento. È questo problema che ossessionò la curiosità dei primi pensatori della Grecia, dei
quali Aristotele, nel primo libro della sua Metafisica, riporta le differenti opinioni.
Gli Ionici, cercando di comprendere come un corpo divenga un altro corpo (poiché le loro preoccupazioni
sono prima di tutto cosmologiche), immaginano che i diversi corpi siano fatti di una sostanza unica la quale
resti identicamente la stessa sotto i mutamenti che investono le cose corporee. Per Talete di Mileto, questa
sostanza unica è l'acqua; per Anassimene, è l'aria; per Eraclito, il fuoco; per Anassimandro, l'indeterminato o
άπειρον, nel quale si riuniscono tutti i contrari210. Queste differenti dottrine potrebbero definirsi come un monismo materialistico211.
171 - 2. ERACLITO - Eraclito, che dipende dagli Ionici, è talmente colpito dal mutamento universale che
egli fa del divenire l'essenza stessa delle cose. (Cfr. Burnett, Early Greek Philosophy, op. cit.; cfr. tr. fr.
L'aurore de la philosophie grecque, p. 152, frammenti 32, 39, 41-42, 57). Che il mutamento sia l'essenza
stessa delle cose, implica che sotto il mutamento non v'è niente di permanente e che, per conseguenza, ciò
che è, nello stesso tempo non è, poiché niente è mai identico a se stesso. È ormai impossibile affermare o negare alcunché delle cose: tutto è vero e insieme tutto è falso. (Cfr. Aristotele, Metaph., 1010 a 13).
3. DEMOCRITO - Democrito tenta di discernere nel flusso dei fenomeni qualche elemento fisso: questo
elemento o principio di permanenza in seno al divenire è, secondo Democrito, la pura quantità geometrica,
concepita come sprovvista di ogni qualità e semplicemente estensiva. Così per lui tutto si spiega per mezzo
del pieno (che è l'essere corporeo, egli dice) e del vuoto (che è un nulla del corpo). Il pieno è frantumato in
frammenti indivisibili (atomi), separati dal vuoto ed eternamente mobili.
4. ANASSAGORA - Con Anassagora, la soluzione del problema del mutamento fa un passo importante, e
Aristotele scrive che egli sembrava «come un uomo sobrio in mezzo a uomini ubriachi» (Metaph., I, c. III,
984 b 18). Infatti, Anassagora aveva fatto due osservazioni ragguardevoli. Anzitutto aveva notato che il principio materiale da cui provengono tutti i corpi deve in certo qual modo contenere in sé tutte le diversità che
vengono da esso: se tutto non fosse in tutto, niente potrebbe derivare da niente. Per questo appunto Anassagora ritiene che il principio universale è una mescolanza infinita di tutte le nature e di tutte le qualità e che
la diversità dei corpi risulta soltanto dalle diverse proporzioni relative di queste nature e qualità. (Cfr. Burnett, tr. cit., p. 298, fr. 4, 5, 6, 8). Aristotele osserva che questa opinione di Anassagora è errata in quanto essa suppone ancora che gli elementi preesistano in atto nel principio universale. Tuttavia, essa si avvicina alla
concezione di un elemento primordiale «potenza di ogni cosa» (Aristotele, Phys. I, c. IV, 187 b e 188 a).
D'altra parte Anassagora afferma che non basta, per spiegare le cose e le loro trasformazioni, conoscere il
loro principio materiale, cioè di che cosa esse siano fatte. Bisogna conoscere anche l'agente che le produce
(causa efficiente) e lo scopo della sua attività (causa finale). Bisogna dunque ammettere l'esistenza del Νοΰς
ordinatore delle cose. (Cfr. Burnett, tr. cit., p. 298, fr. 11-13).
5. GLI ELEATI - Gli Eleati, e specialmente Parmenide di Elea e Senofane, riflettendo sulle speculazioni
dei primi fisiologi, videro perfettamente che nessun principio primo può dividersi per se stesso e che, per
conseguenza, non può essere da sé solo una spiegazione del diverso e del molteplice. Infatti, un elemento
semplice, tal quale lo supponevano i fisiologi, può essere limitato e diviso soltanto da un altro elemento: se si
ammette con Talete che l'elemento primordiale, unico e semplice, è l'acqua, bisogna concludere che l'universo è una immensità liquida (d'altronde era appunto ciò che Anassimandro obiettava alla teoria di Talete).
Gli Eleati partono da queste medesime speculazioni, ma invece di scegliere quale primo principio l'acqua,
l'aria, il fuoco o l'indeterminato, scelgono l'essere. È una grande idea metafisica, poiché ciò che l'intelligenza
conosce anzitutto delle cose, è l'essere che esse sono. Parmenide però è talmente pieno di questa idea dell'essere, che nega ogni specie di non essere. «L'essere è, e il non essere non è». L'essere deve dunque essere indivisibile e non esiste niente al di fuori di esso, poiché al di fuori di esso v'è solo il non essere. Inoltre l'essere, essendo principio primo, basta a se stesso e non ha certamente avuto cominciamento, poiché non è potuto
nascere dal nulla. (Cfr. Burnett, tr. cit., p. 200, fr. 4-8).
In questa posizione, come spiegare il mutamento, la diversità e la molteplicità? Illusioni, risponde Parmenide, poiché l'essere è immobile, immutabile e continuo. Il mondo dell'opinione (o del mutamento) è dunque
pura apparenza.
B. PLATONE
172 - 1. IL MONDO DELLE IDEE - Platone, come il suo maestro, «il grande Parmenide», sa che l'oggetto
dell'intelligenza è l'essere. Ma si guarda bene dall'assorbire tutto quanto nell'unità dell'Essere immutabile e
assoluto. Ammette dei gradi nell'essere. L'essere vero sono le Idee; modelli immateriali, universali, immutabili ed eterni, soli oggetti dell'intelligenza. Quanto al mondo sensibile, dominio del molteplice, del diverso e
del mutevole, questo è, per Platone, come per Eraclito, puro divenire. Le cose sensibili esistono, ma esse sono solo riflessi degradati dell'Essere autentico, cioè delle Idee.
2. LA MATERIA PRIMA - Il problema del mutamento rimaneva tuttavia senza soluzione soddisfacente.
Che si facesse del mutamento, con Parmenide, una illusione ingannatrice o che si vedesse nel mutamento,
con Eraclito, la sostanza stessa delle cose, era, sempre, negare una parte del reale, ora il movimento ora la
permanenza. È proprio questo che Platone comprese, e perciò propose, per spiegare il divenire, il concetto di
una materia prima, principio delle cose sensibili mediante le combinazioni dei suoi due contrari, il Grande e
il Piccolo. Invero, scrive Aristotele (Phys., I, c. IX, 192 a), questa dottrina non basta a render conto del mutamento. Questo esige per lo meno due princìpi distinti, se non materialmente, almeno formalmente. Infatti,
una cosa una, se non sopravviene niente, non può cambiare: rimane quella che è. Ora la dìade platonica del
Grande e del Piccolo è in realtà una sola e medesima natura, cioè la materia prima. Del resto, la materia prima, come la concepisce Platone, è pura privazione, cioè puro non essere: ora il nulla non può spiegare né
l'essere né il divenire.
C. ARISTOTELE
173 - Queste sono le critiche che Aristotele fa ai suoi predecessori mostrando che, per risolvere il problema del mutamento, bisogna prima ricorrere a un concetto che è loro mancato: il concetto di potenza.
1. SOLUZIONE DELLE ANTINOMIE - Soltanto la distinzione dell'atto e della potenza permette di risolvere, egli dice, le antinomie di Parmenide (Phys., I, c. 5). Infatti, l'essere non proviene dall'essere in atto, poiché esso è già essere: così come da una statua non si fa una statua. Ma ciò che è fatto era prima in potenza, e
proviene da un ente ch'era in potenza; così la statua è fatta con il legno, nel quale essa era prima in potenza;
essa proviene dal legno come da un soggetto suscettibile di determinazione e di mutamento. Ora il soggetto
suscettibile di determinazione in quanto tale, con cui è fatta la statua, non è né nulla, né semplicemente negazione della forma da produrre, né l'essenza del legno. Questo soggetto non è un nulla, perché con il nulla
non si fa niente (questo, Parmenide l'ha ben visto). Non è neppure semplice negazione o privazione della
forma della statua da fare, perché di per sé questa negazione non è niente e con il nulla non si fa niente; d'altronde questa negazione si riscontra egualmente nell'aria o nell'acqua, con le quali non si può fare una statua.
Infine, il soggetto non è l'essenza del legno, per cui il lègno è già in atto quello che è, né la figura attuale del
legno da trasformare, poiché da un essere già in atto niente può farsi, né la forma abbozzata della statua da
fare che, in quanto abbozzata, non sarebbe ormai più un semplice soggetto determinabile, ma un movimento
verso la statua.
Il soggetto suscettibile di determinazione con il quale la statua è fatta è, nel legno, una certa capacità reale
di ricevere la forma della statua, capacità che non esiste né nell'aria né nell'acqua e che Aristotele chiama potenza reale alla statua o statua in potenza. In questo modo Aristotele rende conto del mutamento: qualche cosa è prodotta non a partire da un ente in atto, ma da un ente in potenza. Allo stesso modo, quando ciò che
era in potenza è passato in atto, rimane ancora sotto l'atto una potenza reale, poiché il legno, che è statua in
atto, può perdere la sua forma di statua e riceverne un'altra.
2. SENSO E PORTATA DELLA DOTTRINA - La teoria dell'atto e della potenza, in Aristotele, non è mai
dimostrata nel senso proprio della parola. Aristotele si limita a mostrare, prima con esempi concreti semplicissimi, poi con applicazioni ai grandi problemi filosofici, ch'essa è meravigliosamente atta a render conto
dell'esperienza, e che inversamente, negandola, si va diritto verso l'assurdo. Infatti, essa appare come una generalizzazione operata partendo principalmente dalla distinzione della materia e della forma negli enti corporei. In realtà, generalizzata ed estesa a tutto il dominio dell'essere in divenire, essa subisce vittoriosamente
una prova sperimentale che vale la migliore delle prove argomentative.
Questa è la dottrina che san Tommaso riprende da Aristotele, ma spezzandone la cornice troppo stretta
nella quale era rinserrata la nozione della potenza e dell'atto. San Tommaso, infatti, introduce, come si vedrà,
la distinzione di essenza e di esistenza (esse), che Aristotele non poté concepire (in mancanza di una nozione
della creazione) e che san Tommaso s'impegna a tradurre nel linguaggio dell'atto e della potenza, ma in un
senso che oltrepassa immensamente le prospettive dell'aristotelismo: si tramuta così in una dottrina della
partecipazione, secondo la quale l'universo è una gerarchia complessa, dominata da una Perfezione trascendente, prima e semplice, da cui procedono tutte le perfezioni finite, le quali debbono essere concepite come
similitudini o partecipazioni della Perfezione prima, Dio.
§ 2 - Atto e potenza in generale
174 - La cosmologia ci ha già dato l'occasione di elaborare i concetti di atto e di potenza, onde renderci
conto intelligibilmente tanto del mutamento (II, 30-31) quanto del composto ilemorfico (II, 76-84). Qui,
dobbiamo studiare di definire questi concetti in tutta la loro portata metafisica e di precisare i loro aspetti essenziali.
A. ANALISI DEL MUTAMENTO
Sulla questione del mutamento, che è alla base della dottrina dell'atto e della potenza, ci basterà riassumere
i punti che sono stati stabiliti con lo studio della cosmologia come pure con le osservazioni storiche precedenti.
1. IL FATTO DEL MUTAMENTO - Partiamo dall'evidenza, implicata nel principio di contraddizione, che
l'essere viene prima del mutamento. Infatti, dire che il mutamento preceda l'essere significherebbe che ciò
che muta non è, cioè a dire che ciò che è, non è. Ora, affermare che l'essere viene prima del mutamento significa dire che è l'essere che fa da substrato al mutamento o, in altri termini, che ogni mutamento implica la
permanenza di un soggetto che, essendo anzitutto questo o quello, diventa poi questo o quello senza cessare
di essere se stesso (II, 31). Così si presenta di fatto l'esperienza. La difficoltà comincia quando si tratta di
cogliere il come di questo fatto.
175 - 2. INTELLIGIBILITÀ DEL MUTAMENTO - Per quale misteriosa operazione il termine originario
(per esempio, il ferro freddo) può diventare il termine nuovo (il ferro caldo), senza cessare d'essere se stesso?
Se esso diventa una cosa altra da ciò che è, questo mutamento si produce secondo ciò che esso è? Evidentemente ciò è impossibile, poiché secondo ciò che esso è, il termine primitivo non deve mutare: esso è, e basta:
non si può trovare in ciò che esso è la ragione del mutamento. Troveremo forse questa ragione in ciò che esso non è: secondo ciò che esso non è, il termine originario diventa il termine nuovo? Tanto meno, poiché
spiegare così il mutamento, equivarrebbe a spiegare l'essere mediante il nulla. Bisogna guardarsi dal pensare qui che la spiegazione adeguata del mutamento (per esempio, nel ferro che da freddo diventa caldo) si trovi nel fuoco della fucina. Il fuoco è causa efficiente del mutamento, ma esso non spiega il mutamento come
tale, cioè che una cosa diventi un'altra, che prima non era, senza cessare di essere se stessa.
Così, il mutamento non può venire né dall'essere, che è già, né dal non essere, che non è. Parmenide sembra trionfare: solo in apparenza. Infatti, il termine primitivo (il ferro freddo) è tutto ciò che esso è, e per questo rispetto non spiega il mutamento (il passaggio al termine nuovo, ferro caldo). Esso non è però tutto ciò
ch'esso può essere: tra l'essere ch'esso è e il non essere ch'esso non è, vi è un termine medio, il poter essere o
la potenza. Così, le cose che divengono non provengono dal semplice non essere, né dall'essere in atto, ma
dall'essere in potenza.
Qui non siamo in contrasto con il principio del terzo escluso: «tra l'essere e il non essere non esiste un termine medio». Bisogna infatti intendere il principio del terzo escluso nello stesso senso del principio di non
contraddizione, di cui esso è una forma derivata. Ora il principio di non contraddizione enuncia che una stessa cosa non può insieme essere e non essere, essere tale e non essere tale sotto lo stesso rapporto. Qui questo
principio è rispettato, poiché non diciamo che il medesimo ferro è insieme e sotto lo stesso rapporto freddo e
caldo, che Pietro insieme e sotto lo stesso rapporto conosce e ignora la geometria, ma che il ferro è insieme
freddo e caldo sotto rapporti differenti, cioè freddo in atto e caldo in potenza (cioè a dire atto a diventare caldo), che Pietro insieme ignora e conosce la geometria sotto rapporti differenti, cioè ch'egli la ignora in atto,
ma che è in potenza a conoscerla (in quanto egli è un ente intelligente). Così, tra essere freddo ed essere caldo, tra essere ignorante e dotto, vi è realmente un termine medio, costituito dalla potenza di diventare caldo e
di diventare sapiente. Chiaro tuttavia è che il principio di non contraddizione rende impossibile ammettere
che il ferro sia insieme freddo e caldo in atto, che Pietro sia insieme ignorante e dotto in geometria in atto.
B. CONCETTI DELL'ATTO E DELLA POTENZA
176 - Ora che l'analisi del fatto del mutamento ci ha messi in possesso dei concetti di potenza e d'atto, ci
sforzeremo di precisarne il significato e di distinguerli dai concetti affini.
1. LA POTENZA
a) Essere e poter essere. L'esperienza è intelligibile solo se ammettiamo che le cose non sono limitate al
loro essere attuale e che includono un'attitudine al mutamento, da noi chiamata potenza. Questo potere è
qualche cosa di reale, è qualche cosa dell'essere o una semplice finzione dello spirito, senza fondamento
nella realtà?
Prendiamo un esempio. Questo albero può diventare, secondo il favolista «dio, tavola o mastello» e tante
altre cose ancora, ma non tuttavia qualsiasi cosa: esso non può diventare né uccello, né pietra, né aria. Vi sono nel legno certe potenze, mentre non ve ne sono certe altre. Le potenze che esso possiede sono qualche cosa di reale che dipende dalla sua stessa natura, che è questa e non un'altra. Egualmente, i semi che il vento
disperde hanno in sé la potenza di produrre questa o quell'essenza determinata, ma non una qualsiasi essenza,
e questa potenza è in loro ben qualche cosa di reale. Perciò, benché il potere insito nelle cose di diventare
questo o quello non si manifesti a noi finché non sia passato in atto, dobbiamo dire che le cose sono non soltanto ciò che esse sono, ma ancora e realmente tutto ciò ch'esse possono essere.
b) Analisi del poter essere. Tuttavia, poter essere, non è evidentemente essere, nel senso primo di questa
parola. Il legno può diventare statua, ma esso non è statua. Tanto meno il poter essere è l'assoluto non essere.
È qualche cosa, né essere assolutamente, né non essere assolutamente, di intermediario tra l'essere e il non
essere, che noi non possiamo immaginare, ma che s'impone all'analisi filosofica del reale in divenire: questa
è la potenza o potenzialità.
Tuttavia l'analisi precedente non è una definizione, poiché la potenza non può essere definita se non in
rapporto all'atto. La parola potenza non dice una realtà assoluta, poiché non è essere nel senso primo della
parola, ma una realtà totalmente relativa all'atto, una pura capacità di atto o una pura attitudine all'essere.
D'altra parte, per definire la potenza, come d'altronde l'atto, bisognerebbe che l'una e l'altro entrassero in un
genere, ciò che non è, poiché con l'atto e la potenza noi siamo nelle prime determinazioni dell'essere, e ben
sappiamo che l'essere non è un genere.
Questa potenzialità, se non si può definire, ancor meno si può immaginare. Niente sarebbe più falso che
farne un atto imperfetto, una prefigurazione appena abbozzata della cosa, un atto che debba vincere una resistenza per manifestarsi al di fuori. La potenza, in quanto tale, non è niente in atto, dunque niente di determinato, neppure in abbozzo.
Le espressioni scientifiche di «energia potenziale» e di «energia attuale» possono ingenerare confusione da
cui bisogna guardarsi. «Se si chiama energia ogni potere di lavoro che risiede in un corpo, l'energia è attuale
e cinetica quando essa è in movimento, per esempio in una molla che si distende; potenziale, quando essa è
in riposo e in riserva, per esempio in una molla tesa». (Branly, Physique, p. XXVII). Ora, di qualsivoglia espressione si faccia uso, queste due energie sono, l'una e l'altra, atti, poiché nell'energia detta potenziale, c'è
la pressione della molla contro l'ostacolo che la comprime: è, se si vuole, un atto impedito, ma un atto. La
potenza sarebbe qui rappresentata dalla molla non ancora tesa.
177 - 2. L'ATTO - Abbiamo parlato della potenza prima dell'atto, perché è il concetto di potenza che risolve le difficoltà del mutamento. In realtà, noi conosciamo l'atto prima della potenza, poiché questa è essenzialmente relativa all'atto.
a) Determinazione e perfezione. Che cosa è dunque l'atto? È tutto ciò che è, nel senso primo della parola
essere; è il determinato e il perfetto212. Non è questa una vera definizione, poiché l'atto è suscettibile di definizione ancor meno che la potenza. Infatti, da una parte non si può definirlo mediante la potenza, poiché,
nell'ordine dell'essere, l'atto è una realtà assoluta: se esso comporta una relazione con la potenza o con un atto ulteriore, è per accidente e non in quanto atto, ma in quanto questo atto213. D'altra parte, l'atto non si può
definire né propriamente né impropriamente, poiché il concetto dell'attualità è, come quello di essere, uno di
quei concetti primitivi e semplicissimi che non possono essere determinati da altri.
Insomma, si può far conoscere l'atto solo per induzione, portandone esempi concreti. Così appunto parliamo dell'atto di camminare a proposito di colui che cammina, di statua in atto a proposito dell'oggetto d'arte
scolpito nel legno o del marmo in cui esso era in potenza. Vogliamo dire ogni volta che l'ente di cui parliamo, non soltanto può possedere tale qualità o tale forma, ma ancora che la possiede realmente e attualmente,
che non soltanto può esistere, ma di più, che esiste realmente. (Cfr. Aristotele, Metaph., VIII, c. 6).
b) Potenza e atto come conprincìpi dell'essere finito. L'atto e la potenza non sono enti separati, ma soltanto
princìpi di essere che concorrono mediante la loro unione a formare il composto. Inoltre, essi non sono princìpi con la funzione di causa efficiente, né con alcun'altra funzione di causa estrinseca, ma per composizione,
cioè sono princìpi intrinseci.
C. DIVISIONE DELLA POTENZA
178 - 1. POTENZA PASSIVA E POTENZA ATTIVA - Diciamo che l'acqua è in potenza ad essere scaldata. Diciamo anche che il fuoco è in potenza a riscaldare. Il linguaggio ci avverte con ciò che conviene distinguere due specie di potenza: la potenza attiva, ossia il principio dell'azione esercitata in un altro, e la potenza passiva, ossia l’attitudine a subire, «patire» da un altro. (Uno stesso essere può agire su di sé e patire
per opera di sé, cioè essere attivo e insieme passivo, ma sotto rapporti differenti).
Potenza attiva e potenza passiva sono sempre e necessariamente di fronte l'una all'altra. Non vi può essere
potenza attiva dove non vi sia potenza passiva: finché v'è tra le due qualche ostacolo che impedisca l'attuazione della potenza passiva, non v'è, a rigor di termini, essere potenziale, ma non essere puro e semplice.
Perché vi sia potenza passiva, bisogna dunque che esista una potenza attiva immediatamente correlativa.
(Cfr. Aristotele, Metaph., VIII, c. 7, 1049 a 5-12).
2. POTENZA SOGGETTIVA E POTENZA POSSIBILE - Se non si prende più la potenza nel sua rapporto
con l'atto, ma la si concepisce materialmente come entità a essere, la potenza potrà dividersi, come l'essere
stesso, in attuale e passibile. La potenza attuale (chiamata ancora reale o soggettiva) è quella che esiste in
atto (cioè in atto di potenza) nelle cose, ed è realmente il soggetto dell'atto: ecco perché la si chiama soggettiva. La potenza possibile (o logica) è il modo ideale secondo il quale una casa può essere: essa si confonde
con l'essenza possibile. Così l'uomo è in potenza possibile, mentre invece non è tale il cerchio quadrato.
D. DIVISIONE DELL'ATTO
179 - 1. ATTO PRIMO E ATTO SECONDO - Abbiamo visto che essere in atto è anzitutto essere, nel piena senso della parola. Il che vuol dire che, filosoficamente parlando, la parola atto non significa anzitutto l'azione, cioè il fatto di agire a di fare. L'azione e il fare sono, sì, due atti, ma due atti secondi, cioè operazioni
che si innestano, per così dire, sull'atto primo il quale consiste essenzialmente, sia nell'essere puramente e
semplicemente (actus existentiae), sia nell'essere questo o quello, cioè questa a quella essenza (actus essentiae). Pertanto si può essere in atto senza agire: il geometra, anche quando non eserciti la scienza della geometria, resta geometra (in atto primo).
2. ATTO PURO E ATTO MISTO DI POTENZA - L'esempio precedente ci mette sulla via di un'altra divisione dell'atto. Lo scienziato, infatti, non sempre fa usa della sua scienza; per usarne, deve porre nuovi atti.
La scienza ch'egli possiede non è dunque un atto puro, poiché essa ha funzione di potenza in rapporto agli
atti ulteriori, che la manifesteranno (a l'attueranno): questa scienza è dunque mista di potenza. Per contro, si
può concepire un atto assolutamente puro e indenne di ogni potenzialità: una scienza, per esempio, che fosse
sempre e in tutte le sue applicazioni presente alla spirito. Ma si può concepire un ente che sia in atto perfetto
rispetto a tutto l'essere passibile, senza alcuna limitazione di potenza in qualunque ordine? Niente impedisce
di formare questo concetto: al contrario, l'atto, essendo di per sé essere e perfezione, ci conduce naturalmente
a formare il concetto di un ente in atto rispetto a tutto l'essere e a tutta la perfezione, cioè Atto puro.
È chiaro che bisogna accuratamente evitare di confondere la divisione dell'essere in essere in potenza e essere in atto con la divisione dell'essere come atto o principio di perfezione e come potenza o principio d'imperfezione e, come vedremo, di limitazione dell'atto. In realtà, potenza e atto sono conprincìpi di tutti gli enti
attuali finiti e si ritrovano a tutti i livelli dell'essere (materia-forma e specialmente essenza-essere): essi si richiamano l'un l'altro nel medesimo ente e nel medesimo momento. Al contrario, l'essere in potenza e l'essere
in atto si escludono mutuamente: nessun ente può nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto essere in potenza e in atto. Diremo dunque che ogni ente è o misto di potenza e d'atto, o atto puro, e che ogni ente finito è
necessariamente composto di potenza e d'atto.
§ 3 - Rapporti tra 1'atto e la potenza
Dai concetti d'atto e di potenza risultano un certo numero di principi a assiomi che vertono sui rapporti tra
la potenza e l'atto, dal triplice punta di vista del loro valore relativo, della causalità e della composizione.
A. PUNTO DI VISTA DEL VALORE
180 1. - L'ATTO DI PER SÉ DICE PERFEZIONE - «Ogni cosa è perfetta nella misura in cui essa è in atto, imperfetta nella misura in cui essa è in potenza». (S. Tommaso, Contra Gent., I, c. 28). È, a un dipresso,
lo stesso assioma che si enuncia così: «in ogni genere, l'atto è più nobile che la potenza quanto al genere stesso» (I Sent., d. 44, q. 1, a. 2, ad 2um). Si dice: «quanto al genere stesso», perché la potenza in un genere più
perfetto supera l'atto di un genere inferiore: è meglio essere intelligente in potenza (il fanciullo) che essere
sensibile in atto (animale).
2. L'ATTO È LIMITATO SOLO DALLA POTENZA - «L'atto, in quanto perfezione, è limitato solo dalla
potenza», che è una capacità di perfezione. Così «nell'ordine in cui l'atto è puro, esso non può essere che illimitato e unico. Se al contrario esso è finito e molteplice, è tale perché entra in composizione reale con la
potenza».
a) L'atto assolutamente puro è assolutamente perfetto - Un atto puro in un ordine dato è assolutamente perfetto in quest'ordine e per di più unico. Infatti esso implica, per ipotesi, tutto ciò che appartiene alla sua ragione formale, e, per conseguenza, tutte le determinazioni particolari. Essendo perfezione, l'atto, in quanto
tale, implica tutta la perfezione (tutto l'essere) o tutto ciò che costituisce formalmente tale perfezione data.
Per conseguenza, un atto puro deve essere unico, poiché, se esprimessero per definizione tutta la ragione
formale di una perfezione, due o più atti puri sussistenti sarebbero necessariamente e assolutamente identici e
non potrebbero essere distinti.
b) Come è limitato l'atto? Ciò non può derivare da esso stesso, ma da qualche cosa che gli sia estrinseco,
cioè dalla potenza nella quale esso è ricevuto (per esempio, l'esistenza ricevuta in una essenza è limitata e
contratta da questa essenza), o dal fatto che l'atto è nello stesso tempo potenza, cioè limite in rapporto a un
atto superiore: così la forma è l'atto della materia, ma per la sua unione con la materia questo atto è con essa
in potenza all'esistenza. (Cfr. S. Tommaso, Contra Gent., I, 43; II, 52; De Ente et Essentia, c. 5-6).
181 - 3. PRIMATO DELL'ATTO SULLA POTENZA - Dal punto di vista della sostanza, l'atto ha primato
sulla potenza, sia l'atto-forma (l'uomo fatto riguardo al fanciullo), sia l'atto-fine (ciò che diviene tende a un
fine, che è l'atto). Ne consegue che «il perfetto ha primato per natura sull'imperfetto» e che «il tutto ha primato necessariamente sulle parti, poiché queste, come tali, non precedono il tutto e non gli sopravvivono».
4. L'ATTO È PRINCIPIO DI UNITÀ E DI ESSERE - Infatti, più un ente è in atto, più è determinato e
quindi uno ed essere, poiché l'essere e l'uno sono convertibili. La potenza, al contrario, per la sua indeterminazione, è suscettibile di attuazioni diverse e, in quanto tale, radice del molteplice.
5. L'ESSERE È INTELLIGIBILE NELLA MISURA IN CUI È IN ATTO - Le cose sono conoscibili soltanto nella misura in cui sono in atto: infatti, il vero e l'essere sono convertibili. Ora solo essere in atto è essere assolutamente; essere in potenza è essere solo relativamente. Per conseguenza, la conoscenza ha primamente e principalmente per oggetto l'essere in atto, soltanto secondariamente l'essere in potenza, il quale
d'altronde non è concepibile in se stesso, ma per ciò a cui esso è in potenza. Questo assioma significa ancora
che il principio per cui la cosa è conosciuta è l'atto (o forma) della cosa, ossia ciò per cui la cosa è situata in
una data specie d'essere. L'atto è pertanto il principio dell'intelligibilità.
B. PUNTO DI VISTA DELLA CAUSALITÀ
182 - 1. L'OPERAZIONE SEGUE L'ESSERE - Ogni cosa agisce secondo ch'essa è in atto (operatio sequitur esse). Infatti, agire è produrre un atto, che è l'opera del soggetto che agisce. Gli atti di scienza dello
scienziato sono misurati dalla scienza ch'egli possiede (atto primo).
2. IL PASSAGGIO DALLA POTENZA ALL'ATTO ESIGE UN ENTE IN ATTO - Infatti, non si può
concepire che ciò che è in potenza, cioè che manca di una perfezione, dia a se stesso questa perfezione in
quanto esso è in potenza.
3. L'ATTO È ANTERIORE O POSTERIORE SECONDO IL PUNTO DI VISTA - «Dal punto di vista del
tempo, l'atto è anteriore alla potenza in una serie ordinata, posteriore in un individuo».
Cfr. Aristotele, Metaph., X, c. 8, 1049 b - 1050 a 3: «Prima dell'effetto occorre un agente della medesima
specie, ma numericamente differente. Dico ciò perché, prima di quest'uomo che è in atto, prima di questo
frumento, prima di questo veggente, è esistita anteriormente una materia, un germe, una facoltà di vedere,
che in potenza erano già un uomo, del frumento, un organo della visione, ma che non lo erano ancora in atto.
Da un altro canto, prima di queste stesse cose, esistevano altri enti in atto, da cui esse sono provenute. Poiché
sempre l'ente in potenza diventa ente in atto in virtù di un ente in atto: l'uomo proviene dall'uomo, il musicista dal musicista. Ogni movimento proviene da un motore e il motore è già in atto». Dunque «benché il medesimo soggetto sia in potenza prima di essere in atto, è stato necessario tuttavia che qualche ente fosse in
atto prima dell'ente in potenza, onde conferirgli attualità».
Da ciò consegue che «ciò che è primo, non è il germe, ma l'essere perfetto», e che anche «dal punto di vista
causale, il regresso all'infinito è impossibile».
C. PUNTO DI VISTA DELLA COMPOSIZIONE
183 - 1. LA POTENZA NON ESISTE SEPARATAMENTE DALL'ATTO - La potenza non può esistere
allo stato puro. Infatti, la potenza non è l'essere, nel senso primo della parola: essa è l'essere di un ente. Essa
non può dunque mai esistere fuorché in un ente che sia per altro verso in atto.
2. L'ATTO E LA POTENZA SONO REALMENTE DISTINTI ­ Questo assioma si riferisce all'atto e alla
potenza che gli corrisponde e risulta dal fatto che la potenza è il determinabile, mentre l'atto è il determinato;
in quanto tali possono essere solo distinti.
Si potrebbe obiettare che il genere (potenza o determinabile) e la differenza specifica (atto o determinante)
non sono realmente distinti. Vero è che il genere non è una potenza reale, quale, per esempio, l'intelligenza
in rapporto all'atto di comprendere; esso è una potenza semplicemente logica; la differenza, egualmente, è un
atto in senso soltanto logico.
3. ATTO E POTENZA SONO DEL MEDESIMO GENERE - In realtà, in ogni genere si incontrano atto e
potenza, cosicché ciò che era in potenza ed è passato all'atto resta nel medesimo genere. Dato che ogni cosa
agisce secondo ch'essa è in atto e «patisce» secondo ch'essa è in potenza, un «paziente» determinato corrisponde a un agente che gli è proprio, e inversamente (il dolce non «patisce» dal bianco, se non per accidente, ma solo dall'amaro). Una potenza accidentale è ordinata a un atto accidentale; una potenza sostanziale a
un atto sostanziale.
Tutto ciò si deve riferire alla potenza che è ordinata essenzialmente ad un determinato atto, poiché niente
impedisce che un essere di un dato genere sia in potenza a un altro genere (così la quantità è in potenza alla
qualità). Nessuna categoria d'essere è essenzialmente in potenza a un'altra categoria.
184 - 4. DA DUE ATTI COMPLETI NON PUÒ RISULTARE UN ENTE UNO PER SÉ - Si chiama atto
completo una sostanza completa e compiuta nel suo ordine. Due sostanze di questo genere non possono formare un ente uno per sé, perché l'atto, come abbiamo visto, è propriamente l'essere: due atti restando tali,
non possono dunque comporre un solo ente, per sé uno. Diciamo: «restando tali», cioè completi e perfetti,
per tener conto del caso in cui dalla trasmutazione di due enti completi risulti un ente per sé uno (il misto, II,
98).
5. L'ENTE IN ATTO E L'ENTE IN POTENZA SONO UNA SOLA E MEDESIMA COSA - Essi non sono una sola e medesima cosa per la loro ragione formale, poiché le loro nozioni sono differenti e opposte, ma
realmente, poiché essi non differiscono tra loro come cosa da cosa, essendo l'ente che ora è in atto quella
medesima cosa che era in potenza. Tuttavia l'ente in atto e l'ente in potenza non sono una sola e medesima
cosa per identità positiva, come se l'ente in questione, in quanto è in potenza fosse la medesima cosa che l'ente in questione, in quanto in atto. Essi sono invece una sola e medesima cosa negativamente, in quanto non
sono due cose di specie diversa.
Ciò non si oppone all'assioma che «l'atto e la potenza sono contrari». Poiché, considerati secondo la loro
ragione formale, essi sono infatti rigorosamente contrari.
Queste osservazioni permetteranno di capire ciò che si intende in filosofia con i termini «materiale» e
«formale». Sappiamo già, dalla Cosmologia (II, 85-87), che queste nozioni derivano da quelle di materia e
forma e che designano, nel composto corporeo, il principio potenziale (materia) e il principio attualizzante e
specificatore (forma). Per estensione e per analogia, si distingue, in un ente, l'aspetto materiale, cioè il soggetto che riceve le determinazioni, e l'aspetto formale, che è tutto ciò che conferisce la determinazione ovvero questa stessa determinazione, come tale. Il soggetto così inteso, cioè precisamente come determinabile,
può essere tanto spirituale che corporeo, astratto o concreto; i termini materiale o materialmente preso non
significano, in questo caso, niente di più che soggetto determinabile o preso come determinabile; egualmente
formale o formalmente preso significano ogni determinazione o ogni punto di vista determinato.
È chiaro che una proposizione può essere vera o falsa, secondo che la si prenda materialmente o formalmente. Per esempio, che «la scienza escluda l'opinione» è solo formalmente vero, cioè vale unicamente per la
scienza considerata nella sua essenza o nel suo tipo assoluto; materialmente presa (cioè relativamente alla
scienza. quale essa esiste di fatto), questa proposizione sarebbe falsa, poiché è certo che la scienza include di
fatto una parte enorme di opinione. Inversamente, è materialmente vero che «la scienza nutre l'orgoglio»
(scientia inflat); ma questa asserzione, formalmente presa (cioè riferita alla scienza in quanto tale, nella sua
nozione essenziale) sarebbe falsa. Da ciò deriva l'importanza che si deve dare al «parlar formalmente», e per
conseguenza al distinguere con precisione i punti di vista, essendo ciò il solo mezzo per evitare equivoci.
§ 4 - Il punto di vista di J. P. Sartre
185 - 1. L'ESSERE COME ATTO PURO - Abbiamo notato più indietro (128) come la dottrina sartriana
sull'essere implichi l'esclusione assoluta del concetto di potenza. L'essere, per Sartre, si riduce alla serie delle
apparizioni, senza possibilità di distinguere in esso la dualità dell'essere e del fenomeno, dell'atto e della potenza. L'essere è assolutamente tutto ciò ch'esso può essere. «Tutto è in atto», poiché il fenomeno è tutta la
realtà dell'essere, l'apparenza è tutta l'essenza: dietro l'atto, non v'è niente, né potenza, né virtualità. L'essenza
non è che il legame delle apparizioni successive dell'esistente, cioè è essa stessa un'apparizione. L'essere è
necessariamente atto puro (L'Être et le Néant, op. cit., p. 12).
2. DISCUSSIONE - Sartre ha ben rilevato, già al principio della sua ontologia, che quanto è in questione è
il problema dell'atto e della potenza. Per lui, non si dà potenza; tutto è in atto e l'essere è necessariamente,
assolutamente e costantemente tutto ciò ch'esso è. Tuttavia, come non vedere che questa tesi è contraddetta
dall'esperienza del mutamento, che impone di ammettere che l'essere non è mai la totalità del suo essere? In
realtà, la negazione sartriana della potenza si fonda implicitamente su una concezione che fa della potenza
una cosa o un atto diminuito, avviluppato o celato nell'essere. Ora la potenza non è niente di simile. Essa è al
contrario, come tale, una sorta di nulla di essere, non assolutamente, ma relativamente all'atto, cioè essa è un
nulla di essere attuale. Essa ha, tuttavia, per questo rispetto, una certa positività, che è appunto di esistere a
titolo di possibilità reale nell'essere stesso, il quale non è soltanto tutto ciò ch'esso è attualmente, ma anche
tutto ciò ch'esso può essere (o divenire).
Questa potenzialità dell'essere rende possibile e intelligibile il mutamento. Aristotele ha lungamente insistito su ciò, come abbiamo visto. Egli mostra che, senza questo nulla interiore, l'essere sarebbe immobile, denso e pieno e, come dice Sartre, «coagulato in se stesso»: la potenza mette in esso elasticità e permeabilità; esso può divenire e insieme ricevere. Appunto per effetto di questa negazione della potenza Sartre perviene,
con una logica indiscutibile, a fare dell'«in sé», cioè dell'essere stesso, un pieno assoluto nel quale nessun
mutamento è concepibile e di cui non si può dir altro, se non che esso è. Immobile, denso e massiccio, opaco
e tenebroso, l'essere, così concepito, non è infine che il nome della materia. Come già in Parmenide, e in virtù del medesimo postulato, l'ontologia sartriana sfocia in pieno materialismo.
Art. III - L'essenza e l'esistenza214
§ 1 - Il problema della distinzione
186 - 1. 1 CONCETTI DI ESSENZA E DI ESISTENZA - L'analisi dell'essere (id quod habet esse) ci ha
dato il possesso dei concetti di essenza e di esistenza. Abbiamo visto che questi due aspetti dovrebbero necessariamente essere distinti nell'essere, l'essenza, che esprime ciò che una realtà è (attuale o possibile), cioè
ciò che la definisce nel seno dell'essere e che ne fa questo determinato, l'esistenza, che esprime per una essenza il fatto di essere posta fuori delle sue cause. Il concetto di essenza risponde dunque alla domanda: che
cos'è questo o quello (quid sit)? - il concetto di esistenza risponde alla domanda: esiste questo o quello (an
sit)? La «cosa esistente», cioè l'essenza individuale e completa, è il tutto indissociabile formato da questi due
princìpi.
2. NATURA DELLA DISTINZIONE - Questa distinzione degli aspetti essenziali ed esistenziali nel seno
delle realtà concrete induce a porre il problema se l'essenza, in un dato ente, sia realmente distinta dall'esistenza che lo fa esistere. Per capire il senso di questo famoso problema, è necessario precisare accuratamente
il senso nel quale deve essere presa la distinzione in parola.
a) La questione riguarda la sfera dell'essere attuale. È evidente che qui non si tratta di sapere se l'essenza
ideale o possibile differisca realmente dall'essere in quanto attuale. Questa distinzione è ovvia, almeno nell'ente finito, poiché, in quest'ordine, nessuna essenza esiste necessariamente, in virtù di una esigenza intrinseca e assoluta. Tutto il problema che la distinzione di essenza e di esistenza pone è unicamente se, in ciò che
ha l'essere reale attuale, vi sia o no una distinzione reale tra l'essenza attuale e l'esistenza di essa.
b) Precisazione sull'espressione «distinzione reale». L'espressione «distinzione reale» deve essere presa
nel suo stretto senso tecnico (I, 43), altrimenti il problema non si porrebbe, poiché tutti i filosofi convengono
che bisogna almeno fare una distinzione di ragione tra l'essenza e l'esistenza in un dato ente. Si tratta dunque
precisamente di dire se, in un ente individuo esistente, l'essenza e l'esistenza abbiano ciascuna una loro realtà propria e distinta, in tal guisa che questo individuo sia formato di queste due realtà, considerate come distinte indipendentemente dallo spirito.
Per precisare maggiormente, aggiungiamo che qui si tratta evidentemente della distinzione reale minore,
cioè di quella che esiste tra realtà non separabili. Bisogna dunque escludere immediatamente l'ipotesi consistente nel supporre che l'esistenza e l'essenza possano attuarsi separatamente l'una dall'altra e allo stato puro,
in guisa tale che l'essenza e l'esistenza fossero concepite come elementi o parti la cui combinazione formerebbe l'essere reale. Questa ipotesi è assurda, poiché l'esistenza è sempre data come attualità di una essenza
determinata, tanto è vero che essenza ed esistenza, se sono realmente distinguibili, sono necessariamente inseparabili in un dato essere. In altri termini, qui non si tratta di composizione fisica, ma di composizione metafisica (I, 52).
§ 2 - La distinzione reale
187 - Facendo per il momento astrazione dalle categorie alle quali ha dato luogo il problema della distinzione reale, possiamo ridurre a due argomenti la prova che in ogni essere attuale composto bisogna ammettere una distinzione reale tra l'essenza e l'esistenza.
A. LA DISTINZIONE ADEGUATA DEI CONCEITI
1. PRINCIPIO DELL'ARGOMENTO - Per provare la distinzione reale, non basterebbe mostrare che i
concetti di essenza e di esistenza sono distinti, poiché sappiamo che la ragione elabora distinzioni che non
suppongono la distinzione reale degli oggetti del pensiero (distinzione di ragione: 168): è così che si distinguono in un ente il genere e la specie (uomo = animale - ragionevole), senza che genere e specie, in questo
dato ente (Pietro), si distinguano realmente tra di loro: la distinzione è semplicemente concettuale, in quanto
animale e ragionevole sono una sola e medesima cosa, considerata sotto due aspetti distinti.
Per poter affermare la distinzione reale partendo dalla distinzione concettuale, bisogna che i concetti che
stanno in reciproco rapporto, come determinabile e determinante, abbiano oggettivamente tutta la determinazione che spetta a ciascuno nel suo ordine e ch'essi rimangano tuttavia adeguatamente distinti. (Cfr. S.
Tommaso, De Ente et Essentia, c. VI). Questa condizione è necessaria e anche sufficiente, perché risulta
immediatamente dal valore oggettivo dell'intelligenza e dalla sua ordinazione essenziale all'essere. Se infatti
alla distinzione adeguata e irriducibile di concetti, i cui oggetti si oppongono come determinante e determinato, non corrispondesse una distinzione reale tra gli oggetti, l'intelligenza sarebbe falsata nel suo esercizio
fondamentale.
2. LA DISTINZIONE ADEGUATA - Questa distinzione adeguata e irriducibile risulta dalla nostra analisi
dei concetti di essenza e di esistenza. Ognuna infatti è oggettivamente perfetta nel suo ordine, e deve per
conseguenza corrispondere a una realtà che si distingua irriducibilmente dall'altra. L'essenza perfetta si distingue adeguatamente dall'esistenza: l'una non è l'altra, né implica necessariamente l'altra, l'una è interamente esteriore all'altra. Si deve dunque concludere che, nell'ente composto, l'essenza e l'esistenza debbono
essere realmente distinte.
Avviene altrimenti della distinzione del genere e della specie in un dato essere, poiché il genere non è una
realtà perfetta nel suo ordine, in quanto dice soltanto determinabilità; è una essenza (logica) incompleta e non
compiuta.
B. L'ESISTENZA RICEVUTA
188 - Questo argomento, che è il più fondamentale (in quanto rende conto della distinzione adeguata dei
concetti), comporta due tappe, le quali consistono nello stabilire anzitutto che l'essere di una essenza finita è
esso stesso finito, e poi che l'esistenza finita può solo essere ricevuta in una essenza che la limita.
1. L'ESSERE (ESSE) DI UNA ESSENZA FINITA È FINITO ­ Infatti, v'è necessariamente correlazione
tra l'essenza e l'esistenza. A una essenza finita può corrispondere solo una esistenza finita, poiché sarebbe
contraddittorio che il finito o il limitato esistesse infinitamente, cioè senza limitazione. Inversamente, un essere infinito implica una essenza infinita (infinitamente perfetta), il che torna a dire che essenza ed esistenza
in esso si identificano necessariamente: non si può fare tra esse che una distinzione logica.
Non affermiamo affatto con questa tesi l'esistenza reale di un Essere infinito, come fanno gli ontologisti,
che arguiscono immediatamente l'esistenza reale dell'Atto puro partendo dal concetto di essenza infinita. Resta vero comunque che, se esiste un Essere infinito, cioè un Essere che sia puramente essere (che possieda
l'attualità infinita dell'essere), l'essenza e l'esistenza debbono necessariamente identificarsi in lui.
2. L'ESSERE DI UNA ESSENZA FINITA È RICEVUTO - L'essere o l'esistenza finita è necessariamente
ricevuto, perché l'essere non ricevuto deve essere assoluto e infinito. Infatti, di per sé, l'essere non dice altro
che esistenza pura e illimitata, atto puro215. Di conseguenza, una volta che noi non possiamo esprimere una
realtà in una maniera completa e adeguata senza aggiungere una determinazione (questo essere è tale), ne segue evidentemente che l'essere di tale realtà è limitato. Siccome l'essere o l'esistere non può esser limitato da
sé, lo è necessariamente in virtù di un'altra cosa, cioè dell'essenza con cui esso si compone e che esso attua,
cioè esso è ricevuto, differisce realmente dall'essenza che esso fa esistere e l'essenza sta all' essere come la
potenza all'atto216.
A questi argomenti se ne può aggiungere un altro: soltanto la distinzione reale, negli esseri composti, è suscettibile di assicurare l'unità intrinseca dell'essere. Infatti, la complessità interna degli enti corporei è evidente: sappiamo ch'essi comportano materia e forma (II, 76-78). Ora è impossibile pensare che questi elementi
abbiano una esistenza attuale nel composto: questo non sarebbe più un essere, ma una colonia (o un essere
per accidens). Bisogna dunque ammettere, nel composto, una distinzione reale tra l'ordine quidditativo (essenza complessa) e l'esistenza, che è necessariamente unica e semplice: altro è l'esistenza, altro il composto
stesso, che partecipa dell'esistenza217.
Soltanto questa distinzione permette di capire come la materia, quantunque distinta dalla forma, non le rimanga esteriore, ma esista dell'esistenza di questa e formi con essa un solo ente sostanziale, sebbene essenzialmente complesso. La stessa osservazione varrebbe proporzionalmente per il soggetto in rapporto alle sue
determinazioni accidentali. Queste si aggiungono al soggetto: esse implicano dunque nel soggetto una potenzialità che può convenire solo all'essenza e non all'esistenza, la quale è atto e atto ultimo del soggetto, il che
torna a porre nel soggetto una composizione reale di essenza e di esistenza.
§ 3 - Difficoltà relative alla distinzione reale
189 - La tesi della distinzione reale di essenza e di esistenza è stata oggetto di discussioni vivissime e spesso molto confuse, specie nei particolari in cui non possiamo entrare. Si possono d'altronde ridurre a tre punti
essenziali le difficoltà che si son fatte valere contro questa tesi. Si è contestato infatti anzitutto che i concetti
dell'esistenza e dei suoi modi finiti si distinguano adeguatamente; in seguito si è fatto lo sforzo di stabilire
per absurdum che l'essenza non può essere tenuta per una potenza soggettiva, e che l'essere non può essere
considerato come un atto propriamente detto. Da queste obiezioni, proposte da Suarez e dai suareziani, si è
concluso che tra l'essenza e l'esistenza esiste solo una distinzione virtuale fondata (I, 43), cioè che l'essenza
e l'essere sono, rispettivamente, l'ente intero, considerato sotto aspetti differenti218. Esamineremo brevemente
queste difficoltà.
A. I CONCETTI DI ESSENZA E DI ESISTENZA
190 - 1. NON V'È DISTINZIONE ADEGUATA - Tra i concetti di essenza e di esistenza, dice Suarez, non
può esservi distinzione adeguata, perché, lungi dall'opporsi, questi due concetti si includono reciprocamente.
Di per sé, infatti, l'essenza è riferita all'esistenza e l'esistenza all'essenza. Formalmente distinte, essenza ed
esistenza fanno dunque realmente una sola e medesima realtà.
2. SOLUZIONE - Non contestiamo affatto che essenza ed esistenza siano relative l'una all'altra. Ciò è
quanto noi stessi abbiamo stabilito più sopra (156-157). Questa essenziale correlazione tuttavia non si oppone alla distinzione reale, se l'essenza e l'esistenza sono concepite come collocate nel rapporto dalla potenza all’atto, tra i quali esiste una relazione trascendentale (183-184), cioè tale che la loro realtà consiste in
questa stessa correlazione. In altri termini, essenza ed esistenza sono conprincìpi di essere e in tal qualità sono realmente e adeguatamente distinte, ancorché per la loro unione esse non formino che un solo ente.
B. L'ESSENZA, POTENZA SOGGETTIVA
191 - 1. QUESTA NOZIONE SAREBBE CONTRADITTORIA - Infatti, si dice, perché l'essenza fosse
potenza soggettiva o attuale (178), e come tale limitasse l'atto di essere, bisognerebbe che essa fosse reale
(almeno di una priorità di natura) prima di ricevere l'atto di essere (cioè l'esistenza). Ora questo è assurdo,
perché la potenza soggettiva può essere considerata come reale solo nella misura in cui essa esiste. Per conseguenza, presa in se stessa, prima di ricevere l'esistenza, l'essenza non è nulla di reale. La distinzione reale
condurrebbe a supporre che l'essenza è reale prima di essere reale, ciò che non avrebbe evidentemente alcun
senso.
2. SOLUZIONE - Questa obiezione ha il torto di implicare la supposizione che i princìpi possano essere
considerati in se stessi e per se stessi prima di entrare in composizione. In questo caso, le loro mutue relazioni sarebbero sovraggiunte loro. Ora questa è una supposizione affatto erronea, come già s'è detto. Tutta la
realtà dei princìpi metafisici dell'essere (essenza ed esistenza) è costituita dalla loro mutua relazione: l'essenza non ha realtà che nel suo rapporto con l'esistenza; l'esistenza non può essere concepita che in riferimento a una essenza. Questa dunque è reale e intelligibile solo come principio che limita l'esistenza ch'essa
riceve, e l'esistenza è reale e intelligibile solo come principio che conferisce l'essere in atto all'essenza, in virtù della quale essa è limitata a un modo determinato dell'essere.
C. L'ESISTENZA, COME ATTO PROPRIAMENTE DETTO
192 - 1. QUESTA NOZIONE SAREBBE CONTRADITTORIA - Questa obiezione di fatto, è semplicemente un'altra forma della precedente, ma questa volta relativa alla concezione dell'esse come atto propriamente detto. Questa concezione, si dice, può essere rifiutata per absurdum. Infatti, l'essere (esse), considerato
in se stesso, è o positivamente infinito o negativamente infinito. Nel primo caso, non si potrebbe concepire
l'essere positivamente infinito (cioè che possiede l'attualità infinita dell'essere) come limitato da checchessia.
(D'altronde, considerando l'essere (esse) come positivamente infinito, si cadrebbe in pieno panteismo, poiché
tale essere deve essere unico: tutte le essenze finite non avrebbero che un solo essere, cioè l'Essere divino, o,
se meglio si preferisce, sarebbero soltanto modi finiti dell'Essere infinito).
Nel secondo caso, in cui l'essere (esse) designa semplicemente la nozione illimitata di essere (158), si tratta
di un concetto astratto. Ora, presa in se stessa, questa nozione ha una infinitudine (o illimitazione) puramente
concettuale: l'essere, così concepito, è illimitato soltanto nello spirito che lo concepisce. Preso nel reale, in
quanto designante l'esistenza concreta, il concetto di essere è limitato di per sé e necessariamente, perché non
conviene che a un solo soggetto (che è questo ente qui). Per conseguenza, l'essere (nell'ordine finito) è limitato di per sé e non richiede alcun altro principio intrinseco di limitazione. Esso non è altro che la realtà attuale della cosa.
2. SOLUZIONE - Questa obiezione, come la precedente, ipostatizza indebitamente un concetto. Infatti,
l'essere dell'esistenza pura non è né l'Essere positivamente infinito, poiché, come abbiamo mostrato, una essenza finita non può avere che un'esistenza finita, né il concetto indeterminato e illimitato di essere, il quale
evidentemente, in ragione della sua indeterminazione fondamentale, non esclude né include alcuna realtà definita. L'essere dell'essenza finita è quell'essere limitato ed essenzialmente diverso che conviene al grado di
questa essenza e la sua attualità appare di fatto limitata per la sua relazione al modo di essere, cioè all'essenza che esso attualizza219.
D. CONCLUSIONE
193 - 1. SENSO E PORTATA DELLA CONTROVERSIA - Questa discussione non è veramente intelligibile se non la si riferisce ai princìpi che la reggono. Le obiezioni suareziane, infatti, anziché procedere da
difficoltà proprie alla tesi tomistica, procedono piuttosto da un certo modo di concepire la nozione di essere
in generale. In funzione della nozione suareziana, la distinzione reale è evidentemente discutibile, come inversamente la distinzione virtuale fondata dal Suarez non può adattarsi al concetto tomistico dell'ens in communi: appunto questo concetto stesso è propriamente il punto critico in tale materia.
Certamente, comunque, se si ammette il concetto dell'essere da noi esposto, bisogna pure ammettere tra
l'essenza e l'esistenza degli essere finiti, non una semplice distinzione virtuale, sia pure con fondamento nel
reale, ma una distinzione reale (minore). Si può aggiungere, da un punto di vista oggettivo, che questa distinzione sembra richiesta sia per render conto della moltiplicazione degli enti, sia per salvare l'analogia dell'essere, poiché soltanto ammettendo che gli enti siano composti di princìpi realmente distinti, si può intendere
come uno stesso concetto astratto (concetto di essere) possa convenire proporzionalmente ad enti molteplici
ed essenzialmente diversi220.
L'essenziale di questa argomentazione si riduce al seguente dilemma: O l'esistenza conviene di per sé e necessariamente all'essenza, e allora diviene impossibile render conto della realtà degli enti finiti e molteplici
(l'essere sarebbe dunque unico e infinito, e il molteplice e il diverso sarebbero pure apparenze); ovvero l'esistenza non conviene necessariamente all'essenza, e allora essa non è identica con questa: essa deve dunque
essere ricevuta. Per il fatto stesso ch'esso è ricevuto, l'atto di essere è limitato al modo di essere che esso fa
esistere: il molteplice e il diverso divengono intelligibili con la composizione metafisica dell'essenza e dell'esistenza.
Infine è importante osservare che questa distinzione reale tra essenza ed esistenza non può in alcun modo
essere rappresentata, poiché ogni rappresentazione distinta condurrebbe ad attualizzare indebitamente realtà
che, isolate l'una dall'altra, sono puro nulla. La distinzione può essere solo pensata come esigenza assoluta
dell'intelligibilità dell'essere finito. Ciò esige anche lo sforzo di riflessione e di penetrazione che caratterizza
il pensiero metafisico, cioè che rinuncia a pensare sotto la categoria di «cosa» onde pervenire ai princìpi delle cose. Si può appunto ritenere che le difficoltà di Suarez provengano soprattutto da un certo «cosismo», per
così dire, implicato nel suo concettualismo.
194 - 2. L'ESSERE COME ATTO - La distinzione reale di essenza e di esistenza ci aiuta a comprender
meglio la natura dell'essenza e del suo esse esistenziale. Quest'ultimo è infatti l'atto che completa l'essenza
individuale, o sostanza, e che le dona l'ultima perfezione. (S. Tommaso, Contra Gent., II, c. 53). Per conseguenza, bisogna considerare l'essenza attuale come potenza soggettiva in rapporto all'esistenza, la quale diviene così la determinazione di tutte le determinazioni, l'atto di tutti gli atti (ultima actualitas omnis formae)221.
§ 4 - Le obiezioni esistenzialistiche
A. ESPOSIZIONE
195 - 1. IL RAPPORTO TRA ESISTENZA ED ESSENZA - Una delle costanti dell'esistenzialismo contemporaneo consiste nell'affermare che l'esistenza è posizione pura e non perfezione dell'essenza, cioè, in altri termini, che l'esistenza precede l'essenza. Tuttavia su questo punto si potrebbero notare alcune differenze,
che sono più che sfumature, tra i pensatori esistenzialisti. Da una parte, infatti, G. Marcel è esitante222. Dall'altra parte, né Heidegger né Jaspers sembrano dare esattamente lo stesso senso di Sartre all'asserzione che il
Dasein o l'esistente come tale sia preceduto dalla sua essenza. Per Heidegger, l'esistenza bruta designa uno
stato, d'altronde impensabile, in cui l'esistente sia senza essere e senza essenza, assolutamente al di qua d'ogni intelligibilità. V'è dunque per lui un «essere dell'esistenza» che, da qualunque parte si voglia riguardarlo,
è una essenza. Questa essenza tuttavia non è una potenza che possa venir attuata dall'atto di esistere. Al contrario, è l'esistente che, esistendo, costruisce la sua essenza, in tal maniera che l'essenza o l'essere non è per
sé nient'altro che l'esistenza stessa nella sua realtà concreta. Si può dire altrettanto bene che l'esistenza non
ha essenza distinta da se stessa o, meglio ancora, ch'essa è insieme e per lo stesso movimento, esistenza ed
essenza, cioè esistenza affermata sul piano dell'essere o dell'intelligibilità. «L'essenza del Dasein, egli scrive,
risiede nella sua esistenza» (Sein und Zeit, op. cit., p. 7). Sartre sembra ancor più radicale. Per lui, l'esistenza
precede assolutamente l'essenza, perché, da una parte, il termine di esistenza non si applica perfettamente
che alla realtà umana (il resto è puramente e semplicemente, ma non esiste), e, d'altra parte, l'esistenza, nell'uomo, è il nome dato al nulla che è il per sé o la coscienza, in virtù della quale c'è un uomo. L'esistente, esistendo, costruisce liberamente la sua essenza, che non è altro, in esso, se non ciò ch'esso è stato (la sua fatticità).
2. ESISTENZA E LIBERTÀ - Che l'esistenza abbia priorità sull'essenza, il punto di vista esistenzialistico
afferma nel senso preciso che l'esistenza non ha essenza distinta da se stessa o, se si vuole, che l'essenza è
l'opera stessa dell'esistenza. Le conseguenze di questa dottrina, in cui l'esistenza è senza natura o struttura,
cioè posizione pura e assoluta, sono immediatamente dedotte dagli esistenzialisti. Esse si riassumono nella
asserzione fondamentale che la realtà propria dell'esistenza, non potendo essere riallacciata a nient'altro che
sia distinto da essa stessa, è contingenza radicale e finitudine irrimediabile. L'esistenza è «gettata» in una derelizione tale da non poter riposare e contare che su di sé. Ciò significa ch'essa è essenzialmente «libertà»,
nel senso preciso che dipende unicamente da sé. Libertà significa dunque contingenza assoluta e definisce
adeguatamente l'essere dell'esistenza.
3. ESISTENZA E STORIA - Da ciò consegue che l'esistenza non potrà mai essere colta se non sotto la
forma di una storia, ovvero come è sottolineato da Kierkegaard o, secondo la formula di Heidegger, come
temporalità. Infatti soltanto l'essenza, in quanto distinta dall'esistenza, è atta a porre nell'essere una sorta di
fondo intemporale, sia sotto specie di possibile eterno preesistente in seno all'Essenza e al Pensiero divino,
sia, almeno (come in Aristotele), in quanto potenza permanente all'atto di esistere. Sennonché, questo non ha
alcun senso nel contesto esistenzialistico. L'esistenza non comporta alcuna potenzialità: essa è sempre in atto ciò che essa può essere e i suoi possibili sono soltanto un'espressione di ciò ch'essa è in atto. Per conseguenza la realtà dell'esistenza non potrà consistere che nel temporalizzarsi. Essa si identifica con la sua storia e con la scaturigine originale mediante la quale la libertà ch'essa è la costituisce e, nello stesso tempo, la
limita e la chiude, perché, in ogni momento del suo divenire, essa è tutto ciò ch'essa può essere e realmente
niente di più. Appunto ciò spiega l'assenza di dimensione in profondità, nella libertà esistenzialistica. Non v'è
mai nulla da cercare al di là d'essa stessa; l'esistenza è senza densità, perché non si appoggia su nient'altro
che su se stessa. Al di là della libertà, non v'è niente, e la libertà stessa, secondo Sartre, cioè l'esistenza della
realtà umana, è quel niente mediante il quale essa sfugge al carattere massiccio e al determinismo dell'in sé e
costruisce la sua propria essenza (128). Per questo l'esistenza, come tale e come storia, non comporta, nel
proprio interno stesso, né tensione, né slancio, né appello, né sforzo, né potenzialità, né virtualità. In realtà,
essa non ha un «dentro»; il suo dentro è il suo fuori; il suo possibile è il suo atto. Essa è atto puro, cioè, in
questo caso, dato puro e finitudine assoluta.
B. DISCUSSIONE
Possiamo riportare la discussione di queste dottrine a qualche osservazione, che le pagine precedenti hanno
già sviluppata.
1. LA PRIORITÀ DELL'ESISTENZA - Siamo molto lontani dal contestare assolutamente l'asserzione che
l'esistenza abbia la priorità sull'essenza, poiché questa asserzione ha un senso sul quale i meno esistenzialisti
dei filosofi darebbero la mano a Heidegger, a Jaspers, a Sartre e, a più forte ragione, a G. Marcel. Infatti, una
filosofia, come quella di san Tommaso, per la quale l'esistenza è soltanto l'attualità dell'essenza, non potrebbe porre una essenza anteriore all'esistenza. L'essenza ha un solo modo possibile di essere (nel senso proprio
della parola), che è quello di esistere. Da questo punto di vista, l'esistenza ha sull'essenza la priorità di una
condizione assoluta. Si dirà che le essenze «preesistono» indubbiamente nel Pensiero divino. È questo soltanto un modo molto inesatto di esprimersi, poiché non son tanto le essenze che preesistono quanto l'Essenza
divina, cioè Dio stesso come fondamento di tutte le essenze e di tutte le esistenze possibili. A rigor di termini, le essenze esistono realmente solo in virtù dell'esistenza che le fa esistere, cioè esse esistono solo in quanto singole e concrete. Soltanto l'individuo esiste. Se gli esistenzialisti non volessero dire di più (o d'altro),
non vi sarebbe luogo a contestazioni. In realtà s'è visto che, per loro, l'esistenza non ha essenza distinta da se
stessa e che l'essenza è sempre, comunque, la «fatticità» dell'esistenza, cioè dell'esistenza esistita. Ora ciò è
discutibile.
2. L'ESSENZA COME RAPPORTO ALL'ESSERE - Sartre è preoccupato (cfr. L'Être et le Néant, op. cit.,
pp. 654-655) di eliminare ogni assimilazione della realtà umana (che è fondamentalmente, egli dice, desiderio di essere Dio) con una «natura» o «essenza». L'assimilazione è impossibile, egli dice, perché il desiderio
è identico alla mancanza di essere, il che implica che io manco inizialmente di quell'essenza in sé-per sé
(Dio), che ambisco divenire. Non si riterrà dunque questa struttura astratta come essenza della libertà (o dell'esistenza): la libertà non ha essenza; essa non è proprietà di una sostanza o natura che possa essere prima di
lei; essa fonda la natura o essenza, cioè è esistenza, scaturigine immediatamente concreta che si identifica
con la sua scelta, cioè con la persona.
Ma, domanderemo noi, chi dunque ha mai detto che l'essenza dovesse essere, prima dell'esistenza, una
struttura concreta? Essa è evidentemente soltanto una struttura astratta, che diventa concreta e singola solo
in virtù dell'atto di esistere, il quale è, come tale, «scaturigine immediatamente concreta». Vero è che anche
in questo caso, così come Sartre lo considera, l'essenza conserva una priorità logica, giacché, quali che siano
le forme simboliche e concrete della sua realizzazione, il desiderio fondamentale, che definisce, per Sartre, la
realtà umana, è là, già dato, come la cornice nella quale l'esistenza deve manifestarsi. Sartre si è dunque dato
qui proprio l'equivalente di una natura. Poiché niente esige che una essenza sia una sostanza data in precedenza. Al contrario, l'essenza è propriamente rapporto all'essere e non cosa o oggetto. (D'altronde Sartre lo
ammette nell'Imaginaire, Parigi, 1940, p. 20).
3. L'ESISTENZA CONCRETA - Si può ammettere, sulla base di questa osservazione, pure in un altro senso, che l'esistenza precede l'essenza, e cioè che l'essere singolo e concreto può e deve, partendo dalla natura
che lo definisce, attuare, esistendo, - cioè «esistere» (nel senso attivo) - la sua essenza individuale. Ogni
uomo deve attuare se stesso, deve darsi, mediante il suo libero sforzo, l'esistenza concreta che fa di lui quest'uomo qui. L'ente che è, contrariamente a ciò che afferma J. P. Sartre, non si esaurisce interamente nell'essere, perché il suo esistere è sempre sopravanzato dalla sua essenza umana; esso è in certo qual modo sempre
qualche cosa più ch'esso non esista, in quanto la sua natura congloba tutto ciò ch'esso diviene concretamente.
L'essere non può esistere che nell'interno di quell'umanità che lo definisce e che circoscrive tutte le sue possibilità, nello stesso tempo ch'essa le estende di là da tutte le attuazioni che può comportare. Così infatti si
può dire: tanto «divieni ciò che sei», quanto «sii ciò che divieni», perché il senso del divenire esistenziale è
implicato in ciò che io sono essenzialmente e questo divenire ha valore umano soltanto nella misura in cui,
superando le necessità biologiche e le circostanze accidentali della vita, è diretto da una libertà che ne fa la
mia opera più personale, il mio esistere più autentico.
4. ESSENZA E LIBERTÀ - Infine, non si vede perché ogni essenza costituita sarebbe corruttrice della libertà, a meno che non si concepisca l'essenza, come fa Sartre, sul tipo della cosa e della cosa materiale. In
realtà, una essenza finita non è mai chiusa e finita in se stessa; vi è sempre «gioco» in essa, poiché essa non
significa altro che la cornice nella quale debbono inserirsi degli sviluppi o un divenire, che restano, in se
stessi, contingenti e liberi, se si tratta dell'uomo. Io posso divenire quel che voglio essere, nel quadro di ciò
che sono essenzialmente o per natura; io posso divenire questo o quell'uomo, ma non una sedia o un pero! La
mia libertà è «senza limiti nei suoi confini» e, nella finitudine della mia essenza, v'è un campo in qualche
modo infinito aperto alle iniziative del mio esistere223.
Art. IV – Il possibile224
196 - L'essere non è soltanto attuale o esistente in atto. Può anche avere soltanto un'esistenza possibile,
cioè esistere unicamente nelle sue cause, a titolo di potenzialità. Come tale, il possibile è ancora qualcosa
dell'essere, poiché non è un niente assoluto, ma soltanto parziale o relativo. È di questo essere non attuale
che ora tratteremo.
§ 1 - Natura dei possibili
1. LA POTENZA OGGETTIVA - Noi abbiamo distinto due specie di potenza (178): la potenza soggettiva
e la potenza oggettiva. La potenza soggettiva o attuale (della quale già abbiamo trattato) designa una capacità
o attitudine di un soggetto a ricevere una data determinazione: essa è dunque qualche cosa di positivo nel
soggetto. La potenza oggettiva è puramente ideale e indipendente da ogni soggetto attuale, non fa che designare un tipo di essere intelligibile.
2. ANALISI DELLA POTENZA OGGETTIVA - Ci occuperemo qui soltanto della potenza oggettiva o
dell'essenza ideale e cercheremo di sapere a quali condizioni una essenza sia possibile. Abbiamo già avuto
occasione di osservare, studiando la natura degli oggetti del pensiero (91), che una essenza non ha realtà intelligibile se non è esente da contraddizione: una essenza contraddittoria in se stessa (cerchio quadrato, pietra
pensante) è infatti un nulla di essenza e, per conseguenza, una cosa impossibile. La condizione radicale della
possibilità è dunque la non-contraddizione interna o l'intelligibilità delle essenze.
Sennonché questa possibilità intrinseca non è sufficiente. Bisogna ancora, perché una essenza sia assolutamente possibile, cioè capace di esistere in atto, che vi sia qualche causa capace di conferirle l'esistenza. Infatti, nessuna essenza non esistente in atto può dare a se stessa l'esistenza. Non v'è dunque possibilità di essere totale e perfetta per una essenza vera se non in quanto esiste una causa capace di farla esistere: ciò si
chiama la sua possibilità estrinseca.
197 - 3. CONDIZIONI ASSOLUTE DEI POSSIBILI
a) Ordine metafisico e ordine fisico. Dall'analisi che precede, risulta che una essenza è realmente possibile
solamente alla duplice condizione che esista una intelligenza per concepirla e una potenza attiva capace di
farla esistere. Queste due condizioni sono assolutamente necessarie. Infatti, il possibile si definisce intrinsecamente in termini di intelligibilità, ciò che implica uno spirito per pensarlo come vero e attuabile. D'altra
parte, l'attuabile non si attua da sé, perché niente passa da sé dalla potenza all'atto, il che implica la previa
realtà di un essere in atto che concepisca i possibili e insieme possa loro conferire l'esistenza.
Da ciò risulta la distinzione che conviene fare tra l'ordine metafisico e l'ordine fisico. L'ordine metafisico è
relativo alle pure essenze e agli enunciati necessari che li concernono: questo è l'ordine dell'intelligenza.
L'ordine fisico è relativo alle esistenze e agli enunciati che le concernono: questo è l'ordine della volontà.
Siccome l'ordine fisico (attuazione esistenziale delle essenze) dipende dall'ordine metafisico, cioè dalla possibilità intrinseca o intelligibilità delle essenze, è fisicamente possibile solo ciò che è metafisicamente possibile, ma molte cose sono fisicamente impossibili (in mancanza di cause capaci di produrle), che pur non sono
tali metafisicamente.
b) Il problema del fondamento ultimo dei possibili. Le osservazioni che precedono lasciano in sospeso la
questione del perché assoluto dei possibili. Solo in teodicea saremo in grado di rispondere a questa questione, mostrando come la possibilità intrinseca delle essenze dipenda solo da Dio, considerato non nella sua potenza infinita e nella sua volontà libera, ma nella sua intelligenza e, in ultima analisi, nella sua essenza, in
quanto imitabile da enti finiti.
§ 2 - Proprietà delle essenze
198 - I possibili o essenze ideali comportano caratteri che è tempo ormai notare, sebbene il problema che
essi pongono (e che si identifica con quello del fondamento ultimo dei possibili) debba essere risolto dalla
teologia naturale.
1. LE ESSENZE SONO ETERNE - Le essenze sono eterne, per lo meno negativamente, in quanto per se
stesse fanno completamente astrazione del tempo. Ciò è evidente per le essenze ideali, però vale anche per le
essenze reali, poiché non in quanto essenze queste hanno avuto un inizio, ma soltanto in quanto esistenze.
2. LE ESSENZE SONO NECESSARIE E IMMUTABILI - Esse sono necessarie, in quanto le loro note
costitutive non possono assolutamente essere diverse da quelle che sono (l'essenza «uomo» è necessariamente quella di un «animale ragionevole»). Esse sono, per ciò stesso, immutabili. È chiaro che qui si tratta di una
necessità intrinseca, non di una necessità estrinseca o assoluta: non è necessario che l'essenza «animale ragionevole» sia posta in atto. Necessarie come tipi intelligibili, cioè metafisicamente, le essenze finite sono
contingenti dal punto di vista dell'esistenza, cioè fisicamente; come abbiamo visto studiando la distinzione di
essenza e di esistenza, nessuna essenza finita, per definizione, esiste in virtù di sé.
3. LE ESSENZE SONO INDIVISIBILI - Infatti, niente si può ad esse aggiungere o togliere senza distruggerle: l'essenza è come un numero, che cessa di essere se gli si aggiunge o toglie una unità.
4. LE ESSENZE SONO INFINITE - Le essenze composte non sono infinite in se stesse, ma in estensione,
cioè indefinitamente moltiplicabili: l'essenza «animale ragionevole» può essere attuata in un numero indefinito di individui.
CAPITOLO SECONDO
LE PROPRIETÀ TRASCENDENTALI
SOMMARIO225
Art. I - CONCETTO. Genesi dei concetti trascendentali - Natura delle proprietà trascendentali - I trascendentali in rapporto all'essere.
Art. II - L'UNO. L'unità esclude la divisione in atto - Unità trascendentale e unità numerica - L'unità analogica.
Art. III - IL VERO. Verità e intelligibilità - La verità trascendentale ­ Verità trascendentale e verità logica L'intelligibilità ­ Rapporto tra essere e intelligenza - Rapporto degli enti con l'intelligenza - L'uno e l'intelligibile - Il falso.
Art. IV - IL BENE. Essere e bontà. La relazione dell'appetito - Il bene trascendentale - L'uno e il bene - La
perfezione, ragione dell'appetibilità - Bene e appetibilità . Bontà attiva e bontà formale - I modi della bontà Le tre specie del bene - L'analogia del bene - Il male.
Art. V - I PRIMI PRINCÌPI. Il principio di non contraddizione - Posizione e negazione dell'essere - La relazione di identità ­ Principio di ragion sufficiente - Forma generale - Principio di finalità - Principio di causalità.
Art . VI - IL BELLO, L'ARTE E LE BELLE ARTI. Il bello - Concetto - Definizione - Condizione oggettiva della bellezza - Teorie del bello in sé e dell'attività del gioco - L'emozione estetica ­ Le specie del bello L'arte e le arti belle - Natura dell'arte - Le arti belle - Le arti plastiche - Le arti del movimento - Le regole
dell'arte - La concezione dell'opera d'arte - L'esecuzione - Il mestiere.
Art. I - Concetto
199 - Ora che abbiamo precisato e approfondito il concetto di essere, siamo in grado di applicare l'analisi
metafisica al concetto dell'essere, che è, come si esprime san Tommaso, una sorta di compendio di tutto il
sapere susseguente (quasi quoddam summarium totius cognitionis sequentis), e di rendere esplicite le proprietà ch'esso contiene implicitamente, di per sé antecedenti e trascendenti ogni divisione dell'essere in categorie di enti. Queste proprietà, appartenendo all'essere comune come tale e trovandosi per conseguenza in
tutte le modalità speciali che l'essere può ricevere, sono chiamate, per questa ragione, proprietà trascendentali.
1. GENESI DEI CONCETTI TRASCENDENTALI - Ogni ente può venire considerato sia in se stesso assolutamente, sia relativamente a un altro. In se stesso, si può considerarlo affermativamente: come tale, esso
significa una cosa o una essenza (res), o negativamente, come indiviso in se stesso, cioè come uno (unum).
Considerato relativamente a un altro, l'essere appare distinto da quest'altro, cioè come tale da essere qualche
cosa (aliquid), o come conveniente a quest'altro sia sotto il rapporto della conoscenza: l'essere, in quanto tale,
è vero (verum), sia sotto il rapporto dell'appetito o della tendenza: l'essere, in quanto tale, è buono (bonum).
Abbiamo così cinque trascendentali: res, unum, aliquid, verum, bonum. Tuttavia bisogna osservare che la
cosa, res, e l'essere, ens, possono essere ritenuti sinonimi, l'ens o essere comune essendo, come abbiamo visto, una cosa (o essenza) avente l'esistenza (res habens esse). Restano dunque effettivamente solo quattro
modi universali dell'essere o nozioni trascendentali: l'uno, il qualche cosa, il vero, il buono. Il bello (pulchrum) non è una proprietà trascendentale (sebbene esso possieda una certa trascendenza). Infatti, esso non si
può dedurre immediatamente dall'essere, ma soltanto con la mediazione dei concetti del vero e del bene, in
quanto designa una certa compiacenza nelle facoltà conoscitive (quod visum placet).
Bisogna ritenere il concetto di aliquid (qualche cosa) come irriducibile agli altri trascendentali? Ciò sembra
necessario, in quanto questo concetto significa la determinazione per distinzione, cioè per opposizione all'altro o a tutto ciò che l'essere (determinato) non è. Questo concetto non è significato formalmente mediante
l'unum, che dice solo l'indivisione interna. Tuttavia, è evidente ch'esso è legato al concetto di unità, il quale,
essendo negativo, introduce l'opposizione possibile di due termini nell'essere e la esclude. Così ci si può praticamente attenere al concetto di unità.
È chiaro da queste osservazioni che tutto il movimento del pensiero nella deduzione delle proprietà trascendentali procede, sia per divisione (o negazione), sia per relazione. L'intelligenza coglie anzitutto l'essere,
poi afferma la divisione trascendentale dell'essere e del non essere (dal che deriva il principio di non contraddizione: l'essere non è il non essere). Da ciò consegue la nozione di unità o di indivisione dell'essere in se
stesso e la nozione di qualche cosa, che enuncia la divisione dell'essere (in quanto determinato) in rapporto
all'altro. (Infatti, se l'essere non fosse indiviso in se stesso, sarebbe se stesso e l'altro, ciò ch'esso è e insieme
ciò che non è; per ciò stesso, esclude l'altro, cioè esso è necessariamente qualche cosa di determinato, aliquid)226.
200 - NATURA DELLE PROPRIETÀ TRASCENDENTALI.
a) I trascendentali s'identificano con l'essere. Le proprietà trascendentali accompagnano inseparabilmente
l'essere e s'identificano con esso, al punto di essere equivalenti con esso. È ciò che esprime il detto: l'uno, il
vero e il bene sono convertibili con l'essere (unum, verum, bonum convertuntur cum ente). Esse dunque, in
quanto tali, sono anteriori alla divisione dell'essere in atto e potenza, come pure alla divisione in categorie o
generi supremi dell'essere. Si chiamano anche trascendentali, in quanto coincidono realmente con l'essere,
che trascende (ogni categoria ontologica).
Si capisce che i trascendentali non possono distinguersi realmente dall'essere, giacché l'essere, non essendo
un genere, non è suscettibile di ricevere un attributo che lo determini «dal di fuori» (come farebbe una differenza specifica). Tutte le sue determinazioni, trascendentali o predicamentali (categorie), gli vengono «dal
di dentro» (ab intrinseco), cioè per via di esplicitazione: le proprietà di uno, di vero e di buono non aggiungono niente di reale all'essere, poiché partecipano esse stesse dell'essere: l'essere necessariamente le contiene. Enumerandole, non si fa che esplicitare l'essere, ossia metterne in evidenza i differenti aspetti.
b) I trascendentali si distinguono concettualmente dall’essere. Le proprietà trascendentali non sono però
assolutamente sinonimi dell'essere, altrimenti la distinzione non avrebbe fondamento. Esse si distinguono
concettualmente dall'essere; l'essere è incluso nel loro concetto, ma la reciproca non è vera, ciò che torna a
dire che tra esse e l'essere (e tra ciascuna d'esse e le altre) vi è una distinzione di ragione. Non sono dunque
pure tautologie, poiché significano modi che non sono significati dal solo concetto di essere: sono enti di ragione, cioè, da una parte una negazione, che enuncia l'indivisione dell'essere in se stesso (unum), e dall'altra
due relazioni, esprimenti l'una il rapporto dell'essere con l'intelligenza (verum), l'altra il rapporto dell'essere
con l'appetito o tendenza (bonum).
Art. II - L'Uno
201 - 1. L'UNITÀ ESCLUDE LA DIVISIONE IN ATTO - Ogni ente è uno per essenza. L'essere infatti
può essere semplice o composto. Ora ciò che è semplice dev'essere indiviso, per definizione. Ciò che è composto non ha essere (non esiste) sino a quando le sue parti sono separate, ma soltanto quando queste parti sono riunite e formano il composto stesso.
È chiaro che, se il concetto di unità è negativo, in quanto esso pone una indivisione (non-divisione), l'essere uno è una realtà positiva. L'essere e l'uno sono dunque convertibili, cioè universalmente ogni ente è uno
ed è tale (uno o indiviso) nella stessa misura in cui è essere.
2. UNITÀ TRASCENDENTALE E UNITÀ NUMERICA - L'unità di indivisione è al di sopra di ogni categoria o determinazione dell'essere. Al contrario, l'unità predicamentale o numerica è una determinazione
dell'essere, risultante dalla quantità, la quale suppone parti omogenee e, come tali, misurabili e numerabili
(II,5). L'ente quantitativo è dunque, come essere, uno di unità trascendentale (indivisione), e come quantitativo, sotto la giurisdizione del numero, cioè uno o multiplo numericamente.
L'unità trascendentale, abbiamo detto, non aggiunge niente all'essere, se non una negazione della divisione,
cioè l'affermazione dell'identità dell'essere con se stesso. L'unità numerica, al contrario, aggiunge all'essere il
concetto di misura. Questo concetto non dice certamente qualche cosa di estraneo all'essere, ma dichiara una
determinazione speciale dell'essere, cioè una determinazione che l'essere, come tale, non implica necessariamente, al contrario dell'unità trascendentale.
L'unità trascendentale è il principio della moltitudine, cioè della pluralità degli enti uni o indivisi in se
stessi e considerati come distinti. Questa pluralità non forma un numero propriamente detto: si può formare
un numero solo dalle parti di un tutto quantitativo (dieci metri di seta) (unità reale), o dagli enti considerati
come parti di un tutto logico (generi e specie) (unità di ragione) (I, 52).
202 - 3. L'UNITÀ ANALOGICA - L'essere non è uno univocamente, ma analogicamente. L'analogia dell'uno risulta infatti dall'analogia dell'essere, poiché l'essere e l'uno sono convertibili, cioè gli enti possiedono
l'unità trascendentale in un senso essenzialmente differente, ma proporzionalmente simile.
Soltanto la sostanza ha l'unità per sé e in ragione di sé; gli accidenti hanno unità soltanto in ragione del
soggetto nel quale essi ineriscono. D'altra parte, l'unità delle sostanze comporta gradi estremamente diversi,
dalla semplicità perfetta. cioè escludente ogni composizione, fino alla composizione delle parti. A sua volta
quest'ultima può essere di molte specie, sia ch'essa formi un tutto essenziale (l'uomo) o un tutto accidentale
(una casa, una macchina). Al di sotto ancora di questa unità di totalità, v'è tutta la gamma di unità di continuità (il volo dell'uccello, lo scorrere uniforme del fiume), che sono opera dell'intelligenza. L'unità perciò v'è
ovunque si trovi l'essere, ma essa comporta la stessa adattabilità analogica dell'essere, del quale sposa la necessaria trascendenza.
Art. III – Il Vero
§ 1 - Verità e intelligibilità
203 - 1. LA VERITÀ TRASCENDENTALE - L'essere, considerato non più nel suo stato assoluto, ma secondo la convenienza con altro, è detto vero in riferimento all'intelligenza. La verità, proprietà trascendentale, è dunque l'entità stessa degli enti, in quanto intelligibili o conoscibili dall'intelligenza. È chiaro in tal modo che l'intelligibilità è una proprietà trascendentale che accompagna l'essere inseparabilmente, ma secondo
gradi diversi e analogicamente, in tutte le sue determinazioni.
2. VERITÀ TRASCENDENTALE E VERITÀ LOGICA - La verità trascendentale o ontologica è un rapporto d'identità di natura tra una cosa data e un tipo ideale presupposto. Così si dice «vero vino», «vera carità», in quanto questo vino e questo atto di carità sono veramente conformi al tipo ideale (o all'essenza) del
vino o della carità. La verità, in questo senso, dice dunque la conformità della cosa con l'intelligenza: adaequatio rei ad intellectum. La verità logica è la conformità dell'intelligenza con la cosa. È una proprietà, non
più delle cose, ma dell'intelligenza che conosce: essa è vera in quanto e nella misura in cui afferma che ciò
che è, è, o che ciò che è tale, è tale: adaequatio intellectus ad rem.
Heidegger (Vom Wesen der Wahrheit, Francoforte, 1943; cfr. tr. fr. Parigi, 1948, p. 69; vedi anche tr. it. di
A. Carlini, Milano­Roma, 1952) rimprovera al «concetto corrente di verità», come adaequatio rei et intellectus, di non svelare l'essenza della verità, cioè di non cercare quale sia il fondamento della possibilità di questa conformità. Ora questo fondamento, egli dice, è la libertà (tr. cit., p. 79). Si intenderà la sua tesi considerando che la verità si presenta come lo svelamento dell'essere quale esso è: la «conformità» è fondata su
questo svelamento mediante il quale l'essere stesso si propone a noi quale esso è. Ora, a quale condizione è
possibile questo svelamento? Alla condizione che noi lo lasciamo essere (sein-lassen), cioè che noi ci si apra
a ciò che si manifesta e si svela: ora è appunto questa l'opera della libertà. «Il lasciar essere (cioè la libertà) è
in se stesso: ex-posizione dell'esistente», uscita da sé (ek-stasi) verso l'esistente, abbandono alla sua presenza
(p. 84). È così che «la libertà, come lasciar essere dell’‘essentÈ, compie ed effettua l'essenza della verità sotto la forma dello svelamento dell’‘essentÈ», p. 87).
Non ci proveremo a scoprire come la tesi di Heidegger s'accordi con la dottrina di Sein und Zeit, in cui l'essere dell’‘essentÈ è opera del Dasein. Notiamo soltanto che l'adaequatio che Heidegger critica non ha il senso passivo ch'egli suppone. Essa implica, infatti, tutto ciò che Heidegger le rimprovera di trascurare: il di-
svelamento e il lasciar-essere dell'esistente, che sono veramente, sotto un certo senso, l'opera della libertà,
cioè del consentimento all'essere. Ma se ciò non può portarci a ridurre la verità, che è atto dello spirito, alla
libertà, che è proprietà della volontà, si può senza dubbio considerare una essenza come distinta dalle condizioni che la rendono possibile, senza negare la realtà o il peso di queste condizioni.
3. L'INTELLIGIBILITÀ - L'essere, posto in presenza di una intelligenza, è intelligibile cosi come esso è.
Reciprocamente, l'intelligenza è, di per sé, aperta a tutta l'ampiezza dell'essere, giacché l'essere, di per sé, è
intelligibile. Diremo dunque che siccome l'intelligibilità corrisponde all'essere, le cose sono intelligibili (in
sé) in proporzione dell'essere ch'esse hanno.
Tuttavia, l'intelligenza, in noi, è sottomessa a condizioni che ne limitano l'ampiezza. Essa è infatti proporzionata per natura all'essere compenetrato nel sensibile (ens concretum quidditati sensibili). Da ciò consegue
che tutto quanto è al di sopra del sensibile, benché più intelligibile in sé, è di fatto meno intelligibile a noi.
Egualmente, ciò che è al di sotto dell'essere propriamente detto, cioè ciò che è principio di essere e potenzialità, ci è intelligibile soltanto molto imperfettamente. La nostra conoscenza si sviluppa così tra due zone oscure: l'una ha troppa luce per la nostra intelligenza e ci acceca; l'altra ne ha troppo poca per la nostra capacità intellettuale finita.
§ 2 - Natura del rapporto tra essere e intelligenza
204 - 1. RAPPORTO DEGLI ENTI CON L'INTELLIGENZA ­ La teodicea ci farà comprendere perfettamente ciò che significhi la verità trascendentale dell'essere. Vedremo che il rapporto con l'Intelligenza divina
è un rapporto necessario, costitutivo dell'essere nella sua stessa essenza. Infatti, Dio non può non conoscere
eternamente gli enti ai quali dona l'esistenza nel tempo (scientia visionis), e non può non conoscere eternamente i possibili, cioè i modi in numero infinito in cui la sua Essenza è imitabile (scientia simplicis intelligentiae). Da ciò consegue che, se non esistesse intelligenza umana, le cose resterebbero vere, in ragione del
loro rapporto con l'Intelligenza suprema. Se, invece, per ipotesi (in sé assurda) supponessimo la scomparsa,
non soltanto di ogni intelligenza creata, ma anche dell'Intelligenza divina, non vi sarebbe più assolutamente
niente di vero.
Dunque l'Intelligenza divina fonda in ultima analisi la verità ontologica, cioè le cose sono vere in quanto
esse sono in un rapporto essenziale di dipendenza verso l'Intelletto divino. «Ogni ente è vero» significa dunque: ogni ente è perfettamente conforme e adeguato con l'idea che Dio ne ha, perché le essenze delle cose dipendono formalmente dall'Intelletto divino. Per contro, il rapporto delle cose con !'intelligenza umana è un
rapporto contingente, tale cioè che potrebbe non esistere, in quanto l'essere può essere o no conosciuto dall'intelligenza umana.
È il rapporto degli enti con Dio che costituisce per eccellenza la conformità tra gli enti e l'intelligenza,
mentre il rapporto tra gli enti e l'intelligenza umana è un rapporto soltanto accidentale. In altri termini, l'essere è misurato dall'intelletto divino ed esso misura l'intelligenza umana. Così che la verità logica ha il suo
fondamento ultimo nella verità trascendentale, cioè nella partecipazione al Pensiero divino (26, 141).
205 - 2. L'UNO E L'INTELLIGIBILE - L'essere, di per sé, è uno o indiviso. D'altra parte esso è di per sé
intelligibile. Dunque l'intelligibile e l'uno sono convertibili. Che cosa bisogna dunque pensare del molteplice,
cioè di ciò che si compone di enti dotati d'unità in sé, di cui l'uno non è l'altro? È esso dunque, come tale,
completamente inintelligibile, cioè al di fuori dell'uno e per conseguenza al di fuori dell'essere? Questo avverrebbe se l'uno e il molteplice fossero contraddittori tra loro, il che non è, poiché l'uno e il molteplice possono coesistere, sebbene sotto rapporti differenti. Essi sono dunque soltanto contrari e, per conseguenza, una
cosa può essere simultaneamente una e molteplice (l'uomo, l'albero, lo Stato).
Resta fermo che il molteplice è intelligibile solo in virtù dell'uno: lo si pensa solo riportandolo all'unità.
Così ciò che è molteplice assolutamente parlando e diviene uno soltanto per il pensiero che forma un tutto
concettuale o ente di ragione (una costellazione, un mucchio di ciottoli, il genere animale) ha essere solo nel
pensiero e per esso.
3, IL FALSO - Trascendentalmente, non esiste falsità opposta al vero, giacché la verità appartenendo a ogni ente in quanto riferito all'idea divina da cui procede, «l'ente falso», dal punto di vista trascendentale, significherebbe un ente non conforme al Pensiero divino, ciò che è assurdo. Al contrario, possono esservi cose
false in rapporto alla nostra intelligenza, cioè nella misura in cui, per effetto di una rassomiglianza accidentale o estrinseca (ma non sostanziale o intrinseca), l'intelligenza risulti ingannata nel suo giudizio sull'essere
di un ente. Così si prende facilmente per oro ciò che brilla e per carità l'ostentazione o l'egoismo: si dirà, in
questo caso, che si tratta di «falso oro» o di «falsa carità».
Art. IV – Il Bene
§ 1 - Essere e bontà
206 - 1. LA RELAZIONE ALL'APPETITO - La bontà significa anzitutto una relazione con una tendenza
o appetito: l'essere è buono perché può soddisfare un bisogno o appagare un desiderio. La bontà, proprietà
trascendentale, non fa che significare sotto forma esplicita la relazione di convenienza dell'essere con l'appetito.
Questa relazione, al contrario della relazione di conoscenza, può esistere anche negli enti senza alcuna specie di coscienza, poiché in virtù di un appetito naturale, cioè di un ordinamento essenziale, essi tendono al
loro fine, che è il loro «bene». In questo caso, l'«appetito» non può distinguersi dalla finalità dell'ente inorganico. Così bisogna intendere l'assioma aristotelico: «il bene è ciò che tutti gli enti desiderano» (bonum est
quod omnia appetunt) nel senso che tutti gli enti tendono naturalmente a un fine che è il loro bene. Anche la
tendenza al bene è universale.
2. IL BENE TRASCENDENTALE - Il bene, essendo ciò che tutti gli enti desiderano, appare dunque come
ciò che di per sé è essere e perfezione, poiché tutti gli enti desiderano la perfezione del loro essere. Così, il
fine e il bene coincidono: ciò che ha ragione di fine ha ragione di bene, e viceversa. Ora il fine può presentarsi in certo modo in due gradi, come desiderato da coloro che non lo hanno raggiunto, o come dilettevole e
oggetto d'amore per coloro che lo possiedono. Sono appunto questi i caratteri dell'essere, che è oggetto di desiderio e insieme fonte di diletto e di gioia. Esso ha dunque, come tale, ragione di bene e ne consegue che il
bene e l'essere sono convertibili: tutto ciò che è essere è buono in quanto e nella misura in cui è essere.
3. L'UNO E IL BENE - In virtù della convertibilità reciproca delle proprietà trascendentali, si deve poter dire: il bene e l'uno sono convertibili. Di fatto, ogni ente ha la sua finalità propria, determinata, caratteristica
della sua natura, cioè ha il suo bene proprio. Sarebbe assurdo, proprio in ragione dell'unità che lo definisce
come ente, che esso potesse tendere a più fini disparati, o anche a più fini soltanto molteplici: ne seguirebbe
che la sua natura non sarebbe una e che esso non sarebbe un ente. È evidente tuttavia che i fini possono essere molteplici se essi sono gerarchizzati o subordinati, la qual cosa è ancora una forma di unità.
§ 2 - La perfezione, ragione dell'appetibilità
207 - 1. BENE E APPETIBILITÀ - Diversamente dalla conoscenza, che attira a sé l'oggetto, la tendenza è
mossa dall'oggetto e va all'oggetto. Da ciò consegue che la maniera in cui l'essere perfeziona il conoscente
differisce dal modo in cui esso perfeziona colui che vuole o, in generale, colui del quale soddisfa e placa un
bisogno. L'essere perfeziona la facoltà conoscitiva, non per mezzo del suo essere reale, ma per mezzo di una
similitudine di sé impressa nel conoscente, sensitivo o intellettivo. Al contrario, esso perfeziona l'appetito per
mezzo del suo essere reale. L'essere è dunque appetibile o desiderabile in quanto apporta la perfezione.
2. BONTÀ ATTIVA E BONTÀ FORMALE - Ogni ente, come tale, è buono, cioè suscettibile di appagare
il desiderio di un altro ente e di apportagli la perfezione che gli manca. Questo aspetto di bontà si chiama
bontà attiva (bonitas activa). Ma ogni ente ha in se stesso una bontà intrinseca, che chiameremo bontà formale (bonitas formalis), e che consiste nella sua propria perfezione, cioè nell'essere stesso che esso è (e secondo il grado di questo essere). Questa perfezione (o questo essere), tutti gli enti l'amano e vogliono conservarla. Onde l'assioma: ogni ente è buono per sé (omne ens bonum sibi).
È evidente che la bontà attiva, cioè la sua appetibilità, riposa fondamentalmente sulla bontà formale o
perfezione dell'essere, che è la causa formale dell'appetibilità. Ciò, d'altronde, non toglie niente al carattere
puramente relazionale del bene. Il fatto d'essere desiderabile, sia in quanto perfezione da raggiungere, sia in
quanto perfezione posseduta, non aggiunge niente all'essere e dice unicamente una relazione. Ciò è vero anche per la bontà formale, che dice realmente soltanto la convenienza dell'esistenza (o atto) con l'essenza (o
potenza): l'essere, in quanto esistente, è fine a se stesso, in quanto forma o essenza. Ogni ente aspira al possesso stabile e perfetto della forma che lo definisce. Perciò avviene che anche la forma abbia ragione di fine,
tanto che i tre termini di fine, di forma e di bene si limitano a significare tre aspetti di una sola e medesima
cosa.
§ 3 - I modi della bontà
1. I TRE ASPETTI DEL BENE - Il bene trascendentale si può dividere analogicamente in bene utile, dilettevole e onesto. L'utile (bonum utile) è ciò che serve come mezzo in vista di un bene. Tutto il suo valore di
bene, in quanto utile, risiede dunque nella sua capacità di produrre un altro bene; in se stesso, può non aver
nulla di attraente (per es. il rimedio per il malato). Il bene dilettevole (bonum delectabile) è quello che ci apporta gioia e piacere: ad es. un'opera d'arte. Il bene onesto (bonum honestum) infine, è quello che ci attrae,
non per l'utilità o il godimento, ma per la perfezione che apporta.
2. L'ANALOGIA DEL BENE - Distinguiamo dunque i tre ordini di beni dal punto di vista della finalità. Il
bene primo e propriamente detto è quello che risponde alla finalità essenziale dell'essere: questo è il bene onesto. Il bene dilettevole è realmente, come tale, un fine dell'appetito, ma non il suo fine ultimo, poiché il
godimento non significa la totalità del bene, ma solamente un aspetto del bene. Quanto all'utile, esso è all'ultimo grado del bene, poiché non è fine, ma mezzo.
È chiaro così che questi ordini di beni non sono univoci tra loro, ma analoghi di una analogia di attribuzione.
3. IL MALE - Il male, che è il contrario del bene trascendentale, consiste, per un ente, nella privazione di
un bene che gli spetta. Propriamente esso è una mancanza o deficienza di essere. Questi termini di privazione, mancanza e deficienza servono qui a indicare che si tratta, non dell'assenza pura e semplice di una qualsivoglia perfezione, ma dell'assenza di un bene necessario all'integrità di un dato ente. Così, la cecità è un
male soltanto negli enti dotati di capacità visiva (privazione), ma non nella pietra, alla quale non conviene di
vedere (negazione).
Il male, essendo una privazione, cioè un non essere in un ente che, come tale, è buono, può esistere quindi
solo nel bene come in un soggetto.
Art. V - I Primi Princìpi
208 - Lo studio dei primi princìpi ha già trovato luogo nella Logica (I, 35-36), nella Psicologia (III, 470473) e nella critica (67-70). Esso deve però esser ripreso ancor più qui dal punto di vista ontologico. Questo
studio si connette infatti direttamente a quello dei trascendentali, poiché i princìpi primi sono, per definizione, formati con l'aiuto dei concetti assolutamente primi e anzitutto con l'aiuto del concetto di essere, che li
regge tutti. Sotto questo aspetto, essi stessi hanno valore trascendentale. Preciseremo dunque il numero e
l'ordine di queste sintesi primitive.
§ 1 - Il principio di non contraddizione
Dobbiamo sforzarci di cogliere l'ordine genetico dei princìpi partendo dall'intuizione dell' essere e dal
concetto metafisico che ne procede. Sappiamo che il principio di identità si formula in questo modo: «ciò che
è, è», o «ogni essere è ciò che esso è», mentre il principio di non contraddizione (detto pure di «contraddizione») si enuncia sotto le forme seguenti: «l'essere non è il non essere» o «è impossibile essere e non essere
nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto». Questi due princìpi si ricollegano evidentemente, sotto le loro
diverse forme, con il concetto di essere. Resta però il problema, quale sia il più primitivo o il più fondamentale dei due.
Il principio del terzo escluso («tra l'essere e il non essere, non c'è medio termine») deriva immediatamente
dall'impossibilità di affermare simultaneamente l'essere e il non essere. Infatti, se vi fosse un medio termine,
esso consisterebbe nell'essere e nel non essere insieme, ciò che sarebbe assurdo. È chiaro come il principio di
non contraddizione affermi che due proposizioni contraddittorie non possono essere vere nello stesso tempo,
e come il principio del terzo escluso affermi che due contraddittorie non possono essere false nello stesso
tempo (I, 36).
1. POSIZIONE E NEGAZIONE DELL'ESSERE - Sembra che la via negativa sia la più immediata e la più
fondamentale. Infatti, è la negazione dell'essere (o divisione) che segue immediatamente la posizione o concezione dell'essere. Nessuna operazione più semplice di questa negazione si può concepire dopo la posizione
dell'essere. Così lo spirito coglie nel medesimo tempo l'incompatibilità radicale dell'essere e del non essere, il
che è la formula stessa del principio di non contraddizione: l'essere non è il non essere.
Da ciò consegue che dal punto di vista genetico tutti gli altri princìpi e, per ciò stesso, tutte le asserzioni,
essenziali o esistenziali, deriveranno da questo principio o saranno sottomessi alla sua suprema azione regolatrice, cioè ogni verifica degli altri princìpi, come ogni dimostrazione discorsiva, si farà risolvendoli in questa evidenza assolutamente prima: l'essere e il non essere si escludono mutuamente o, dal punto di vista logico, è impossibile affermare e negare nello stesso tempo e sotto il medesimo rapporto227.
Aristotele propone questa formula del principio di non contraddizione: «è impossibile essere e non essere
nello stesso tempo e sotto il medesimo rapporto» (Metaph., XI, 1061 b 35-36). Kant ha criticato questa formula, alla quale rimprovera di introdurre la considerazione del tempo («nello stesso tempo») 228. Ciò tuttavia
dipende dal fatto ch'egli disconosce il vero senso dell'espressione «nello stesso tempo» che, lungi dall'introdurre il tempo, lo esclude, perché questa espressione significa la simultaneità. Essa equivale in modo perfettamente esatto all'espressione «simultaneamente» o «insieme». Quanto all'aggiunta «sotto il medesimo rapporto», essa non introduce alcuna restrizione nel principio, ma mira a precisare che l'essere e il non essere si
escludono in quanto si oppongono contraddittoriamente.
Kant aggiunge un'altra critica, cioè che la forma aristotelica introduce inutilmente una modalità («è impossibile») (I, 60), dal momento che, egli dice, «impossibile» non fa che enunciare puramente e semplicemente
l'apoditticità del principio. Vero è che, anche in questo punto, l'obiezione kantiana non regge. Infatti, la modalità «impossibile» è richiesta dal fatto che il principio, essendo negativo, non pone né essere né non essere,
ma soltanto la loro incompatibilità (o incompossibilità). È chiaro così che è essenziale al principio di non
contraddizione di essere una proposizione modale.
Quanto all'asserzione kantiana che il principio di non contraddizione ha valore soltanto logico, cioè vale
unicamente per la ragione pura, cioè dell'essere pensato, essa riposa sul postulato, confutato nella Critica, che
noi non abbiamo alcuna intuizione dell'essere trans-oggettivo o extramentale.
209 - 2. LA RELAZIONE DI IDENTITÀ - Molte volte s'è voluto ridurre il principio di identità («ciò che
è, è», «ogni cosa è ciò che essa è») a una pura tautologia. È impossibile accettare questa tesi, una volta che si
constati che l'affermazione di identità è legata all'intuizione dell'essere come «qualche cosa» (aliquid) e come
unità229. Se infatti l'essere è necessariamente qualche cosa di determinato ed è indiviso in se stesso, ne risulta
immediatamente che necessariamente esso è (come esistente) ciò che esso è (come essenza), altrimenti esso
sarebbe simultaneamente essere e non essere, se stesso e altro, uno e più, il che è assurdo.
Ne consegue che il principio di identità sembra si espliciti posteriormente al principio di non contraddizione e ne sia una applicazione, determinata dalla distinzione, implicata nel «qualche cosa», tra l'essere esistenziale e l'essere essenziale, tra il soggetto e il predicato. Come tale, il principio di identità non è tautologico,
perché esso enuncia la necessaria identità del soggetto con il predicato, cioè di due oggetti distinti nel pensiero. Il suo carattere trascendentale non può tuttavia esser messo in questione, poiché «soggetto» e «predicato» superano qui tutte le categorie e valgono analogamente per ogni posizione di essere attuata mediante giudizio.
La formula, correntemente usata «A è A» (o «A = A») per enunciare il principio di identità, è nettamente
manchevole e inadeguata. È infatti una pura e semplice tautologia, che non corrisponde in alcun modo a ciò
che significa la relazione di identità. Questa sarebbe assolutamente vana se non ponesse l'identità reale di
cose concepite come distinte da qualche punto di vista. Ciò risulta nettamente dall'analisi del giudizio, in
quanto esso si formula sotto la garanzia del principio di identità: la sua essenza consiste nell'affermare che
oggetti pensati come distinti si identificano nell'esistenza. (L'uomo è un animale ragionevole; Socrate è mortale, 106). Perciò appunto diciamo che l'essenza del giudizio consiste nell'affermazione di identità significata
con il verbo-copula «è». Questa relazione di identità non è tautologica; essa significa un movimento reale di
pensiero, un progresso nel sapere, una scoperta autentica, mentre l'asserzione «l'uomo è l'uomo» (nel senso
di «A è A», cioè nel senso in cui soggetto e predicato fossero concepiti come. assolutamente identici e indiscernibili) sarebbe perfettamente sterile e vana. Anzi, i giudizi di tipo «Socrate è mortale», «la terra è rotonda», «7 + 5 = 12», diverrebbero ingiustificabili, 'poiché essi non possono essere ridotti in alcun modo a «A è
A». È proprio questo che hanno sottolineato gli scettici, gli empiristi, come pure Kant, il quale ha creato per i
giudizi non tautologici la categoria «sintetico a priori». Ciò stesso tuttavia basta a mostrare che lo schema
«A è A» è radicalmente inadatto ad esprimere la relazione di identità. L'attività dello spirito, concepita secondo questo schema, diverrebbe impossibile e inintelligibile.
§ 2 - Principio di ragion sufficiente
210 - 1. FORMA GENERALE - Il principio di ragion sufficiente, sotto i suoi diversi aspetti (principio di
finalità, principio di causalità, principio di sostanza) risponde al bisogno di intelligibilità, cioè risulta immediatamente dalla relazione dell'intelligenza con l'essere. L'intelligenza non può contentarsi di considerare
l'essere come dato, essa vuol sapere la sua ragion sufficiente (o ragion d'essere), ciò per cui esso è, poiché
questo appunto lo rende intelligibile.
Il principio di ragion sufficiente si connette dunque alla verità trascendentale ed enuncia la necessaria connessione dell'essere e del vero: l'essere necessariamente deve render conto di sé all'intelligenza, poiché proprio in ciò, come abbiamo visto, consiste ontologicamente la sua verità. Perciò si possono dare le formule
seguenti come espressioni più generali del principio di ragion sufficiente: «ogni ente deve avere la sua sufficienza intelligibile, o da se stesso, o da altro» (l'intelligenza vede infatti immediatamente che l'essere è o per
sé, cioè necessario assolutamente, o per un altro, cioè contingente), o ancora: «tutto ciò che è, è intelligibilmente determinato».
Queste formule, nella loro generalità, esprimono i due aspetti essenziali della ragion sufficiente o intelligibilità: da una parte, l'intelligibilità intrinseca, che rende conto dell'ente mediante i princìpi interni che spiegano ch'esso è così o così (essenza) o ch'esso agisce in questa o quella maniera (natura), dall'altra parte, l'intelligibilità estrinseca, che rende conto dell'ente proprio in quanto esistente, con riferimento alle cause esterne che lo spiegano come tale. Alla intelligibilità intrinseca corrisponde il principio di finalità; alla intelligibilità estrinseca, il principio di causalità.
211 - 2. PRINCIPIO DI FINALITÀ - Il principio di finalità può essere espresso sotto due forme. Anzitutto, dal punto di vista dell'attività o dell'attualità dell'essere, diremo che «ogni agente agisce in vista di un fine» (omne agens agit propter finem). Di poi, dal punto di vista della potenzialità, diremo che« la potenza è
ordinata all'atto» (potentia dicitur ad actum).
Sotto queste due forme, il principio di finalità si riallaccia al principio di non contraddizione. Lo si può
mostrare mediante la riduzione all'assurdo. Se infatti una cosa non avesse la sua ragion sufficiente (in sé o in
altro), questa cosa sarebbe e insieme non sarebbe: essa sarebbe (per ipotesi) e non sarebbe, giacché non avrebbe ciò senza di cui essa non può essere.
Sotto questi due aspetti, si tratta dell'intelligibilità interna dell'essere. La prima forma del principio, tuttavia, intesa all'attualità dell'essere, è la più fondamentale e vale analogicamente per tutto l'essere. Al contrario, dal momento che interviene la considerazione della potenzialità, il principio appare di fatto limitato sul
piano della potenza e perde il suo carattere trascendentale. L'essere infatti è ormai concepito come ente coinvolto nel divenire, e di questo stesso divenire bisogna rendere ragione. Esso implica potenzialità (o determinabilità) e, per lo stesso motivo, ordinazione a un atto (o determinazione). La determinabilità o potenzialità
sarebbe soltanto un puro nulla, se essa non fosse preordinata a un atto. In altri termini, che mostrano la relazione di questo principio con quello di identità: l'essere-potenza è «qualche cosa» (aliquid) solo per l'atto al
quale esso è ordinato.
Nel primo caso, che considera l'essere in quanto agente, la sua operazione può trovare la sua ragion sufficiente solo in un fine da realizzare, cioè in un bene da acquistare o da comunicare. Dunque il bene è la ragion formale dell'attività dell'essere, cioè universalmente e necessariamente il suo fine. Anche quando si
tratti di un bene da comunicare ad altri, ancora la perfezione o il bene proprio dell'agente risulta la ragion
sufficiente dell'azione, poiché nel perfezionare gli altri l'agente ottiene il suo proprio bene, nella misura almeno in cui esso ha bisogno di un aumento di perfezione: Dio, Bene infinito, se comunica la perfezione e
l'essere, può farlo solo per effetto della sua sovrabbondanza di perfezione e di essere.
212 - 3. PRINCIPIO DI CAUSALITÀ - Questo principio, determinazione della ragion sufficiente, si rapporta alla divisione dell'essere in essere a sé ed essere non a sé o contingente. L'essere a sé non ha causa: esso è necessariamente. L'ente contingente ha una causa, il che è la formula stessa del principio di causalità.
Questo principio può essere formulato in modo ancor più generale, partendo dai concetti di potenza e d'atto.
Allora lo enunciamo sotto questa forma: «nessun ente passa da se stesso dalla potenza all'atto» (Nihil reducit se de potentia ad actum). Infatti, se una cosa potesse passare da se stessa dalla potenza all'atto (cioè darsi
da se stessa questa o quella determinazione), bisognerebbe ch'essa la possedesse già in atto, cioè ch'essa fosse insieme e sotto il medesimo rapporto in atto e in potenza (essere e non essere). Allo stesso modo, se una
cosa potesse cominciare a essere da se stessa, ne conseguirebbe ch'essa potrebbe essere prima di essere, cioè
essere e insieme non essere.
La divisione dell'essere in essere a sé ed essere non a sé non significa la conoscenza attuale dell'esistenza
dell'Essere a sé, che è Dio. Essa include virtualmente il ragionamento che condurrà ad affermare questa esistenza, ma, come tale, verte unicamente sul concetto di essere, di cui enuncia una divisione trascendentale.
Il principio di sostanza è una forma del principio di ragion sufficiente, in quanto enuncia come il mutamento sia intelligibile solo per mezzo di un soggetto o substrato (III, 475). Sotto queste diverse forme, esso si lega sia al punto di vista della finalità, sia al punto di vista della causalità. La sostanza spiega infatti il divenire
accidentale dell'essere sia a titolo di fine degli accidenti (poiché per essi appunto essa esercita la sua attività
propria), sia a titolo di principio di accidenti propri (poiché questi risultano necessariamente dall'essenza della sostanza), sia a titolo di soggetto degli accidenti (causalità materiale).
Art. VI – Il Bello, l'arte e le arti belle
213 - Il bello (pulchrum) non è una proprietà trascendentale dell'essere, giacché esso non si riferisce all'essere immediatamente, ma soltanto per tramite del vero e del bene. Esso è infatti una sorta di bene per le facoltà della conoscenza. Tuttavia, anche sotto questo rispetto, il bello possiede una certa trascendenza, che risulta da quella delle nozioni con le quali è essenzialmente legato.
Al problema della natura del bello, che è propriamente metafisico, si riallacciano quello del sentimento estetico, che è psicologico, e quello dell'arte e delle arti belle, che appartengono alla filosofia pratica, giacché
l'arte è relativa alla produzione di un'opera. Tuttavia è difficile separare questi diversi problemi, così strettamente dipendenti gli uni dagli altri, e perciò li consideriamo qui nel loro insieme.
§ 1. Il bello
A. NOZIONE
214 - 1. DEFINIZIONE - San Tommaso definisce il bello come ciò che piace a vedersi (id quod visum
placet), o ciò che piace in virtù della conoscenza. Questa definizione implica due elementi essenziali, che bisogna considerare partitamente.
a) La bellezza, oggetto d'intuizione. Il bello piace in virtù della conoscenza stessa che noi ne abbiamo. La
compiacenza ch'esso determina tocca immediatamente la conoscenza stessa, poiché in esso la facoltà conoscente trova il suo termine e il suo riposo. Tuttavia il bello differisce dal vero: il vero consiste infatti nella
pura conformità dell'intelligenza con ciò che è, mentre il bello si definisce per la gioia che procura quella
conformità: esso è, non la conoscenza come tale, ma la conoscenza in quanto fonte di diletto e di compiacenza.
La bellezza implica dunque una relazione dell'essere con l'intelligenza, nella quale esso determina una
compiacenza per la manifestazione di caratteri diversi da quelli della verità, ma che pur tuttavia, come la verità, sono tutti accessibili solo all'intelligenza, cioè l'integrità, la proporzione e la chiarezza dell'oggetto. È.
certo anche che la bellezza è accessibile ai sensi, che pone in uno stato di benessere e di soddisfazione: l'orecchio è incantato da una bella musica, l'occhio gioisce davanti a belle forme plastiche. Ciò dipende, per altro, da una parte, dal fatto che i sensi dell'uomo sono compenetrati di ragione, a causa dell'unità del composto
umano: la bellezza non si può intendere senza riferimento formale all'intelligenza, perché ogni apprensione
cosciente di bellezza comporta un giudizio (implicito) che può essere solo opera dell'intelligenza. D'altra parte, ogni percezione di bellezza implica la collaborazione dei sensi con l'intelligenza, poiché tal percezione
può avere per termine solo le cose concrete, nelle quali unicamente si compie in modo proprio e nella sua
perfezione la conoscenza umana. Per lo stesso fatto, la percezione del bello è necessariamente intuitiva e sintetica, sensibile e insieme intelligibile.
b) La bellezza è fonte di gioia. Il bello è dilettevole; esso incanta e rapisce; genera il desiderio e l'amore.
Esso è dunque una sorta di bene, cioè il bene della conoscenza. Tuttavia differisce dal bene trascendentale,
che non dice niente di più che rapporto all'appetito, mentre la bellezza aggiunge al bene un rapporto alla facoltà conoscitiva. In altri termini, la conoscenza non costituisce semplicemente la condizione del godimento
del bello, ma la sua causa, mentre è solo la condizione dell'appetito e del desiderio. Ciò che muove il desiderio non è necessariamente bello; ma ciò che è bello piace sempre e necessariamente. La sazietà che produce
talvolta la bellezza risulta solo dalle condizioni soggettive della sua percezione: in se stesso, il bello è fonte
di gioia costantemente rinnovata. «A thing of beauty is a joy for ever» (Una cosa bella è una gioia per sempre), diceva Keats (da Endymion, in Complete works, 5 voll., Londra, 1900-01).
215 - 2. LE CONDIZIONI OGGETTIVE DELLA BELLEZZA ­ Quali sono le ragioni che determinano
quella compiacenza nella conoscenza, che è effetto della bellezza? E sotto altra forma: quali sono le condizioni oggettive della bellezza? Queste condizioni sono molteplici, ma si possono ridurre a queste tre principali:
a) L'integrità dell'oggetto. L'oggetto conosciuto non è bello se esso non si presenti in tutta la sua integrità,
altrimenti la conoscenza non vi potrebbe trovare il suo termine perfetto, né per conseguenza compiacervisi
assolutamente.
Il concetto di integrità dell'oggetto richiede tuttavia d'essere inteso in un modo molto largo e molto elastico.
Esso non può, in particolare, limitarla all'integrità materiale, poiché la materia dell'oggetto estetico non vale
per sé sola, ma soltanto per la forma che vi si manifesta, che può, fino a un certo punto, esserne indipendente.
L'integrità richiesta è dunque quella che è richiesta dalla manifestazione perfetta della forma o dell'idea.
Essa può essere quindi materialmente deficiente. Accade anzi che alcune autentiche opere d'arte pervengano
a render la forma o l'idea più accessibile e più chiara mediante un difetto voluto d'integrità materiale, destinato a sottolineare più fortemente gli aspetti intelligibili dell'oggetto. (Le opere di molti pittori moderni serviranno a illustrare questo punto di vista)230.
216 - b) L'unità nella varietà. L'unità, concetto trascendentale, precede la verità e il bene; essa precede anche la bellezza, e la fonda. Ciò che è bello possiede l'unità, ma una unità tale da ammettere la varietà e da
manifestarsi per essa. La molteplicità degli aspetti e le dissomiglianze, lungi dal nuocere alla bellezza, la
rendono più splendida, se essi si riducono all'unità e la dispiegano. L'unità trionfa quando essa piega sotto la
sua legge gli elementi che sembravano inconciliabili, come si può avvertire nelle architetture sonore di Bach,
di Beethoven o di Franck, in cui l'unità raduna e fonde i motivi e i temi molteplici in una medesima totalità
armonica, dove niente è inutile, e dove tutto concorre e si accorda nella stessa idea.
Tuttavia, questa nozione di unità o di proporzione è essa stessa relativa al soggetto che percepisce la bellezza e, per conseguenza, relativa alle latitudini e alle epoche. Senza dubbio essa possiede un senso oggettivo, definito dalla natura stessa della cosa bella. Tuttavia gli aspetti che l'armonia o la proporzione possono
assumere, sono così numerosi che il giudizio di bellezza è soggetta a una estrema variabilità, secondo l'evoluzione dei gusti e dei sentimenti.
c) La chiarezza. La chiarezza di cui qui si tratta non è quella del vero come tale, ma una specie di splendore della perfezione e dell'ordine. Tuttavia non è necessario che questa chiarezza sia immediatamente accessibile. Essa è una realtà oggettiva, ma che, per essere percepita, richiede spesso una formazione di gusto estetico. Niente è più chiaro di una fuga di Bach: nonostante qualche complessità che comporta il trattamento del
tema, l'ordine ne è (di solito) risplendente. Pure, per cogliere questo splendore, bisogna possedere una certa
cognizione della tecnica della fuga.
B. TEORIE DEL BELLO IN SÉ E DELL'ATTIVITÀ DEL GIOCO
217 - 1. IL MITO DEL BELLO IN SÉ - Alcuni filosofi, imbevuti di platonismo, hanno voluto sostenere
che la bellezza sia per noi soltanto la percezione di un mondo ideale, l'atto misterioso in cui si coglie l'invisibile essenza delle cose o dei Tipi assoluti e immutabili. Queste tesi, se pretendono fare della bellezza l'oggetto di una intuizione che debba volgersi direttamente al mondo intelligibile, sono troppo ambiziose, poiché le
cose sono senza dubbio molto più semplici. La bellezza, in certo senso, è una realtà sensibile, giacché essa
risulta dalla perfezione con la quale una forma si concreta nella materia: perciò noi la percepiamo nelle cose. Tuttavia è vero, come dimostra soprattutto sant'Agostino, che le bellezze finite da noi contemplate nelle
cose suppongono una Bellezza infinita o, sotto altra forma, la partecipazione della ragione a norme di bellezza e di perfezione trascendenti lo spazio e il tempo (26). L'artista però non ha gli occhi fissi su questa Bellezza infinita che, in se stessa, è al di là della nostra apprensione e si può attingere solo attraverso i riflessi
che noi scopriamo nelle cose.
Ciononostante, vi è un senso in cui è legittimo parlare di bello ideale. In opposizione al bello reale, il bello
ideale è quello concepito dallo spirito: esso è un tipo di perfezione, un modello che lo spirito si forma e che
gli serve di regola nella produzione dell'opera d'arte (idea esemplare). Quest'opera appare effetto dell'ideale
concepito, ed essa lo attua più o meno perfettamente. Ne discende chiaramente che se il bello ideale è considerato come perfetto, la perfezione tuttavia è nell'intenzione dell'artista piuttosto che nell'ideale determinato
ch'egli realmente concepisce.
218 - 2. TEORIA DELL'ATTIVITÀ DEL GIOCO - Si è anche tentato di spiegare la bellezza e l'emozione
ch'essa procura mediante il fatto che, distaccato assolutamente da sollecitudini utilitarie, il bello esprimerebbe ciò che è interamente gratuito, ciò che è affrancato dal bisogno e da ogni condizione esteriore alla pura
attività come tale. Essendo la gratuità caratteristica del gioco, il bello potrebbe dunque essere definito come
effetto della pura attività del gioco. Tale è il senso generale della definizione kantiana del bello come «ciò
che soddisfa il libero gioco dell'immaginazione, senza essere in disaccordo con le leggi dell'intelletto» (Critica del giudizio, tr. it. di A. Gargiulo, rist., Bari, 1937).
Questa teoria comporta una parte di verità. Il bello, infatti, è gratuito nel senso ch'esso non ha, come tale,
un fine utile. Esso basta a se stesso e si giustifica da se stesso: Kant dice, con altre parole, ch'esso è «una finalità senza fine». Senza dubbio, l'artista può essere interessato, ma l'opera in se stessa è essenzialmente gratuita, senza altra finalità che quella di procurare la gioia estetica.
Tuttavia ciò non deve condurci a confondere il gioco e la bellezza, l'attività del gioco e l'attività artistica.
Tra esse vi sono molteplici differenze. Infatti, il gioco non mira a produrre un'opera, ma al puro spiegamento di attività. In più, solo a proposito di esso vale ciò che Kant dice del bello, cioè ch'«esso piace senza concetto», mentre invece la bellezza è maggiormente gustata quanto più è chiara all'intelligenza. Essa non può
essere ridotta al concetto, giacché non è soltanto una conoscenza, ma un godimento; e tuttavia non esclude il
concetto, la riflessione e l'analisi, che sono spesso strumento di godimento più intenso. Al contrario, la finalità del gioco, per quanto esso richieda qualche intelligenza, è fuori dell'intelligenza, nel libero esercizio dell'attività. Infine il gioco non è serio; l'elemento della serietà è deleterio per esso, come tale. La bellezza al
contrario appare come una cosa grave: essa impone la venerazione e il rispetto.
C. L'EMOZIONE ESTETICA
219 - L'emozione estetica, cioè la compiacenza che determina la percezione della bellezza, è qualche cosa
di complesso. Vi si possono distinguere con l'analisi i seguenti elementi: la gioia, l'ammirazione e la simpatia.
1. LA GIOIA - Le cose belle, abbiamo detto, procurano gioia (id quod visum placet). Spesso si dice ch'esse
siano anche fonte di piacere, parola tuttavia troppo carica di significato sensibile per essere qui perfettamente
adeguata. L'idea della gioia ha qualche cosa di più spirituale, senza escludere tuttavia l'elemento sensibile
sempre presente nel sentimento estetico, e conviene meglio per definire quell'emozione così particolare e suscettibile di una tale intensità, che nasce dalla percezione della bellezza.
Tuttavia, si può anche scoprire, nell'emozione estetica, la traccia di una certa tristezza, che proviene dal
sentimento di ciò che vi è di precario, di fragile, di transitorio nella bellezza finita. Ora ogni bellezza comporta una esigenza d'eternità, come ogni gioia pura vorrebbe eternarsi. Qui, nell'emozione estetica, affiora
l'impressione che la bellezza sensibile sia soggetta alle condizioni di corruzione e di dissoluzione della materia in cui essa è attuata. Così s'è potuto spesso parlare della «pungente dolcezza» delle cose belle.
2. L'AMMIRAZIONE - Le cose belle provocano l'ammirazione, cioè lo stupore e il rispetto. Esse stupiscono per quel tanto di perfezione inattesa, di visione originale e penetrante, di associazioni singolari, di combinazioni ardite ch'esse comportano. Ispirano una sorta di sacro rispetto, per la rivelazione che apportano del
mondo segreto delle forme, e soprattutto attraverso la manifestazione della potenza che esercitano sull'intelligenza umana. L'uomo si sente soggiogato dalla bellezza e venera in essa una forza spirituale.
Da ciò è spiegabile come si sia potuto parlare di «religione dell'arte» o di «religione della bellezza» (Ruskin), per il fatto che la bellezza produce qualcuno degli effetti del sacro: semplice modo di parlare, tuttavia,
poiché l'arte non può essere una religione, e se la bellezza merita i nostri omaggi, ciò avviene in quanto essa
è riflesso della Bellezza infinita, principio di ogni bellezza finita.
3. LA SIMPATIA. - Il sentimento estetico appare come eminentemente sociale. Esso è fattore di simpatia o
di godimento in comune. Chiunque gusti la bellezza aspira a comunicare agli altri la sua emozione, rendendoli partecipi della sua ammirazione. La bellezza riesce veramente a far vibrare all'unisono le anime, a creare una sorta di unità spirituale, in ragione proprio del suo carattere gratuito. La bellezza come tale sta oltre le
cause di divisione e di conflitto.
D. LE SPECIE DEL BELLO
220 - 1. BELLO NATURALE, ARTIFICIALE, MORALE
a) Il bello naturale. Il bello naturale è quello che si riscontra nelle cose della natura, considerate tanto nel
loro insieme che nel particolare. Tutto è bello in qualche modo nella natura, purché si sappia ben considerarla.
Questa bellezza è sensibile e corporea o spirituale e intelligibile. Se la bellezza è sensibile, non sono i sensi
che possono formalmente percepire la bellezza, la quale, come abbiamo visto, si indirizza essenzialmente allo spirito. (Per questa ragione l'animale non percepisce il bello, come neanche percepisce il vero o coglie il
bene e la felicità propriamente detti). La bellezza è sensibile tuttavia in quanto lo spirito la scopre, intermediari i due sensi estetici, la vista e l'udito. Si discute sulla questione se gli altri sensi possano servire a percepire la bellezza. Non sembra, poiché il gusto, l'odorato e il tatto sono in se stessi troppo confusi per cogliere i
caratteri del bello. Quanto alla bellezza spirituale, essa è tutta nelle cose spirituali e nei concetti che le esprimono: niente sarebbe bello come un'anima, se fosse possibile vederla.
Alcuni filosofi ed esteti hanno pensato che non possa esservi bellezza se non sensibile: il bello spirituale
non sarebbe tale che per analogia e si confonderebbe con il vero, come il bello morale si confonderebbe con
il bene. È opinione non ammissibile. Il bello esiste formalmente nell'ordine spirituale, senza confondersi con
il vero e il bene, poiché tutti i caratteri del bello possono essere dati nell'ordine spirituale altrettanto e ancor
meglio che nell'ordine sensibile. Tuttavia, è certo che il bello superiore non ci è accessibile che sotto una
forma sensibile e bella di per se stessa: la nostra intelligenza e, per conseguenza, il nostro senso estetico sono
naturalmente proporzionati soltanto alle forme intelligibili incarnate nel sensibile. Questo è il campo del bello umano. Questa bellezza sensibile è così lungi dall'esaurire il dominio del bello ch'essa stessa ci appare perfetta solo nella misura in cui è riflesso di una bellezza superiore, cioè di un ordine e di un'armonia di natura
propriamente intelligibile.
b) Il bello artificiale. Il bello artificiale è prodotto dell'arte umana. Anch'esso è sensibile o spirituale: si indirizza agli occhi, alle orecchie, all'immaginazione, o più ancora allo spirito, senza che d'altronde gli sia possibile separare le bellezze di ordine sensibile da quelle di ordine spirituale.
c) Il bello morale. Il bello morale è prodotto di una retta ragione unita a una volontà giusta e santa. Esso
consiste nella virtù, presa non nella sua ragione di bene, ma sotto l'aspetto in cui essa affascina e incanta lo
spirito e il cuore231.
221 - 2. IL SUBLIME, L'ELEGANTE, IL GRAZIOSO - Si distinguono ancora alcune forme particolari
del bello, le quali si possono ridurre a tre: il sublime, l'elegante e il grazioso.
a) Il sublime. Il sublime non è altro che il bello nella sua più alta espressione o, più precisamente, il bello in
quanto esso eccede la nostra conoscenza o il nostro pensiero e oltrepassa la comune misura. Come tale, esso
provoca non soltanto la nostra ammirazione, ma spesso anche una sorta di timore reverenziale. Tuttavia non
bisogna confonderlo con il colossale o l'enorme, che derivano soltanto dalla materia o dalla quantità. Il sublime è essenzialmente semplice: la sua grandezza risiede nella potenza sovrana con la quale una forma, nell'ordine fisico o morale, domina una materia ribelle.
b) L'elegante e il grazioso. L'elegante consiste soprattutto nell'armonia della forma esteriore e dei movimenti. Il grazioso è ciò che piace per le proporzioni e per la perfezione del particolare minuto.
§ 2 - L'arte e le arti belle
A. NATURA DELL'ARTE
222 - 1. L'ARTE IN GENERALE - L'arte consiste essenzialmente nella retta nozione delle cose da fare
(recta ratio factibilium), cioè ha la funzione di determinare quali condizioni debba soddisfare l'opera da produrre onde essere conforme all'idea dell'artigiano. Da questo punto di vista generalissimo, non si farà distinzione essenziale tra arti utili e arti belle; tra l'artigiano e l'artista. In questi due casi, si tratta di far passare un'idea (idea di tavola, idea di orologio, idea di melodia, idea di un monumento, ecc.) nella materia, e in certo
modo di incarnarvela. L'arte è a volta a volta ciò che regola questa impressione dell'idea in una materia sensibile.
2. ARTE E ARTI BELLE - È chiara la differenza che esiste tra le arti utili e le arti belle. Le prime mirano
essenzialmente a un fine utile, senza tuttavia escludere la bellezza, la quale interviene come sovrappiù; le arti
belle sono disinteressate e non mirano che alla produzione di una cosa bella. Quando parleremo in seguito
semplicemente di arte, si tratterà sempre di arti belle.
3. L'ARTE È UNA VIRTÙ INTELLETTUALE - Se l'arte consiste infatti nella retta nozione dell'opera da
fare, ne segue ch'essa risiede anzitutto nell'intelligenza, la quale sola è capace di concepire l'idea da concretare nella materia e i mezzi per concretarla. L'arte, inoltre, è una virtù (o habitus), cioè una qualità stabile che
perfeziona la facoltà in vista dell'azione agevole, rapida e dilettevole. E siccome l'arte ha per fine l'opera da
attuare, diremo che essa è una virtù pratica, tendente a render facile e felice il lavoro dell'artista. Da ciò consegue che il vero artista possiede una sorta d'infallibilità nelle cose della propria arte, e anche una spontaneità
creatrice che sembra fare della sua attività artistica quasi la manifestazione di una seconda natura.
B. LE ARTI BELLE
223 - Nel considerare l'oggetto proprio di ciascuna delle arti belle, abbiamo due gruppi distinti: il gruppo
delle arti plastiche e il gruppo delle arti del movimento232.
1. LE ARTI PLASTICHE - Le arti plastiche sono quelle che utilizzano le forme sensibili massicce e spaziali e che producono opere immobili. Questo gruppo comprende l'architettura, la scultura e la pittura.
a) L'architettura. L'architettura raggiunge la bellezza mediante l'equilibrio e le felici proporzioni delle
masse pesanti che utilizza.
b) La scultura. La scultura mira ad esprimere le attitudini e i sentimenti delle forme viventi e particolarmente dell'uomo. Essa può esprimere il movimento (il Discobolo), ma fissandolo in uno dei suoi momenti.
c) La pittura. La pittura cerca d'esprimere, mediante il gioco dei colori, i rapporti delle forme sensibili tra
loro. La pittura può ottenere, con i propri mezzi, alcuni effetti che dipendono dall'architettura e dalla scultura: essa riesce, in particolare, a fissare in un modo più libero che non la scultura e fin nelle più sottili sfumature, le espressioni del viso.
2. LE ARTI DEL MOVIMENTO - Le arti di questo gruppo (musica, danza, poesia) producono opere che
sono essenzialmente mobili, situate nel tempo e non più nello spazio, come quelle del gruppo precedente.
a) La musica. L'arte musicale comporta come elementi costitutivi: il ritmo, elemento fondamentale, che risulta dalla successione di intervalli di tempo regolari, segnati da accentuazioni d'intensità, la melodia, che ha
la sua origine nell'accento e viene direttamente dal linguaggio, specie di canto, l'armonia, fondata sulla simultaneità delle melodie.
b) La coreografia. L'arte della danza ha qualche cosa di misto: la danza infatti partecipa della scultura per
gli atteggiamenti mobili che mette in gioco, dell'architettura, per gli equilibri di gruppi che attua, infine della
musica, della quale sposa il ritmo proprio, dandone una specie di traduzione plastica.
c) La poesia. Ciò che chiamiamo arte letteraria (arte drammatica, eloquenza) è qualche cosa di complesso,
che oscilla tra l'espressione delle idee astratte e la poesia, che è una delle arti belle. La poesia può tendere sia,
come la musica, a esprimere sentimenti, sia, come la pittura, a descrivere forme sensibili. Essa sprigiona il
suo fascino particolare, dovuto al ritmo più o meno dolce e armonioso che regola lo svolgimento del discorso
verbale e che è, se non indipendente dal senso, almeno tutt'altra cosa che il senso delle parole.
Possiamo anche provare a dividere le arti belle secondo i gradi del loro valore estetico. Su questo punto però, le opinioni sono molto varie. Talora, infatti, si considerano le arti belle dal punto di vista oggettivo, attribuendo la priorità a quella che sembra unire e manifestare al più alto grado i caratteri oggettivi del bello (architettura). Tal altra, e più comunemente, ci si pone dal punto di vista soggettivo e si considera come arte su-
prema quella che procura le emozioni più vive. Si può esitare, in questo caso, secondo i gusti e le doti personali, tra la musica, l'arte drammatica e la poesia. Tuttavia sembra che la musica sia una fonte di emozioni più
vive e più profonde delle altre arti.
C. LE REGOLE DELL'ARTE
224 - Quando parliamo di regole dell'arte, bisogna distinguere tra le regole che guidano la concezione dell'opera d'arte e le regole che governano l'esecuzione dell'opera d'arte.
1. LA CONCEZIONE DELL'OPERA D'ARTE
a) Le condizioni soggettive. Non vi sono regole che permettano di creare con infallibile sicurezza un capolavoro, ma vi sono condizioni da attuare per mettersi nello stato di concepire e di produrre la bellezza. Queste condizioni possono esse stesse riassumersi nella formazione o nel perfezionamento dell'habitus operativo.
Un certo dono innato, consistente soprattutto in attitudini, interviene generalmente nell'artista. L'attività artistica tuttavia richiede sempre il lavoro, la meditazione dei capolavori dell'arte raffinata, il raccoglimento, la
riflessione paziente, il gusto della perfezione.
b) L'imitazione della natura. L'arte è un'imitazione della natura? Lo si dovrebbe negare risolutamente se,
per imitazione, si volesse significare copia. L'arte non è semplice copia dei prodotti della natura, altrimenti
la fotografia sarebbe la vetta dell'arte. Tuttavia vi è un senso in cui si può dire che l'arte imita la natura, cioè
in quanto essa mira a produrre qualche cosa di bello mediante la manifestazione di una forma sensibile.
Questa forma, l'artista può solo scoprirla, grazie alla penetrazione e alla finezza della sua visione, nella natura esteriore o interiore, ch'è un ricettacolo immenso di forme. L'arte, anche da questo punto di vista, è più una
creazione che un'imitazione, poiché in questo caso, vedere, equivale propriamente a scoprire, inventare e costruire.
c) L'arte e l'ideale. Una concezione contraria a quella dell'arte come imitazione della natura afferma che
l'arte ha per oggetto la manifestazione dell'ideale. Questa concezione si ricollega con la teoria del bello in sé
che abbiamo già discussa, e implica i medesimi equivoci. Infatti, la formula che fa dell'ideale l'oggetto dell'arte sarebbe falsa, se si considerasse questo ideale come esistente al di sopra o al di fuori della natura. In realtà, l'artista è, sì, un cercatore di idee o di forme, ma nella stessa natura: l'ideale ch'egli si propone, più che
una cosa preesistente alla sua ricerca, o un modello o un tipo indipendente e separato. è la figura interiore
dell'opera da incarnare in una materia sensibile.
225 - 2. L'ESECUZIONE
a) Il mestiere. L'esecuzione è il campo proprio del mestiere e dell'attività tecnica. L'artista deve essere un
artigiano, cioè un tecnico o uomo del mestiere. L'opera da produrre esige infatti l'impiego di attrezzi appropriati, il cui uso è oggetto di tirocinio, di conoscenza precisa dei materiali, di possesso delle tecniche operative. Senza mestiere, l'opera non sarebbe che balbettamento informe.
b) Arte e mestiere. Il mestiere è necessario all'artista, ma estrinseco all'arte. La perfezione del mestiere non
potrà mai sostituire la virtù o l'habitus artistico. Tuttavia la tentazione più grave per un artista è quella di indursi a lavorare a vuoto, cioè di mettere in gioco con abilità le sue attitudini tecniche senza che egli abbia un'idea originale e nuova da esprimere, come quell'oratore che bilanci armoniosamente i suoi periodi e moltiplichi i gesti espressivi senza aver niente da dire. Il mestiere è al servizio dell'arte, e vi si subordina interamente. L'opera d'arte perfetta è quella in cui il più sapiente mestiere pervenga a non distinguersi più dall'idea stessa e a scomparire nell'espressione di quella idea o di quella forma. L'ammirazione va allora direttamente all'oggetto bello in sé, mentre l'artista, in quanto artigiano, si fa dimenticare a profitto della sua opera233.
CAPITOLO TERZO
I PREDICAMENTI
SOMMARIO234
Art. I - SOSTANZA E ACCIDENTE IN GENERALE. La divisione in sostanza e accidenti. Fondamento
della divisione. L'intelligibilità del mutamento - Ragione metafisica della divisione - I dieci predicamenti Divisione dei predicamenti - Valore analogico della divisione - Concetto della sostanza - La sostanza in generale - Natura - Essenza, forma e sostanza - Nozioni aberranti della sostanza - Divisione della sostanza Supposito e persona - Il problema della sussistenza ­ Concetto dell'accidente. Definizione - Il soggetto degli
accidenti.
Art. II - LA QUALITÀ E LA RELAZIONE. La qualità - Concetto e divisione - Le differenti qualità L'habitus e la disposizione ­ La potenza - Qualità passibile e passione - Forma e figura - La relazione - Natura - Concetto e analisi - Proprietà della relazione - Divisione - Il fondamento della relazione reale - Le relazioni reali - Distinzione reale tra la relazione e il suo fondamento.
Fin qui, non ci siamo occupati del concetto di essere se non in ciò ch'esso ha di assolutamente universale e,
per conseguenza, in ciò che gli appartiene necessariamente in tutti i generi dell'essere, quali che siano. Ma è
evidente che l'essere si diversifica in categorie distinte e che ciò che si dovrà dire di una delle categorie, in
quanto determinazione speciale dell'essere, varrà solo per questa categoria, con esclusione delle altre. Nel
passare allo studio dei predicamenti, generi supremi o prime divisioni dell'essere, abbandoniamo dunque
l'ordine trascendentale in cui eravamo rimasti fin qui. Le questioni che ora si pongono concernono la divisione dell'essere in sostanza e accidenti e la natura dei differenti accidenti.
Art. I – Sostanza e accidente in generale
226 - Per quanto concerne i predicamenti in generale, dobbiamo anzitutto giustificare la divisione dell'essere finito in sostanza e accidenti e determinare il numero dei predicamenti, in seguito poi definiremo il concetto di sostanza e quello di accidente.
§ 1 - La divisione in sostanza e accidenti
Dobbiamo provare la realtà di fatto della divisione dell'essere finito in sostanza e accidenti. Questa divisione è stata già stabilita nella Cosmologia, particolarmente con l'analisi del mutamento (II, 29-33), e nella
Psicologia, nello studio del soggetto della vita psicologica (III, 553-565). Il nostro compito sarà dunque limitato a precisare la portata metafisica della divisione e a definire in funzione dell'essere la natura della sostanza e la natura dell'accidente.
A. FONDAMENTO DELLA DIVISIONE
Si possono distinguere due argomenti essenziali per provare che l'essere finito si divide in sostanza e accidenti. Il primo, che già abbiamo esposto nella Cosmologia e nella Psicologia, è fornito dalle condizioni di intelligibilità del mutamento: questo argomento non mirava se non a stabilire il fatto della doppia e necessaria
realtà di un soggetto, realmente distinto dagli accidenti o fenomeni negli enti finiti. L'altro argomento, propriamente metafisico, tende a spiegare questo fatto mediante il ricorso alle condizioni metafisiche dell'essere
finito, cioè mediante la distinzione reale di essenza e di esistenza.
227 - 1. L'INTELLIGIBILITÀ DEL MUTAMENTO
a) La realtà del soggetto. Ci limiteremo qui a riassumere i risultati delle nostre discussioni cosmologiche e
psicologiche. L'esperienza stessa ci obbliga a concepire la sostanza come una realtà positiva e distinta, se si
vuole che il mutamento sia intelligibile. Mutare, infatti, per un ente, è passare da un contrario a un altro per
gradi insensibili, però in modo tale che ciascuno dei gradi nuovi si opponga al precedente: è propriamente
divenire altro e non un altro. Ora ciò stesso è possibile solo in virtù di un soggetto, o substrato, poiché è necessario che vi sia una sorta di comunione tra i termini del mutamento, e che questa comunione non sia soltanto ideale, ma reale, senza di che il mutamento, contrariamente a ciò che l'esperienza ci impone, produrrebbe un ente interamente nuovo. Questa comunione reale tra i diversi momenti del mutamento, è attuata dal
soggetto.
b) La triplice funzione della sostanza. Il concetto di sostanza ci è dunque imposto anzitutto dalla esperienza
come quella di un soggetto del mutamento, cioè di qualche cosa che soggiace al mutamento e lo sostiene
(sub-jacere; sub-stare). L'analisi ulteriore della sostanza nel suo rapporto con gli accidenti o fenomeni per
cui si effettua il mutamento, ci mostra ch'essa esercita una triplice funzione: essa è potenza ricettiva (o soggettiva), fine e, in certo modo, causa efficiente degli accidenti.
Come potenza soggettiva (o causa materiale), la sostanza è il soggetto potenziale che viene attuato dagli
accidenti, propri o contingenti (I, 42). Le proprietà (o accidenti propri) esistono sempre e necessariamente
con la sostanza ch'esse servono a definire e ne sono inseparabili: essa non può essere data senza quelle, e
quelle sono date con essa. Per il fatto stesso, la recezione di queste proprietà non implica alcun mutamento
nella natura. Al contrario, gli accidenti contingenti non hanno la loro causa completa nella sostanza, e la loro
recezione in questa è determinata dall'azione di una causa esterna: così l'acqua diventa calda solo per l'azione
del fuoco e Pietro diventa dotto solo per l'azione di un maestro che insegna. La recezione di questi accidenti
contingenti implica dunque un mutamento reale della sostanza. (Cfr. S. Tommaso, De Ente et Essentia, ed.
Roland Gosselin, p. 45).
In secondo luogo, la sostanza è fine (causa finale) degli accidenti, per questo: essa abbisogna degli accidenti per l'esercizio dell'attività che corrisponde alla sua natura. Ora siccome gli accidenti, mediante i quali la
sostanza esercita per eccellenza la sua propria attività, sono quelli che si chiamano, per questa stessa ragione,
le sue proprietà, essa è primariamente e principalmente causa finale in rapporto a essi.
Infine, le proprietà, ma esse soltanto, hanno nella sostanza il loro principio attivo. Questo principio non è
propriamente causa efficiente, poiché le proprietà sono ricevute senza mutamento né cambiamento della sostanza. Ma quest'ultima è la loro ragione adeguata e per conseguenza vi è una priorità naturale della sostanza in rapporto ai suoi accidenti propri. (Cfr. S. Tommaso, De Ente et Essentia, c. 6, p. 43).
228 - 2. RAGIONE METAFISICA DELLA DIVISIONE - Possiamo domandarci adesso quale sia la ragione di questa composizione di sostanza e di accidenti, come anche di questa mescolanza di accidenti necessari e di accidenti contingenti. Questa ragione risiede nel carattere potenziale e insieme attuale degli enti
finiti: in quanto essi sono in atto, debbono possedere, nella loro essenza, il principio perfetto delle loro proprietà; ma, qualunque sia la loro attualità nell'ordine dell'essenza, essi restano necessariamente, essendo finiti, in potenza rispetto a tutto l'essere che non hanno, e da ciò nasce in essi l'attitudine al mutamento, in quanto
possono acquistare o perdere, sia per la loro propria attività, sia per l'azione di agenti estranei, altre qualità da
quelle contenute nella loro essenza. Dalla distinzione reale dell'essenza e dell'esistenza procede la composizione dell'essere finito in sostanza e accidenti. Inversamente, l'essere infinito, cioè che possieda l'attualità
perfetta di tutto l'essere, non si può concepire, per definizione, come in potenza ad un atto ulteriore, cioè esso
appare escludere ogni composizione di sostanza e di accidente.
Pradines (Psychologie générale, 3 voll., Parigi, 1948, t. II, 1a parte, pp. 469-474) vuol spiegare adeguatamente il sostantivo (e nello stesso tempo la nozione di sostanza) per mezzo di un legamento di effetto e causa. L'essenziale del linguaggio, egli dice, consiste nel sostantivare l'aggettivo o l'attributo, mediante il quale
si manifestano i fenomeni. Per esempio, un certo gruppo di apparenze sensibili si impone anzitutto come
l'ardente. Ma, - ed è anzi qui che si esercita il pensiero, il quale consiste essenzialmente nell'enunciare relazioni necessarie, - l'ardente è tale (poiché esso è sempre e dappertutto ardente, ciò che deve bruciare) solo
perché è in esso una ragione necessaria di essere tale, cioè una causa non sensibile (cosa o sostanza), che diverrà il fuoco. Da ciò è chiaro, aggiunge Pradines (p. 473), che la relazione di sostanza è nata da una sintesi a
priori: un dato dell'esperienza (che diverrà l'aggettivo: «ardente») è rapportato a un sostantivo di comprensione identica («L'ardente» = il fuoco) come al suo principio causale, ma eterogeneo a ogni esperienza.
Questa teoria è ingegnosa e niente vieta di ammetterla sul piano dell'origine del linguaggio. Tuttavia descrivere una genesi non è esaurire il senso di un concetto, la cui struttura logica non è riducibile agli accidenti della sua genesi. Che il sostantivo (e la nozione di sostanza) siano stati tributari, nella loro origine, del
pensiero causale, non implica necessariamente (se non per una concezione empiristica quale quella di Pradines, per quanto egli lo neghi), che l'idea di sostanza possa essere definita come il prodotto di una «sintesi a
priori». Vi sono infatti altre esperienze, e singolarmente quella del mutamento, che hanno potuto suggerire al
pensiero, o, in ogni caso, confermare, giustificare e arricchire, la comprensione e il valore logico del concetto
di sostanza o di soggetto, senza che in questo caso si abbia nemmeno l'apparenza di una sintesi a priori,
giacché si tratta al contrario di una analisi o di una induzione. Nel tutto globale dato all'esperienza e costituito dall'insieme degli attributi o fenomeni, il pensiero coglie un duplice aspetto, definito con i termini di accidenti e di soggetto, di fenomeni e di sostanza. Se la tendenza del pensiero comune è stata sempre di ipostatizzare questo soggetto o questa sostanza, sarà compito del pensiero riflesso e scientifico di precisare il rapporto dei due aspetti, irriducibili e solidali, della realtà concreta.
B. I DIECI PREDICAMENTI.
229 - L'essere finito è dunque o sostanza o accidente. L'accidente di per sé comporta molteplici categorie.
L'insieme di questi modi generali (chiamati anche speciali, in opposizione ai modi universali, i trascendentali
che modificano ogni essere, qualunque esso sia) nei quali l'essere può esistere, costituisce la serie dei generi
supremi nei quali si distribuisce tutto il reale finito. Si è tentato di redigere la tavola completa e irriducibile
di questi generi supremi. Ne abbiamo già trattato nella Logica (I, 42), dove questa questione si pone espressamente, in quanto i predicamenti sono considerati propriamente come modi di attribuzione. Qui considereremo i predicamenti dal punto di vista dell'essere, cioè come modi dell'essenza.
1. DIVISIONE DEI PREDICAMENTI - Questa divisione non si può fare assolutamente a priori, almeno
in ciò che concerne le categorie dell'accidente: dobbiamo fare appello alla nostra esperienza dell'essere; partendo da essa perciò, possiamo provare a dare una forma necessaria alla tavola delle categorie.
Sappiamo che l'essere è o sostanza, cioè atto ad esistere in sé e non in un altro come in un soggetto, o accidente, cioè atto a esistere in un altro come in un soggetto. L'accidente di per sé può essere considerato sia
come determinante il soggetto intrinsecamente, sia come quello che lo determina dal di fuori ed estrinsecamente. Nel primo caso, troviamo tre categorie di accidenti: la quantità, che proviene dalla materia, la qualità,
che risulta dalla forma, la relazione, con la quale il soggetto è ordinato a un altro. Nel secondo caso, abbiamo
sia gli accidenti che sopraggiungono nel soggetto interamente dal di fuori, cioè: l'avere, che è, per un soggetto, il fatto di possedere qualche cosa di distinto da se stesso, come pure quelle misure estrinseche dell'ente
che sono il tempo durante il quale esso è, agisce o patisce, il luogo in cui esso si trova e la situazione che è la
sua propria in questo luogo; sia gli accidenti che sono solo parzialmente nel soggetto, cioè: l'azione, che è nel
soggetto in quanto esso ne è principio, e la passione, che è nel soggetto in quanto esso ne è termine.
Abbiamo così enunciato i dieci generi supremi dell'essere finito: la sostanza (substantia), la quantità
(quantum), la qualità (quale), la relazione (ad aliquid), l'avere (habitus), il tempo (quando), il luogo (ubi), la
situazione (situs), l'azione (agere) e la passione (pati). (Cfr. S. Tommaso, In Metaph., V, lect. 9, nn. 891892).
La precedente divisione è quella che fornisce san Tommaso, il quale ha precisato la divisione di Aristotele.
Questi ha infatti esitato su più punti. Tuttavia il libro delle Categorie, al principio del capitolo IV, enuncia i
dieci predicamenti distinti da san Tommaso235, e questa divisione si ritrova in più punti delle sue opere (cfr.
Zeller, Die Philosophie der Griechen, 2a ed. rinn., 5 von., Tubinga-Lipsia, 1859-1868; cfr. tr. fr. La
Philosophie des Grecs, p. 263, n. 1 e 266, n. 3). Tuttavia altri elenchi omettono talvolta ora l'avere, ora la situazione. E spiegabile l'esitazione di Aristotele su questi due punti. Infatti, l'avere designa un accidente interamente esterno alla sostanza e che è esso stesso sostanza (Pietro è vestito di nuovo, cioè ha un abito nuovo).
- D'altra parte, la situazione (situs) si distingue dalla localizzazione solamente per la considerazione dell'ordine delle parti, da cui il predicamento del luogo fa astrazione (Socrate può essere in piedi, seduto e coricato
nello stesso luogo). Tuttavia, la situazione definisce bene una modalità accidentale distinta; il luogo, come
tale, non dichiara la situazione delle parti di ciò ch'esso contiene.
230 - 2. VALORE ANALOGICO DELLA DIVISIONE – È evidente che la divisione dell'essere in questi
dieci predicamenti può essere soltanto analogica. Ogni categoria, infatti, è compresa nell'essere come un
modo speciale nel quale questo può attuarsi. L'essere non è dunque un genere in rapporto a questi modi speciali, ch’esso comprende in atto, sebbene confusamente, mentre invece il genere è determinato dal di fuori da
una differenza specifica che si aggiunge realmente a esso. Per la stessa ragione, i predicamenti esprimono
modi di essere essenzialmente diversi, la cui unità consiste in quella somiglianza proporzionale in rapporto
all'esistenza, che noi più sopra abbiamo definita. (Cfr. S. Tommaso, In Phys., III, c. 5, n. 15). Ciò vuol dire,
nello stesso tempo, che bisogna ammettere tra essi, in un dato ente, una distinzione reale (almeno modale),
poiché ogni distinzione di un modo speciale e irriducibile in seno all'essere implica una realtà distinta236.
Questa concezione non va contro l'unità dell'essere sostanziale, poiché l'esse del soggetto come tale rimane
unico e l'esse dei diversi accidenti dipende interamente dal soggetto nel quale essi sono ricevuti237.
§ 2 -. Concetto della sostanza
A. LA SOSTANZA IN GENERALE
231 - 1. NATURA
a) L'attitudine a esistere in sé. La parola sostanza, abbiamo detto, designa etimologicamente ciò che è soggetto o substrato degli accidenti (sub-stare). Non sta in ciò tuttavia la sua ragione propria e non per questa
proprietà di essere soggetto converrebbe definire la sostanza, poiché rischieremmo di identificarla con la materia, mentre questa, come tale, non ha nulla di sostanziale (II, 85). La ragione propria della sostanza, che
rende conto della sua capacità di essere soggetto degli accidenti, consiste nell'attitudine a esistere in sé e non
in un altro come in un soggetto di inerenza (esse in se et non in alio tanquam in subjecto inhaesionis). Noi
diciamo: «come in un soggetto di inerenza», per far notare che la sostanza può essere in un soggetto a titolo
di contenuto in un contenente (l'acqua nel vaso) o essere posseduta da un soggetto (come nel caso del predicamento avere: Pietro è caldamente vestito = ha un abito caldo).
b) La perseità. Tutta la natura della sostanza si può riassumere semplicemente nel dire ch'essa ha ciò a cui
spetta esistere per sé (per se: onde il termine perseità), cioè in ragione di sé. Pure bisogna ben intendere l'espressione «in ragione di sé»: essa non significa che la sostanza possa esistere in ragione della sua essenza,
ciò che sarebbe esistere a se (onde il termine aseità) e implicherebbe l'identità perfetta dell'essenza e dell'esistenza, ma soltanto che la sostanza ha tutto ciò che è richiesto per ricevere primamente l'esistenza. Perciò si
deve dire che la sostanza è l'essere per eccellenza, essendo tutto il resto, non ente, ma ente di un ente (ens
entis). L'accidente, infatti, al contrario della sostanza, non può esistere in ragione di sé, ma soltanto in ragione del soggetto che lo riceve: esso non ha dunque l'esistenza se non in dipendenza da cosa altra da sé. (Questo è vero anche del predicamento avere, in quanto esso designa, non la sostanza della cosa posseduta, ma il
fatto di determinare estrinsecamente un soggetto).
Per precisare questa nozione di perseità, sono ancora da notare due punti. Da una parte, la perseità, che definisce in primo luogo la sostanza, non si riduce a una semplice negazione, cioè la negazione della inerenza
in un soggetto, ma essa consiste in qualche cosa di positivo.
Se infatti esistere in un altro è evidentemente qualche cosa di positivo, un modo reale di essere, a più forte
ragione, esistere per sé (per se) dovrà ritenersi come una perfezione positiva (anche se la concepissimo solo
negativamente).
D'altra parte, la sostanza deve essere definita, non semplicemente come «ciò che esiste per sé (per se)», ma
come ciò che è atto a esistere per sé. La ragione è che «essere per sé» non può designare un genere dell'essere. Infatti, dei due elementi di questa nozione, nessuno può costituire un genere: né l'essere, come già abbiamo visto, né il «per sé» (per se), poiché «per sé» esclude soltanto l'inerenza; ora un genere non può consistere in una negazione, giacché la sua definizione non direbbe ciò che esso è, ma soltanto ciò che esso non è. Se
dunque vogliamo definire la sostanza, che è il primo genere dell'essere, lo dovremo fare mediante un concetto che la costituisca in un genere e che, per conseguenza, distingua la quiddità della cosa dalla sua esistenza:
questo concetto sarà quello di una essenza alla quale conviene sussistere (res cui debetur esse non in alio).
(Cfr. S. Tommaso, Contra Gentiles, I, c. 25).
232 - 2. ESSENZA, FORMA E SOSTANZA - La sostanza, in quanto questo ente concreto, comprende
l'essenza con le sue proprietà e gli accidenti contingenti: come tale, essa è oggetto del senso. Ma ciò che la
costituisce nella sua realtà propria e la rende intelligibile, è l'essenza ch'essa è in atto e, più precisamente an-
cora, la forma, per cui, se si tratti di enti composti, la materia è determinata a essere questa o quella sostanza.
Tuttavia, l'identificazione con la forma è imperfetta, giacché se è vero che l'essere risulta dalla forma (forma
dat esse rei, II, 87), questa dà l'essere soltanto in quanto comprincipio determinante della materia: essa è
dunque una parte della sostanza. Egualmente resta imperfetta l'identificazione della sostanza con l'essenza,
poiché la sostanzialità aggiunge all'essenza l'attitudine a sussistere per sé, cosa a cui l'essenza, come tale, è
indifferente. Nondimeno, la quiddità della sostanza, si dovrà definire mediante l'essenza ch'essa è in atto e, a
questo titolo, la sostanza è accessibile solo all'intelletto.
233 - 3. NOZIONI ABERRANTI DELLA SOSTANZA
a) Definizioni cartesiane. Cartesio introduce una nozione della sostanza che, a rigore, condurrebbe diritto
al panteismo. «Per sostanza, egli dice, noi non possiamo intender nient'altro che la cosa che esiste, in tal modo ch'essa non abbia bisogno di nient'altro per esistere» (Principes de la Philosophie, op. cit., I, 51). Questa
definizione non si può applicare che a Dio, e Cartesio lo osserva subito, aggiungendo: «La sostanza che non
ha assolutamente bisogno di nient'altro per esistere può essere intesa solo come unica». Nota ancora che non
si può applicare univocamente la nozione di sostanza a Dio e alle creature: a queste essa conviene analogicamente e bisogna dire che le sostanze create «sono cose che, per esistere, non hanno bisogno che del concorso di Dio». Sennonché da ciò consegue che gli enti finiti sono sostanze solo impropriamente. L'errore di
Cartesio proviene dal fatto ch'egli definisce la sostanza mediante una nozione che le è estranea, cioè mediante l'aseità, mentre le conviene solo la perseità. E così Spinoza, che parte dalla definizione cartesiana (Ethica,
ed. a cura di G. Gentile, Bari, 2a ed., 1933, I, Definitiones, 3), ne deduce immediatamente il panteismo (lbid.
I, propositio 8).
Quanto a Leibniz, egli propone, in virtù del suo dinamismo la seguente definizione: la sostanza è «l'essere
dotato della potenza di agire» o « la forza che agisce» (Système nouveau de la Nature, ed. Gerhardt, IV,
472). Questa definizione tuttavia caratterizza la sostanza con qualche cosa di accidentale: senza dubbio, l'essere sostanziale è attivo, ma non sta in ciò il costitutivo formale della sostanza.
b) Definizioni empiristiche. Tutti gli empiristi, e Kant al loro seguito, definiscono la sostanza come una cosa permanente, immobile e invariabile sotto il mutamento. Ora questa definizione, anzitutto, non conviene
affatto alla sostanza, che non è assolutamente immobile e invariabile sotto il flusso fenomenico: essa non è
affatto una cosa inerte sotto altre cose mobili e mutevoli. Infatti, essa è soggetta al mutamento accidentale e
non cessa di modificarsi con il movimento degli accidenti, che sono qualche cosa d'essa stessa. D'altra parte,
una simile definizione rende la sostanza inintelligibile e perfettamente inutile e conduce al più radicale fenomenismo.
c) Definizione bergsoniana. Bergson definisce la sostanza mediante il «divenire», che sarebbe, egli dice,
ciò che c'è di più sostanziale negli enti. (Cfr. La perception du changement, P. 27). Abbiamo già mostrato più
sopra (96), e anche in Psicologia (III, 630-633) che questa concezione è inintelligibile, perché il mutamento può essere compreso soltanto se si ammetta la realtà di un soggetto distinto dai fenomeni. La teoria bergsoniana deriva d'altronde dall'empirismo, e porta ai suoi limiti estremi il fenomenismo che lo caratterizza.
234 - 4. LA DIVISIONE DELLA SOSTANZA - La sostanza può essere divisa secondo diversi punti di
vista.
a) Sostanza completa e incompleta. La sostanza completa è quella alla quale conviene di esistere in sé. Alla
seconda conviene di esistere, non in un altro come in un soggetto (poiché ciò contraddirebbe la nozione di
sostanza), ma in composizione con un altro, in modo da formare con quest'altro una sola sostanza completa.
Così l'anima umana, che è per natura ordinata a essere l'atto di un corpo (III, 610), è sostanziale solo imperfettamente.
Nell'ordine delle sostanze incomplete, talune sono tali in ragione della loro specie, in quanto esse sono una
parte di una data natura, ma non quanto alla sostanzialità, poiché esse sono atte a sussistere per proprio conto divise dall'altra sostanza incompleta con cui esse sono in composizione: tale è il caso dell'anima umana.
Altre sostanze sono incomplete quanto alla specie e insieme quanto alla sostanzialità e, per conseguenza,
non possono sopravvivere alla dissoluzione del composto: tali sono l'anima dei bruti e le forme degli enti inorganici (II, 127).
b) Sostanza prima e sostanza seconda. La sostanza prima è l'individuo «supposito» o persona: essa non può
essere, come tale, né in un soggetto di inerenza, né attribuita a un soggetto qualsiasi (Socrate; questo albero;
questa pietra). La sostanza seconda è identica al soggetto reale individuale, ma considerata per astrazione
come specie o genere (l'uomo; l'albero; la pietra). Essa può essere soggetto di attribuzione, cioè può ricevere
predicati. Le sostanze seconde sono evidentemente sostanze solo per analogia, poiché nessun universale,
come tale, può sussistere.
B. IL «SUPPOSITO» E LA PERSONA
235 - 1. DEFINIZIONE - Si chiama «supposito» (suppositum) in generale, l'individuo sostanziale sussistente, cioè dotato di una esistenza propria. Il «supposito» è per il fatto stesso soggetto di attribuzione, in
quanto ad esso sono attribuite le attività dell'essere sostanziale: actiones sunt suppositorum. (A Socrate, e
non rispettivamente al suo corpo o alla sua anima sono attribuiti gli atti di mangiare e di pensare). La persona designa il supposito ragionevole e si definisce come una sostanza individua razionale (substantia individua rationalis).
Spesso si aggiunge sui juris o sui compos (autonoma o padrona di sé) a substantia individua rationalis.
Questa precisazione tuttavia non è richiesta, giacché, come abbiamo visto in Psicologia (III, 531), la libertà
è una conseguenza necessaria della ragione. Quanto alla parola ipostasi, essa è presa comunemente come sinonimo di persona.
236 - 2. IL PROBLEMA DELLA SUSSISTENZA - Le speculazioni teologiche sul dogma dell'Incarnazione hanno condotto a porre il problema propriamente filosofico se, in un individuo (Pietro), la persona si distingua realmente dalla sostanza individua, e, nell'ipotesi della distinzione reale, quale sia la ragione formale
della sussistenza, cioè di ciò che fa sì che la sostanza individuale abbia un'esistenza propria e incomunicabile.
a) Senso del problema. Avremmo torto se pensassimo che questo problema risponda solo a una vana sottigliezza: esso è posto dall'analisi stessa dell'ente individuo. Infatti, abbiamo distinto in questo l'essenza e l'esistenza. Ora l'essenza individuata e completa nella sua linea di essenza, costituisce come tale un tutto compiuto e chiuso nell'ordine quidditativo (in ratione speciei seu naturae): così è dell'anima umana unita al corpo
organico. Essa però non è conclusa e compiuta in rapporto all'esistenza: senza dubbio, esige l'esistenza; ma
non v'è niente in essa, in quanto pura essenza sostanziale, che limiti e appropri a sé sola l'atto di esistere, in
modo che questa esistenza sia realmente ed esclusivamente sua e incomunicabile, cioè in modo ch'essa sia
distinta da ogni altra sostanza individua, non soltanto in quanto a ciò che essa è, ma anche in quanto all'esistenza.
b) La sussistenza, modo sostanziale. È chiaro così come l'essenza sostanziale, per essere capace di limitare
l'esistenza a se stessa, debba essere essa stessa terminata nell'ordine della sostanzialità, cioè com'essa debba
ricevere un modo sostanziale, chiamato sussistenza, da considerare come realmente distinto dalla sua sostanza individua.
È chiaro inoltre che la sussistenza non aggiunge assolutamente niente all'essenza dal punto di vista quidditativo. Da questo punto di vista, infatti (per riprendere l'esempio di Kant), cento talleri reali sono niente più
di cento talleri possibili; allo stesso modo Pietro reale non è niente più di Pietro possibile. Ma la sussistenza
aggiunge qualche cosa di assolutamente positivo all'ordine quidditativo stesso, poiché essa fa sì che Pietro
sia una realtà atta ad esistere da sé e per sé, a esercitare una esistenza propria e distinta (ciò che per lui risulta
empiricamente in virtù dell'«io», III, 541-542). Pietro, in quanto persona, è dunque qualche cosa più di Pietro, pura essenza individua, sebbene questo «più» non sia dell'ordine quidditativo. Egualmente, cento talleri
reali sono qualche cosa più di cento talleri possibili, sebbene questo «più» sia estrinseco alla definizione di
questo valore. Per riassumere, diremo dunque che la sostanza si definisce con l'attitudine naturale a sussistere, cioè a esistere indipendentemente da ogni soggetto di inerenza e da ogni comprincipio sostanziale intrinseco, ma questa attitudine passa all'atto solo in virtù della sussistenza, che è una perfezione positiva, distinta
dall'individuazione e sovraggiunta alla natura sostanziale singolare238.
§ 3 - Concetto dell'accidente
In questo paragrafo tratteremo dell'accidente predicamentale, che è opposto alla sostanza, e non dell'accidente predicabile (o accidente contingente), che si oppone alla proprietà, accidente necessario (I, 42).
237 - 1. DEFINIZIONE - L'accidente è un principio reale, al quale conviene esistere in altro come in un
soggetto di inerenza. L'accidente presuppone dunque un soggetto costituito, al quale esso si aggiunga e che
esso determini: così esso è, più che un ente, l'ente di un ente (ens entis).
L'inerenza in atto dell'accidente risulta dalla natura stessa dell'accidente, il cui essere consiste nell' «essere
in» (inesse). Tuttavia l'accidente come tale (allo stesso modo della sostanza) designa propriamente una essenza o modo di essere e, per conseguenza, va definito non come «ciò che esiste in altro», ma come ciò a cui
conviene esistere in altro. D'altra parte, siccome la natura dell'accidente non comporta che questa attitudine a
inerire, noi concepiamo che, soprannaturalmente, l'inerenza attuale possa mancare (come è il caso dell'Eucaristia, dove gli accidenti reali sussistono senza il loro proprio soggetto). Gli accidenti, in questo caso, conservano però la loro relazione trascendentale al soggetto, la quale costituisce la loro essenza propria.
2. IL SOGGETTO DEGLI ACCIDENTI - Per essere soggetto di inerenza, bisogna anzitutto che una sostanza sia in potenza alla forma accidentale che essa riceverà, poiché deve esservi proporzione tra la potenza
soggettiva e l’atto (183), e inoltre, che la sostanza abbia l'attualità necessaria per fondare l'inerenza reale
dell'accidente. Da parte dell'accidente, le condizioni richieste per l'inerenza sono, da un lato, ch'esso sia un
atto reale e non un semplice modo accidentale, dall'altro, ch'esso apporti soltanto un essere dipendente dall'essere sostanziale.
Da ciò consegue che il soggetto degli accidenti è, non la materia prima, giacché a questa manca la sostanzialità o l'attualità richiesta (II, 85), ma il composto stesso. Esso però non è tale in quanto natura sostanziale
individua, ma in quanto «supposito», poiché, come abbiamo visto, è al «supposito» che l'esistenza conviene
puramente e semplicemente. Dunque da esso gli accidenti hanno la loro esistenza accidentale in seno al
composto e, per ciò stesso, in esso hanno il loro soggetto di inerenza.
Art. II – La Qualità e la Relazione
238 - Nella Cosmologia abbiamo studiato molti accidenti, cioè la quantità, il luogo, il tempo, l'azione e la
passione. Tra queste categorie, dobbiamo insistere (nello studio della causalità) solo sull'azione e la passione.
D'altra parte, sull'avere e la situazione non v'è niente da aggiungere a quanto abbiamo detto più sopra. Rimangono dunque la qualità e la relazione. Pure nella Cosmologia abbiamo trattato le qualità sensibili; ma
molti aspetti di questa categoria, dal punto di vista metafisico, debbono essere ancora precisati.
§ 1 - La qualità
Cominceremo col definire e dividere la qualità, poi determineremo la natura propria delle differenti specie.
A. CONCETTO E DIVISIONE
1. CONCETTO - Non v'è definizione propriamente detta della qualità, più che degli altri predicamenti, i
quali, essendo generi supremi, non possono essere situati in un genere. Possiamo dunque designarli o caratterizzarli mediante i loro effetti.
Nel senso largo del termine, la qualità si dice di tutto ciò che si attribuisce a un soggetto a titolo accidentale: in questo senso; tutti gli accidenti, ivi comprese la quantità e la relazione, sono qualità. Nel senso stretto
del termine, che è quello della terza categoria, la qualità appare come una disposizione o un modo di essere
che modifica intrinsecamente la sostanza. Come tale, essa si distingue realmente dagli altri predicamenti. In
realtà, la sostanza costituisce puramente e semplicemente la cosa in se stessa. La quantità è principio di divisibilità interna e di estensione spaziale (II, 16), ma non modifica la sostanza in se stessa, cioè quidditativamente. La relazione ordina la sostanza ad altra cosa, senza modificarla intrinsecamente. Quanto agli altri accidenti, abbiamo visto ch'essi determinano il soggetto solo dal di fuori.
239 - 2. ANALISI DELLA DISPOSIZIONE - Possiamo provare a precisare la natura di questa disposizione o modo di essere intrinseco che è la qualità. La nozione di disposizione implica quella di parti distinte, tra
le quali esiste un certo ordine. Questo ordine tuttavia è essenzialmente differente da quello della quantità:
l'ordine quantitativo ha rapporto con l'estensione, mentre l'ordine qualitativo ha rapporto con la perfezione
del soggetto.
Ora, da questo punto di vista, la qualità può concernere: sia la proporzione delle parti (queste possono essere più o meno ben proporzionate), sia l'attività del soggetto (v'è, infatti, una giusta misura nelle qualità:
troppa audacia è presunzione, mancanza di audacia è pusillanimità), sia la portata delle qualità naturali
(queste possono infatti essere più o meno estese: il tale è ben dotato, il talaltro mal dotato per il disegno; il
tale riesce nel disegno geometrico, ma non nel disegno ornamentale). (Cfr. G. di san Tommaso, Logica, op.
cit., II p., q. 18, a. 1).
3. DIVISIONE DELLA QUALITÀ - Aristotele (Cat., c. 8) enumera quattro specie di qualità, secondo i
quattro modi distinti e irriducibili in cui un soggetto può essere modificato accidentalmente dal punto di vista
della sua perfezione. Questi sono: la forma e la figura, che sono relative alla misura della quantità; la potenza e l'impotenza, che riguardano il soggetto in quanto capace di attività; le qualità passibili e la passione, che
determinano il soggetto in quanto suscettibile di alterazione; infine l'habitus e la disposizione, che determinano direttamente la natura stessa del soggetto. (Cfr. S. Tommaso, S. Theol., Ia IIae, q. 49, a. 2).
B. LE DIFFERENTI QUALITÀ
240 - 1. L'HABITUS E LA DISPOSIZIONE
a) Natura. Nel senso lato del termine, l'habitus (da habeo) è il possesso di qualche cosa. Come predicamento, l'habitus (o avere) si riallaccia a questo primo senso e designa lo stato in cui si trova un dato essere, mediante ciò ch'esso possiede (essere armato, vestito, decorato). Il termine di habitus serve anche a designare
una specie della qualità, cioè la qualità stabile mediante la quale un soggetto è modificato nel suo essere e
nella sua attività239.
La disposizione differisce dall'habitus solo per una minore stabilità. Tuttavia, tra l'habitus e la disposizione,
sembra che si debba ammettere una differenza essenziale e non semplicemente accidentale, poiché la stabilità o l'instabilità della qualità si riferiscono qui, non a qualche condizione individuale, ma alla natura stessa
della qualità. Certe qualità sono, di per sé, radicate in qualche modo nella natura (per esempio, la scienza e la
virtù): ad esse è riservato il nome di habitus; altre rimangono superficiali: queste sono le disposizioni.
b) Divisione degli habitus. Gli habitus si dividono in habitus entitativi e habitus operativi, secondo ch'essi
abbiano per soggetto immediato la sostanza stessa o le sue facoltà. Gli habitus operativi, che si esprimono
mediante una inclinazione, si riscontrano tanto nell'intelligenza (habitus speculativi: intelligenza dei primi
princìpi; scienza; saggezza; habitus pratici: prudenza e arte), quanto nella volontà (virtù e vizi).
c) Origine e movimento degli habitus. Gli habitus naturali sono o innati (habitus dei primi princìpi dell'ordine speculativo e dell'ordine morale: sappiamo ch'essi sono innati solo in potenza, nella virtù propria dell'intelletto attivo (III, 483); o acquisiti (le virtù morali e la scienza). Gli habitus si acquistano immediatamente,
in virtù del primo atto. In realtà però, e in ragione del soggetto degli habitus, la ripetizione dell'atto è spesso
necessaria per fissare e radicare l'habitus. Per contro, la semplice disposizione si acquista normalmente, di
per sé, solo mediante la ripetizione, per il fatto ch'essa è una forma dell'inerzia (tali sono, in particolare, i
meccanismi motori).
Alcuni habitus possono crescere per addizione, in quanto essi acquistano una portata più grande estendendosi a nuovi oggetti: così cresce l'habitus matematico, quando lo studio faccia avanzare nella conoscenza
della geometria. L'habitus può crescere anche intensivamente, quando riceva più forza e profondità: così, per
es., la riflessione perseverante su un medesimo oggetto (per esempio, una medesima scienza) può rendere più
chiara e più precisa la conoscenza, o ancora una virtù, esercitandosi, acquista maggior vigore.
241 - 2. LA POTENZA
a) Natura. La potenza, di cui qui si tratta, è la potenza attiva o facoltà, cioè una qualità che dispone immediatamente la sostanza ad agire. Essa non è ciò che agisce (o l'agente), ma il principio mediante il quale l'ente agisce: di questo genere sono l'istinto, l'intelligenza, la volontà, le forze fisiche (non è l'intelligenza che
conosce o la volontà che vuole, ma l'uomo che conosce mediante l'intelligenza e vuole mediante la volontà)240.
b) La realtà delle facoltà. Bisogna ammettere, in un dato soggetto, la realtà di facoltà distinte dalla sostanza, perché se l'attività accidentale si riferisse immediatamente alla sostanza, questa apparirebbe mutata in
se stessa per il fatto stesso della sua azione, con la quale essa si identificherebbe. Quanto al principio della
distinzione della facoltà, esso è costituito dall'oggetto formale delle loro operazioni, cioè bisognerà ammettere la realtà di facoltà distinte ogni volta che gli oggetti saranno specificamente differenti: così si distinguono
realmente l'intelligenza e la volontà, in ragione dei loro rispettivi oggetti (l'essere e il bene in generale), i
quali sono formalmente distinti.
3. QUALITÀ PASSIBILE E PASSIONE - Queste qualità, che sono relative all'alterazione, si riscontrano
soltanto nell'ordine sensibile. Esse costituiscono il campo delle qualità sensibili, cioè o risultanti da una alterazione (colore, suono, odore, sapore, ecc.), o causanti l'alterazione (proprietà chimiche e fisiche). Distinguiamo la qualità passibile e la passione mediante il grado di stabilità, più grande nella qualità passibile, meno grande nella passione.
4. LA FORMA E LA FIGURA - La figura è un modo che risulta dalla determinazione della quantità. La
forma qualifica le figure in quanto prodotti dell'arte (per esempio, questa figura, cioè questa quantità così delimitata ha la forma di una nave, di un vaso, di una casa, di un uomo).
§ 2 - La relazione
242 - La relazione della quale qui trattiamo è la relazione predicamentale o categorica. Essa si distingue
nella relazione trascendentale (consistente, per esempio, nel rapporto dell'essere con l'intelligenza, del bene
con la volontà, dell'accidente con la sostanza, della facoltà o potenza col suo oggetto, della materia con la
forma), in ciò che la relazione trascendentale risulta dall'essenza stessa del soggetto, mentre la relazione predicamentale è accidentale al soggetto e si riduce al rapporto accidentale di un soggetto con un altro. Il soggetto può dunque definirsi senza di essa, al contrario del soggetto della relazione trascendentale.
A. NATURA
1. CONCETTO - Possiamo caratterizzare la relazione predicamentale come ciò per cui un soggetto si rapporta a un termine. Tali sono, per esempio, l'eguaglianza, la somiglianza, la causalità, che risultano rispettivamente dalla quantità, dalla qualità e dall'azione, e si aggiungono a esse come altrettante determinazioni accidentali. Le altre categorie (tempo, luogo, ecc.) sono al contrario effetti della relazione.
2. ANALISI DELLA RELAZIONE - La relazione implica tre elementi essenziali: un soggetto, ossia ciò
che si rapporta a un'altra cosa, cioè ciò che possiede la relazione e ciò a cui si attribuisce la relazione: per es.
il padre, nel quale v'è la paternità; un termine, cioè ciò a cui si rapporta il soggetto: per es. il figlio per rapporto al padre, o il padre per rapporto al figlio; un fondamento della relazione, cioè una causa o una ragione
in virtù della quale il soggetto si rapporta al suo termine: per es. la generazione, che è causa della paternità e
della filiazione. Il soggetto e il termine della relazione presi insieme costituiscono i due termini della relazione e, quando la relazione sia mutua, sono detti correlativi.
243 - 3. PROPRIETÀ DELLA RELAZIONE - Dall'analisi che precede risulta un certo numero di proprietà della relazione. Le principali sono le seguenti:
a) Le relazioni non hanno contrari. Con questo si intende che le relazioni non si escludono nel medesimo
soggetto: Pietro è figlio di Paolo e padre di Giovanni.
b) Non c'è più o meno nelle relazioni. Le relazioni non possono aumentare o diminuire di per se stesse: una
cosa, per esempio, è eguale o ineguale, simile o dissimile in rapporto a un'altra.
c) Le relazioni sono reciproche. Esse si possono perciò capovolgere e dire, per esempio, «il padre del figlio» e «il figlio del padre»; «il quadro di questo pittore» e «il pittore di questo quadro».
d) I correlativi sono simultanei. I correlativi sono necessariamente dati insieme e mai separatamente: non
v'è padre senza figlio, né figlio senza padre. Per ciò stesso, i correlativi sono conosciuti simultaneamente e si
definiscono mutuamente.
B. DIVISIONE
244 - La relazione si può dividere sia dal punto di vista del suo fondamento (divisione essenziale), sia dal
punto di vista dei termini (divisione accidentale).
1. PUNTO DI VISTA DEL FONDAMENTO - Secondo il fondamento immediato, distinguiamo le relazioni di eguaglianza e di proporzione, che nascono dalla quantità; le relazioni di causalità, che risultano dall'azione; le relazioni di rassomiglianza, che risultano dalla qualità o dalla forma.
Possiamo ancora distinguere, mettendoci dal punto di vista dell'oggettività del fondamento della relazione,
la relazione reale e la relazione logica o di ragione. La prima è data indipendentemente dall'operazione dello
spirito: essa esiste per conseguenza tra due termini realmente distinti, e il suo fondamento non è meno reale
dei suoi termini, tanto che lo spirito si limita a scoprirla, senza in alcun modo crearla: tali sono le relazioni
delle cause con i loro effetti. La relazione logica, al contrario, risulta da un'operazione dello spirito, che crea
gli enti di ragione o sdoppia un termine reale (168): tali sono, per esempio, la relazione del genere con la
specie, o la relazione dell'essere con il nulla, del presente con l'avvenire, di una cosa con se stessa.
2. PUNTO DI VISTA DEI TERMINI - Questo punto di vista dà luogo alla distinzione di due tipi di relazione: la relazione reciproca, quando i due termini possano essere dati, come tali, solo simultaneamente: è
così che non v'è paternità senza filiazione, né filiazione senza paternità; la relazione non reciproca, quando i
due termini non sono correlativi: l'uno è relativo, l'altro è assoluto (tale è la relazione che esiste tra la creatura e Dio, oppure tra la scienza e il suo oggetto). In questo caso la relazione del termine assoluto al termine
relativo è relazione semplicemente di ragione.
C. IL FONDAMENTO DELLA RELAZIONE REALE
245 - 1. LE RELAZIONI REALI - Non si può contestare che numerose relazioni siano reali, cioè date indipendentemente da ogni operazione dello spirito. Non perché noi conosciamo l'ordine dell'universo, esiste
quest'ordine: questo ordine consiste nelle relazioni d'ogni sorta che uniscono gli enti e determinano il loro
posto e il loro ufficio nell'insieme. (Cfr. S. Tommaso, De Potentia, q. 7, a. 9). L'obiezione corrente contro
questa concezione consiste nel dire che l'ordine non è altra cosa che l'insieme. Ma v'è in ciò un equivoco: se
l'ordine proviene dalla perfezione intrinseca d'ogni cosa, esso risulta anche formalmente dai rapporti estrinseci che vi si aggiungono. Nell'ordine, bisogna considerare le cose che sono ordinate e l'ordine stesso: questo
non è meno reale di quelle e non si confonde affatto con esse.
Ciò risulta chiaramente dall'analisi della relazione reale, dove vediamo che sono dati due termini reali e distinti e insieme il fondamento reale in virtù del quale questi due termini sono rapportati l'uno all'altro: non si
può negare senza assurdità la realtà dell'azione causale né la realtà delle dimensioni sulle quali sono fondate
le proporzioni o delle qualità che fondano le somiglianze.
246 - 2. LA DISTINZIONE REALE TRA LA RELAZIONE E IL SUO FONDAMENTO
a) Il problema. Il problema che qui si pone è se la realtà delle relazioni differisca dalla realtà del loro fondamento o, in altri termini, se la relazione si distingua realmente dal suo fondamento. Per esempio, la relazione di eguaglianza è forse tutt'altra cosa dalla quantità comparata, e la relazione di causalità è anch'essa tutt'altra cosa dall'azione causale? Talora la risposta è affermativa, osservandosi che la relazione consiste essenzialmente in un esse ad o rapporto, mentre il fondamento è assoluto, tal altra è negativa, fondandosi da una
parte sul fatto che la relazione è data per la stessa ragione per cui il fondamento è dato, e d'altra parte, sul fatto che spesso una cosa diviene simile o uguale a un'altra senza mutare in se stessa, ciò che sembra escludere
nella cosa ogni specie di realtà nuova.
b) Soluzione. Tuttavia sembra che l'opinione affermativa, cioè quella che distingue realmente la relazione
dal suo fondamento, sia la più plausibile, poiché essa si riduce semplicemente a constatare questo fatto evidente che, se il fondamento non è unicamente assoluto, cioè una cosa data in sé, ma anche relativo, può es-
ser tale solo per una realtà altra da quella che lo costituisce in se stesso. Le ragioni apportate in senso contrario non sembrano valide. Se infatti la relazione è data per ciò stesso che è dato il fondamento, ciò prova
soltanto ch'essa risulta da questo fondamento. D'altra parte, giacché la relazione è estrinseca, niente impedisce di ammettere che una relazione si aggiunga a una cosa che non è mutata in se stessa.
c) La relazione, modo accidentale. Le difficoltà che si oppongono alla distinzione reale della relazione dal
suo fondamento provengono soprattutto da una concezione «cosistica» della relazione e, in generale, da un
modo di pensare empiristico e nominalistico che secondo la formula d'Ockam (quaecumque distinguuntur,
summe distinguuntur), concepisce la distinzione autentica solo tra cose separabili (82). In realtà, la relazione
è soltanto un modo accidentale, cioè un modo di essere che ha per soggetto immediato, non la sostanza (ciò
che non conviene se non agli accidenti assoluti, quantità e qualità), ma uno degli accidenti assoluti. Affermare la realtà distinta della relazione, non è dunque affermare la realtà di una cosa, ma soltanto di una determinazione data nell'ordine della quantità e della qualità.
CAPITOLO QUARTO
LE CAUSE
SOMMARIO241
Art. I - IL CONCETTO DI CAUSA. Esistenza della causalità - Il fatto del divenire - Fondamento della ricerca causale - Il movimento - La finitezza - La composizione - Natura della causalità - Causa e principio Causa, condizione, occasione - Divisione della causalità - Le quattro cause - Analogia del concetto di causa.
Art. II - LA CAUSA EFFICIENTE. Concetto dell'efficienza - Definizione - Forme dell'efficienza - Divisione dell'efficienza - Causa principale e strumentale - Causa prima e causa seconda ­ Causa univoca e causa
analoga - Causa fisica e causa morale - Analisi dell'efficienza - La causa agisce in quanto essa è in atto - L'azione è nel paziente - L'effetto preesiste nella causa - La subordinazione nell'efficienza - Coordinazione e subordinazione - Subordinazione essenziale ­ Subordinazione accidentale - La questione del processo all'infinito.
Art. III - LA CAUSA FINALE. Natura della finalità - Concetto - Intelligenza e finalità - La subordinazione
nella finalità - Le forme della subordinazione - Fine dell'opera e fine dell'agente - Fine principale e fine secondario - Fine mediato e fine ultimo - Il caso - Definizione - Causalità dell'idea esemplare - La causalità reciproca - Natura - Specie.
247 - L'essere non è soltanto principio di esistenza, ma anche principio di attività, cioè principio causale.
Perciò, dopo averlo studiato in se stesso sotto l'aspetto statico, conviene considerarlo sotto l'aspetto dinamico, cioè in quanto produttore di qualche cosa di nuovo. Lo studio di questo aspetto dinamico dell'essere non è
riservato alla filosofia della natura, ma spetta anche alla metafisica che tratta le cause in quanto tali, cioè dal
punto di vista dell'essere. Infatti, osserva san Tommaso (II Phys., lect. 5), la causalità non è necessariamente
legata, come tale, alla materia, poiché essa si riscontra in enti che non hanno nulla di corporeo. La cosmologia e la psicologia hanno da studiare la causalità in quanto principio del divenire fisico; ma esse lasciano al
metafisico la cura di considerarla nella sua ragione fondamentale, cioè puramente e semplicemente dal punto
di vista dell'essere. Appunto a ciò è consacrata la parte dell'Ontologia che considera successivamente il concetto di causa in generale e la natura delle differenti specie di cause.
Art. I – Il concetto di causa
§ 1 - Esistenza della causalità
A. IL FATTO DEL DIVENIRE
248 - 1. IL PRINCIPIO DI CAUSALITÀ - Nel mondo si producono dei mutamenti; le cose non cessano di
modificarsi e di trasformarsi e, nel medesimo tempo, esercitano attività diverse che appaiono come princìpi
del mutamento. Il fatto universale del divenire fonda la divisione dell'essere in potenza e atto e impone la
nozione di causalità, virtualmente contenuta nella nozione del mutamento con la nozione correlativa di effetto. L'intelligenza, messa davanti a qualche cosa di nuovo, sia essa in noi o nel mondo esteriore, non può evitare di formulare questo giudizio: questa realtà nuova, sostanza o accidente, ha una causa. Così il principio di
causalità, che enuncia che «niente avviene senza causa», va considerato come evidente per sé, essendo il
contrario, come abbiamo visto (212), contraddittorio e assurdo.
2. LE DIFFICOLTÀ EMPIRISTICHE - Gli empiristi, seguendo Ockam (38), contestano l'evidenza del
principio di causalità e pretendono di ricondurre il concetto di causalità a quello di una successione regolare
di due fenomeni, che l'abitudine o l'associazione meccanica condurrebbero a poco a poco a ritenere come necessaria. La causa, scrive Stuart Mill (System of Logic, Ratiocinative and Inductive, 9a ed., Londra, 1873, III,
c. 5), è l'antecedente o l'insieme di antecedenti di cui il fenomeno chiamato effetto è invariabilmente e incondizionatamente conseguente» (83).
Kant sembra allontanarsi da questo punto di vista, quando afferma che il concetto di causa è irriducibile a
quello di successione, in ciò che esso aggiunge a questo l'idea di una dipendenza «generale e necessaria»242.
Sennonché questa idea di dipendenza necessaria è per Kant solo una categoria a priori dell'intelletto e niente
affatto fondata nell'essere243. Così egli riporta il principio di causalità al tipo sintetico a priori. L'argomento
da lui prospettato è che, nella formula del principio di causalità («tutto ciò che comincia ad essere ha una
causa»), il concetto di causa non può essere tratto dall'analisi del concetto del soggetto («ciò che comincia ad
essere»). V'è in ciò tuttavia un sofisma che noi abbiamo già discusso (I, 58), mostrando che se la nozione di
causa non è inclusa in quella del soggetto in quanto essenza o parte dell'essenza di questo, essa gli è necessariamente legata a titolo di proprietà (attribuzione a priori del secondo modo), ciò che obbliga a considerare il
principio di causalità come necessario ed evidente per sé, in ragione stessa dei suoi termini.
Sappiamo d'altra parte che la fonte di queste concezioni empiristiche è da ricercare nel nominalismo (114).
Se infatti ogni nostra conoscenza autentica è limitata ai fatti e ai fenomeni sensibili, ne consegue che non
possiamo pretendere di conoscere cause reali, poiché questa conoscenza dipende da quella delle nature e delle essenze. Per i sensi, vi sono solo successioni. Il postulato empiristico è d'altronde confessato da Kant nel
modo più evidente. La causalità, egli dice, consiste nel collegare due percezioni. Ora siccome «questo collegamento non è opera del semplice senso e dell'intuizione (sensibile)», esso non può essere che «il prodotto di
una facoltà sintetica dell'immaginazione, che determina il senso intimo relativamente al tempo. È questa facoltà che lega tra loro i due stati», cioè trasforma in rapporto causale un rapporto che, oggettivamente, è soltanto pura successione. È chiaro che questa argomentazione consiste nel trascurare puramente e semplicemente l'ipotesi in cui l'intelligenza fosse intesa come capace di cogliere, nel dato sensibile stesso, un rapporto
che i sensi, come tali, non possono apprendere.
B. FONDAMENTO DELLA RICERCA CAUSALE
249 - «Tutto ciò che avviene» si applica a ogni specie di fatto nuovo, compreso quello della venuta all'esistenza. L'ambito del divenire, nel senso più largo della parola, abbraccia dunque non soltanto il mutamento o
passaggio dalla potenza all'atto, ma anche l'ordine delle esistenze, si tratti delle esistenze singolari o dell'esistenza del Tutto. Quanto al fondamento della ricerca causale, esso consiste nella contingenza degli enti. Un
ente, qualunque esso sia, sostanza o accidente, che non abbia in sé la ragione adeguata della sua esistenza, ha
bisogno di una causa per esistere. Ciò si può stabilire, dal punto di vista metafisico, mettendosi successivamente dal punto di vista del movimento (o mutamento), della finitezza o della composizione degli enti. Questi differenti punti di vista dànno luogo rispettivamente ai seguenti enunciati:
1. IL MOVIMENTO
a) Ciò che si muove è mosso da un altro - Il movimento deve essere qui inteso nel suo senso più generale,
come ogni passaggio dalla potenza all'atto o come ogni divenire, di qualunque natura esso sia. Diciamo che
ogni ente soggetto al divenire, cioè che passa dalla potenza all'atto, può effettuare questo passaggio solo in
virtù dell'azione di un ente in atto (182). Ora siccome nessun ente può essere simultaneamente e sotto il medesimo rapporto in potenza e in atto, ne consegue che il passaggio all'atto può compiersi soltanto sotto l'azione di un altro, che sia causa del movimento. Così si deve universalmente affermare che «tutto ciò che si
muove è mosso da un altro» (omne quod movetur ab alio movetur).
b) La spontaneità vitale. Alcuni talvolta presentano come obiezione a questo principio i movimenti spontanei degli enti naturali. Ora è evidente che bisogna scartare subito il caso degli enti inorganici, che sono sottomessi alla legge d'inerzia, cioè incapaci di modificare da se stessi il loro stato di movimento o di riposo:
rimane però tutto l'ordine dei movimenti vitali. La vita si definisce infatti come un movimento spontaneo e
immanente, nel senso che il vivente ha in se stesso il principio e il termine del suo movimento.
In questo campo, possiamo distinguere i fatti della vita vegetativa e i fenomeni della vita di relazione. Ora
il principio omne quod movetur si applica egualmente nei due casi, sia che si consideri come un tutto l'insieme dei movimenti vitali, sia ch'essi vengano scomposti nei loro elementi disposti in serie. Infatti, anzitutto
nella vita vegetativa, i fenomeni vitali dipendono in ogni momento, come già abbiamo visto (II, 117), da un
insieme di cause che ne condizionano l'esercizio e le modalità: così la germinazione delle piante, la circola-
zione del sangue, la nutrizione dipendono in fin dei conti dalle energie cosmiche e sono propriamente loro
effetti. Nell'ambito della vita di relazione, il movimento, per spontaneo che sia, si intende solo mediante una
causa distinta dall'ente che si muove. Non v'è nulla che le scienze biologiche (soprattutto la termodinamica
biologica) abbiano messo in luce meglio di questa dipendenza del movimento in rapporto con le forze cosmiche: ogni movimento, essendo manifestazione di energia, richiede una causa fisica del suo stesso ordine244. La rappresentazione, che qui interviene come principio immediato del movimento (III, 496), non
cambia niente, poiché essa non è causa fisica del movimento, ma condizione preliminare d'esso e non è del
medesimo ordine. Ciò rimane vero perfino nel dominio dell'attività libera.
250 - c) Il punto di vista metafisico. La spontaneità vitale non va dunque in alcun modo contro il principio
universale che «tutto ciò che si muove è mosso da un altro». Ciò è ancor più evidente quando si scomponga
il movimento vitale nelle sue condizioni elementari, che sono disposte in serie. La spontaneità vitale significa
infatti che il movimento del vivente non gli viene meccanicamente dal di fuori, ma dal di dentro, in. quanto è
secondo una parte di se stesso ch'esso è motore e secondo un'altra parte che è mosso. È ciò che ben mostra
l'analisi del movimento volontario, che dipende dall'attuazione di una tendenza, la quale dipende dall'apprensione di un oggetto desiderabile (III, 486). Questa apprensione non è essa stessa spiegabile che come effetto
di un oggetto che muove l'intelligenza a conoscere, cioè che la attua (III, 129-130). A questo titolo l'intelligenza, come la tendenza e il movimento volontario, sono dunque altrettanti motori mossi (movens motum):
essi passano all'atto solo mediante l'azione di un atto distinto da se stessi.
Dunque in fin dei conti al principio appunto che l'ente in potenza è attuato solo da un ente in atto si riduce
l'evidenza del principio omne quod movetur, e sotto questo aspetto essenzialmente metafisico bisogna intenderlo per coglierne perfettamente il carattere necessario e universale.
Da ciò si spiegano le difficoltà che Suarez muove contro l'argomento omne quod movetur ab alio movetur245. Questo principio non è secondo lui, come per la scuola aristotelica, un enunciato metafisico la cui evidenza s'imponga alla semplice analisi dei termini, ma soltanto un principio di esperienza, ed inoltre troppo
poco verificato perché se ne possa dedurre una verità universale e assoluta.
Suarez osserva, infatti, che possono esserci dei casi fisici e concreti ai quali non si applica il principio omne
quod movetur, inteso nel senso fisico. Tale sarebbe il caso della potenza attiva, che significa, non attitudine a
ricevere, ma attitudine a produrre. Non possiamo infatti rifiutare al principio attivo, come tale, il potere di
passare all'atto da se stesso, perché ciò tornerebbe a dire ch'esso dovrebbe ricevere totalmente e come una
cosa bell'e fatta la sua attività e, per conseguenza, il suo effetto, nello stesso tempo in cui lo produce e nella
misura stessa in cui si ritiene ch'esso lo produca. D'altra parte, nel caso della virtualità perfetta (caso dell'appetito volontario), il principio non ha alcun punto di applicazione. Infine, se si supponesse che il movimento
fosse una proprietà essenziale dei corpi, il principio omne quod movetur inteso dal punto di vista fisico, perderebbe ogni valore246. Da queste osservazioni, P. Descoqs conclude che il principio omne quod movetur, per
essere universalmente valido, deve essere così precisato: «tutto ciò che si muove deve essere, almeno parzialmente, mosso da un altro».
Tuttavia questo punto di vista sembra discutibile, poiché esso è troppo dipendente dall'esperienza fisica,
che è insufficiente. Se al contrario lo si guarda dal punto di vista metafisico dell'atto e della potenza, non si
vede la ragione di restringere la portata del principio in questione. Nessuno dei casi invocati richiede la restrizione proposta, poiché se è vero che l'agente concorre al movimento, resta, qualunque sia l'estensione di
questo concorso, che l'esercizio stesso di questo concorso è dipendente dall'azione di una causa distinta dall'agente formalmente preso: questa causa è, come tale, principio del movimento, cioè del passaggio dalla potenza all'atto. L'agente è realmente ancora un motore mosso (movens motum).
Ciò risulta dalla discussione sui tre casi invocati da Suarez. La potenza attiva, egli dice, deve avere il potere di passare all'atto da se stessa. Ora l'espressione «da se stessa» è valida ed esatta se con essa si intende escludere la comunicazione meccanica del movimento, ma non avrebbe più alcun valore se la si intendesse nel
senso che l'esercizio della potenza attiva non debba essere condizionato da nient'altro che da sé: nessun potere passa all'atto semplicemente da sé. Ciò si applica anche nel caso della virtualità perfetta, come mostra proporzionalmente il gioco della volontà libera, che non si attua da se stessa, ma con l'intermediario della rappresentazione di un oggetto sub specie boni. Quanto all'ipotesi in cui il movimento fosse una proprietà essenziale della materia, ipotesi concretata nella teoria aristotelica del Primo Cielo e ammessa sul piano empirico
da numerosi fisici, essa avrebbe ancora da spiegare, non che vi sia movimento nel mondo (giacché questo sarebbe dato con la materia), bensì che vi sia questo o quest'altro movimento, cioè questo o quest'altro fenomeno, ciò che, evidentemente, come mostrano a sufficienza le scienze, non può accadere senza causa.
251 - 2. OGNI ENTE FINITO RICHIEDE UNA CAUSA - Abbiamo visto che la finitezza implica composizione metafisica di essenza e di esistenza (188). Da ciò consegue che l'essere finito è necessariamente contingente, poiché la sua essenza non esiste in virtù di sé: se esistesse in virtù di sé, essa si identificherebbe con
l'esistenza e sarebbe infinita. Se dunque l'essere finito esiste, è in virtù di una causa estrinseca, la quale gli
comunica l'esistenza. Così si può affermare che «dal nulla, nulla viene». (Ex nihilo nihil fit. Quod non est,
non incipit esse nisi per aliquod quod est).
Tuttavia non bisogna legare essenzialmente la causalità con l'idea di un inizio temporale, giacché se è vero
che tutto ciò che comincia ad essere ha una causa, non per questo è necessario che tutto ciò che è causato o
prodotto abbia avuto inizio. Vedremo, in teodicea, che è perfettamente concepibile un mondo eterno creato.
Il fatto di essere causato non significa essenzialmente altro se non una dipendenza in quanto all'essere, sia
sostanziale, sia accidentale.
3. OGNI ENTE COMPOSTO RICHIEDE UNA CAUSA - Infatti, le cose che, di per sé, sono diverse, possono formare un tutto unico solo per l'azione di una causa estrinseca che le riunisca. Ciò risulta con evidenza
dalle condizioni universali dell'atto e della potenza: il tutto è atto in rapporto agli elementi, questi non sono
potuti passare all'atto, cioè formare il tutto, se non mediante l'azione di un essere in atto, cioè di una causa
estrinseca agli elementi come tali. In altri termini, ciò che è di per sé diverso non può essere nel medesimo
tempo e sotto il medesimo rapporto la ragione dell'unità. Per conseguenza, ogni composto può spiegarsi solo
mediante una causa (omne compositum causam habet). Questa argomentazione vale universalmente per tutto
l'ambito degli enti finiti, giacché tutti sono composti sotto molti riguardi, e, fondamentalmente, composti di
essenza e di esistenza.
§ 2 - Natura della causalità
252 - 1. CAUSA E PRINCIPIO
a) Definizione. Si chiama principio ciò da cui una cosa - in qualunque modo - procede. Così ogni causa è
principio, ma non ogni principio è causa, poiché il termine causa si adopera solo per designare ciò da cui una
cosa dipende in quanto all'esistenza. Si chiama effetto il prodotto dell'azione causale e conseguente ciò che
risulta dal principio.
b) Analisi della causa. L'analisi rivela tre elementi o condizioni nel concetto di causa. La causa deve essere
realmente distinta dall'effetto. Per conseguenza, la causalità non si identifica con l'attività: agire non è necessariamente causare o produrre. L'effetto deve dipendere realmente dalla causa, poiché appunto in virtù della
causa esso è prodotto. La causa deve avere sull'effetto un priorità di natura, poiché l'azione suppone l'essere.
Contrariamente a ciò che ritiene Kant, per il quale la causalità non ha per fondamento empirico che la pura
successione e, per conseguenza, include necessariamente il tempo nel suo concetto247, la causalità è un rapporto che non implica necessariamente il tempo, né, per conseguenza, la successione, poiché l'essenza della
causalità consiste puramente e semplicemente nell'essere «ciò che produce qualche cosa». Presa anzi formalmente, cioè in quanto esercita attualmente la potenza causale, la causa esclude necessariamente ogni
priorità temporale in rapporto all'effetto, giacché l'esercizio attuale della causalità è simultaneamente e indivisibilmente la produzione dell'effetto. Presa materialmente tuttavia, cioè in quanto causa in potenza e non in
atto, la causa può evidentemente precedere l'effetto: in questo caso, essa non lo precede in quanto causa, ma
in quanto essere.
2. CAUSA, CONDIZIONE, OCCASIONE - Bisogna accuratamente distinguere questi tre concetti. La
condizione è ciò che permette alla causa di produrre il suo effetto, sia positivamente, a modo di strumento o
di mezzo (così il cervello è per l'uomo la condizione del pensiero, in quanto esso è lo strumento mediante il
quale l'intelligenza entra in rapporto con il reale sensibile), sia negativamente, allontanandone gli ostacoli.
L'occasione è una circostanza accidentale che crea le condizioni favorevoli all'azione. Né l'occasione più felice, né la condizione più indispensabile (condizione sine qua non) possono essere confuse con la causa propriamente detta, poiché l'effetto non ne dipende essenzialmente.
§ 3 - Divisione della causalità
253 - 1. LE QUATTRO CAUSE - Siccome la causa è essenzialmente ciò da cui una cosa procede in quanto all'esistenza, ci saranno altrettante specie di cause quante sono le specie di dipendenza causale. Queste so-
no quattro. Infatti, possiamo considerare un ente sia in se stesso, nella sua costituzione, sia nella sua origine,
sia nella sua attività. Dal punto di vista della costituzione, l'ente corporeo risulta da due cause, la materia o
ciò di cui una cosa è fatta (causa materiale), e la forma, o ciò che determina la materia in una data specie
(causa formale). Dal punto di vista dell'origine, ogni ente dipende da una causa che, mediante un'azione fisica, gli dà l'esistere in atto (causa efficiente). Dal punto di vista del fine, ogni azione è ordinata a un fine determinato ch'essa si propone o verso il quale la dirige una causa superiore: il fine, sotto questo aspetto, è
dunque causa dell'azione (causa finale).
Queste quattro cause sono richieste dal divenire e costituiscono una divisione adeguata, in quanto esse bastano a spiegare il divenire. Infatti, rendono conto intrinsecamente dell'ente in divenire in quanto alla potenza
(causa materiale) e in quanto all'atto (causa formale), ed estrinsecamente, a titolo di principio dell'essere
(causa efficiente) e di termine della sua attività (causa finale). Per questo le due prime cause si chiamano
cause intrinseche e le due ultime, cause estrinseche.
Non ritorneremo qui sulla causalità materiale e sulla causalità formale, delle quali abbiamo già trattato lungamente nella Cosmologia (II, 76-97). Ci rimarranno dunque da studiare soltanto la causa efficiente e la
causa finale, cui aggiungeremo la causa esemplare, che ha valore di causa efficiente e insieme di causa finale, pur ricollegandosi essenzialmente alla causalità formale.
2. ANALOGIA DEL CONCETTO DI CAUSA - La causalità è dunque un aspetto dell'essere, nel senso che
la causa non è altro che l'ente stesso in quanto principio di un altro ente (sostanziale o accidentale). Ne consegue che la causa è, come l'essere, una nozione analogica, cioè: ogni causa è causa realmente e propriamente, ma in modo proprio, essenzialmente diverso in ciascuna. Qui si tratta dunque di una analogia di proporzionalità.
Art. II – La causa efficiente
§ 1 - Concetto dell'efficienza
254 - 1. DEFINIZIONE - La causa efficiente va definita come «il principio estrinseco del mutamento» o,
ancor più precisamente, come ciò per opera di cui qualche cosa è (id a quo aliquid est). La causa efficiente
differisce essenzialmente dalle cause intrinseche (materiale e formale), che sono relative alla costituzione interna dell'ente e non alla sua esistenza. Essa differisce altresì essenzialmente dalla causa finale. Questa è,
senza dubbio, principio del mutamento e ciò per cui qualche cosa è, ma a titolo affatto diverso dalla causa
efficiente, poiché essa è l'idea o intenzione del mutamento da attuare, mentre la causa efficiente è ciò che
produce o attua il mutamento.
La definizione della causalità efficiente come «principio estrinseco del mutamento» deriva da Aristotele
(Metaph., V, c. 2, 1013 a 24) ed ha l'inconveniente di non includere il caso della creazione propriamente detta dell'essere (concetto estraneo al sistema aristotelico). La creazione, infatti, non è, nel senso proprio della
parola, un mutamento, perché essa non comporta che un solo termine positivo (cioè, il terminus ad quem, che
è l'essere creato), mentre invece il cambiamento richiede due termini positivi (a quo e ad quem, II, 30). Tuttavia, se vogliamo considerare la creazione come un mutamento metafisico, la formula aristotelica riprende
l'universalità richiesta.
2. FORME DELL'EFFICIENZA - L'efficienza può essere solo operazione (o atto secondo) dell'agente
(179), poiché, per essere agente, bisogna anzitutto essere, puramente e semplicemente (atto primo).
D'altra parte sappiamo che quest'atto secondo può essere di due specie: esso può essere o una attività transitiva, in quanto questa produce qualche cosa in un ente distinto dall'agente (azione propriamente detta), o
una attività immanente, che ha per termine la perfezione propria dall'agente. Questa attività immanente dipende propriamente dalla categoria della qualità, poiché si identifica di fatto con la perfezione (o qualità)
ch'essa produce. Tuttavia è anche qui il caso di ammettere, come in quello della causalità transitiva, che v'è
passaggio (o movimento) tra i due termini distinti, cioè tra la potenza operativa (o facoltà) e la sua operazione attuale, cioè che v'è un passaggio dalla potenza all'atto, che richiede, per essere attuato, una causa estrinseca alla potenza operativa. È proprio questa la ragione per cui dicevamo più sopra (251) che il principio
omne quod movetur si applica strettamente alla potenza attiva.
§ 2 - Divisione dell'efficienza
255 - La causa efficiente si divide essenzialmente in causa principale e strumentale.
A. CAUSA PRINCIPALE E CAUSA STRUMENTALE
1. DEFINIZIONI - La causa principale è quella che agisce per propria forza. D'altra parte siccome ogni
causa principale agisce in virtù di una determinazione (o forma), connaturale o acquisita, ma che le è sempre
intrinseca, ne consegue che la causa principale può essere definita come quella che agisce per la sua propria
forma (per formam sibi inhaerentem).
La causa strumentale, in quanto tale, agisce, non per la sua propria forma o la sua propria forza, ma in
quanto essa è mossa da un altro. Parliamo qui della forma strumentale come tale, poiché la causa strumentale può avere essa stessa una attività propria, indipendentemente dall'uso che possa farne la causa principale.
Infatti, una causa efficiente può essere, sotto differenti aspetti, causa principale e causa strumentale: il muratore è causa strumentale al servizio dell'architetto per la costruzione di una casa; ma egli stesso è causa principale in rapporto ai diversi lavori che esegue per mezzo degli attrezzi del suo mestiere, o anche in rapporto
ai manovali o braccianti ch'egli direttamente comanda. Ma, in quanto causa strumentale, egli è mosso (governato e diretto) dalla causa principale (architetto) e non esercita un'attività propria. Così diciamo che lo
strumento è un «motore mosso» (movens motum).
256 - 2. RAPPORTO DELLE DUE CAUSE
a) Specificità dello strumento. Uno strumento, una volta costruito (sega, martello, macchina), o formato
(caso dei lavoratori specifici: muratore, tipografo, elettricista, ecc.), possiede un carattere di determinazione
propria e di attività fondamentale definita. Esso è da se stesso determinato come strumento, ma rimane indeterminato in quanto all'operazione (con una sega si può fare in pezzi un albero, fare panche, costruire un tavolo; un muratore può costruire un muro, aprire una finestra, fabbricare una casa). Lo strumento, per conseguenza, limita l'attività dell'agente principale alla sua determinazione specifica (con una sega si può solo segare; con i muratori, come tali, non si può eseguire una sinfonia); «l'arte di fabbricare, dice Aristotele, non
scende nei flauti».
b) Comunanza dell'azione. L’azione è comune alla causa principale e alla causa strumentale, ma sotto aspetti differenti. Essa è tutta intera, ma non totalmente (tota, sed non totaliter) effetto della causa strumentale: la casa è tutta intera prodotto dell'attività dei muratori, dei falegnami, dei carpentieri, ecc.; ma non lo è
totalmente, perché il piano della casa non è opera loro. Per contro, l'azione è tutta intera e totalmente effetto
della causa principale, in quanto questa determina e dirige tutta l'attività della causa strumentale.
Da ciò deriva che l'effetto somiglia alla causa principale e non alla causa strumentale: lo stile della casa
rivela l'architetto e non il muratore; Tuttavia, esso può anche portare il marchio dello strumento, nella misura
in cui questo ha esercitato la sua propria attività congiuntamente all'azione della causa principale: così possiamo riscontrare, in una costruzione, la maniera propria di questo o quel muratore (Agens agit sibi simile).
3. CAUSA ESSENZIALE; CAUSA ACCIDENTALE - La causa, sia principale, sia strumentale può essere
causa per sé (o essenziale) o causa per accidente (causa accidentale). La prima è quella che produce l'effetto
proprio al quale essa è ordinata: per es. l'operazione chirurgica che guarisce il malato. La seconda è quella
che produce un effetto al quale essa non è ordinata: così l'operazione chirurgica può talvolta provocare complicazioni impreviste e anche la morte del paziente (che, in questo caso, muore guarito!). L'effetto della causa accidentale, al contrario di quello della causa essenziale, non ha dunque ragione di fine, giacché esso si
produce al di fuori delle intenzioni dell'agente: vedremo più avanti che il caso è una causa di questo genere.
B. CAUSA PRIMA E CAUSA SECONDA
257 - 1. DEFINIZIONI - La causa principale può essere causa prima o causa seconda, secondo ch'essa sia
principio primo o principio mediato dell'azione. Per ciò stesso, ogni causa principale è prima in certo modo,
e ogni causa prima è necessariamente causa principale. Egualmente, ogni causa seconda è strumentale in
rapporto alla causa prima dalla quale essa dipende. Sotto un altro rapporto, può però essere essa stessa causa
principale, al modo stesso come la causa prima può essere prima soltanto sotto un rapporto definito ed essere insieme causa seconda sotto un altro rapporto. Vedremo che Dio solo è causa assolutamente prima e in-
dipendente; tutte le altre cause non agiscono se non in dipendenza da Dio, Causa prima universale, e, come
tali, sono soltanto cause seconde.
Le dottrine occasionalistiche sostenute, sotto forme diverse, dai nominalisti medioevali, e, in seguito, da
Cartesio, Leibniz e Malebranche, considerano Dio, non soltanto come la Causa prima universale, ma come la
Causa unica: l'attività degli enti finiti non sarebbe una vera causalità, ma soltanto l'occasione per Dio di produrre da solo gli effetti che loro si attribuiscono248. È chiaro su quale equivoco si fondino queste dottrine. Gli
enti finiti agiscono sicuramente solo in dipendenza da Dio e dal suo concorso, poiché Egli è Causa prima universale nell'ordine dell'essere e dell'agire. Essi tuttavia hanno causalità propria alla stessa stregua in cui
hanno essere proprio. L'azione infatti segue l'opera (operatio sequitur esse): essa è misurata dall'essere e ne è
la conseguenza e la manifestazione. Bisogna dunque attribuire all'ente finito una efficienza proporzionata al
suo essere, dipendente come questo, sebbene altrettanto reale. Negare questa efficienza significherebbe negare l'essere stesso della creatura, e confonderlo con l'Essere divino.
258 - 2. CAUSA UNIVOCA E CAUSA ANALOGA - Alcune cause hanno effetti che loro sono univoci,
cioè della medesima specie di esse stesse; altre hanno con i loro effetti solo un rapporto di analogia. Questa
differenza è quella che rende conto del grado di universalità della causa.
a) Fondamento dell'univocità causale. L'ordine di dipendenza dell'effetto in rapporto alle cause strumentale
e principale regola la distinzione della causalità in univoca e analoga. Infatti, la causa principale seconda
(cioè in un ordine dato) può produrre solo effetti univoci a se stessa: così l'uomo genera l'uomo, e il sole fa
germogliare le piante e muovere gli animali249. L'effetto può essere solo univoco alla causa principale, poiché
questa, essendo nello stesso tempo, per ipotesi, causa seconda, cioè strumentale, in rapporto a una causa superiore, agisce effettivamente solo in quanto strumento, il quale, come abbiamo visto, è limitato a una data
specie di attività.
Per contro, la causa principale prima produce un effetto analogo, cioè di specie differente, che le somiglia
soltanto sotto qualche rapporto: la specie dell'effetto è determinata dalla causa seconda, ma è contenuta eminentemente, ciò è sotto una forma più perfetta, nella causa prima. Appunto perciò non si può, in questo caso,
concludere dalla natura dell'effetto alla natura della causa se non con la riserva dell'analogia.
259 - b) Causa particolare e causa universale. Da quanto precede è chiaro che la causa univoca è particolare, nel senso ch'essa è limitata agli effetti di una data specie. Ciò è valido anche nei riguardi della causalità
meccanica. La generalità che spesso le attribuiamo è solo un'apparenza, che risulta dal suo carattere molto
più condizionale che causale: la sua causalità reale si limita agli effetti meccanici; gli altri effetti (per esempio, la corrente di energia chimica che si trasforma, nell'essere vivente, in energia fisiologica) implicano l'intervento di cause specificamente differenti, unicamente condizionate dall'energia meccanica. Così dobbiamo
affermare che ogni causa univoca, qualunque essa sia, essendo solo causa parziale o strumentale, è causa che
l'effetto sia prodotto, cioè causa nell'ordine del divenire, ma non causa che l'effetto sia esistente, cioè causa
nell' ordine dell'essere250.
Per contro, quando la causa principale escluda l'univocità con i suoi effetti e comporti in questi un rapporto
di analogia, essa possiede una vera universalità. Questa universalità non può evidentemente appartenere in
tutta la sua ampiezza se non alla Causa assolutamente prima nell'ordine dell'essere e dell'agire.
San Tommaso mutua da Aristotele un argomento di natura metafisica per stabilire che una causa univoca
non può essere causa totale, ma soltanto causa strumentale. Se la causa univoca, egli dice, fosse causa totale
del suo effetto, essa sarebbe, per definizione, causa della specie stessa. Per conseguenza, essa sarebbe causa
di se stessa, poiché essa costituisce solo una parte della specie. Ciò è assurdo. La causa univoca non è dunque realmente causa se non del divenire o del fieri, e non causa dell'essere251. Essa è propriamente solo una
condizione.
C. CAUSA FISICA E CAUSA MORALE
260 - 1. LA CAUSA FISICA - Chiamiamo causa fisica quella che agisce mediante un influsso fisico. Tuttavia non bisogna intendere per «influsso fisico» un'attività d'ordine sensibile e materiale, ma soltanto un influsso reale. In realtà, questo influsso è propriamente d'ordine metafisico, poiché esso ha come effetto il far
passare dalla potenza all'atto: ma esso si esercita per mezzo di un'azione reale.
2. LA CAUSA MORALE - Il termine influsso fisico serve soprattutto a opporre l'efficienza che procede
da un'azione propriamente detta all'efficienza della causa morale, che consiste soltanto nel determinare moralmente un agente ragionevole a esercitare la sua propria attività. La causa morale, così intesa, è solo impropriamente chiamata causa efficiente, e si rapporta piuttosto alla causalità finale.
§ 3 - Analisi dell'efficienza
261 - Possiamo tentare di addentrarci maggiormente nella nozione dell'efficienza, determinandone le condizioni più generali.
1. LA CAUSA AGISCE SOLO IN QUANTO ESSA È IN ATTO - La causa è infatti la ragione della perfezione o dell'essere che si trova nell'effetto. Essa deve dunque possedere, in quanto tale, quella perfezione (o
quell'essere) ch'essa comunica, poiché il più non può provenire dal meno, né l'essere dal nulla.
2. LA CAUSA NON SI MUTA IN DIPENDENZA DALL'AZIONE ­ Infatti la causalità, come tale, non
dice altro se non l'atto di produrre qualche cosa, il che, di per sé, non implica alcuna passività nell'agente.
Sennonché bisogna spingersi ancor oltre e dire che l'esercizio della causalità esclude il mutamento nella
causa, poiché l'attività e la passività non possono coesistere sotto lo stesso rapporto: se la causa, in quanto
tale, subisse una modificazione, essa sarebbe passiva e insieme attiva, ciò che sarebbe contraddittorio.
Questo principio non esclude il mutamento accidentale, che accompagna l'esercizio della causalità finita.
La causa finita, infatti, non si identifica con la sua azione: essa è dapprima in potenza a questa e, per conseguenza, ogni agire implica in essa passaggio dalla potenza all'atto, cioè mutamento. Questo mutamento tuttavia non è la causalità: esso ne è solo la condizione necessaria. D'altra parte, è certo che l'agente corporeo è
sempre modificato nell'esercizio stesso della sua attività causale, per la reazione del soggetto sul quale esso
agisce (così il martello si riscalda battendo; la palla muta direzione nell'urtare un'altra palla). Tuttavia, l'agente non è modificato in quanto agisce, ma in quanto subisce esso stesso un'azione di ritorno (o reazione) dalla
parte del paziente. Dunque veramente anche in questo caso l'agente, in quanto tale, non subisce alcun mutamento: se in esso si produce qualche mutamento, non è in quanto esso agisce, ma in quanto esso «patisce».
Una causa efficiente che fosse unicamente causa, senza ricever niente o «patire» da parte di qualche altra
causa, rimarrebbe sempre assolutamente identica a se stessa.
262 - 3. L'AZIONE È NEL PAZIENTE - Il termine azione è preso qui nel senso di effetto prodotto. Come
tale, l'azione è nella causa solo come nel suo principio; il suo termine è nel paziente che riceve una modificazione e non è affatto al di fuori del paziente. Infatti, non si deve concepire l'azione come una realtà intermediaria tra la causa e l'effetto, cioè come una sorta di emanazione o di flusso tra quella e questo: abbiamo visto che l'azione non modifica l'agente, ciò che esclude l'ipotesi di una realtà fisica che dalla causa debba passare nell'effetto. D'altronde, una realtà intermediaria, che non fosse né nella causa né nell'effetto e sussistesse
di per sé, sarebbe una cosa (o sostanza), mentre l'azione è evidentemente solo un accidente.
L'azione può dunque aver realtà solo nel paziente, cioè essa costituisce, con la passione, una sola e medesima realtà (actio est in passo). Causare non è altro che produrre una nuova forma di essere: l'azione, nella
sua ragione formale, non dice niente di più che un ordine di origine secondo cui una cosa procede da una
causa. Da ciò consegue che se azione e passione non designano che una sola e medesima realtà, esse non
cessano dall'opporsi formalmente l'una all'altra: la prima significa una relazione al paziente, la seconda una
relazione all'agente. Così, dice Aristotele, la strada da Atene a Tebe è, materialmente, la stessa cosa che la
strada da Tebe ad Atene; ma andare da Atene a Tebe non è la stessa cosa che andare da Tebe ad Atene (III
Phys.. c. 3).
263 - 4. L'EFFETTO PREESISTE NELLA CAUSA - Questo assioma formula il principio di unione tra la
causa e l'effetto: Questa unione implica non soltanto che l'effetto preesiste virtualmente nella causa, ma anche che vi preesiste in un modo più perfetto ch'esso non esista in se stesso, cioè in quanto concretato in atto.
a) L'effetto preesiste nella causa. Questa asserzione è evidente e si dimostra per assurdo: se la causa non
possedesse virtualmente tutta la perfezione dell'effetto, questo verrebbe dal nulla, l'essere procederebbe dal
non essere. Senza dubbio, l'effetto non preesiste in atto nella causa, come una cosa in un'altra: nella causa
non v'è niente che non sia causa e l'effetto esiste in atto solo al di fuori della causa, cioè nel paziente (actio
est in passo), ma esso preesiste nella causa, in quanto precisamente essa ha la potenza di produrlo (causatum
est in causa per modum causae), ciò che definisce la preesistenza virtuale.
b) L'effetto è più perfetto nella causa che non in se stesso. Questa asserzione potrà dapprima stupire, giacché l'effetto, una volta attuato, sembra avere più essere o più perfezione dell'effetto, il quale non esiste ancora
se non in potenza nella virtù della causa: è più perfetto esistere anziché essere semplicemente possibile. Invero questo punto di vista consiste nel considerare l'effetto preesistente indipendentemente dalla sua causa, come se esso preesistesse altrimenti che nella potenza di questa. In realtà, l'effetto, prima d'esser prodotto, non
è altro che la causa in quanto potenza di produrlo, e, attuato, non è che un aspetto parziale della perfezione
della causa, una partecipazione e una imitazione di quella perfezione causale. In quella, esso ha dunque più
perfezione che in se stesso, ciò che torna a dire come la causa sia necessariamente più perfetta dell'effetto.
Da ciò consegue che se un effetto è della stessa natura della causa (caso degli effetti univoci: l'uomo genera
l'uomo; il sole fa germogliare la pianta; la scintilla provoca un'esplosione), la causa non è causa totale dell'effetto, ma soltanto causa parziale o strumentale.
264 - 5. DISCUSSIONE SULLA RELAZIONE CAUSALE
a) Causalità e identità. L'affermazione della preesistenza dell'effetto nella causa non può essere ridotta a
quella dell'identità dell'effetto con la causa, contrariamente a quanto ne pensa Leibniz, che stima un fenomeno spiegabile e razionale solo nella misura in cui vi sia eguaglianza tra la causa e l'effetto. (Cfr. particolarmente l'opuscolo De calculo philosophico e la Correspondance avec Arnauld, in Die philosophischen Schriften von G. W. Leibniz, a cura di G. J. Gerhardt, 7 voll., Berlino, 1875-90)252. «L'effetto integrale è sempre
equivalente a una causa piena». Da questa teoria conseguirebbe immediatamente che il mutamento è solo
apparenza, il che costituiva appunto la tesi essenziale che Parmenide deduceva dallo stesso principio (21).
Questa concezione è stata ripresa da Hamilton, il quale scrive (Lectures on Metaphysics, 6a ed., Londra,
1877, t. II, p. 394) che il principio di causalità si riduce all'affermazione di una «tautologia assoluta tra l'effetto e le sue cause». «Noi pensiamo, egli dice, che la causa contiene tutto ciò che è contenuto nell'effetto e
che l'effetto non contiene alcunché che non sia contenuto nella causa». Ciò in realtà non implica alcuna «tautologia»; noi possiamo ammettere che l'effetto non possieda niente che non sia nella causa, senza che ne
consegua che la causa non possieda niente che non sia nell'effetto. Hegel, che Hamilton cita, aveva affermato puramente e semplicemente l'identità della causa e dell'effetto; «Non v'è niente, egli dice, nella ragione
che non si trovi nella conseguenza, e niente nella conseguenza che non si trovi nella ragione». Hamelin
(Eléments principaux de la représentation, 2a ed., Parigi, 1925, pp. 221-223) ha vivamente criticato questa
teoria: «Bisogna mostrare, egli scrive, che la causalità rende conto (salvo a intendersi sul senso di questa espressione di render conto) sia della conservazione di qualche cosa attraverso l'opera della relazione causale
sia della comparsa di qualche cosa di nuovo. Tralasciare il secondo oggetto per attenersi al primo è assolutamente impossibile». La teoria di Hamilton, egli conclude, è «tanto grossolana quanto primitiva».
Meyerson, dal canto suo, s'è dedicato a mostrare che questa riduzione all'identico è il tipo ideale di spiegazione cui aspirano le scienze della natura (cfr. De l'explication dans les sciences, Parigi, 1921, t. I, p. 127 sg.,
pp. 170, 179). Il principio di causalità, nell'ambito delle scienze, si ridurrebbe dunque al principio di identità.
Il punto di vista scientifico qui è fuori questione, poiché esso concerne il piano empirico, che non è quello
della ricerca metafisica. Vi sarebbe sofisma puro e semplice se si concludesse da un ordine all'altro. Infatti, le
«cause» di cui tratta la scienza sono, a rigor di termini, condizioni o antecedenti e non cause autentiche. Ciò
permette e giustifica il processo di identificazione del conseguente con l'antecedente, poiché l'uno e l'altro
sono ridotti alla quantità e sono considerati solo sotto questo aspetto quantitativo (I, 165). Questo è il regime
dell'univocità radicale e assoluta, la quale, per definizione, implica identità di natura tra causa ed effetto e,
per conseguenza, nel campo di ciò ch'è positivo, identità quantitativa tra il conseguente e l'antecedente. Da
questa identità quantitativa, tuttavia, non abbiamo il diritto di concludere senz'altro all'identità totale: essa
implica soltanto che conseguente e antecedente, per quanto differenti essi possano essere tra di loro, sono ridotti a effetti misurabili che permettano di identificarli tra loro sotto questo aspetto.
Se lasciamo da parte il punto di vista scientifico per considerare la questione sotto, il suo aspetto filosofico,
diremo che il principio di causalità non si riduce al principio di identità, ma che esso è garantito dal principio di non contraddizione, in quanto la sua negazione è contraddittoria. Esso consiste così poco nell'affermare l'identità tra causa ed effetto, che anzi pone la distinzione essenziale di questi due termini. Non consiste
neanche nell'affermare l'equivalenza tra la causa (propriamente detta) e l'effetto, poiché implica invece l'eminenza della causa in rapporto all'effetto. L'effetto, sotto un certo senso, è meno della causa, poiché esso ne
procede; tuttavia, esso è qualche cosa di nuovo, ma questa novità è anzitutto nella causa stessa, in quanto essa produce in atto ciò che conteneva solo virtualmente. La causalità dunque è altra cosa dall'identità. Il negare che quanto comincia ad essere abbia una causa sfocia nella contraddizione: se un ente può cominciare a
esistere da se stesso, ne consegue che esso è prima di essere, cioè esso è e insieme non è sotto il medesimo
rapporto. È per questo altresì che la nozione di un «ente contingente senza causa è inintelligibile: l'ente contingente, per definizione, è, come tale, indifferente a essere o a non essere; se esso è, è solo in virtù di un ente
distinto da esso; ché se fosse da se stesso, non sarebbe più contingente253.
b) Causa e funzione. Meyerson (Essais, Parigi, 1936, p. 28 sg.) distingue due tipi di causalità: la «causalità
scientifica,., che è di tipo funzionale, e la «causalità teologica», che è di tipo volontaristico (cioè del genere
dell'atto di volontà, che produce un mutamento esteriore). Divisione tuttavia molto contestabile, poiché se la
causalità di tipo volontaristico risponde veramente alle esigenze della causalità (che è essenzialmente produzione di qualche cosa di nuovo), non altrettanto si può dire della funzione. Molto più generale della nozione
di causalità, essa significa un ordine di dipendenza qualsivoglia tra due termini: la relazione causale è una
sorta di funzione, ma ogni funzione non è di natura causale: nel ragionamento, la conclusione è funzione, ma
non effetto, delle premesse (per contro, la formulazione della conclusione è propriamente un effetto dell'apprensione delle premesse); parimenti, l'effetto è funzione delle sue condizioni o dei suoi antecedenti; ma le
condizioni non sono cause reali dell'effetto: io non posso pensare senza cervello, ma il cervello non è causa
del pensiero. Non v'è dunque da scegliere tra queste due concezioni della causalità, perché non vi sono due
tipi di causalità. D'altra parte, non sembra, contrariamente a ciò che pensa Maine De Biran, che lo sforzo volontario sia al principio del concetto di causa: questo concetto pare imposto più generalmente dal mutamento,
il quale è intelligibile solo in virtù dell'operare delle cause.
§ 4 - La subordinazione nella efficienza
265 - Quanto precede ci ha già imposto il concetto di un ordine della causalità. Infatti, le cause di uno stesso ente sono molteplici, ma sono necessariamente subordinate tra loro, altrimenti esse non produrrebbero un
effetto, ma effetti radicalmente molteplici. Sono i modi diversi di questa subordinazione delle cause che ci
rimangono da esaminare onde concludere lo studio della causalità.
A. COORDINAZIONE E SUBORDINAZIONE
1. LE CAUSE PARZIALI - La causalità efficiente non comporta unicamente, tra le differenti cause che
concorrono alla produzione di un effetto, relazioni di subordinazione. Su un primo livello di efficienza, le
cause possono essere semplicemente coordinate tra loro: così avviene per i soldati di un esercito o anche per
i cavalli che tirano una carrozza. Queste cause sono coordinate tra loro in quanto ciascuna produce un effetto
proprio e gli effetti prodotti da ciascuna debbono associarsi o combinarsi per attuare l'effetto totale (la vittoria o il movimento della carrozza). Queste cause coordinate, che sono ciascuna causa totale di una parte
dell'effetto, sono dunque solo cause parziali relativamente a questo effetto.
2. COORDINAZIONE IMPLICA SUBORDINAZIONE - L'azione delle cause così coordinate può spiegarsi solo mediante la sua subordinazione all'azione di una causa superiore che, avendo di mira l'effetto totale, assicuri il gioco concertato delle cause parziali. Queste, infatti, sono indipendenti le une dalle altre e possono concorrere a un effetto solo nella misura in cui la loro attività propria sia essa stessa unificata,ciò che
richiede la loro subordinazione a una causa efficiente distinta. Se mancasse questa subordinazione, l'effetto
sarebbe puramente fortuito. Ogni coordinazione implica dunque subordinazione.
Questo è per eccellenza il caso degli enti inorganici, le cui attività, non solo non dipendono le une dalle altre, in ragione stessa della passività che le caratterizza, ma ancora, prese insieme in un dato sistema, sono necessariamente coordinate dall'azione di una causalità superiore, che è propriamente quella dell'idea o forma
che definisce la loro natura. Appunto per questo Lachelier afferma giustamente che l'ordine naturale richiede
due princìpi distinti: «l'uno, in virtù del quale i fenomeni formano serie in cui l'esistenza del precedente determina quella del seguente: l'altro, in virtù del quale queste. serie formano a loro volta sistemi in cui l'idea
del tutto determina l'esistenza delle parti» (Du Fondement de l'induction, 2a ed., Parigi, 1896, p. 12) (I,
191).
B. DUE TIPI DI SUBORDINAZIONE
266 - Distinguiamo una subordinazione essenziale (per se) e una subordinazione accidentale (per accidens).
1. LA SUBORDINAZIONE ESSENZIALE - Vi può essere subordinazione essenziale delle cause o dal
punto di vista dell'azione, o dal punto di vista dell'essere della causa.
a) Quanto all'azione. Vi è subordinazione essenziale quanto all'azione, quando una causa dipenda, nell'esercizio stesso della sua causalità, dall'azione di una causa superiore. Così è, per definizione, di ogni causa
strumentale che, come tale, esercita la sua azione solo sotto la dipendenza attuale della causa principale: la
sega è mossa dalla mano del falegname; il muratore è mosso dall'architetto. Se dovesse mancare questa mozione della mano o dell'architetto, né la sega né il muratore (come tale) agirebbero. (Il muratore può essere
nello stesso tempo architetto; ma in questo caso egli è, come muratore, formalmente distinto dall'architetto
ch'egli è parimenti, e che determina l'attività di lui in quanto muratore).
b) Quanto all'essere. Una causa è essenzialmente subordinata all'altra quanto all'essere, quando essa dipenda da quest'altra, non soltanto nell'esercizio attuale della sua attività, ma anche nella sua esistenza attuale.
Solamente l'attività del muratore come tale dipende dall'architetto. Ma l'architetto e il muratore, in quanto esseri viventi che agiscono, dipendono in ogni momento della loro esistenza dall'influsso delle molteplici cause
e, in particolare, dall'energia solare, che condiziona l'esercizio delle loro attività vitali. Queste cause sono
chiamate prime, cioè prime in un ordine dato, poiché esse pure dipendono, nella loro attività causale e nella
loro esistenza attuale, da cause superiori a esse. Il problema è se la serie delle cause essenzialmente subordinate possa andare all'infinito.
267 - 2. LA SUBORDINAZIONE ACCIDENTALE - Questa subordinazione possiamo riscontrarla egualmente nell'ordine dell'azione e nell'ordine dell'essere.
a) Quanto all'azione. Una causa può dipendere da un'altra in un modo puramente accidentale nell'esercizio
della sua attività. Ciò accade ogni volta ch'essa dipenda sia da una condizione data, sia da una semplice occasione, sia infine dal caso, concetto che abbiamo già definito (252).
Abbiamo visto nella Logica (I, 126), che nelle scienze della natura, il concetto di causa si identifica con
quello d'un fenomeno o d'un insieme di fenomeni che condizionano regolarmente la comparsa di un altro fenomeno o di un altro gruppo di fenomeni. La causa è dunque qui soltanto. l'antecedente necessario (conditio
sine qua non) d'un fenomeno o d'un insieme di fenomeni e serve a designare solo un fatto generale o astratto
e non una vera relazione causale.
b) Quanto all'essere. Una causa dipende accidentalmente da un'altra nella sua esistenza, quand'essa si trovi
situata in una serie temporale in cui ogni termine sia effetto del precedente e causa del seguente. Tale è, per
esempio, la serie delle generazioni umane: l'attività causale di Pietro esiste di fatto solo perché Pietro è stato
procreato da Giovanni; egualmente, nell'ordine naturale, ogni fenomeno dipende nella sua realtà presente
dalla serie dei fenomeni che si sono succeduti nel passato per modo di causa e di effetto. Ma questa dipendenza è puramente accidentale, poiché Pietro non esercita la sua attività in quanto è figlio di Giovanni, ma
soltanto in quanto è uomo; egualmente un elettrone esercita la sua causalità propria indipendentemente dalle
cause da cui esso dipende nel passato.
C. LA QUESTIONE DEL PROCESSO ALL'INFINITO
268 - Le analisi che precedono mostrano come si ponga il problema del processo all'infinito. Se le cause
sono subordinate tra loro, essenzialmente e insieme accidentalmente, è concepibile che la serie delle cause
possa essere infinita, cioè tale che la regressione di causa in causa non si arresti mai a un primo termine che
debba risultare puramente e semplicemente causa e non effetto? Per risolvere questo problema, bisogna considerare successivamente il caso della subordinazione accidentale e quello della subordinazione essenziale.
1. L'INFINITO È POSSIBILE NELL'ORDINE ACCIDENTALE ­ Vi sarebbe infinitezza nell'ordine accidentale se la serie temporale e, per conseguenza, successiva delle cause e degli effetti (ogni effetto essendo a
sua volta causa di quello seguente) non avesse un termine primo. La regressione di una serie di quest'ordine
non sarebbe mai compiuta e non potrebbe mai esserlo. I filosofi si sono chiesti se questo concetto di infinito
successivo fosse realmente concepibile e non implicasse contraddizione. Aristotele la riteneva perfettamente
intelligibile e san Tommaso, dopo di lui, s'è mantenuto fermamente su questo punto di vista (cfr. l'opuscolo
De aeternitate mundi contra murmurantes)254, poiché, egli ritiene, non v'è niente nel concetto di causalità
successiva che esiga un inizio assoluto. Per il mondo è puramente accidentale essere eterno o non essere tale.
La sola obiezione che sia stata fatta contro questa opinione consiste nel dire che se la serie delle cause e
degli effetti fosse realmente infinita nel passato, essa sarebbe nello stesso tempo finita nel presente e in ogni
momento della durata, poiché ogni nuovo termine della serie aggiungerebbe a questa qualche cosa. In altri
termini, essa costituirebbe un numero infinito, ciò che è contraddittorio. Ma questa obiezione è una pura petizione di principio. Infatti la serie infinita non costituirebbe un numero, giacché, per ipotesi, non vi sarebbe
un primo termine né, per conseguenza, totale né numero. Perciò san Tommaso non esita ad affermare che
non vi sarebbe niente di contraddittorio nel concetto di un universo che fosse sempre esistito255.
L'obiezione che abbiamo discussa contro l'intelligibilità del concetto di un mondo eterno è stata formulata
da Kant come tesi della prima antinomia della ragion pura (Dialettica trascendentale, c. II, 2a sezione). Kant
intende mostrare, mediante ciò ch'egli chiama antinomie della ragion pura, che la ragione, quando voglia travalicare l'ordine dei fenomeni ed elevarsi a un uso trascendente, finisce necessariamente con l'affermare tesi
contraddittorie tra loro. Così la ragione proverebbe, secondo Kant, come il mondo sia necessariamente cominciato nel tempo, altrimenti la serie infinita dei fenomeni sarebbe attualmente finita (tesi), e insieme come
il mondo non possa avere avuto un principio nel tempo (antitesi). Infatti, scrive Kant, «ammettiamo che il
mondo abbia avuto un Principio: siccome il principio è una esistenza preceduta da un tempo in cui la cosa
non è, deve esservi stato un tempo in cui il mondo non era, cioè un tempo vuoto. Ora in un tempo vuoto, non
v'è nascita possibile di qualche cosa, poiché nessuna parte di questo tempo ha in sé, più di un'altra, una condizione distintiva dell'esistenza piuttosto che della non esistenza... Dunque può accadere che serie di cose
comincino nel mondo, ma il mondo stesso non può aver principio e, per conseguenza, esso è infinito in rapporto al tempo passato». Così, secondo Kant, la ragione dimostra altrettanto bene che il mondo ha cominciato e che non ha cominciato. La disgrazia di questa argomentazione è che essa costituisce un doppio paralogismo, poiché la ragione non dimostra né l'una né l'altra di queste tesi. L'abbiamo già stabilito per ciò che
concerne la tesi. Quanto all'antitesi, il sofisma consiste nel supporre che il mondo, se ha cominciato, sia stato
preceduto da un tempo vuoto. In realtà, se il mondo ha cominciato, il tempo ha cominciato con esso, poiché il
tempo, essendo solo la misura del movimento e della successione, è (logicamente) posteriore al movimento,
cioè al mondo, e non inversamente, come afferma Kant. Da ciò consegue che né la tesi né l'antitesi sono valide: l'esistenza del mondo astrae da ogni idea di inizio o di eternità256.
269 - 2. L'INFINITO È IMPOSSIBILE NELL'ORDINE ESSENZIALE - Abbiamo già dimostrato come si
possa concepire una serie infinita di cause seconde o strumentali, cioè accidentalmente subordinate tra loro
nell'esercizio stesso della causalità. Rimane il problema se una serie di questo genere, che non è contraddittoria in se stessa, possa dispensare dalla ricerca di una causa prima della causalità.
a) La causa prima. La risposta a questa questione è che l'ipotesi di una moltitudine infinita di motori mossi
non può dispensare dalla ricerca di una causa principale e prima della causalità per rendere conto della realtà stessa dell'efficienza. Infatti, siccome queste cause sono subordinate tra loro nell'esercizio della loro causalità, cioè attualmente subordinate e, per conseguenza, agiscono solo in qualità di strumenti, bisogna necessariamente che la loro efficienza abbia il suo principio in una prima causa non mossa, cioè che sia causa da
sé assolutamente. In caso contrario, non vi sarebbe affatto causalità: le entità subordinate spiegano la trasmissione dell'efficienza, ma non la realtà di questa.
b) La causa prima universale. La causa prima dovrà dunque essere al di fuori e al di sopra della serie delle
cause accidentalmente subordinate, poiché si trova al principio assoluto di una efficienza da essa prodotta
sovranamente e universalmente. Alla teodicea toccherà stabilire esplicitamente la realtà e la natura della
Causa prima universale. Ciò che qui dobbiamo mostrare, prima di tutto, è non soltanto che il concetto di una
prima causa immobile è intelligibile, ma anche che è la sola intelligibile quando si intenda correttamente l'idea di causalità.
Art. III – La causa finale
270 - Lo studio dei princìpi primi, in Psicologia (III, 474), ci ha già permesso di cogliere il senso e gli aspetti diversi della finalità. Ci rimangono qui da precisare, dal punto di vista metafisico, la natura e le specie
della finalità, nonché le nozioni di caso e di causa esemplare, che sono legate a quella della finalità.
§ l - Natura della finalità
A. CONCETTO
1. ORDINE DI ESECUZIONE E ORDINE DI INTENZIONE - Il fine, in generale, è «ciò in vista di cui
l'effetto è prodotto». Esso è dunque il termine dell'azione, nell'ordine di esecuzione (finis in re), e il principio
dell'azione nell'ordine di intenzione (finis in intentione), in quanto esso è ciò che determina la causa efficiente ad agire. Per quest'ultimo rispetto il fine è chiamato causa delle cause, in quanto è ciò che comanda tutta
la serie delle operazioni. Pietro vuole essere ingegnere: questo fine (intenzione) lo condurrà a certi studi, a
entrare in quella data scuola, a sottomettersi a certa disciplina di lavoro, a superare certi esami. Quando egli
avrà conquistato il titolo di ingegnere, il fine sarà conseguito e la serie di attività subordinate alla conquista
di quel titolo sarà nello stesso tempo finita. Il fine era dunque appunto primo nell'intenzione e terminale nell'esecuzione.
2. LA CAUSALITÀ DEL FINE - Come spiegare la causalità del fine, cioè la sua proprietà di muovere l'agente a produrre qualche cosa? Evidentemente il desiderio (o appetito) è al principio del movimento: proprio
perché io sono sollecitato da qualche cosa che mi appare come desiderabile, mi decido ad agire. Altrimenti,
l'azione sarebbe impossibile e inintelligibile: la psicopatologia ha sufficientemente mostrato come certe forme di depressione o d'impotenza ad agire (malinconie, psicastenie, nevrastenie) abbiano come causa prima
una sorta di incapacità nel prospettare gli scopi di agire, cioè i fini o oggetti desiderabili, nel campo della coscienza (III, 517).
Tuttavia la spiegazione deve essere spinta ancora più in là, poiché possiamo anche domandarci la ragione
del desiderio. Ora noi sappiamo, dalla psicologia dell'istinto (III, 272-273) e della volontà (III, 511), che
la tendenza e il desiderio sono messi in atto solo dall'apprensione di qualche oggetto che si presenti sotto l'aspetto del bene (sub specie boni), cioè, non necessariamente sotto l'aspetto del bene nel senso assoluto e trascendentale del termine, ma sotto l'aspetto del bene in quanto conveniente all'agente. Dunque il bene in
quanto desiderabile, costituisce fondamentalmente la ragione formale della causalità del fine. Perciò si affermano convertibili il fine e il bene.
B. INTELLIGENZA E FINALITÀ
271 - Le osservazioni che precedono legano la finalità all'intelligenza. Ora la finalità è universale e si riscontra, non soltanto negli enti intelligenti che concepiscono il fine dei loro atti, ma anche negli animali, il
cui istinto obbedisce a una finalità meravigliosamente precisa (III, 266-268), e anche, come abbiamo già
visto nella discussione del meccanicismo (II, 70-71), negli enti inorganici, le cui proprietà definite determinano la forma della loro efficienza. Per avere un concetto adeguato della finalità, dovremo dunque allentare
il legame che sembra unirla all'intelligenza? Vedremo che non è affatto necessario e che la finalità non può
spiegarsi in nessun caso senza ricorso all'intelligenza.
1. OGNI AGENTE AGISCE PER UN FINE - Questo assioma equivale all'enunciazione del principio di
finalità, il quale è evidente di per sé e si dimostra per assurdo. Se infatti l'agente non fosse determinato a
produrre un effetto definito, esso non produrrebbe una cosa piuttosto che un'altra, e tutta la sua attività dipenderebbe dal caso.
2. IL FINE COME TALE DEVE ESSERE CONOSCIUTO - Questa proposizione è egualmente evidente,
in ragione stessa dei suoi termini. Infatti, il fine esiste primariamente soltanto come intenzione o idea, cioè
esso ha realtà solo in una intelligenza: il fine come causa deve essere il fine conosciuto. La conoscenza del
fine è dunque la condizione sine qua non della causalità finale: questo rapporto stesso dell'idea dell'effetto da
produrre con la sua attuazione definisce propriamente la finalità.
D'altra parte, questa conoscenza del fine deve essere intesa strettamente come una conoscenza intellettuale,
poiché essa implica percezione del fine come tale e percezione dei mezzi adatti a conseguirlo. Ora questa
doppia apprensione non può essere effetto della conoscenza sensibile, che è limitata agli oggetti materiali e
non può cogliere rapporti intelligibili (III, 269).
272 - 3. I DUE TIPI DI ORDINAMENTO AL FINE - Il fine di ogni agente, sia intelligente o no, è definito dalla sua natura, o più precisamente ancora, dalla sua forma, giacché è la forma che situa un ente in una
specie o natura data (II, 87). Per questo motivo abbiamo detto più sopra che ogni agente agisce secondo ciò
ch'esso è257. Ora l'ordinamento ai fini propri della natura, non è opera propria dell'agente così come non è tale
la natura stessa: l'agente ha ricevuto il suo fine come ha ricevuto la sua natura e il suo essere. Il fine, così inteso, può essere dunque conosciuto e voluto solo dal pensiero creatore.
Tuttavia gli esseri intelligenti sono capaci di conoscere formalmente il fine della loro attività e di scegliere
i mezzi propri per assicurarne l'attuazione. Questa conoscenza e questa libertà di scelta fondano la loro responsabilità. In questo senso diciamo che essi si ordinano di per sé al loro proprio fine. Al contrario, gli agenti non ragionevoli, animali ed enti inorganici, tendono a un fine determinato solo in ragione dell'ordinamento inscritto nella loro natura. Questo ordinamento determina nello stesso tempo i modi della loro attività,
cioè i mezzi da impiegare per attuare il fine della natura, ed essi le ubbidiscono passivamente, gli uni (animali) sotto forma spontanea, gli altri (agenti inorganici), meccanicamente.
Dunque bisogna intendere la finalità come una realtà interna ed essenziale, la quale è propriamente la natura degli enti, poiché da questa natura risultano l'attività degli enti e l'ordine della natura. Ciò che noi chiamiamo l'«appetito naturale» non è altro che l'ordinamento fondamentale risultante dalla natura degli enti e
non implica alcuna specie di antropomorfismo (II, 86): ogni concetto di legge fisica sottintende la realtà di
un tale «appetito naturale», giacché essa significa che gli enti della natura manifestano proprietà definite e
determinazioni intrinseche, che le leggi mirano precisamente a enumerare solo sotto forma generale. Qui appare, come abbiamo spesso insistito, ciò che rende inintelligibile il puro meccanicismo, poiché esso non è da
se stesso un principio d'ordine, ma opera in alcune direzioni e sotto forme determinate che implicano l'influenza di una causalità superiore, la causalità di un'idea (forma o natura), e cioè precisamente la finalità.
4. LA CAUSALITÀ DELL'IDEA - Ed. Goblot (Traité de Logique, Parigi, 1918, pp. 329-367), pur riconoscendo che vi sono nel mondo fatti evidenti di finalità, in particolare quelli manifestati dalle funzioni vitali,
serie causali orientate verso un termine che è un bene258, afferma, da una parte, che questi fatti non giustificano in alcun modo l'asserzione universale che «tutto ha un fine», poiché se tutti i fatti hanno cause, molti
fatti sono senza scopo259, e d'altra parte, che l'intelligenza non è affatto essenziale alla finalità. Se è vero che,
nel mondo della finalità, vi è intelligenza, questa, dice Goblot, non è che uno dei modi della finalità: è il modo più economico e più sicuro, ma non il modo unico, poiché noi constatiamo che in molti campi l'attività
irrazionale procede a tentoni e a tentativi (III, 72), fino al momento in cui essa abbia ottenuto una soluzione
vantaggiosa. D'altronde, anche quando l'intelligenza intervenga nella finalità, essa vi opera come mezzo al
servizio di un bisogno; la finalità è messa in evidenza, quando sia stabilito che il bisogno di un vantaggio determini una serie di effetti tendenti a conseguire quel vantaggio. La finalità, conclude Goblot (p. 367), non è
dunque altro che «la causalità del bisogno».
Esaminiamo separatamente queste due difficoltà. La prima deriva dall'empirismo puro: è certo che se l'intelligenza non è la facoltà dell'universale (o dell'essere), nessuna affermazione di principio è legittima. Perciò
Goblot, come tutti gli empiristi, vede nei princìpi universali soltanto postulati o convenzioni pratiche. Abbiamo discusso questa posizione nella critica (137) e non vi ritorneremo qui. Osserveremo soltanto che, da
questo punto di vista, non solo il principio di finalità sarebbe in questione, ma la percezione stessa dei «fatti
di finalità», poiché questa percezione è essenzialmente quella di un rapporto tra due termini (termine iniziale
e termine finale, legati tra loro per via di un mezzo o di una serie di mezzi: Goblot, ibid., p. 337), e, come tale, è accessibile solo alla ragione metafisica. Inoltre, la formula del principio di finalità («tutto ha un fine»),
che Goblot propone e insieme rigetta, è assolutamente inesatta, poiché sta di fatto che, in un universo in cui
la materia introduce indeterminazione, molti fatti hanno cause senza avere un fine (caso). Così il principio
di finalità si enuncia nel seguente modo: «ogni agente agisce in vista di un fine», il che è del tutto differente
dalla formula proposta da Goblot.
Quanto alla seconda difficoltà, secondo la quale la finalità consisterebbe unicamente nel legame del bisogno con la sua soddisfazione (senza che l'intelligenza debba intervenire necessariamente), è chiaro ch'essa
costituisce solo una petizione di principio. Infatti, il bisogno è esso stesso uno strumento o un mezzo al servizio della vita, cioè al servizio di un piano ch'esso ignora, tanto che esso si definisce solo mediante il suo
termine, come i mezzi che utilizza si determinano essi stessi solo in funzione di questo termine. Altrimenti,
bisognerebbe dire che il bisogno riesca a soddisfarsi per caso e, per conseguenza, che vi sia, tra esso e il suo
termine, solo un rapporto accidentale e fortuito; conseguenza assurda, essendo il caso, per ammissione di
Goblot, la negazione della finalità. Ora, se vi è un piano, cioè se il bisogno è orientato e determinato dal suo
termine (cioè da un bene definito), ciò, lungi dall'escludere l'intelligenza, la implica, al contrario, necessariamente: tutto accade come se il bisogno conoscesse il suo termine e i mezzi con cui pervenirvi. Poco importa che talvolta la soddisfazione del bisogno risulti dal procedimento per «tentativi ed errori», poiché i tentativi sono essi stessi comandati da una certa «idea» del termine. Così riusciamo a spiegare la finalità con il
bisogno soltanto attribuendo implicitamente al bisogno l'intelligenza (o l'idea) da cui si crede esso ci dispensi. Concluderemo dunque che la finalità è realmente la causalità di un'idea e che essa è intelligibile solo da
un'intelligenza.
§ 2 - La subordinazione nella finalità
273 - Dato che la causalità efficiente non si spiega se non con la finalità, ogni coordinazione o subordinazione, nell'ordine dell'efficienza, implicherà coordinazione o subordinazione nell'ordine della finalità.
1. LE FORME DELLA SUBORDINAZIONE - Nella natura, gli enti inorganici rivelano una unità interna
che è retta dall'idea che essi attuano (natura o essenza): gli elementi o parti sono come i mezzi al servizio di
questa idea, che è il fine del tutto come tale (finalità interna). Nel regno animale, l'attività degli enti è determinata dalla loro natura, che definisce per ciò stesso l'insieme dei fini da essi perseguiti necessariamente,
senza conoscerli nella loro ragione di fini (III, 269). Da ultimo nell'uomo, i fini sono necessariamente compresi sotto la ragione del bene, poiché l'uomo, essere ragionevole, non può voler nulla se non sotto l'aspetto
del bene, appreso dall'intelligenza (III, 511). Proprio per questa conoscenza del bene come fine l'uomo si
distingue dagli animali, i quali tendono al loro bene sotto l'effetto di un cieco impulso, e a più forte ragione si
distingue dagli enti inorganici, il cui bene si confonde con l'integrità della loro natura o essenza, ed è solo un
bene oggettivo. Il concetto di fine è dunque, come quello di causa, un concetto analogico.
Vero è che i beni che si offrono all'uomo sono numerosi e diversi, e ne nasce per lui la possibilità di molteplici orientamenti della sua attività e insieme la necessità di ordinare tra loro i fini ch’egli si propone.
2. FINE DELL'OPERA E FINE DELL'AGENTE - Il fine dell'opera (finis operis) è oggettivo: è il fine al
quale l'opera è ordinata dalla sua stessa natura: così l'elemosina è, di per sé, destinata ad alleviare la miseria
del povero. Il fine dell'agente (finis operantis) è soggettivo e risiede nell'intenzione: colui che fa l'elemosina
può tendere o ad alleviare la miseria, o a ottenere una reputazione lusinghiera di generosità. Quando il fine
dell'agente non coincida con il fine dell'opera, questa non ha più formalmente ragione di fine, ma diventa un
semplice mezzo.
3. FINE PRINCIPALE E FINE SECONDARIO - Dal punto di vista dell'intenzione, i fini particolari possono essere semplicemente coordinati. Un uomo può fare l'elemosina col doppio proposito di alleviare la miseria e di obbedire al precetto divino della carità. Egli può, in generale, con un medesimo atto, aver di mira
simultaneamente l'ubbidienza al dovere (bene onesto), l'approvazione (bene dilettevole) e l'utilità (bene utile): questo è il caso del soldato che combatte coraggiosamente perché è il suo dovere, perché ama la lotta in
cui spiega tutte le sue energie, e infine perché mira ad ottenere una distinzione, un avanzamento o una decorazione. Questi fini possono essere perseguiti insieme senza essere esplicitamente subordinati. Anche se v'è
subordinazione a un fine principale, per esempio al dovere, gli altri fini non sono puri mezzi, perché essi costituiscono beni reali, sebbene necessari e accessori, mentre il puro mezzo (gli arnesi, il danaro) non ha, come
tale, ragione di fine: esso è, per definizione, ciò che vale solo per un'altra cosa. Quando vi sia subordinazione
a un fine principale, è formalmente questo che muove l'agente.
274- 4. FINE MEDIATO E FINE ULTIMO - I fini particolari, sia principali che secondari, sono soltanto
fini mediati, cioè soltanto il principio prossimo dell'azione. Essi dunque non bastano a se stessi, ma sono necessariamente subordinati a un fine che, a rigor di termini, non è più principale, ma ultimo o assoluto. Questo
fine, abbiamo detto, è il bene o la perfezione propria dell'agente. Tutti gli altri fini sono particolari e strumentali relativamente a questo fine ultimo.
§ 3 - Il caso
A. CONCETTO
275 - Noi diciamo correntemente di alcuni avvenimenti ch'essi sono «effetti del caso». Così avviene quando un oggetto fragile, rovesciato dal gatto, cada senza spezzarsi su un cuscino dimenticato per terra, oppure
quando Pietro, che ha bisogno di danaro, incontri inopinatamente per la via il suo debitore, o anche quando
un contadino, zappando un campo, scopra un tesoro che non supponeva e che nemmeno cercava. Si considera dunque il caso come una causa, però di un genere speciale, che comporta un doppio aspetto, oggettivo e
soggettivo.
1. IL CASO, DAL PUNTO DI VISTA OGGETTIVO - Abbiamo definito più sopra la causa accidentale
come quella che produce un effetto il quale si aggiunga accessoriamente, senza esser voluto né previsto, a
effetti che ci sia proposti per se stessi. Il caso è una causa di questo genere, in quanto il suo effetto risulta
dall'incontro accidentale di due serie di cause indipendenti. Il gatto giocava con un oggetto fragile e il cuscino sul quale cadde quell'oggetto era in terra solo per effetto di una dimenticanza. Pietro attendeva ai suoi
affari senza pensare al suo debitore che, da parte sua, pensava a tutt'altra cosa che al suo creditore. Il contadino si curava solo di piantare un albero, e colui che aveva nascosto il suo tesoro mirava soltanto a metterlo
al sicuro dai ladri. Il caso produce dunque un effetto che non ha ragione di fine.
Talvolta qualcuno aggiunge a questa definizione: un effetto che si produce solo di rado, per la considerazione che un avvenimento dotato di ragione di fine non può essere qualificato come fortuito solo per questo
motivo. Se Pietro avesse incontrato ogni giorno il suo debitore nello stesso luogo, l'incontro, il giorno in cui
egli avesse avuto bisogno di danaro, non avrebbe avuto più nulla di fortuito. Tuttavia noi crediamo che un
avvenimento di questo genere rientri pur esso nel caso, poiché si tratta (per ipotesi) dell'incontro di due serie
causali indipendenti: la regolarità dell'incontro, che lo rende prevedibile, non muta niente nel carattere fortuito dell'avvenimento.
2. IL CASO DAL PUNTO DI VISTA SOGGETTIVO - Sebbene il punto di vista oggettivo sia di per se
stesso sufficiente a caratterizzare il caso, alcune considerazioni dedotte dalla conoscenza pratica hanno indotto Aristotele a introdurre il punto di vista soggettivo260. Infatti, non tutti gli avvenimenti imprevisti e accidentali sono considerati come fortuiti. Quando io sono in giro per i miei affari, incontro inopinatamente molte
persone senza che per questo io pensi a parlar di caso. Nemmeno noi parliamo di caso a proposito delle foglie o dei frutti che il vento fa cadere dagli alberi. Noi invochiamo il caso solo quando l'avvenimento somigli
a un effetto naturale o intenzionale: così diciamo che per caso un tale, in un giorno di forte vento, ha ricevuto
una tegola sulla testa, che tal altro è stato fulminato sotto l'albero dove s'era riparato dal temporale, che un
amico ha guadagnato alla lotteria una considerevole somma. Il caso è dunque caratterizzato, dal punto di vista soggettivo, dall'apparenza della finalità.
276 - 3. DEFINIZIONE - La definizione metafisica del caso ci sembra che dovrebbe escludere ogni riferimento a un aspetto soggettivo, il quale è puramente accidentale (anche se sia il più vistoso). Per questo diremo che il fortuito (o effetto del caso) è un puro incontro o un puro risultato di fatto, dipendente da una causa accidentale (cioè che non è preordinata a produrlo)261.
Quando si tratti di effetti fortuiti che, secondo l'espressione di Aristotele, «appartengano al genere delle cose suscettibili di essere scelte» (II Phys., c. 6), cioè rientrino nel dominio dell'attività pratica dell'uomo e abbiano le apparenze della finalità, il caso prende il nome di buona o avversa fortuna,
B. CASO E INTELLIGIBILITÀ
277 - 1. CONDIZIONI ASSOLUTE DEL CASO
a) L'indeterminazione causale. Da quanto precede, risulta che il caso non ha spiegazione al di fuori delle
serie causali che vengono a interferire. Indubbiamente, non si può domandare perché Pietro abbia incontrato
il suo creditore a tal punto del suo percorso, né perché il contadino abbia scelto, per piantare un albero, il
punto esatto in cui il tesoro era nascosto. È evidente tuttavia che in ciò non vi sono cause distinte da quelle
che hanno mosso separatamente Pietro e il suo debitore in movimento, o da quelle altre che hanno determi-
nato, un tempo, a nascondere un tesoro nel sito dove un contadino, cento anni più tardi, doveva decidere di
piantare un albero. In altri termini, nessuna necessità spiega il caso: l'interferenza delle serie causali non dipende da una causa ordinata di per sé a questa interferenza; essa è indeterminata e questa indeterminazione è
il caso stesso. (Cfr. S. Tommaso, Ia, q. 115, a. 6; Phys., II, lect. 7-10).
Sarebbe possibile, è vero, osservare che, risalendo la serie intera delle cause determinate, la cui interferenza abbia prodotto l'effetto fortuito, si potrebbe ricondurre il caso alla necessità. Questa è nondimeno un'illusione, perché bisogna pure che il regresso riesca e si arresti alla fine a termini che comportano di per sé una
certa in determinazione, cioè a termini suscettibili di effetti molteplici262.
b) Il principio radicale dell'indeterminazione. Le ragioni che hanno reso possibile il caso si riallacciano al
fatto che gli avvenimenti i quali hanno prodotto l'effetto fortuito si collocavano l'uno e l'altro nel medesimo
universo e nella medesima categoria, senza di che l'incontro non sarebbe stato evidentemente possibile.
Possiamo ancora spingerci più oltre e dire che quanto, nel mondo inorganico, rende il caso radicalmente
possibile, è soltanto la materia, in quanto principio di contingenza. Il gioco della natura, tanto negli enti individui che nel complesso, comporta tutta una parte di indeterminazione assolutamente irriducibile, in ragione della materia. (Cfr. S. Tommaso, Metaph., VI, lect. 2, n. 1185-1186). In un universo puramente spirituale,
potrebbe esserci buona o cattiva fortuna, cioè evento imprevisto felice o infelice, ma non puro caso, cioè
coincidenza accidentale dovuta a una causa indeterminata.
278 - 2. RELATIVITÀ DEL CASO - Sembra che il caso sia soprattutto funzione della nostra ignoranza
delle serie causali. Indubbiamente, come abbiamo già visto, esso è legato a una indeterminazione oggettiva,
ma per una Intelligenza che tenesse sotto il suo sguardo tutti gli eventi, tanto contingenti che necessari, dell'universo, non vi sarebbe più caso. Si potrebbe persino concepire che il caso, come tale, abbia la sua propria
finalità, se si supponesse che esista, non soltanto una Intelligenza capace di vedere l'insieme di tutte le serie
causali e di tutte le determinazioni reali degli enti, ma anche un Potere infinito, che governa tutto l'universo
come principio primo dell'essere e dell'agire. Vedremo che questa è appunto la definizione della Provvidenza
divina. Da questo punto di vista, tutti gli eventi fortuiti rientrano nell'ordine voluto da Dio, e ciò che è caso
al livello empirico, rispetto agli uomini, è disegno rispetto a Dio. (Cfr. S. Tommaso, Ia, q. 116, a. 1).
§ 4 - La causa esemplare
279 - l. DEFINIZIONE - Chiamiamo causa esemplare il modello interiore secondo il quale un agente produce la sua opera. Ogni agente intelligente è infatti guidato nella sua opera da un'idea della cosa da attuare.
Chiamata con diversi nomi: tipo, ideale, piano, forma, schema, in ogni caso, essa è una specie di modello di
cui l'agente si sforza di produrre all'esterno una rassomiglianza quanto più perfetta possibile. Questo modello
è sempre una idea o una immagine, anche quando la cosa da imitare sia un oggetto esteriore (per esempio, un
paesaggio o un volto per un pittore), poiché l'oggetto esterno è modello solo nella misura in cui esso diventa
idea: essa sola è la vera causa esemplare dell'opera. Così ci spieghiamo come lo stesso paesaggio e lo stesso
volto, per esempio, possano essere all'origine di quadri tanto diversi: questi non dipendono immediatamente
dal paesaggio o dal volto in se stessi, ma dal modo come li vedono i diversi pittori, cioè dalla rappresentazione ch'essi se ne formano; i quadri sono dipinti secondo questa rappresentazione.
Il modello interiore secondo il quale l'opera è prodotta è dunque propriamente una forma, in quanto esso
definisce anticipatamente la forma dell'opera da attuare. Questa forma però è detta estrinseca, in contrasto
con la forma intrinseca costitutiva dell'ente.
2. CAUSALITÀ DELL'IDEA ESEMPLARE - L'idea esemplare è una vera causa, poiché essa determina
realmente il modo di attività dell'agente. Possiamo anche dire che, sotto certi aspetti, essa è la prima di tutte
le cause, poiché nessuna causa efficiente agisce se non è determinata da essa. Per la stessa ragione è necessaria e universale, giacché ogni attività può esercitarsi solo secondo un tipo anticipatamente concepito: la natura stessa deve essere considerata come determinata tutta intera secondo i modelli delle idee divine, di cui gli
enti sono imitazioni e partecipazioni.
È chiaro così quali siano i rapporti tra la causa finale e la causa esemplare. Insieme, esse sono una sola e
medesima realtà, di cui rappresentano ciascuna un aspetto distinto. Infatti, l’idea della cosa da produrre, considerata dal punto di vista della finalità, cioè sotto l'aspetto del bene, è ciò che determina ad agire, mentre la
stessa idea, considerata come modello, cioè come forma della cosa da produrre, determina il modo di attività
dell'agente.
§ 5 - La causalità reciproca
280 - 1. NATURA - Due cause possono, in certi casi, esercitare l'una sull'altra una causalità mutua
(Causae sunt ad invicem causae). È il caso che noi abbiamo già riscontrato, quando trattavamo dell'ente corporeo che, producendo il suo effetto, subisce un'azione di rimando da parte del paziente (la palla che ne urta
un'altra è causa del movimento di quest'ultima, che, a sua volta, è causa, per esempio, del cambiamento di
direzione della palla che l'ha messa in movimento). La stessa cosa può prodursi nell'ordine spirituale: il maestro che insegna è causa della scienza nel discepolo, ma le domande che pone quest'ultimo, man mano che
riceve le lezioni del maestro, istruiscono il maestro su alcuni punti ch'egli non aveva scorti o abbastanza approfonditi: dunque, quanto al sapere, si dà causalità reciproca tra maestro e discepolo.
Questi esempi mostrano che la causalità reciproca può esistere solo tra cause di specie differente e produce effetti distinti. Se infatti le cause fossero della stessa specie, esse non potrebbero agire l'una sull'altra,
poiché, per ipotesi, sarebbero entrambe nell'atto della stessa realtà. D'altra parte, esse non possono produrre
lo stesso effetto, poiché agiscono l'una sull'altra: dunque vi sono necessariamente due effetti distinti.
2. SPECIE - La causalità reciproca si verifica, da una parte, tra la causa efficiente e la causa finale, dall'altra parte tra la materia e la forma.
a) Causa efficiente e causa finale. La causa efficiente è quella che consegue il fine: l'architetto è causa efficiente della casa, fine della sua attività. Reciprocamente, però, il fine è causa dell'efficienza, poiché esso appunto determina l'agente all'azione. L'efficienza è dunque causa del fine in quanto all'essere di questo e il fine è causa dell' efficienza, in quanto all'esercizio di questa.
b) Materia e forma. La materia e la forma, essendo coprincipi intrinseci dell'essere corporeo (II, 78), sono
cause reciproche dal punto di vista dell'essere. La forma è infatti ciò per cui la materia è in atto questa o
quella materia specificamente determinata (legno, marmo, acqua, sangue); la materia è il soggetto della
forma sostanziale, vale a dire ciò per cui essa può sussistere.
LIBRO TERZO
TEODICEA
INTRODUZIONE
281 - È stato Leibniz ad introdurre per primo il termine teodicea per designare un trattato inteso a difendere la divina giustizia contro le obiezioni tratte dall'esistenza del male (θεοϋ δίκη)263.
A poco a poco, il termine «teodicea» è stato usato per indicare l'insieme delle questioni filosofiche relative
all'esistenza ed alla natura di Dio. È esattamente ciò che Aristotele intendeva sotto il nome di teologia e gli
Scolastici sotto il nome di teologia naturale, cioè la scienza di Dio ottenuta con le sole risorse della ragione
naturale. Il termine di teodicea, in se stesso ambiguo, può essere tuttavia conservato senza inconvenienti, in
base alla convenzione che ormai lo ha reso sinonimo di teologia naturale. Esso ha pure il vantaggio di eliminare ogni confusione tra la teologia naturale e la teologia che assume i suoi princìpi dalla Rivelazione. Definiremo dunque la teodicea come la scienza filosofica di Dio. È necessario tuttavia precisare questa definizione e quindi collocare la teodicea nel contesto sulla linea di sviluppo della metafisica.
§ 1. - Teodicea e metafisica
282 - 1. IL PROBLEMA DELLA CAUSA PRIMA - Il concetto di Dio che sta all'inizio della teodicea evidentemente può essere accolto, sotto pena di circolo vizioso, solo a titolo di ipotesi. In altri termini, esso non
fa che enunciare una definizione nominale. Dobbiamo dunque adottare un metodo che non pregiudichi anticipatamente alcun risultato. Inizialmente infatti si tratta di ricercare la causa dell'essere universale. L'intero
metodo della teodicea sarà in funzione di questa ricerca così definita e delle condizioni che essa implica per
essere efficace. Sono puramente e semplicemente queste condizioni a definire il metodo della metafisica generale, in quanto essa tende a stabilire l'intelligibilità dell'essere, nelle sue cause prime e nelle sue ragioni assolute (16).
La teodicea non ha dunque un metodo particolare, poiché il suo oggetto proprio e immediato non è Dio, ma
la causa dell'essere. Se partiamo dal concetto di Dio, lo facciamo semplicemente nel senso che questo concetto definisce il problema della causa prima: esso indica la forma della ricerca, ma non la sua soluzione. Il
concetto di Dio che noi elaboriamo non può essere che un'esplicitazione razionale di ciò che il concetto di
causa prima dell'essere universale implica necessariamente.
283 - 2. NATURA DEL METODO - Il nostro metodo sarà dunque sperimentale e razionale insieme, come
quello della metafisica.
a) Metodo sperimentale. Partiamo dall'essere in generale, quello di cui l'ontologia ci fornisce il concetto, le
proprietà, le categorie e le leggi universali. Il nostro metodo affonda con ciò stesso le sue radici in piena esperienza, poiché proprio nel sensibile l'intelligenza coglie l'essere e le sue ragioni più generali, valide analogicamente per tutto ciò che è o che può essere. Siamo inseriti fin dal principio nel reale, nel senso più stretto
del termine, cioè al di là di tutte le determinazioni che sono solo aspetti o elementi dell'essere, mentre l'universale è ciò che in ogni ente vi è di più interiore e di più profondo.
Del resto, in realtà, non si tratta di uscire dall'esperienza, cioè di trascendere quell'essere universale, che è il
reale stesso. È dal di dentro che noi cerchiamo di cogliere la testimonianza che la causa prima rende a se
stessa, nell'essere e nella coscienza, in modo che sarà necessariamente in funzione dell'essere (sub ratione
entis), di cui è il Principio primo, che noi conosceremo Dio in teodicea. Solo la Rivelazione ci permette di
trascendere l'essere dell'esperienza e di conoscere Dio in se stesso: sebbene ciò sia possibile solo «per
speculum et in aenigmate», attraverso una conoscenza oscura, discorsiva e mediata. Questo punto di vista lascia in sospeso la questione su quale sia la natura dell'esperienza di cui si occupa la teodicea, cioè il modo
proprio in cui la Causa prima si rivela a noi. Qui sappiamo soltanto una cosa, cioè che, ponendo nell'essere il
suo punto di partenza, il nostro metodo richiede semplicemente la sottomissione o 1'assenso alle esigenze
razionali inscritte in seno all'essere264.
b) Metodo razionale. Nessuna obiezione di principio può valere contro l'uso del ragionamento o del metodo a priori. Perfino i filosofi che fanno conto su di una intuizione di Dio, devono confessare che Dio così rivelato alla coscienza non manifesta chiaramente allo spirito la sua natura e le sue proprietà. In ogni modo bisogna dunque argomentare al fine di esprimere e di precisare tutte le ricchezze racchiuse nella conoscenza
iniziale di Dio come causa e principio universale. Tutti, in realtà, riconoscono in sé l'incapacità di una intui-
zione immediata e diretta dell'Essenza infinita di Dio. Il metodo a priori s'impone dunque a partire dalla scoperta di Dio, come Principio primo. - D'altronde, bisogna riconoscere, come in ontologia, ch'esso rimane interiore in certo modo all'esperienza originale, di cui non fa che spiegare o sviluppare il contenuto intelligibile: esso stesso costituisce soltanto un altro aspetto dell'assenso all'essere e della sottomissione alle condizioni
assolute della sua intelligibilità.
§ 2. - La scienza di Dio
284 - Possiamo ora precisare in quale senso la teodicea si presenti come la scienza filosofica di Dio.
1. LA TEODICEA COME SCIENZA - La teodicea è una vera scienza, ossia un sapere razionale necessario o un sistema di conclusioni logicamente dedotte da premesse certe. Pertanto si tratta innanzi tutto di distinguere la teodicea nello stesso tempo dalla opinione, dall'esperienza mistica e dall'arte, con le quali spesso
la si confonde.
a) La certezza in teodicea. L'opinione, per definizione, è ciò che esclude la certezza e comporta solo una
probabilità più o meno grande (III, 449). La teodicea, al contrario, tende alla certezza assoluta e nulla, a
priori, può opporsi a questa ambizione, se non dei pregiudizi d'ordine metafisico, di cui la critica e l'ontologia hanno stabilito il carattere arbitrario e sofistico e che dovremo discutere nuovamente nella loro applicazione alla ricerca teologica.
Si potrebbe persino ritenere che tra tutte le scienze la teodicea sia quella che, di diritto, fonda le conclusioni
più sicure, poiché essa concerne un ordine di ricerche in cui il pensiero è insieme il più reale, in quanto volgendosi all'essere, esso si volge a ciò che vi è di più concreto e di più pieno nell'esperienza, ossia a ciò che
trascende tutte le astrazioni e tutte le determinazioni, - ed anche il più libero, cioè il meno intralciato nel suo
moto naturale, essendo il suo oggetto il più intelligibile di tutti e quello che gli è il più proporzionato265.
b) Il sistema razionale. La teodicea non è, propriamente parlando, una esperienza di Dio. Con ciò, non vogliamo affatto pregiudicare alcuno dei risultati della nostra ricerca, ma soltanto constatare che, in ogni modo,
bisogna distinguere la scienza dall'esperienza: anche se una esperienza di Dio, come alcuni pensano, stesse
alla base della nostra affermazione di Dio, tuttavia pure una simile esperienza non sarebbe sufficiente per costituire la teodicea come scienza. Né Malebranche, che sostiene la teoria della visione in Dio, né Bergson,
che si fonda sull'esperienza mistica, pretendono di fermarsi qui. L'esperienza può essere, se esiste, un punto
di partenza: essa non basta in teodicea più che nelle scienze positive. Si può senza dubbio, come fanno alcuni
pensatori (Schleiermacher), negare ogni possibilità di conferire un contenuto razionale autentico all'esperienza di Dio, ma ciò equivale a negare la teodicea, non solo come disciplina scientifica, ma altresì come sapere
simpliciter.
c) La scienza speculativa. Infine, la teodicea non ha per oggetto diretto e proprio l'attività pratica. Certamente, l'affermazione di Dio ha, nell'ordine dell'azione, conseguenze di grande importanza. Tuttavia la teodicea in se stessa è puramente speculativa: essa tende a definire ciò che è e non ciò che deve essere.
285 - 2. LA TEODICEA COME SCIENZA DI DIO - C'è tuttavia qualche difficoltà nell'espressione
«scienza di Dio», se non altro quando s'intende il termine scienza, nel senso soggettivo, come la conoscenza
certa delle cose attraverso le loro cause ed i loro princìpi266. Noi cerchiamo infatti di conoscere la causa prima dell'essere, e, proprio per definizione, sarà impossibile dedurre o concludere questa causa da alcunché di
anteriore ad essa. In questo senso non v'è scienza di Dio.
Alcuni filosofi vanno oltre e affermano che in nessun senso v'è scienza di Dio, almeno propriamente parlando. Infatti, essi dicono, non Dio ma l'essere in generale è l'oggetto della teodicea: Dio è considerato in essa solo in quanto causa prima dell'essere267. Sembra tuttavia che questa opinione comporti qualche esagerazione. È vero, senza dubbio, che la teodicea è soltanto una parte della metafisica e che Dio vi è considerato
solo come causa prima dell'essere. Sennonché, il fatto appunto di conoscerlo come Causa prima e Principio
universale ci introduce già molto avanti nella conoscenza (analogica) dell'essenza infinita di Dio e ci conduce
così ad elaborare un sistema razionale che, per la sua certezza e per il suo rigore, merita veramente il nome
di scienza.
3. DIVISIONE - La teodicea comprende due parti principali: la prima concerne la dimostrazione dell'esistenza di Dio; la seconda è relativa alla natura di Dio ed agli attributi divini.
PARTE PRIMA
L'ESISTENZA DI DIO
Alla base di tutte le nostre speculazioni e di tutte le nostre ricerche, non ci può essere che un problema, che
è quello dell'esistenza di Dio. Esiste Dio e, se esiste, qual è la sua natura? Ecco la questione delle questioni,
quella che tutte le altre preparano e che è impossibile evitare, non solo da un punto di vista filosofico e tecnico ma dal punto di vista più largamente umano. Tutta la nostra vita ne dipende, dovendo risultare il senso
della nostra esistenza radicalmente modificato in base alla risposta che noi daremo al problema dell'esistenza
e della natura di Dio. Prima di affrontare la dimostrazione dell'esistenza di Dio, conviene dapprima sapere se
questa dimostrazione è possibile e necessaria. Ora, infatti, si è preteso a priori che ogni prova di dimostrazione fosse condannata anticipatamente e non potesse avere che un carattere sofistico. Ora, invece, si è affermato che la prova dell'esistenza di Dio è radicalmente inutile, poiché l'esistenza di Dio sarebbe una di
quelle evidenze assolute che sfidano la dimostrazione con la loro stessa chiarezza. Soltanto posteriormente
potremo affrontare le diverse prove dell'esistenza di Dio.
CAPITOLO PRIMO
DIMOSTRABILITÀ DELL'ESISTENZA DI DIO
SOMMARIO268
Art. I - POSSIBILITÀ DELLA DIMOSTRAZIONE DELL'ESISTENZA DI DIO. L'idea di Dio - Definizione nominale - Origine dell'idea di Dio ­ La dimostrazione dell'esistenza di Dio è possibile? - Causalità e
trascendenza - Causalità e frazionamento.
Art. II - NECESSITÀ DELLA DIMOSTRAZIONE. Esiste una intuizione di Dio? - Il tradizionalismo Argomento del consenso universale - Realtà e valore del consenso universale - L'ontologismo - Argomenti
dell'ontologismo - Discussione - L'esistenza di Dio è immediatamente evidente? L'argomento ontologico Discussione - L'argomento ontologico nella storia.
Art. I – Possibilità della dimostrazione dell'esistenza di Dio
286 - Non si può affrontare il duplice problema della possibilità e della necessità di una prova o di una dimostrazione dell'esistenza di Dio, prima di aver definito ciò di cui si parla quando si usa il termine Dio. Ricercare se Dio esista e, se esiste, qual sia, e chiedersi innanzitutto se questa ricerca non sia vana, suppone evidentemente che noi abbiamo già nello spirito un certo concetto di Dio, diversamente la nostra indagine sarebbe completamente impossibile, poiché non si può discutere su ciò di cui non si sappia assolutamente nulla. Dobbiamo dunque iniziare col precisare il concetto di Dio che sta all'inizio delle nostre indagini.
§ 1 - L'idea di Dio
A. DEFINIZIONE NOMINALE.
1. LA PAROLA DIO - Etimologicamente, l'origine della parola Dio Ξεός, Deus) è molto incerta. La radice
di θεός sembra essere, o θες, che indica l'atto di pregare (cfr. il verbo difettivo θέσσασθι, implorare), - o il
radicale θες, che significa porre, fondare (cfr. τίθημι). - Molti filologi fanno derivare la parola Ξεός da dhwesos (in indo-europeo, spirito), che deriverebbe dal radicale dhwes, che significa respirare. ­ D'altra parte, il
radicale El, nelle lingue semitiche (Elohim presso gli Ebrei, al-llah, Allah presso gli Arabi) richiama l'idea di
potenza e di forza.
2. IL CONCETTO DI DIO - Conviene distinguere qui di Dio una nozione comune ed un concetto filosofico e tecnico.
a) La nozione comune. Per quanto siano incerte le etimologie della parola Dio nelle diverse lingue, esse richiamano sempre l'uno o l'altro degli attributi che costituiscono la nozione comune di Dio, cioè quella di un
Essere supremo, distinto dal mondo che egli governa con la sua potenza e che merita il rispetto e gli onori
degli uomini.
Senza dubbio, a prima vista, potrebbe sembrare che vi sia scarso rapporto tra il Dio dei Semang di Malacca, il Dio dei Veda, il Dio di Aristotele, il Dio dei cristiani e il Dio di Spinoza. Questa difficoltà tuttavia è più
apparente che reale.
Poiché, innanzitutto, le concezioni filosofiche e, per così dire, tecniche di Dio sono il risultato di un lungo
lavoro di elaborazione e, sotto questo aspetto, si trovano alla fine e non all'inizio della ricerca filosofica. In
secondo luogo, vi è una nozione di Dio, più intuitiva che dialettica, più sintetica che analitica, che sembra essere di gran lunga la più comune e la più universalmente diffusa nello spazio e nel tempo, in quanto essenzialmente legata anche alle diverse forme religiose che si spartiscono l'umanità. Questa nozione si riscontra
spesso inserita in racconti mitologici che vivono d'essa parassitariamente, lasciandone però trasparire gli elementi essenziali, che sono ovunque gli stessi e che si possono ridurre ai tre seguenti: Dio è un essere vivente e dotato di personalità, - è causa del mondo, - è autore della legge morale. La religione propriamente detta compare quando l'uomo, innalzatosi all'idea di un Assoluto, si sente in dipendenza personale da questo Assoluto, che riveste da allora i caratteri della trascendenza, della potenza e della perfezione, in una parola, della Maestà.
È ciò che hanno dimostrato le ricerche così numerose svolte sull'evoluzione dell'idea di Dio nell'umanità.
Rudolf Otto stabilì, sulla base di indagini etnologiche, che la nozione di sacro o di santo, che riassume il sentimento comune degli uomini di fronte a Dio, non può essere ridotta al sentimento postulato da una forza cosmica anonima e impersonale. Dio è per l'uomo il Santo (sanctum) e questo sentimento della santità comporta un duplice aspetto. Innanzitutto il Santo incute rispetto, venerazione, profonda umiltà: da lui dipende il
mio destino. Sotto questo aspetto, egli è il Tremendum, il Dio terribile, di fronte al quale l'uomo prova angoscia. D'altra parte, tuttavia, il Santo esercita sull'uomo una attrazione, una specie di fascino, poiché egli è il
bene e la fonte di ogni bene. Egli è pure il Fascinosum269. Questa disposizione di fronte al Santo costituisce
un complesso i cui elementi non possono ridursi a disposizioni più elementari (desiderio, timore, ecc.). È un
sentimento originale e irriducibile, quello che la nozione comune di Dio esprime. (Cfr. R. Otto, Das Heilige,
Breslavia, 1917; cfr. tr. it. Il sacro, di E. Buonaiuti, Bologna, 1926).
b) Il concetto filosofico. Il concetto filosofico di Dio non aggiunge nulla di essenziale alla nozione comune,
la quale è talmente universale, che esso si limita a precisarla, qualunque siano d'altronde le formule più o
meno adeguate che servono ad esprimerlo, come tutti i filosofi si siano sforzati di far quadrare con essa tutte
le definizioni che ce ne proponevano. Queste possono riassumersi così: Dio è l'Essere infinitamente perfetto,
esistente per sé e Causa prima di tutto ciò che è. L'esistenza necessaria, - la perfezione infinita, - la causalità
universale, - la trascendenza assoluta: questi sono dunque gli elementi essenziali del concetto filosofico di
Dio.
B. ORIGINE DELL'IDEA DI DIO.
287 - 1. CAUSA E OCCASIONE - Molti sociologi contemporanei, influenzati dal postulato positivistico,
si sono sforzati di spiegare l'origine dell'idea di Dio mediante una trasformazione progressiva di nozioni essenzialmente diverse nella loro forma primitiva, da quella che oggi è richiamata dalla parola di Dio. Le teorie
su questo punto sono svariatissime. Per Taylor (Primitive culture, Researches into the Development of Mithology, Religion, Art and Custom, Londra, 1872), il concetto di Dio sarebbe da collegare alla credenza negli
spiriti, che deriverebbe a sua volta dalla credenza in un doppio del corpo, più sottile di questo. Marett (The
Threshold of Religion, Londra, 1909), ritiene che l'idea di forza cosmica impersonale (Mana) costituisca la
prima forma dell'idea di Dio. Spencer (Principles of Sociology, Londra, 1900) riprendendo la vecchia teoria
evemerista (sostenuta da Evemero, fine del IV secolo a. C.), s'appella al contrario al culto degli antenati
(manismo). S. Reinach (Orpheus, Parigi, 1909) nel concetto di Dio non vede che l'ultima incarnazione dell'idea di Tabù. Per Durkheim (Les formes élémentaires de la vie religieuse, Parigi, 1912), l'idea di Dio sarebbe
soltanto una personificazione della società e deriverebbe dal totemismo primitivo.
Senza entrare qui nella discussione di queste teorie, che abbiamo già incontrate in Psicologia (III, 617621) e che sono, dal punto di vista dei fatti, tanto inconsistenti quanto arbitrarie, rileveremo solamente che
esse procedono da una riduzione arbitraria dell'ordine logico all'ordine storico. L'idea di Dio può avere ed
ha di fatto cause accidentali svariatissime: la sua origine concreta è legata alle circostanze della vita individuale e sociale. Essa proviene per noi anzitutto dalla famiglia e dalla società. Queste tuttavia sono puramente
occasioni, che non bastano a rendere adeguatamente ragione dell'idea di Dio più di quanto lo insegnamento
della morale, nella famiglia e nella scuola, basti a spiegare il rispetto e la pratica del bene. Esse in realtà
spiegano solo le forme, spesso imperfette, che il concetto di Dio riveste, secondo i luoghi e le epoche. La
causa propriamente detta dell'idea di Dio è d'ordine del tutto diverso, poiché essa appare costantemente legata ad un insieme di intuizioni profonde che la dimostrano come fondata ed insieme necessaria per una spiegazione del mondo, per dare un senso alla vita umana, per giustificare il dovere e l'obbligazione morale, per
soddisfare le esigenze del cuore umano. Se dunque c'è una evoluzione dell'idea di Dio attraverso le epoche,
quest'idea, propriamente parlando, non è il risultato delle trasformazioni descritteci, ma piuttosto il principio
di queste trasformazioni: dapprima nascosta, in certo modo, in tutto un insieme di nozioni confuse, l'idea di
Dio si svincola a poco a poco dalle concezioni che ne vivevano parassitariamente, per affermarsi nella sua
pienezza e nella sua perfezione formali. In altri termini, non è l'evoluzione a spiegarla, ma è essa a spiegare
la evoluzione.
288 - 2. UNIVERSALITÀ DELL'IDEA DI DIO - Si sono avuti popoli privi di credenza in un Essere supremo? Per l'addietro si era pensato di aver trovato popoli siffatti tra le tribù del sud-est dell'Australia e presso gli indigeni della Terra del Fuoco. Le ricerche svolte tuttavia in questa direzione hanno infirmato simile
opinione270. Così pure per quanto concerne i Semang di Malacca, i Negritos delle Filippine, i Negrilli dell'Africa equatoriale, le tribù della California centrale. Presso i Negri d'Africa si constata l'esistenza della credenza di un Essere supremo, creatore universale. Sennonché, scrive Delafosse (Les Noirs d'Afrique, Parigi,
1922), essi si disinteressano di quest'Essere supremo, poiché pensano di non riuscire a mettersi in comunicazione con lui e che lui stesso si disinteressi della sorte delle sue creature. Appunto quest'assenza di culto esterno ha ingannato spesso per l'addietro i viaggiatori e perfino i missionari ed ha fatto concludere che i selvaggi dell'America del Nord non riconoscevano alcuna Divinità, giacché non avevano templi, sacerdoti e sacrifici.
Quanto all'asserita esistenza di «religioni atee», su cui si basa Durkheim riferendosi al buddismo ed al giainismo, è un'affermazione tra le più contestabili. Infatti, per quanto concerne il buddismo, si ammette sempre
meno che esso costituisca una religione senza Dio. Questa opinione si fonda su apparenze transitorie e secondarie, poiché è certo che fin dalle origini del buddismo i buddisti hanno riconosciuto l'esistenza di enti
superiori all'individuo, che furono dapprima gli antichi dèi dei bramani. A poco a poco si diffuse il culto di
Budda e dei santi, ma questi non tardarono a identificarsi con una entità suprema, il Nirvana: ora Grousset
(Les philosophies indiennes, Parigi, 1931) e L. De La Vallée­Poussin (Le Dogme de la philosophie du
Bouddhisme, Parigi, 1930) hanno dimostrato che esso, per un gran numero di buddisti, equivaleva all'essenza
inaccessibile di Dio. Quanto al giainismo, rivale del buddismo, esso non è una religione propriamente detta,
almeno all'origine, ma essenzialmente una forma d'ascesi e un metodo per sfuggire al male dell'esistenza.
§ 2 - E possibile la dimostrazione dell' esistenza di Dio?
289 - L'oggetto della nostra ricerca è dunque ben definito, dalla idea comune e universale di Dio ed insieme dal concetto filosofico di Dio: si tratta della esistenza di un Essere supremo, causa prima dell'universo.
Vogliamo sapere se questo concetto sia fondato nell'esperienza e nella ragione, cioè se l'essere universale
possa spiegarsi adeguatamente unicamente ricorrendo ad una Causa prima così definita. Tuttavia, appunto il
principio stesso di questa ricerca, cioè la possibilità di fornire una soluzione, risulta fin dall'inizio posto in
questione. Alcuni filosofi hanno infatti preteso che ogni tentativo di dimostrazione fosse condannato a priori
come essenzialmente paralogico. Dobbiamo dunque cominciare con l'esaminare gli argomenti proposti per
stabilire questa tesi negativa. Sotto le diverse forme assunte, questi argomenti possono essere ridotti a due
principali, l'uno che nega e l'altro che afferma la possibilità di fare validamente un uso trascendente del principio di causalità.
A. CAUSALITÀ E TRASCENDENZA
Le obiezioni che mettono in causa l'uso del principio di causalità si presentano sotto due differenti forme,
tendenti entrambe a stabilire come il ragionamento causale divenga sofistico non appena voglia oltrepassare
l'ordine dei fenomeni.
1. LA CRITICA DI KANT.
a) Il postulato empiristico. Sotto la sua forma radicale, l'obiezione che nega la portata trascendentale del
ragionamento causale per stabilire l'esistenza di Dio è stata sviluppata da Kant nella Critica della ragion pura. Kant nega universalmente che la ragione possa oltrepassare l'ordine fenomenico. Su questo punto, non
dobbiamo riprendere qui una discussione che è stata fatta nella critica (113-120), in cui abbiamo dimostrato
che la dottrina kantiana si fonda su di un postulato gratuito e falso, di natura empiristica: cioè sulla impossibilità per la conoscenza di cogliere qualcosa di diverso dal sensibile. Kant da questo postulato deduce immediatamente che tutte le concatenazioni, le serie naturali e l'ordine che ci appaiono nei fenomeni derivano da
forme a priori della sensibilità e dell'intelletto. Quindi, tutte le prove razionali dell'esistenza di Dio si presentano prive di valore e in realtà esprimono soltanto esigenze della nostra struttura mentale, ma non esigenze
oggettive, nel senso proprio di questo termine271. Qui sono dunque in questione gli stessi princìpi della critica
kantiana e le difficoltà che concernono la dimostrazione dell'esistenza di Dio valgono per quanto valgono
questi princìpi, che sono sofistici.
290 - b) Il metodo d'analogia. Tuttavia nella critica kantiana bisogna sottolineare un aspetto che interessa
in modo particolare la dimostrazione dell'esistenza di Dio. È quello che contesta il valore del metodo di analogia. Il ragionamento, secondo Kant, avrebbe valore solo operando su concetti rigorosi. Ora nessuno dei nostri concetti, né quello di essere, né quello di causa, può applicarsi propriamente a Dio, poiché questi concetti
hanno una validità solo nell'interno della nostra esperienza, mentre l'Essere infinito o la Causa prima, se esiste, è necessariamente trascendente ogni nostra esperienza.
Contro questa obiezione, basta dimostrare che il principio di causalità, qual è usato da noi, serve esclusivamente ad esigere una causa dell'universo, e ciò proprio in virtù di quanto dell'universo cogliamo sperimentalmente, e in nessun modo a definire ciò che è o dev'essere in sé questa causa. Sappiamo anzi che potremo
parlare di una tale Causa, considerata nella sua natura di Causa, solo con la riserva dell'analogia, cioè di un
modo di pensiero in cui le cose di cui parliamo sono simili solo proporzionalmente a quelle che concepiamo
traendole dalla nostra esperienza. Tutto è dunque perfettamente corretto nel nostro uso del principio di causalità, poiché il concetto analogico di causa, che si riscontra in tutte le prove dell'esistenza di Dio come termine medio, designa, non la causalità quale esiste nell'ordine empirico, ma ciò in cui questa causalità dell'ordine creato è proporzionalmente simile ad una causalità di un altro ordine essenzialmente diverso. È dunque
certo che i concetti messi in esercizio dal ragionamento, ad esempio i concetti di essere e di causa, non possono applicarsi univocamente a Dio ed alla creatura. Che dedurne tuttavia? Che Dio non è essere, né causa?
Per nulla, ma che egli non è essere come lo siamo noi, non è causa come noi siamo. Egli tuttavia è l'uno e
l'altro, ma ad un titolo assolutamente esclusivo, che appartiene solo a lui e che non può condividere con la
creatura. Così, il ragionamento fondato sulla causalità, sebbene non ci porti a penetrare il mistero dell'Essere
infinito e della Causa prima, può condurci in maniera sicura a riconoscere l'esistenza di una Causa prima e di
un Essere infinito.
291 - 2. LA CRITICA DI LACHELIER - Lachelier, nel suo Cours de Théodicée del 1868, prospettava l'obiezione kantiana sotto una forma che merita di essere rilevata, poiché mette bene in evidenza i postulati
ch'essa implica. «O, egli diceva, l'esistenza di Dio può essere sottoposta a regole generali: e allora Dio fa parte del mondo; affinché questi principi generali potessero applicarsi a lui, bisognerebbe in realtà, che Dio fosse della stessa natura degli altri enti, e noi non abbiamo il diritto di estendere i princìpi generali a casi assolutamente diversi da quelli che conosciamo: è una questione di omogeneità e di eterogeneità della natura di Dio
con quella degli altri enti. Oppure è necessario un principio particolare ed allora il sillogismo è superfluo. Se
in realtà è necessario un principio che si applichi solo all'esistenza di Dio; si ha una tautologia. Il principio
stesso dà Dio, poiché non può applicarsi che a lui».
In questa argomentazione, oltre ad una difficoltà relativa alla argomentazione causale, che discuteremo
quando troveremo la quarta antinomia di Kant, Lachelier fa assegnamento su di un principio generale, che
consiste nella negazione pura e semplice del valore metafisico della ragione e, in particolare, della realtà di
una intuizione intellettuale dell'essere. Lachelier, seguendo Kant, postula che il concetto dell'essere vale solo
per l'esperienza, cioè nel campo sensibile. Se le cose stessero così, è evidente che nessuna argomentazione ci
permetterebbe di oltrepassare l'esperienza; la ricerca causale ci condurrebbe solo al finito. In realtà ciò non è
che un postulato gratuito, la cui analisi critica ne ha dimostrato la falsità. Noi sappiamo infatti che il concetto
di essere (e tutto ciò che esso contiene) ci è dato nel piano trascendentale e che in quanto tale esso trascende
tutte le determinazioni dell'essere: esso vale proporzionalmente per tutto ciò che è o può essere, sotto una
forma qualsiasi. Esso, come tale, non impone dunque nessuna limitazione alla nostra argomentazione, poiché
fa astrazione da ogni determinazione data. Esso è, si potrebbe dire, essenzialmente aperto. Non abbiamo
dunque che da scoprire le esigenze intelligibili dell'essere e da riconoscere altresì il carattere analogico delle
nostre conclusioni, non essendo qui l'analogia che una conseguenza od un aspetto necessario del carattere
trascendentale del concetto di essere.
Anche, per questo non v'è nessuna «tautologia» o petizione di principio in questa argomentazione. L'essere
da cui noi partiamo non è Dio: è puramente e semplicemente l'essere in tutta la sua universalità, ossia in tutto ciò che esso ha di proporzionalmente comune a tutto ciò che è o può essere. Come tale, esso ha delle esigenze assolute, che valgono universalmente con la riserva dell'analogia. Se dunque «il principio dà Dio», ciò
non avviene, come intende Lachelier, perché esso non possa applicarsi che a Dio, dacché invece si applica
proporzionalmente a tutto ciò che è o può essere, ma perché richiede, per essere intelligibile, una spiegazione
la quale può essere fornita solo da Dio, in quanto Causa prima dell'essere universale.
B. CAUSALITÀ E FRAZIONAMENTO.
292 - 1. IL MONDO COME TUTTO. - Un'altra forma della stessa obiezione consiste nel pretendere che
l'universo sia un tutto indivisibile e che ogni frazionamento di questo universo in enti individui e in cose distinte sia una finzione escogitata dall'intelligenza per le esigenze dell'azione. Questa finzione appunto ci condurrebbe a ricercare delle cause per i fenomeni. Se si ammette invece che il mondo costituisca un Tutto, la
totalità dei fenomeni si spiegherà adeguatamente in funzione del Tutto, e non dovremo dunque uscire più
dall'universo per ricercare una sua causa, di cui non ha più bisogno272.
2. LA CAUSA DEL TUTTO. - È immediatamente rilevabile il vizio di questo argomento. Innanzitutto, pur
se si ammettesse l'unità del Tutto, ciò non obbligherebbe a negare la realtà di enti e di cose distinti in seno al
Tutto. L'uno può essere molteplice sotto un aspetto e l'unità del molteplice ammette parecchie forme diverse.
Di fatto l'universo comporta una molteplicità interna, che s'impone nella maniera più evidente sul piano dell'individualità biologica ed a maggior ragione nell'ordine umano, in cui la coscienza attesta senza possibilità
di dubbio l'in-sé ed insieme il per-sé, l'indipendenza e l'autonomia della persona. Del resto, se fosse vero,
come si pretende, che nell'interno del Tutto, i fenomeni o gli enti apparentemente distinti debbano la loro
consistenza e la loro realtà solo alla loro correlazione ed alla loro reciproca causalità e che di conseguenza
essi si spieghino solo in funzione del Tutto, ne risulterebbe evidentemente che la totalità di questi fenomeni o
di questi enti individualmente inconsistenti non potrebbe avere una consistenza o «realtà» maggiore dei fenomeni singoli che la compongono. Pure in questa ipotesi, il Tutto non può dunque spiegarsi con se stesso,
essere per se stesso la propria causa. Vi è in siffatta argomentazione, una forma dell'argomento metafisico in
virtù del quale ogni ente composto richiede una causa (251): gli elementi che sono potenza in rapporto al
tutto, possono formare il tutto solo per l'azione di una causa estrinseca agli elementi come tali, distinta dall'insieme di questi elementi e di conseguenza dal tutto stesso, in quanto somma degli elementi. Così, in ogni
modo, il Tutto dovrà essere concepito necessariamente come dipendente, nel suo essere e nella sua azione, da
una Causa superiore ed essenzialmente distinta da esso.
C. CRITICA DELL'IDEA DI DIO
293 - 1. LE OBIEZIONI DI J. P. SARTRE - J. P. Sartre ha tentato di provare che l'idea di Dio è contraddittoria in se stessa da più punti di vista.
Ogni in-sè, osserva egli innanzitutto, è, come tale, contingente, in quanto non può fondare assolutamente
nulla, giacché di per sé, è pieno, immobile e senza fessura, e in quanto non può fondare se stesso che dandosi
la modificazione del per-sè (coscienza), ma cessando nell'istante stesso d'essere in-sé. Sotto questo aspetto,
«Dio, se esiste, è contingente», poiché, come tale, egli è senza fondamento che giustifichi il suo essere. Il solo fondamento che si potrebbe invocare sarebbe quello di un possibile - o essenza ­ anteriore all'essere o esistenza e tale da esigere l'esistenza. Sennonché i possibili non sono nulla fuori dell'essere: è l'essere che dà
l'essere ai propri possibili. È dunque impossibile che la necessità dell'essere si deduca dalla possibilità che gli
appartiene. Quanto a dire che ogni contingente esige un Necessario, ciò, secondo Sartre, varrebbe solo per la
contingenza in generale, ma non per questa specifica contingenza (L'Être et le Néant, op. cit., p. 124).
D'altronde, la totalità «in sé - per sé», che è stata ipostatizzata come trascendenza al di là del mondo sotto il
nome di Dio, è contraddittoria in se stessa, poiché riunisce i caratteri inconciliabili dell'in-sé (che è pieno, pesante e opaco) e del per-sé (che è negazione dell'in-sé).
Infine, Dio non può essere concepito, rispetto alla totalità del mondo, né come in-sé né come per-sé. In realtà, se Dio è coscienza, egli si integra con la totalità del mondo. Se egli è concepito come un in-sé che debba
essere il fondamento di se stesso, la totalità del mondo dovrebbe apparirgli o come un oggetto, e di conseguenza, come un ostacolo ed un limite, o come un soggetto, e di conseguenza, non essendo egli questo soggetto, potrebbe soltanto subirlo senza conoscerlo.
2. DISCUSSIONE - Al primo argomento di Sartre, risponderemo che è vero, in un certo senso, che Dio
non ha da fondarsi e persino che egli è «senza fondamento» perché è lui stesso il fondamento, non in quanto
egli se lo dia, ma in quanto egli è, puramente e semplicemente, cioè in modo tale che non v'è nulla in lui,
nemmeno una anteriorità logica, tra il fondamento e l'essere; essi sono «due» solo per il mio pensiero, inadeguato alla assoluta semplicità dell'Essere divino. Aggiungiamo che non si vede molto bene come l'esigenza
di un Necessario a partire da un contingente potrebbe avere un «valore generale» e, nel medesimo tempo,
non applicarsi rigorosamente a nulla (né a questo contingente né a quello): avremmo in tal caso un tipo di
«generale» alquanto stupefacente, la cui generalità consisterebbe nel non averne, ed il valore nell'essere senza valore (per lo meno sul piano dell'essere e del fatto).
Il secondo argomento di Sartre riposa interamente sulla assimilazione implicita dell'in-sé alla materia. È
evidente che un in-sé così concepito non potrà mai essere per-sé, poiché la materia lo costituirà necessariamente esterno a sé, a distanza da sé. Se però l'in-sé fosse Spirito puro, quale ostacolo gli impedirebbe d'essere, come tale, per-sé, Pensiero cioè e Riflessione? Anzi non si dovrebbe dire che un tale in-sé spirituale è necessariamente per-sé, per la stessa struttura dell'in-sé, che lo rende interamente trasparente a se medesimo e
lo fa coincidere assolutamente con sé?
Infine, il terzo argomento non fa che assolutizzare, senza mediazione, con una implicazione audace di univocità radicale, i concetti che valgono (si pensa) per il mondo della contingenza. Dio, in tal modo, risulta sottoposto, per Sartre, a tutte le condizioni della realtà umana, il che è un postulato audace, ma ingiustificabile.
Quanto alla sostanza della tesi, osserviamo che, per Dio, cogliere il mondo come totalità non corrisponde in
nessun modo al contemplarlo dal di fuori, né come oggetto, né come soggetto, ma corrisponde a conferirgli,
con l'atto creatore, la sua realtà di mondo, cioè, più precisamente, a far sussistere quella relazione a sé ch'è il
mondo. Non essendo Dio relativo al mondo, - poiché la stessa relazione a Dio, che è costituita dal mondo,
sussiste soltanto in virtù di Dio, - l'atto creatore, come la conoscenza divina del mondo, è necessariamente,
per definizione stessa, posizione e apprensione del mondo come totalità. Soggetto o oggetto, il mondo non
può limitare né 1'essere né il conoscere divino, poiché appunto questo stesso conoscere, in quanto creatore,
lo costituisce come oggetto o come soggetto. Questa concezione rispetta il mistero di Dio ed insieme le leggi
dell'intelligibilità.
Art. II – Necessità della dimostrazione
294 - Abbiamo stabilito che nessuna obiezione di principio può essere validamente opposta alla prova della esistenza di una Causa prima dell'universo. Ma ecco una tesi radicalmente opposta alla precedente affermare che non è necessario dimostrare l'esistenza di Dio. Questa tesi comporta molti aspetti, che bisogna distinguere, perché si fondano su argomenti assai diversi. Si può dire infatti che non conviene ricorrere ad una
dimostrazione dell'esistenza di Dio, sia perché una tale dimostrazione sarebbe superflua, in conseguenza del
fatto che la certezza della esistenza di Dio è data prima di ogni dimostrazione, sia perché questa dimostrazione sarebbe impossibile, in virtù della evidenza assoluta dell'esistenza di Dio: non si dimostra l'evidenza
ma, semplicemente, la si constata.
Esaminiamo dunque gli argomenti con cui si cerca di stabilire l'uno o l'altro di questi punti di vista. Dobbiamo tuttavia osservare che quanto è in questione qui, non è più, come nel caso precedente, la prova di Dio,
ma unicamente la dimostrazione dell'esistenza di Dio. In realtà, lungi dal contestare che la prova di Dio sia
possibile, le teorie che analizzeremo, facendo di Dio l'oggetto di una specie di esperienza, presumono di fornire una prova di Dio molto sicura e persino evidente: una esperienza non è una dimostrazione ed anzi la esclude, ma, di tutte le prove, è la più sicura e la meno discutibile.
§ 1 - Esiste una intuizione di Dio?
295 - I filosofi che ritengono superflua la dimostrazione della esistenza di Dio pensano che questa esistenza sia sufficientemente stabilita da fatti dell'esperienza, che costituiscono una specie di intuizione di Dio o
del divino, e che sono. necessariamente presupposti a ogni dimostrazione. Questa dunque non può avere altro
scopo che di confermare una certezza anteriore. Da questo punto di vista si avrebbe allora una prova di Dio
che sarebbe indipendente dalla dimostrazione discorsiva. Questa tesi è sostenuta, sotto forme distinte, dai
tradizionalisti e dagli ontologisti.
A. IL TRADIZIONALISMO.
1. L'ARGOMENTO DEL CONSENSO UNIVERSALE.
a) Tesi di Lamennais. Il tradizionalismo è nato in Francia all'inizio del XIX secolo. Il problema che esso
vuole risolvere è quello della certezza. Ritiene che questo problema non abbia soluzione sul piano della ragione individuale che, lasciata a se stessa, è votata allo scetticismo, ma invece ottenga una soluzione solamente sul piano della ragione generale o del consenso universale cioè della tradizione. Ogni vera filosofia
inizia con un atto di fede in certe verità fondamentali, trasmesse dalla società e costituenti ciò che si chiama
la tradizione.
Questa tesi è sostenuta dopo J. De Maistre, che ne ha fornito l'idea generale, principalmente da De Bonald
e Lamennais. De Bonald si sforza di dimostrare, con la sua teoria sull'origine del linguaggio (III, 386) che
tutte le verità necessarie all'umanità hanno dovuto essere rivelate da Dio fin dal principio. Lamennais, lasciando da parte la questione della Rivelazione primitiva, afferma che c'è solo una regola sicura di verità,
che è il consenso universale o il senso comune. L'esperienza, egli dice, è sufficiente a provarlo, perché, in
tutte le cose, è sempre al senso comune che ci si riferisce come al giudice definitivo del vero e nessuna dimostrazione vale contro di esso, giacché noi riteniamo di essere ingannati nei nostri ragionamenti ogni volta che
essi urtano contro il consenso generale. Inversamente, ogni dimostrazione non mira che a mettere in evidenza
le certezze del senso comune (cfr. Lamennais, Essai sur l'indifférence en matière de religion, 4 voll., Rennes,
1817-25, 3a parte, c. I).
È ciò che si constata in maniera irrecusabile nella questione dell'esistenza di Dio. L'evidenza che Dio esiste
ci è imposta innanzitutto dal consenso unanime dei popoli e questa prova ha una forza tale che non si potrebbe rifiutarla senza rinunciare alla ragione e a tutto quanto costituisce il valore della vita umana e la forza della società. L'esistenza di Dio è dunque una di quelle verità primitive e fondamentali che sono anteriori ad ogni dimostrazione. (Essai sur l'indifférence, 38, parte, c. Il).
296 - b) L'argomento etnologico. È opportuno distinguere dalla teoria di Lamennais la tesi che vuole fondare sul consenso unanime del genere umano percipiente l'esistenza di Dio una prova indiretta della esistenza di Dio. In quest'ultimo caso, infatti, non si tratta più d'inferire immediatamente l'esistenza di Dio dal fatto
dell'accordo unanime degli uomini, ma solamente di fare di questo accordo unanime il principio di un argomento che riveste questa forma generale: il consenso generale degli uomini in rapporto a una verità si spiega
solo ammettendo che esistano ragioni certe ed evidenti di affermare questa verità; ora la credenza nella esistenza di Dio è moralmente unanime, nel tempo e nello spazio; dunque vi sono ragioni assolutamente sicure
ed accessibili a tutte le intelligenze per credere nell'esistenza di Dio.
Questa argomentazione sembra differire da quella di Lamennais soprattutto per il fatto ch'essa vuole mettere in evidenza le basi razionali della credenza in Dio, mentre Lamennais fa appello al consenso universale
unicamente per mancanza di fiducia verso la ragione speculativa. Tuttavia la differenza è più apparente che
reale, poiché, da un lato, la prova di Lamennais non significa più nulla se non si riferisce all'esercizio spontaneo della ragione, e, dall'altro lato, l'argomento etnologico non ha più valore né interesse se il consenso universale non è di per se stesso una prova almeno indiretta dell'esistenza di Dio. Si possono dunque discutere
insieme i due punti di vista.
L'argomento detto etnologico ha avuto un grande favore nel corso del XIX secolo, in virtù soprattutto dell'influenza della filosofia lamennaisiana. Per l'addietro tuttavia era stato proposto da numerosi filosofi, in particolare da Platone (De Legibus, in ed. C. Ritter, P. Gesetze, Lipsia, 1862; cfr. tr. it. di E. Turolla, 3 vol., Milano, 1954, X, 885c-885b), da Cicerone (De Legibus, in ed. J. Wahlen, 2a, Berlino, 1883, I, 8, n. 24), da Plutarco (Moralia, Adv. Colot., in ed. W. R. Paton ed altri, 6 voll. finora, Lipsia, 1925 sgg., c. 31; cfr. tr. it. di M.
Adriani, Milano, 1859) e, presso i moderni, da G. B. Vico, nella sua opera La Scienza nuova (Napoli, 1725,
3a ed. 1744, ora in ed. F. Nicolini, 8 voll., Bari, 1914-41).
297 - 2. REALTÀ E VALORE DEL CONSENSO UNIVERSALE ­ L'argomento, tradizionalistico o etnologico, richiede d'essere discusso su due punti, che concernono il fatto stesso del consenso universale ed il
valore probante di questo fatto.
a) La questione di fatto. Gli uomini hanno sempre creduto, in tutti i tempi ed in tutti i luoghi, all'esistenza
di Dio? Se s'intende parlare solamente di unanimità morale, cioè di un accordo del maggior numero degli
uomini, sembra, come si è visto più sopra, che il responso possa essere soltanto affermativo. Tuttavia una osservazione capitale è qui richiesta. Bisogna riconoscere che l'affermatività della risposta non dipende da una
evidenza indiscutibile, ma semplicemente da una probabilità il cui grado di forza si può valutare diversamente. In realtà, il problema comporta grandi difficoltà, in ragione dell'impotenza in cui si trova l'etnologia
di conoscere tutte le culture successive dell'umanità e spesso pure dell'incertezza nel definire esattamente il
senso delle credenze nelle civiltà primitive. Ora, affinché il fatto del consenso universale fosse assolutamente
certo, bisognerebbe stabilire, non solamente che tutti i popoli, in tutti i tempi, hanno creduto all'esistenza di
Dio (sotto la forma monoteistica o politeistica), ma altresì che gli dèi dei non inciviliti implicavano almeno il
concetto comune di Dio, con i caratteri che lo definiscono. Forse è possibile eseguire questa dimostrazione;
ma sembra che non si possa mai oltrepassare il livello della probabilità, il che non basterebbe per fondare un
argomento che deve avere valore (se ne ha) solo sulla base di un fatto evidentemente certo.
298 - b) La questione di diritto. Ammettendo ipoteticamente la realtà almeno probabile del consenso universale circa l'esistenza di Dio, quale valore si potrebbe attribuire all'argomento etnologico (essendo la prova
di Lamennais immediatamente infirmata dalle osservazioni precedenti)? Non sembra che questo argomento
possa costituire di per sé solo una prova valida, sia pure semplicemente indiretta, dell'esistenza di Dio. In realtà, affinché fosse così, bisognerebbe ammettere che il consenso universale può essere determinato solo dall'
evidenza obiettiva. Ora ciò non è affatto pacifico, perché l' accordo unanime degli spiriti può spiegarsi talvolta con l'esistenza di cause accidentali di errore impossibili a scoprirsi e ad eliminarsi. Proprio così l'umanità ha creduto universalmente per lunghi secoli alla solidità dei cieli ed al movimento del Sole intorno
alla Terra. Il consenso universale non vale dunque di per sé, ma unicamente per le ragioni che lo fondano e si
incorrerebbe per conseguenza in un circolo vizioso se si concludesse immediatamente dal consenso universale alla esistenza di una evidenza obiettiva. Questa dev'essere provata e non supposta, il che sta a dire che il
criterio della verità non può risiedere nel consenso universale come tale, ma solamente nella evidenza obiettiva.
Bisogna tuttavia ammettere che il consenso universale possiede di per sé un certo valore. Esso implica infatti che esistono ragioni d'affermare una verità, accessibili a tutti. Queste ragioni valgono o non valgono.
Tuttavia finché non si sia stabilito che esse si rapportano a qualche causa permanente e universale di errore,
l'accordo unanime degli uomini vieta di prendere alla leggera le verità ch'esso enuncia ed esige che ci si sforzi di studiarne e giudicarne i fondamenti273.
B. L'ONTOLOGISMO.
299 - Sotto il nome di ontologismo si comprendono tutte le dottrine che professano essere Dio oggetto di
una conoscenza intuitiva. Ne conseguirebbe immediatamente che ogni prova di Dio, nella misura in cui essa
fosse ritenuta necessaria, consisterebbe solo nel far prendere coscienza all'intelligenza della presenza immediata di Dio. L'ontologismo è stato sostenuto sotto svariatissime forme, dalla visione in Dio fino alla teoria
della rivelazione di Dio nella esperienza religiosa. Di questi differenti aspetti dell'ontologismo ci fermeremo
solo sui più caratteristici.
1. ARGOMENTI DELL'ONTOLOGISMO - Gli argomenti proposti dagli ontologisti dipendono per lo più
da un contesto filosofico di natura idealistica e, di conseguenza, come si è dimostrato nella critica, dal postu-
lato nominalistico. È evidente, infatti, come, se si rifiuta di ammettere che le idee derivino da un processo astrattivo, non ci sia altra risorsa, una volta scartato il panteismo, se non di supporre, o, alla guisa di Cartesio,
che le idee ci siano innate, o, come fanno Malebranche e gli ontologisti, che noi vediamo le idee di Dio, tramite una relazione immediata dell'intelligenza umana col Pensiero divino, sede delle idee. Queste conclusioni tuttavia valgono solo quanto i princìpi da cui esse procedono, e in particolare quanto quello che le regge,
cioè il postulato nominalistico. Li abbiamo largamente discussi e non è il caso di riprendere qui questa discussione.
Altri argomenti sembrano meno dipendenti dall'idealismo c sembrano servire a stabilire direttamente l'ontologismo, cioè dell'asserzione che l'uomo possiede naturalmente l'intuizione di Dio. Sono questi che dobbiamo esaminare.
a) L'idea dell'infinito o del Perfetto. L'argomento tratto dall'idea dell'infinito o del perfetto proviene da Cartesio ed è stato utilizzato da Malebranche. Cartesio fondava una dimostrazione dell'esistenza di Dio sulla
presenza in noi di questa idea: non c'è nulla, egli diceva, né in noi, né fuori di noi, che possa render conto di
questa idea, poiché noi siamo finiti ed imperfetti (infatti noi dubitiamo e cerchiamo) e tutto ciò che noi conosciamo è finito. L’idea di perfetto non può dunque spiegarsi che con l'esistenza di un essere perfetto che l'ha
posta in noi nel crearci come la sigla dell'artefice sulla sua opera. (3a Méditation, in Oeuvres de D.; ed.
Adam e Tannery, 11 voll., 1897-1909; cfr. trad. it. di A. Tilgher, 3a. ed., Bari, 1954; cfr. Fénelon,
Démonstration de l'existence de Dieu, in Oeuvres complètes de F., 10 voll., Parigi, 1852, la. parte, § 51-53).
Malebranche riprende questa argomentazione, ma dandole una forma strettamente ontologistica. La presenza in noi dell'idea di infinito, egli dice, rivela l'unione immediata del nostro spirito a Dio, poiché essa non
può essere qualcosa di creato, in quanto tutto ciò che è creato è finito. Se dunque noi abbiamo l'idea di infinito, ciò avviene perché vediamo Dio: l'idea di infinito è la forma stessa della nostra visione di Dio e della nostra visione di tutte le cose in Dio. Tuttavia, aggiunge Malebranche, noi non vediamo l'essenza stessa di Dio,
o almeno, non la vediamo nella sua semplicità e nel suo essere assoluto, ma solamente «in quanto relativa
alle creature». (Recherche de la vérité, in ed. a cura di G. Lewis, 3 voll., Parigi, 1946, l. 111, 2a parte, c. V e
X Éclaircissement)274.
300 - b) L'idea dell'essere. L'argomento tratto dall'idea dell'essere in generale è da avvicinare con quello
che si fonda sull'idea di infinito. Nicola Malebranche aveva d'altronde notato che la nostra idea dell'essere
implicava l'idea dell'infinito, poiché, egli diceva, l'essere che noi concepiamo senza alcuna determinazione
possiede l'infinitezza reale, fino a che non ne limitiamo l'ampiezza con l'aggiunta del concetto di finito. Vincenzo Gioberti, all'inizio del XIX secolo, si è sforzato di erigere a sistema questo punto di vista. Il concetto
di essere, egli dice, è la prima e la più necessaria delle nostre idee, poiché solo sotto la ragion di essere possiamo conoscere e concepire. Ora questo concetto per chi è attento a tutto ciò che esso implica, contiene evidentemente questo giudizio: l'essere esiste. In realtà sarebbe assurdo il pensare: l'essere non è. Inoltre, la realtà dell'essere, così appresa, non si presenta allo spirito come alcunché di contingente, di relativo, che potrebbe non essere, ma come necessario, assoluto e tale che il giudizio di esistenza non può esprimersi che con
questa proposizione: l'essere è necessariamente, poiché l'essere non può non essere. L'intuizione dell'Essere
è dunque quella dell'Essere necessario, cioè Dio. È l'Essere infinito stesso che si manifesta nello spirito nell'atto immediato dell'intuizione e che, «ponendosi lui stesso di fronte alla nostra anima, annuncia: io sono necessariamente» (Gioberti, Introduzione allo studio della Filosofia, in Ed. Naz., voll. 7, Roma-Milano, 193941). D'altra parte, per il fatto stesso che questo giudizio è assolutamente primo e che ogni nostra conoscenza
ne dipende, l'ordine intelligibile intero risulta perciò fondato sulla intuizione di Dio. Questa accompagna ed è
sottesa all'universalità del sapere.
301 - c) L'immanenza del divino. Si tratta ancora di una specie di ontologismo che si esprime nella tesi, sostenuta da Schleiermacher (Cfr. Reden uber die Religion, nell'ediz. delle opere a cura di Reimer, 33 voll.,
Berlino, 1835-65; cfr. tr. it., Discorsi sulla religione, di G. Durante, Firenze, 1947) e ripresa frequentemente
dai filosofi dipendenti dal kantismo, secondo cui noi coglieremmo Dio immediatamente, in una specie di esperienza del divino. Questa esperienza sarebbe di natura propriamente religiosa e implicherebbe una relazione personale con la potenza misteriosa che si rivela a noi nelle aspirazioni del nostro cuore come nello
slancio che anima tutto l'universo. Questa esperienza morale raggiunge un grado di fermezza e di sicurezza
che supera ogni dimostrazione, poiché essa è, non una costruzione discorsiva e simbolica, ma un contatto, un
possesso concreto del principio sottostante a tutto ciò che è, una simpatia attiva nella corrente profonda della
evoluzione universale. Tale è la vera prova di Dio, poiché la sola prova che vale consiste nel sentimento che
dà l'intuizione della realtà profonda e di una comunione ineffabile col principio che anima dall'interno il cosmo e orienta la sua evoluzione verso i fini morali. In questo ordine, il vero sapiente è, in sostanza, il mistico.
La filosofia di Éd. Le Roy differisce profondamente, nella sua intenzione, che esclude categoricamente il
panteismo, da quella di Schleiermacher, ma sta di fatto che essa parte dagli stessi princìpi, cioè dal criticismo
kantiano, e che prosegue sulla stessa scia. Le Roy riconosce prova valida di Dio solo quella operantesi attraverso l'esperienza morale, che è una intuizione di Dio presente in noi. Ogni dimostrazione razionale vale soltanto in funzione di questa esperienza morale, che essa si limita a sfruttare discorsivamente275.
302 - 2. DISCUSSIONE.
a) L'idea di perfetto. L'argomento fondato sull'idea di perfetto è un paralogismo, dal punto di vista soggettivo ed insieme dal punto di vista oggettivo. Soggettivamente, l'idea di perfetto assoluto o di infinito positivo
non può essere considerata come prima, poiché essa si forma partendo da realtà finite date alla nostra esperienza, interna ed esterna. Originariamente, il concetto di perfezione non è quello d'un Perfetto assoluto, ma
quello di una cosa che possiede tutto ciò che le conviene. Così pure, quello di infinito non è per nulla quello
di un infinito di perfezione, ma quello di indefinito, cioè di alcunché suscettibile di aumento indeterminato e
continuo: il numero, in questo genere, è il concetto tipo. È solo col ragionamento che lo spirito si innalza dal
concetto di perfetto relativo (cioè in un ordine dato) a quello di un perfetto assoluto, ossia di un Infinito che,
lungi dal coincidere con l'indefinito, gli è opposto contraddittoriamente.
Oggettivamente il concetto di perfetto assoluto o di indefinito di perfezione non implica, come tale, l'intuizione dell'Essere perfetto o Infinito. Essa in realtà non è che un concetto come tutti gli altri, costituito di fatto
mediante la negazione pura e semplice di ogni limite nella perfezione e definiente una semplice essenza possibile o pensabile. Rimane da sapere se un Essere, così definito, esista realmente, il che richiede un'intera argomentazione.
Cartesio si è vivacemente difeso da questa critica, sottolineando di non concludere l'esistenza di Dio dall'idea di perfetto, ma dalla presenza di questa idea in un ente imperfetto. Egli così ragiona: un ente imperfetto
che ha l'idea di perfetto non può spiegarsi da se stesso, cioè non può essere causa di sé, poiché se fosse causa
di sé, egli si sarebbe necessariamente dato ogni perfezione di cui ha l'idea. Egli dunque non può esistere che
in virtù d'un altro, il quale a sua volta potrà spiegarsi solo in virtù d'un altro se, avendo l'idea di perfetto, è lui
stesso imperfetto. Siccome non si può andare all'infinito, si deve necessariamente concludere che esiste un
Essere il quale è causa di sé (cioè, precisa Cartesio, esistente a se positive) e possiede tutta la perfezione di
cui egli ha l'idea. È quest'Essere che noi chiamiamo Dio. (Cfr. Descartes, Réponses aux premières objections,
§ 5 e Réponses aux cinquièmes objections, § 35; ed. Cit. e tr. cit.).
Più avanti discuteremo il concetto di un Essere causa efficiente di sé. Quanto all'uso del concetto di perfetto, osserveremo che esso non trae Cartesio dalla scia ontologistica, poiché in realtà nell'argomentazione cartesiana tutto riposa sul concetto di perfetto, che è dato così come è data l'idea di Dio. La sola differenza dal
processo che adotterà Malebranche è che Cartesio conclude all'idea di Dio in quanto innata, mentre Malebranche conclude all'intuizione di Dio. In realtà, fondamentalmente lo stesso paralogismo ontologistico opera
in Cartesio come in Malebranche.
b) Il concetto di essere. La tesi di Gioberti è soggetto alle critiche stesse di quella che si fonda sul concetto
di perfetto. In realtà, l'essere, che è quanto si offre primieramente all'intelligenza, giacché noi nulla concepiamo fuori della ragione dell'essere, non possiede l'infinitezza reale, ma solo l'infinitezza che deriva dalla
sua in determinazione, ossia l'infinitezza concettuale (158). Di per sé, il concetto di essere non significa
l'Essere infinito più di quello finito: esso li include entrambi solamente, ma in modo indeterminato, nella sua
ampiezza illimitata. Il suo primato nell'ordine logico implica sicuramente il primato ontologico dell'essere,
ma non quello dell'Essere infinito, poiché il concetto di essere si spiega adeguatamente con la nostra apprensione degli enti finiti dell'esperienza e con l'uso della astrazione. Senza dubbio dimostreremo che l'essere non
può spiegarsi che in virtù dell'Essere infinito. Sennonché ciò non costituirà più un ragionare su di un concetto, come tale, né appellarci ad una intuizione di Dio, che non ci è data.
Rosmini ha criticato vivacemente la posizione di Malebranche e di Gioberti, nelle quali ha visto bene il rischio di condurre al panteismo276. Tuttavia, pure in atteggiamento di opposizione contro l'ontologismo malebranchiano e giobertiano, Rosmini continua ad ammettere e professare un tipo particolare d'ontologismo, che
si dovrebbe dire agostiniano e che la tradizione tomistica, lungi dal respingere, ha invece adottato e assimilato. Esso sembra consistere nell'affermare che la relazione all'essere è costitutiva della ragione umana e ch'essa è fondamentalmente il senso stesso dell'uomo. Tale relazione originaria, quando la si colga tramite la riflessione sui mezzi e i procedimenti del sapere, appare come l'autentica interiorità277 e, nel senso agostiniano,
come la relazione stessa a Dio, presente in me come aspirazione alla verità dell'essere ed esigenza di verità,
anche prima d'essermi presente come verità. Da questo punta di vista, l'idea dell'essere si presenta come tale
da implicare l'idea stessa di Dio, attraverso l'esercizio d'un «discorso» spontaneo, naturale all'intelligenza
umana278. In questo senso essa è già, non visione, ma conoscenza potenziale di Dio. E se è vero, come ha ripetuto san Tommaso, e dopo di lui Rosmini, che le vie che ci conducono a Dio passano necessariamente attraverso il mondo creato, resta sicuro per san Tommaso come per Rosmini, che il senso medesimo del mando
e della sua organizzazione non ci orienterebbe verso Dio, se non fosse per noi originariamente rivelazione
della dialettica immanente all'essere, e se, come tale, in virtù dell'inneità potenziale dell'idea dell'essere nella
virtù dell'intelletto attivo, non fosse insieme rivelazione della presenza oscura e velata di Dio nel più intimo
di noi stessi. Redi in te, ibi habitat Veritas.
303 - c) L'esperienza morale. La prova tramite l'esperienza morale richiede dapprima una distinzione capitale. Si può infatti intenderla in due sensi: o come il punto di partenza sperimentale di un ragionamento che
conduce ad affermare l'esistenza di Dio come la sola spiegazione adeguata di questa esperienza, oppure come
una intuizione di Dio o del divino. Nel primo senso, essa si presenta come un argomento fondato sul principio di causalità e qui non è in questione. Nel secondo senso, essa al contrario tende a deprezzare la via del
ragionamento per giungere a Dio attraverso una prova sperimentale, che sarebbe, si suppone, la fonte unica
della credenza in Dio. In questo senso appunto la prendiamo e la discutiamo.
Non negheremo, certamente, la realtà di una specie di istinto religioso. Al contrario, confessiamo che nell'anima, e all'inizio stesso della ricerca filosofica, c'è un profondo bisogno del divino, il sentimento di una
insufficienza assoluta dell'ente finito a spiegarsi la sua esistenza e la sua natura, una inquietudine sul destino
umano, l'intuizione di un ordine che ci sorpassa e che trascende pure tutto l'universo. Per questo ogni passo
verso Dio implica, in realtà, da parte dell'uomo, un ritorno su di sé, o, se si vuole, un approfondimento della
coscienza. Tuttavia, ciò detto, due osservazioni s'impongono. Osserviamo dapprima che questo «istinto religioso», queste aspirazioni del «cuore», non sono affatto tendenze irrazionali o estranee alla ragione. Al contrario, istinto e cuore non sono che i nomi diversi della ragione in cerca bensì di una spiegazione intelligibile
dell'uomo e dell'universo, ma che non s'è ancora immessa nella forma discorsiva e scientifica che le danno i
filosofi. Intuizione, se si vuole mantenere il termine, della natura profonda del reale e delle sue condizioni
assolute, che si traduce nell'anima non tanto in formule rigorose, quanto in un sentimento dell'impotenza dell'universo intero a soddisfare le esigenze dell'anima umana: diciamo le esigenze totali, affettive e razionali.
In secondo luogo, conviene osservare che l'esperienza morale avrebbe il valore che le si attribuisce solo
quando si provasse ch'essa è propriamente una esperienza del divino o di Dio. Senza dubbio, ci si obietta che
questa esigenza procede dalla falsa supposizione che il sentimento religioso non attinga una vera realtà. Si
aggiunge che se il senso del divino non è riducibile ad un processo discorsivo, ciò si deve al fatto che il divino è assolutamente ineffabile: che bisogno c'è di provare ciò che si percepisce? L'esperienza basta a se stessa: chi, in virtù d'una fervida attenzione alla corrente di vita che lo pervade e di cui egli è solo una manifestazione finita, coglie, tocca, esperimenta la realtà profonda, non ha da fare laboriose costruzioni intellettuali;
ma invece, nella misura in cui ha l'esperienza, disprezza questi artifici intellettuali, che costituiscono puramente una grossolana traduzione immaginativa d'una realtà infinita. Quest'argomentazione tuttavia non deve
illudere, poiché essa moltiplica gli equivoci. Innanzitutto, essa non riesce a dare un contenuto reale all'«esperienza», perché questa, nel sistema che vi si appella, non può ricevere alcun nome né assumere alcun
senso definito. Perché essa possa essere definita, cioè perché possa essere riconosciuta in questo caso come
l'esperienza del divino, bisognerebbe che noi fossimo capaci di distinguerla da ogni altra esperienza, di qualificarla come si conviene secondo le sue note intrinseche. Ora precisamente ciò riesce impossibile, giacché
questa distinzione costituirebbe propriamente un lavoro razionale, una traduzione concettuale, che sono esclusi dalla teoria in questione. Dove trova essa il diritto di chiamare l'esperienza, cui fa ricorso, un'esperienza del divino?
D'altra parte, il ricorso all'«ineffabile» e all'«infinito» non deve ingannarci maggiormente. Donde si viene a
sapere che questa realtà sconosciuta, senza nome e senza volto, è infinita? Pura ipotesi che realmente è una
semplice petizione di principio. Poiché, ciò che si tratta di sapere, è sotto quale rispetto l'oggetto dell'esperienza sia «ineffabile»: per immensità di essere o di potenza oppure per difetto di essere e di contenuto intel-
ligibile? Orbene ciò, né il senso, né l'esperienza, né l'istinto ce lo diranno, ma la sola ragione applicata all'esperienza per definirne i caratteri e la natura.
In realtà, il solo infinito di cui noi quaggiù possiamo avere l'esperienza diretta nell'ordine naturale, è l'infinito creato, cioè quanto è irrimediabilmente finito. I filosofi mostrano che noi possiamo conoscere e provare
questo finito come «infinito», lasciandoci andare passivamente alla corrente della coscienza, al flusso ininterrotto dei fenomeni interni: si tocca allora, in certo modo, quel fondo di potenzialità che è essenziale all'essere
contingente. È dunque proprio un «infinito» quanto ci largisce l'esperienza profonda di noi stessi, sgravata
d'ogni pensiero distinto. Soltanto questo infinito non è Dio: è null'altro, in ultima istanza, che la corrente cenestesica, da cui risulta per noi l'esperienza confusa e indeterminata della realtà globale che noi siamo e della
sua inserzione nel flusso universale. Abbandonandosi passivamente a questa corrente, si prova una specie di
ritmo vitale; il rilassamento dell'attenzione rivolta prima agli enti definiti dell'esperienza conduce al contatto
con una continuità fondamentale del reale, mediante la quale attuiamo una specie di comunione con l'universo. Tutto ciò in realtà non è Dio né conoscenza di Dio. In questo caso, la realtà percepita non è altro che
quella della nostra esistenza e di quella dell'universo che si attua continuamente in noi. Il solo infinito presente in questa esperienza è l'infinito potenziale che definisce propriamente il finito.
Queste osservazioni aiutano a comprendere come le teorie fondate sulla pura esperienza scivolino tanto facilmente verso il panteismo. Il nome di divino ormai non si applica più, in realtà, che alla esperienza confusa
della vita universale, della corrente immanente alla realtà cosmica. Dio diventa identico all'universo o, se si
vuole (il che è la stessa cosa), alla forza che anima l'universo dall'interno e che si dispiega nell'avvento indefinito degli enti e dei fenomeni. Dio si riduce al nome dato al divenire, all'evoluzione universale, concepiti
come princìpi immanenti di tutte le realtà singole della storia e dell'esperienza.
304 - 4. L'INTUIZIONE DELL'ESISTENZA DI DIO - La critica da noi esposta delle teorie intuizionistiche si estende essenzialmente all'asserzione secondo cui noi avremmo un'intuizione di Dio, cioè un' apprensione immediata e diretta di Dio nella sua realtà ontologica. Essa però non ci porta a negare che possa esserci una intuizione, non più di Dio, ma dell' esistenza di Dio. In quest'ultimo caso, il termine intuizione non
risulta più usato nel suo senso stretto e proprio di apprensione immediata di una realtà esistenzialmente presente o di conoscenza sperimentale, ma nel senso di percezione immediata, senza discorso esplicito, delle
ragioni che fondano una verità di ordine intelligibile. In questo senso, esiste incontestabilmente una intuizione dell'esistenza di Dio che è, di fatto, simultanea a quella dell'essere intelligibile e ci fa apprendere, statim et sine discursu, nell'essere dato all'esperienza, le leggi universali dell'essere e di conseguenza le condizioni assolute della sua intelligibilità. Bisogna riconoscere tuttavia che tale intuizione racchiude tutto un discorso; essa comporta una inferenza, la quale non fa che rendersi esplicita nell'argomentazione razionale, da
cui differisce solo per una modalità puramente accidentale. Questa «intuizione» non ha dunque niente a che
vedere con quella su cui fanno assegnamento gli ontologisti.
C'è ancora un altro senso in cui M. Scheler (cfr. Vom Ewigem im Menschen, 2a ed., Lipsia, 1923; cfr. tr.
par. di G. Alliney in Il pentimento, Milano, 1941) e in generale i filosofi esistenzialisti, che dipendono in
maniera più o meno diretta dall'influenza di Søren Kierkegaard, vorrebbero poter parlare di una intuizione
naturale di Dio. Si tratta del caso in cui Dio si presenta all'anima, non semplicemente come oggetto di scienza e termine di un ragionamento più o meno laborioso, ma come Valore, cioè come un Tu in relazione personale con me. Questo è il caso dell'attitudine religiosa, per contrasto con l'attitudine metafisica. Esso comporta
infatti il sentimento di una presenza e prende la forma di una esperienza e, di conseguenza, di una intuizione.
Bisogna tuttavia sottolineare, contro le tesi di Scheler, che questa «intuizione» implica o presuppone tutto
l'apparato razionale e metafisico, sebbene più o meno alleggerito del «discorso» (nel senso accennato); con,
in più, quel sentimento di Dio come Valore infinito, che, per la sua potenza emotiva, coincide per lo più e
talvolta dissimula il gioco reale e necessario della ragione.
§ 2 - L'esistenza di Dio è immediatamente evidente?
305 - La discussione che precede ha stabilito che noi non possiamo valerci di una intuizione di Dio atta a
dispensarci da una dimostrazione o almeno a ridurre quest'ultima alla semplice valorizzazione di una esperienza originale e irriducibile. L'ontologismo tuttavia si presenta ancora sotto un'altra forma, in cui non si
tratta più, propriamente parlando, di esperienza di Dio, ma di una specie di logica necessaria del pensiero, in
virtù della quale il semplice concetto di Dio implicherebbe assolutamente ed evidentemente l'affermazione
della sua esistenza. Da questo punto di vista, ogni dimostrazione dell'esistenza di Dio sarebbe, non solo su-
perflua, ma completamente impossibile, proprio in ragione dell'evidenza assoluta di Dio. Non si dimostra l'evidenza giacché, come tale, essa è al di là della dimostrazione mentre ogni dimostrazione non è altro che un
ricorso o una riduzione all'evidenza. Tale è lo schema di ciò che si è chiamato storicamente l'argomento ontologico.
A. L'ARGOMENTO ONTOLOGICO.
1. LA DIMOSTRAZIONE «A SIMULTANEO» - Per cogliere bene il senso dell'argomento ontologico,
conviene precisare di quale genere di dimostrazione si faccia questione qui. Si distinguono tre tipi di dimostrazione. Dimostrazione a priori: il termine medio è ontologicamente anteriore (fisicamente o metafisicamente) alla cosa da dimostrare. Si va dunque dalla causa o dal principio all'effetto o alla conseguenza. Si
prova così a priori l'ordine del mondo per mezzo della saggezza infinita del creatore, o ancora la realtà della
libertà morale mediante la realtà della ragione. Dimostrazione a posteriori: il termine medio è ontologicamente posteriore (fisicamente o metafisicamente) alla cosa da dimostrare; Si va dunque dall'effetto o dalla
conseguenza alla causa o al principio. Si prova così a posteriori che ogni attività spirituale richiede un principio spirituale, o ancora che il ridere implica la ragione. Dimostrazione a simultaneo: il termine medio è distinto solo logicamente (nell'ordine fisico o metafisico) dalla cosa da dimostrare. Così, per esempio, si dimostrano a partire dall'essere le proprietà trascendentali, o ancora, a partire dalla spiritualità dell'anima, l'immortalità d'essa. La dimostrazione a simultaneo è dunque propriamente analitica e si fonda semplicemente sul
principio di identità. Praticamente i logici moderni non distinguono la dimostrazione a priori dalla dimostrazione a simultaneo, che è ritenuta una forma di dimostrazione a priori.
2. FORMA GENERALE DELL'ARGOMENTO - L'argomento ontologico è del tipo a simultaneo, in quanto consiste nel passare immediatamente dall'idea di Dio all'esistenza di Dio. Questo celebre argomento è stato
proposto in vari modi, ma si può ridurlo alla forma generale seguente. Chiunque pensa l'idea di Dio, nello
stesso tempo afferma l'esistenza necessaria di Dio. L'idea di Dio, infatti, è quella di un essere tale da non poterne concepire uno più grande, cioè è quella di un essere infinitamente perfetto. Ora un tale essere esiste
necessariamente, poiché la perfezione infinita implica evidentemente l'esistenza e l'esistenza necessaria.
Dunque Dio esiste necessariamente.
306 - 3. DISCUSSIONE - L'argomento ontologico è stato oggetto di molte confutazioni, di cui le principali sono quelle di san Tommaso e di Kant. Queste due confutazioni devono essere studiate separatamente,
poiché si ispirano a princìpi assai diversi.
a) Confutazione di san Tommaso - San Tommaso dimostra che l'argomento ontologico è privo di valore in
quanto consiste nel concludere indebitamente dall'ordine logico a quello ontologico. È sì vero che, se concepisco Dio come Perfetto, devo pure concepirlo come esistente, perché diversamente il mio pensiero non sarebbe coerente con se stesso, ma questo non può esser sufficiente a provare che Dio esiste realmente. Con
l'argomento ontologico si ragiona solo su idee, e a priori niente ci garantisce che l'idea di un Perfetto esistente per sé non sia altro che una finzione logica, non corrispondente ad alcunché di reale fuori dallo spirito.
Questa idea acquisterà valore e consistenza solo se, costruita dallo spirito, essa sia costruita realmente in virtù delle esigenze dell'essere colto nell'esperienza 279.
È chiaro che il nucleo centrale di questa confutazione consiste nell'asserzione che noi non abbiamo né possiamo avere a priori un concetto oggettivo di Dio280. Di conseguenza, l'idea di Dio è una idea come tutte le
altre, sottoposta a tutte le condizioni di validità delle idee: queste ci offrono il loro oggetto, pure quando lo
rivestono dell'esistenza, alla maniera di un puro possibile o di una pura essenza, fintantoché una dimostrazione a posteriori o una prova sperimentale non stabilisca la realtà esistenziale di questa essenza. È dunque rigorosamente impossibile passare direttamente dall'idea alla realtà, dall'essenza all'esistenza.
San Tommaso aggiunge a questa confutazione l'osservazione che non è immediatamente evidente per tutti
che Dio sia l'essere tale da non poter concepirne uno più grande. Molti antichi hanno pensato che il mondo
fosse Dio (Contra Gent., I, c. 11). Per quanto concerne il mondo moderno e a prescindere dall'esistenza di un
ateismo positivo, è certo che molte dottrine, sebbene conservino il termine e l'idea di Dio, svuotano questa
idea d'ogni senso personalistico: è il caso di tutti i sistemi, positivistici o idealistici, di ispirazione panteistica.
Persino, alcuni pensatori credono di non poter rispettare le esigenze di un'idea autenticamente spiritualistica
di Dio che negando a Dio qualsiasi realtà ontologica. È chiaro che una tale confusione basterebbe a interdire,
come osserva san Tommaso, la fondazione della prova dell'esistenza di Dio su una idea a priori di Dio.
307 - b) Confutazione di Kant. La confutazione kantiana dipende dai princìpi della Critica e si presenta sotto una forma tra le più discutibili. L'essenziale dell'argomentazione di Kant può riassumersi così. Il giudizio
«Dio esiste» non può essere ritenuto evidente in sé o a priori, poiché «l'essere non è un predicato reale, cioè
il concetto di qualcosa che possa aggiungersi al concetto di una cosa. Se io prendo il soggetto (Dio) con tutti
i suoi predicati e poi dico: Dio è, non aggiungo un nuovo predicato al concetto di Dio, ma pongo soltanto il
soggetto in se stesso con tutti i suoi predicati, e nello stesso tempo l'oggetto che corrisponde al mio concetto.
E così il reale non contiene niente di più che il semplicemente possibile. Cento talleri reali non contengono
niente più che cento talleri possibili». (Dialettica trascendentale, c. III, 4a sez.).
Relativamente a questa critica, osserviamo dapprima essere esatto che l'esistenza non può essere concepita
come un essere sopraggiunto ad un essere: essa è nient'altro che l'attualità dell'essere, cioè nient'altro che
l'essenza posta fuori delle sue cause. Essa dunque non aggiunge niente a questa essenza (236). Sennonché la
critica di Kant implica altra cosa da questa evidenza, cioè che l'essere è soltanto la copula di un giudizio, ossia nient'altro che l'atto di affermare o di negare un attributo di un soggetto e mai un predicato reale (I, 54).
Ora, ciò è falso, poiché il verbo essere, oltre ad avere un senso copulativo o relativo, può esprimere quella
perfezione ultima che consiste nella attualità dell'essere (verbo-predicato). Quindi, la proposizione «Dio esiste» può esprimere benissimo altra cosa dal contenuto di un concetto ed affermare la realtà dell'Essere perfetto. Senza dubbio, questa posizione dell'esistenza non può risultare immediatamente dalla posizione del
concetto e Kant ha ragione di dirlo, come san Tommaso. Egli ha però il torto di fondare la sua critica sull'argomento secondo il quale ogni affermazione di esistenza, nel senso assoluto del termine, è sofistica, in quanto ogni nostra conoscenza, secondo Kant, sarebbe limitata all'organizzazione dell'esperienza fenomenica in
funzione delle forme a priori dell'intelletto e della sensibilità. La critica kantiana dell'argomento ontologico è
dunque sprovvista di reale validità.
308 - 4. L'ARGOMENTO ONTOLOGICO NELLA STORIA - Ci limiteremo qui a indicare le principali
forme che l'argomento ontologico ha rivestito nelle dottrine filosofiche.
a) Sant'Anselmo. È a sant'Anselmo che comunemente si attribuisce la paternità dell'argomento ontologico.
Questo si trova esposto nel suo Proslogion (ed. Schmitt, Padova, 1950, c. II-V) e fu vivamente criticato, durante la vita di sant'Anselmo, dal monaco Gaunilone, priore di Marmoutier, che obietta (nel suo cosiddetto
Liber pro insipiente, o meglio Quid ad haec respondeat quidam pro insipiente, ed. F. S. Schmitt, Edimburgo,
1946, c. VI), non essere possibile concludere immediatamente dall'esistenza nel pensiero all'esistenza nella
realtà, altrimenti si potrebbe così dimostrare pure l'esistenza delle isole fortunate, concepite come isole perfette. Sant'Anselmo replica col Liber apologeticus (ed. Schmitt, cit.). In esso mostra in particolare che la obiezione di Gaunilone, tratta dall'idea di «isola perfetta» non ha alcun valore, poiché il concetto di «isola perfetta» è assurdo. Non può esserci isola perfetta più che possa esistere un numero infinito. L'idea di Dio è
dunque assolutamente unica e non può essere assimilata ad alcun'altra. (Cfr. anche S. Anselmo, Proslogion,
Liber Gaunilonis, Liber Apologeticus, ed. Koyrè, Parigi, 1930).
Molti storici hanno ritenuto che l'argomento di sant'Anselmo non costituisca, nel suo pensiero, una prova a
priori (o a simultaneo), poiché sant'Anselmo non pretendeva di partire semplicemente dal termine Dio, ma
da un concetto di Dio fornito dalla fede, al fine di condurre all'intelligenza di questo dato della fede281.
309 - b) Cartesio. Cartesio ha sostenuto di non aver ripreso l'argomento ontologico. Tuttavia, l'argomento
che sviluppa nella Cinquième méditation rassomiglia molto alla prova anselmiana. Lo riassume lui stesso in
questi termini nelle Réponses aux deuxièmes objections: «Dire che qualche attributo è contenuto nella natura
o nel concetto di una cosa, equivale a dire che questo, attributo è vero di questa cosa, e che si può assicurare
che esso è in quella. Ora sta di fatto che l'esistenza necessaria è contenuta nella natura o nel concetto di Dio.
Dunque è vero dire che l'esistenza necessaria è in Dio ossia che Dio esiste». (Cfr. Rép. aux cinquièmes
objections, ed. cit., § 56-57). Contro il teologo Caterus, che s'era appellato a sant'Anselmo, Cartesio si sforza
di stabilire che egli non parte dal termine Dio, ma da una essenza o natura reale e oggettiva e di conseguenza
il suo argomento rimane costantemente nell'ordine ontologico, dal principio (natura di Dio) alla conclusione
(esistenza di Dio) (Rép. aux prem. objec., § 12).
In realtà, la difesa di Cartesio è inefficace, perché essa presuppone tutto l'idealismo, in cui l'essere è ridotto
all'idea. Per Cartesio, l'idea, che è, come s'è visto (42), la sola realtà che noi attingiamo direttamente, è, come
tale, una «vera e immutabile natura», cioè è il reale stesso, «una cosa stessa con l'essere», dice Cartesio. Ma
ciò non è evidente affatto, come crede invece Cartesio. L'idea di una natura o essenza non è nient'altro che un
possibile nel pensiero, ossia l'essere di questa essenza è un essere puramente concettuale. Cartesio vuol di-
fendersi contro questa obiezione dicendo che l'idea di Dio è unica e che a questa idea (o natura) sola, è legata
l'esistenza necessaria. Ora è proprio qui il sofisma dell'argomento ontologico: ciò che è legato all'idea di Dio,
non è l'esistenza necessaria, ma l'idea dell'esistenza necessaria. Rimane da dimostrare che, di fatto e realmente, esiste un Ente necessario.
Sembrerebbe che Cartesio abbia talvolta voluto conferire una legittimità a questa esigenza logica. Risulta,
in realtà, che l'argomento ontologico sia presentato come «la messa in forma di una prova ottenuta per la via
della meditazione sul senso di quest'idea»282: la presenza del mio spirito finito e imperfetto (poiché il mio
pensiero dubita e s'inganna) d'un ideale di pensiero infallibile e perfetto sarebbe assolutamente inconcepibile,
se questa stessa perfezione non fosse attualmente realizzata in uno Spirito infinito, che noi chiamiamo Dio.
Così, «partendo dall'idea di Dio, non si conclude a un oggetto che ne debba essere la replica; dall'idea di Dio,
si conclude, secondo Cartesio, ad un soggetto assoluto»283. Rimane che Cartesio ha talvolta difeso l'argomento ontologico come avente valore di per sé, mentre può avere unicamente il valore di esprimere quel legame
necessario tra l'essenza e l'esistenza che può risultare, per noi, soltanto dalle prove a posteriori.
c) Leibniz. Leibniz ha creduto di poter rendere valido, completandolo, l'argomento di Cartesio (Monadologie, n. 45, in Die philosophischen Schriften von G. W. Leibniz, ed. C. J. Gerhardt, 7 voll., Berlino, 1875-90;
cfr. tr. it. con comm. di G. De Ruggiero, 2a ed, Bari, 1942). Egli pensava che mancava a questo argomento
l'aver stabilito precedentemente che Dio è possibile, perché se egli è possibile, egli è necessariamente284.
«Dio solo o l'essere necessario, ha questo privilegio che bisogna che egli esista, se egli è possibile. E siccome
nulla può impedire la possibilità di ciò che non contiene alcun limite, alcuna negazione e di conseguenza alcuna contraddizione, ciò solo basta per conoscere l'esistenza di Dio a priori».
Leibniz dimostra il primo punto del suo argomento dicendo che nessuna contraddizione può esistere nell'idea di Dio, poiché questa idea comprende solo perfezioni semplici, cioè positive e assolute, il che esclude
ogni negazione e per ciò stesso ogni possibilità di contraddizione285. Il secondo punto (Dio esiste necessariamente, se è solamente possibile) risulta dal concetto leibniziano del possibile. Questo non è solamente una
idea nell'intelletto: esso è una specie di realtà, che si definisce dalla tendenza o dalla «pretesa all'esistenza».
Questa tendenza non basta a spiegare il passaggio all'esistenza, allorché si tratta di un possibile imperfetto.
Al contrario, essa implica necessariamente l'esistenza, allorché si tratta del possibile assolutamente perfetto,
poiché non sarebbe più perfetto se la tendenza all'essere che lo definisce come possibile non passasse dall'atto di esistere. Dunque Dio, se è possibile, esiste necessariamente. (Cfr. Leibniz, Nouveaux essais sur
l'entendement humain, I. IV, cap. X, n. 7 et Lettre à Amauld du 14 juillet 1686, in Die Phil. Schrif., ed. Gerhardt, II, 63; cfr. tr. it. risp. a cura di E. Cecchi, 2 voll., Bari, 1909-11 e a cura di G. De Ruggiero in Opere
varie, Bari, 1912).
Non sembra che Leibniz sia riuscito a salvare l'argomento ontologico, poiché non si possono ammettere né
l'una né l'altra delle prove su cui vuole sostenerlo. In realtà, noi non possiamo affermare a priori che il concetto di Dio sia possibile, perché per questo bisognerebbe che noi conoscessimo in che cosa consista l'infinità
perfetta e assoluta di Dio, conoscenza che può risultare solo dalla prova di Dio a posteriori. La seconda prova di Leibniz perde contemporaneamente la sua forza. Poiché il concetto di Dio non rappresenta niente più
che una possibilità ideale, e ciò non a titolo della sua essenza (che rimane sconosciuta prima della prova a
posteriori), ma solamente a titolo di causa dell'universo. Il che equivale a dire che l'esistenza di Dio può essere stabilita solo per la via dell'argomento causale e per nulla a priori.
CAPITOLO SECONDO
LE PROVE DELL'ESISTENZA DI DIO
SOMMARIO286
Art. I - LA CAUSA PRIMA. Forma generale delle tre prime prove - Il condizionamento universale - La
causa prima incondizionata - La causa prima universale - Prova tratta dal movimento - L'argomento - Elementi della dimostrazione - Prova tratta dall'efficienza - L'argomento - Elementi della dimostrazione - Prova
tratta dalla contingenza ­ L'argomento - Elementi della dimostrazione.
Art. II - IL PERFETTO SUSSISTENTE. L'argomento - La prova tratta dai gradi - Natura della prova - Elementi della dimostrazione - I gradi di perfezione - Princìpi dell'argomento - Conclusione dell'argomento Argomenti derivati o apparenti - Le verità eterne - Le aspirazioni dell'anima - La coscienza morale.
Art. III - IL FINE UNIVERSALE. L'argomento - L'ordine del mondo ­ Finalità interna e finalità esterna Elementi della dimostrazione - Il fatto della finalità - Finalità e intelligenza - Conclusione sulle prove dell'esistenza di Dio.
Art. IV - PROVE SCIENTIFICHE E PROVA TRATTA DALL'ESPERIENZA MISTICA. Le dimostrazioni scientifiche - Il concetto di «prova scientifica» - La prova tratta dall'entropia - La scienza e le origini
radicali - Le dimostrazioni matematiche ­ Prova tratta dall'esperienza mistica - L'argomento - Osservazioni.
310 - Si sono proposte molteplici prove dell'esistenza di Dio. Tuttavia, senza contare che molte tra queste
non sembrano avere un valore assolutamente decisivo e perciò devono essere scartate, quelle che si possono
mantenere si riducono in realtà ad alcuni tipi d'argomentazione poco numerosi. Si potrebbe d'altronde pensare che in fondo v'è realmente una sola prova dell'esistenza di Dio, che si deduce dalla contingenza radicale
dell'essere e mira a stabilire che questo non può spiegarsi adeguatamente, nella sua realtà e nelle sue diverse
manifestazioni, che con un Essere esistente per sé287.
Le prove di Dio non sono dunque che differenti aspetti dello stesso argomento fondamentale.
Bisogna tuttavia studiare questi aspetti diversi della prova di Dio, perché essi conseguano l'effetto, non solamente di condurci per strade distinte alla stessa conclusione e di rinforzare questa conclusione con la loro
convergenza, ma ancora d'introdurci alla conoscenza della natura di Dio che, ogni volta, si rivela sotto un
aspetto nuovo. Quanto al numero e all'ordine di questi argomenti, noi non crediamo che vi sia la possibilità
di modificare l'esposizione di san Tommaso, quale è fornita dalla Somma teologica (Ia, q. 2, a. 3). All'una o
all'altra delle cinque vie tomistiche, fondate rispettivamente sul movimento, la causalità, la contingenza, i
gradi dell'essere e la finalità, possono riallacciarsi senza alcun artificio tutti gli argomenti, fisici e morali, con
cui si pensa spesso di completare le prove metafisiche.
Si può tuttavia, in questo insieme, distinguere tre categorie, cioè gli argomenti che stabiliscono l'esistenza
di una causa prima infinita e comprendono le tre prime vie, movimento, efficienza, contingenza, - l'argomento che conclude all'esistenza di un Perfetto infinito e sussistente (quarta via), - infine l'argomento fondato sulla finalità e che porta ad affermare l'esistenza necessaria di un'Intelligenza ordinatrice e creatrice dell'universo (quinta via).
Art. I – La Causa Prima
311 - Le prime tre prove conducono ad affermare l'esistenza necessaria di Dio in quanto Causa prima universale: la prima stabilisce che il movimento esige un primo motore immobile - la seconda prova che la causalità efficiente esercitata dagli enti finiti richiede l'esistenza di una Causa prima dell'efficienza, - la terza
dimostra che l'esistenza degli enti contingenti è intelligibile solo per l'azione creatrice di un Essere necessario, esistente per sé.
§ 1. Forma generale delle prime tre prove
Le prime tre prove sono costruite per così dire sullo stesso modello e si fondano su princìpi comuni, che
conviene esporre prima, per rendere più chiaramente accessibile all'intelligenza il senso di questi tre argomenti. D'altronde qui non abbiamo che da riassumere i punti già stabiliti in ontologia (268-269).
1. IL CONDIZIONAMENTO UNIVERSALE - Tutto ciò che vediamo attorno a noi e tutto ciò che la
scienza ci insegna circa la struttura degli enti e l'organizzazione dell'universo, c'impone l'idea di una serie di
enti o di fenomeni succedentisi e implicantisi reciprocamente e costituenti così delle serie o anelli solidamente articolati. È questo ciò che si può chiamare il fatto del condizionamento universale, per cui tutti gli
enti e tutti i fenomeni dell'universo trovano la loro condizione, cioè la loro causa o ragione di essere, in un
altro ente e in un altro fenomeno.
312 - 2. LA CAUSA PRIMA INCONDIZIONATA - Come spiegare il condizionamento universale? Il
principio che ci dirige qui è che, di condizionato in condizionante, bisogna necessariamente arrivare ad un
principio o ad una causa assolutamente prima, assolutamente incondizionata e, di conseguenza, posta fuori
della serie causale. A nulla servirebbe, in realtà, l'andare all'infinito, poiché la serie causale, anche se concepita come infinita sarebbe ancora interamente condizionata, cioè unicamente composta di intermediari, che
semplicemente trasmettono la causalità. Nell'ordine causale, è il primo termine incondizionato che produce
tutto, il resto serve solo a trasmettere il movimento, l'efficienza o l'esistenza.
Ciò appare chiaramente dalla distinzione che bisogna fare tra cause accidentalmente subordinate e cause
essenzialmente subordinate. Le cause accidentalmente subordinate concernono esclusivamente la pura successione e potrebbero essere in numero infinito, in modo che, risalendone il corso, non si arriverebbe mai ad
un primo termine. Così, p. es., le rivoluzioni degli astri o le generazioni umane (se Dio avesse voluto), avrebbero potuto succedersi le une alle altre senza un termine determinato, né nel passato né nel futuro. Resterebbe tuttavia sempre da spiegare la realtà del movimento, della vita e dell'essere. Infatti, il movimento, la
vita e l'essere sono sospesi, ad ogni istante della loro esistenza, a un gioco di cause tale che l'una non potrebbe agire senza l'influsso attuale dell'altra: queste cause, come tali, evidentemente non fanno che trasmettere
un influsso causale di cui nessuna è il principio primo. Ciò implica l'esistenza, fuori della serie, di una Causa
che sia principio primo del movimento, dell'efficienza e dell'essere, perché senza questo ordine è impossibile
procedere all'infinito: senza un principio assolutamente primo, comunicante la potenza causale, il movimento e l'essere, niente si produrrebbe, non ci sarebbe né divenire, né efficienza, né essere. Si possono in realtà
moltiplicare indefinitamente gli intermedi, ciò non produce alcun mutamento nella necessità di ricorrere a un
principio primo, il quale dia origine al movimento, all'efficienza e all'essere, che gli intermedi si limitano a
trasmettere. Non si spiegherà il movimento delle biglie del bigliardo, moltiplicando il numero delle biglie,
ma unicamente ricorrendo, qualunque sia il numero delle biglie, alla mano che è la causa prima del movimento che le biglie si trasmettono tra loro.
313 - 3. LA CAUSA PRIMA UNIVERSALE - La nostra ricerca può approdare solo ad una causa unica e
per ciò stesso universale, perché la causa assolutamente prima non può essere che unica. Infatti, se ve ne
fossero molteplici, bisognerebbe supporre che le cause assolutamente prime fossero indipendenti l'una dall'altra (diversamente non sarebbero tutte assolutamente prime). Ora questa supposizione (ipotesi pluralistica,
sostenuta, in particolare da W. James)288 è incompatibile con l'unità dell'universo e inconciliabile con le esigenze della ragione, per la quale l'intelligibile, l'uno e l'essere sono convertibili (201). Diversamente bisognerebbe ammettere che la legge assoluta delle cose non coincide con quella del nostro pensiero, e che, se
l'assurdo è inconcepibile, può tuttavia costituire il fondamento delle cose. Ora c'è in questa tesi un'impossibilità radicale, poiché, come si è visto (III, 477-483), i princìpi della ragione equivalgono esattamente alle
leggi stesse dell'essere.
Bisogna dunque concludere che vi è una sola Causa assolutamente prima e che questa Causa la quale, per
definizione stessa (essendo assolutamente prima) non dipende da alcun'altra e domina tutte le serie causati,
dev'essere un Essere necessario, cioè tale da non poter non essere, tale da esistere per la sua stessa essenza
ed avere in sé la ragione della sua esistenza.
§ 2 - Prova tratta dal movimento
A. L'ARGOMENTO.
314 - San Tommaso considera la prova tratta dal movimento come la più manifesta di tutte289. Essa esige
tuttavia che si prendano nel loro senso esatto ed in tutta la loro portata i concetti metafisici ch'essa mette in
funzione.
1. IL CONCETTO DI MOVIMENTO - Il termine di movimento non indica solamente lo spostamento locale, ma in generale ogni passaggio dalla potenza all' atto, cioè, nel nostro caso, da un modo di essere ad un
altro. Infatti, come abbiamo dimostrato in Cosmologia (II, 30), ciò che vi è di essenziale nel movimento è
proprio il passaggio in quanto passaggio, il che fa del movimento una realtà che partecipa dell'atto e della potenza; è un atto iniziato che si va svolgendo e che non è giunto al suo ultimo termine. Il movimento è dunque
il segno e la forma di ciò che si chiama in generale il divenire.
2. L'INTELLIGIBILITÀ DEL DIVENIRE - Nell'ontologia abbiamo stabilito (249-250) che «tutto ciò che
si muove è mosso da un altro», ossia nulla passa dalla potenza all'atto se non sotto l'azione di una causa già
in atto, il che significa che nulla può essere causa di se stesso. Non dobbiamo riprendere qui la dimostrazione di questo principio metafisico né la discussione delle difficoltà proposte per limitarne la portata.
3. IL PRIMO MOTORE - San Tommaso presenta nei termini seguenti la prova dal movimento (S. Theol.,
P, q. 2, a. 3): «È evidente, i nostri sensi ce l'attestano, che nel mondo alcune cose sono in movimento. Ora
tutto ciò che è in movimento è mosso da un altro. È infatti impossibile che, sotto lo stesso rapporto e la stessa
maniera, un ente sia insieme movente e mosso, cioè che si muova da sé e passi da se stesso dalla potenza all'atto. Dunque se una cosa è in movimento, si deve dire che essa è mossa da un altro. Che se poi la cosa che
muove si muove a sua volta, bisogna da capo che essa sia mossa da un'altra, e questa da un'altra ancora. Ora
non si può procedere così all'infinito, poiché allora non si avrebbe un motore primo, e ne consegue che non si
avrebbero altri motori, poiché i motori intermedi muovono solo se sono mossi dal motore primo, come il bastone non si muove che maneggiato dalla mano. Dunque è necessario pervenire ad un motore primo che a
sua volta non sia mosso da alcun altro. E questo primo motore è Dio».
315 - 4. L'ESSERE PER SÉ - Da questo argomento risulta un certo numero di attributi che bisogna necessariamente riconoscere al primo motore come derivanti dalla sua natura di causa prima del movimento.
a) Il primo motore immobile. Sappiamo (261) che la causa, in quanto causa, non comporta alcuna passività; essa determina un divenire, ma è essa stessa fuori del divenire. Dal punto di vista del movimento, dovremo dunque dire che ogni primo motore è immobile e che il primo motore universale è assolutamente immobile. È chiaro però che ciò significa solamente che questo primo motore non è mosso da un altro, che è il
primo assolutamente in tutti gli ordini di movimento.
L'idea di immobilità, qui, si limita dunque a negare una deficienza intrinseca e qualsiasi passività rispetto
ad un agente superiore, cioè, sotto forma positiva, essa afferma nel primo motore universale, una pienezza di
essere assoluta, una perfezione infinita.
Per questo san Tommaso dichiara (Phys., VII, lect. I.a) che la prova la quale parte dal movimento ci porta
tanto ad un primo motore che muove se stesso come ad un primo motore assolutamente immobile. Il primo è
il procedimento di Platone, il secondo, quello di Aristotele. In realtà, aggiunge san Tommaso, «Platone e Aristotele sono d'accordo sulla sostanza; differiscono solo per il modo di esprimersi».
b) L'atto puro. Le osservazioni che precedono potrebbero forse lasciar pensare che noi passiamo gratuitamente dal concetto di un primo motore a quello di un primo motore universale, mentre la prova dal movimento di rigore non ci condurrebbe che ad un primo motore in un dato ordine ed immobile solamente in quest'ordine. La questione che rimane è se ci si possa arrestare ad un tale motore, e se non sia necessario, per
spiegare ogni e qualsiasi movimento, innalzarci fino ad un motore assolutamente primo e perfettamente immobile. In realtà, se il motore cui il ragionamento conduce è immobile solo sotto un aspetto, non possiamo
considerarlo come perfettamente immobile, sia pure nell'ordine in cui produce il movimento. Poiché se esso
è mosso sotto qualche aspetto, è in divenire e imperfetto e, di conseguenza, dipendente da un altro nella sua
attività e nel suo essere. Esso non può dunque essere causa assolutamente prima del movimento in qualsivoglia ordine. Pertanto ad ogni modo occorre, per spiegare il movimento, pervenire ad un primo motore assolutamente immobile, cioè immutabile nella perfezione che gli compete nella sua stessa essenza: Atto puro ed
esistente per sé (a se).
Da ciò deduciamo che il primo motore è un essere spirituale, poiché la materia è corruttibile e come tale
essenzialmente imperfetta. Essendo spirituale, il primo motore deve possedere intelligenza e libertà, che sono proprietà essenziali degli enti spirituali. Esso deve pure essere eterno poiché è assolutamente immutabile,
come pure onnipresente, poiché, essendo principio del movimento universale è presente con la sua potenza
in tutto ciò che si muove, cioè nell'universo intero ed in tutti gli enti che lo compongono.
B. ELEMENTI DELLA DIMOSTRAZIONE.
316 - Dobbiamo ritornare sugli elementi della dimostrazione, cioè sul fatto del movimento, che fonda la
prova, e sul principio che serve da minore all'argomento, per esaminare le difficoltà che si sono poste ad essi.
Tralasceremo tuttavia l'obiezione che spesso si cita, contro la prova del movimento, della possibilità dell'eternità del mondo. Sappiamo che questa obiezione è fuori questione, giacché la prova dal movimento, come
le prove dall'efficienza e dalla contingenza, prescindono da ogni idea di cominciamento o di non cominciamento temporale: se il mondo fosse eterno, il suo movimento esigerebbe eternamente un primo motore.
1. IL FATTO DEL MOVIMENTO.
a) L'obiezione. La prova tratta dal movimento supporrebbe, si dice290, l'errore del pensiero comune, consistente nel confondere il tragitto con la traiettoria sottesa e nel ridurre il movimento ad un ordine di posizioni
spaziali, mentre esso è essenzialmente un passaggio291. In base a questa concezione, è la immobilità della cosa ciò ch'è intelligibile ed è il movimento che bisogna spiegare per riduzione all'immobile. In realtà il pensiero filosofico procede in maniera inversa: per esso, il movimento è la realtà fondamentale e l'immobilità costituisce soltanto una realtà seconda e arbitraria. Di conseguenza, l'argomento fondato sul movimento si dissolve: essendo le cose movimento, non c'è più da chiedersi come esse lo ricevano.
317 - b) Discussione. In questa obiezione si riconosce la tesi essenziale dell'antologia bergsoniana, secondo cui il reale è puro mutamento, senza nulla che muti. Di fronte ad una obiezione che si fonda su di una dottrina così paradossale e che si riduce essa stessa, come s'è visto (96), ad un enorme paralogismo, ci si potrebbe limitare a respingerla semplicemente. Tuttavia, si può ritenere, in questa difficoltà, un aspetto che non
è necessariamente legato alla tesi dell'essere-divenire puro, aspetto consistente nell'osservare che se il movimento è primo, l'argomento tratto dal movimento non regge più. Ora le scienze tendono sempre più a eliminare l'ipotesi che le cose debbano essere per natura immobili e che esse ricevano il movimento come un sovrappiù accidentale che dovrebbe essere spiegato. Le cose sono essenzialmente in movimento e la immobilità
è semplicemente un'apparenza legata alle condizioni della percezione e dell'azione.
Pure sotto questa forma attenuata (che è propriamente cartesiana), l'obiezione non ha alcuna consistenza
reale di fronte alla prova del movimento. In realtà questa prova non parte dall'immobilità, ma puramente e
semplicemente dalla realtà del movimento, considerato come passaggio e forma del divenire. Nulla impedisce di considerare le cose come necessariamente ed essenzialmente in movimento: non si sarebbe per questo
dispensati dal ricercare la causa prima del movimento, poiché se le cose sono mobili in virtù della loro natura
(per se), esse non sono mobili da sé, a titolo di origine prima del movimento (a se). Quando si obietta contro
la prova tomistica dal movimento che le cose sono essenzialmente mobili, si dimentica anzitutto che, nella
concezione tomistica, le cose sono pur concepite come mobili per natura (ens mobile), e si cede quindi alla
stessa illusione per la quale si ritiene che l'eternità del mondo possa dispensare dal ricercare una causa dell'universo. Che il movimento sia essenziale o accidentale alle cose, esso esige una causa prima immobile. Senza questa causa prima, non vi sarebbe più movimento concepibile.
318 - 1. IL PRINCIPIO DELL'ARGOMENTO - Questo principio («tutto ciò che si muove è mosso da un
altro») è stato stabilito in ontologia (249-250). Per altro, abbiamo visto più sopra (292) che l'obiezione del
frazionamento (morcelage) non può valere contro questo principio. Quanto all'altro aspetto della stessa difficoltà, cioè che rigorosamente l'argomento porterebbe ad affermare solo un'anima del mondo, ossia un primo
motore animante l'universo dal di dentro, come l'anima anima il corpo umano, questa obiezione avrebbe un
valore solo se l'argomento considerasse il movimento locale semplicemente: come tale, non condurrebbe che
a porre una causa prima priva di movimento locale (Cfr. Gaetano, Comment. in Summam Theol., Ia, q. 2, a.
3) e lascerebbe agli altri argomenti il precisare la natura di questa causa prima immobile. Sennonché, di fatto,
il movimento da cui partiamo è preso in tutta la sua ampiezza, per ogni passaggio dalla potenza all'atto: siamo portati in tal modo ad affermare l'esistenza di una causa prima immobile in tutti gli ordini possibili di
movimento e di conseguenza ad affermarla come Atto puro.
319 - 3. IL PRIMO MOTORE IMMOBILE - In rapporto al termine dell'argomento, che è il concetto di un
primo motore immobile, troviamo un'obiezione presentata da Kant e che contesta l'intelligibilità di questo
concetto.
a) La quarta antinomia kantiana. È sotto la forma di una antinomia, che Kant tenta di confutare la conclusione dell'argomento del primo motore. La tesi stabilisce, secondo Kant, che la serie dei fenomeni è contingente e richiede, una causa prima. L'antitesi afferma al contrario che non esiste in nessun luogo alcun ente
assolutamente necessario, né nel mondo né fuori del mondo, come causa di esso. Da parte nostra, consideriamo la tesi come dimostrata. Tutta la difficoltà concerne qui l'antitesi, che Kant tenta di provare così:
«Supponete che fuori del mondo vi sia una causa assolutamente necessaria, questa causa, essendo il primo
membro della serie delle cause dei cambiamenti del mondo, inizierebbe innanzitutto l'esistenza di questi
cambiamenti e della loro serie. Con un tale inizio di azione la sua causalità rientrerebbe nel tempo, di conseguenza nell'insieme dei fenomeni, ossia nel mondo. Da qui consegue che essa stessa, la causa, non sarebbe
fuori del mondo, ciò che è contrario all'ipotesi».
b) Discussione. Limitando la discussione a ciò che concerne il concetto di causa, si vede che l'errore di
Kant consiste nel supporre che l'esercizio della causalità implichi, come tale, movimento e mutamento nella
causa. Ora ciò è escluso dal concetto stesso di causa: la causa efficiente propriamente detta, ossia quella che
produce l'effetto, è necessariamente fuori dalla serie dei mutamenti che essa genera, giacché tali mutamenti
hanno inizio per virtù di essa. Se dunque si concepisce una causa prima di tutti i mutamenti che si producono
nel mondo, questa causa prima dovrà necessariamente essere concepita fuori dalla serie dei mutamenti, ossia
assolutamente immobile: sarà essenzialmente un motore non mosso. Non si può dire, d'altra parte, che essa
entrerà nel tempo cominciando ad agire, poiché il tempo, che risulta dal mutamento (II, 39), è generato esso
stesso dalla causa prima. Questa è dunque fuori del tempo, come pure fuori del mutamento.
§ 2. Prova tratta dall'efficienza
320 - Nell'argomento precedente, ci si poneva nella prospettiva del divenire fenomenico, ossia dal punto di
vista della passività degli enti. Analizzeremo ora l'attività stessa degli enti. È dunque il punto di vista della
causalità propriamente detta che interviene ora, ossia dell'attività causale che produce non solamente il movimento e il divenire dell'effetto (causa in fieri), ma l'essere stesso dell'effetto (causa in agendo), in modo
che questo può spiegarsi soltanto per l'influsso attuale di una causa efficiente.
A. L'ARGOMENTO.
1. LA CAUSA PRIMA UNIVERSALE - «Constatiamo nel mondo sensibile, scrive san Tommaso (S.
Theol., Ia, q. 2, a. 3), delle cause efficienti. È tuttavia impossibile che qualcosa sia la sua propria causa efficiente, poiché se così fosse, questa cosa esisterebbe prima di esistere, ciò che non ha alcun senso. Ora non è
possibile procedere all'infinito nella serie delle cause efficienti, perché in ogni serie di cause ordinate, la prima è causa dell'intermedia, e questa causa dell'ultima, sia che vi siano più cause intermedie o una sola. In realtà, se voi sopprimete la causa, fate scomparire l'effetto: dunque se non c'è una causa prima non si avrà più
l'ultima né l'intermedia. Ora se fosse possibile risalire all'infinito nella serie delle cause efficienti non vi sarebbe causa prima, e così, non si avrebbero più né effetto né cause intermedie, ciò che è evidentemente falso.
Dunque bisogna porre, necessariamente, una causa prima, che tutti chiamano Dio».
2. TRASCENDENZA DELLA CAUSA PRIMA - Questa causa prima è necessariamente trascendente tutte le serie causali, ossia essa non può essere un elemento della serie delle cause. Infatti se essa non fosse che
il primo elemento della serie causale, bisognerebbe spiegare come questo primo elemento avesse cominciato
ad essere causa, poiché come elemento, ossia come causa particolare univoca, è affetto da tutti i caratteri della serie in quanto tale, il che equivale a dire che esso è causato. Siccome non può essere causa di sé, bisogne-
rà dunque ricorrere ad una causa superiore a quella che si vorrebbe considerare come prima, ciò che è contraddittorio. Bisogna dunque necessariamente che la Causa prima trascenda tutte le serie causali, che essa sia
causa per sé (a se), incausata assolutamente nell'ordine dell'efficienza.
B. ELEMENTI DELLA DIMOSTRAZIONE.
321 - Come nella prova precedente, c'è qui da stabilire un fatto: la realtà dell'efficienza e della subordinazione delle cause, - e un principio, cioè che nulla può essere causa di sé.
l. L'EFFICIENZA E LA SUBORDINAZIONE.
a) Il fatto d'esperienza. La causalità di cui qui si tratta è quella che si esercita per subordinazione, pressappoco, se si vuole, come in un movimento d'orologeria, in cui i congegni molteplici esercitano la loro propria
causalità soltanto in dipendenza gli uni dagli altri. Che nel mondo vi sia una tale subordinazione di cause efficienti, è ciò che l'esperienza come la scienza bastano a dimostrare. Constatiamo infatti, e le scienze positive
mettono in evidenza, non solo la realtà di un concatenamento che fa dipendere gli enti o i fenomeni gli uni
dagli altri per via di generazione o di condizionamento (subordinazione accidentale), ma pure un concatenamento per cui le cause, nella loro stessa attività causale, sono effetti in rapporto a cause superiori (subordinazione essenziale) (257-258).
b) L'obiezione del frazionamento (morcelage). Abbiamo visto più sopra che l'obiezione generale tratta dal
«morcelage» (o frazionamento) è inefficace. Affermare che «non vi sono fenomeni giustapposti numericamente, ma una continuità fenomenica, eterogenea» (Ed. Le Roy, Le problème de Dieu, Parigi, 2a ed., 1929,
p. 32), è accontentarsi di parole. Infatti e innanzitutto, si tratta di sapere se questa continuità sopprima la
molteplicità reale e successiva dei fenomeni: è evidente che non è vero, poiché l'obiezione stessa parla di
continuità eterogenea. D'altra parte, la subordinazione causale è così poco in contrasto con la continuità fenomenica che essa la richiede e la fonda.
322 - 2. NIENTE È CAUSA DI SÉ - Questo principio è evidente per sé, come si è visto in ontologia
(212), poiché la sua negazione condurrebbe all'assurdo che un ente potrebbe esistere prima di se stesso.
La sola obiezione su cui meriti fermarsi rivolta contro questo principio o almeno contro la conclusione che
se ne trae, affermando l'esistenza di una causa prima incausata, è fondata sull'ipotesi della causalità circolare. Gli elementi dell'universo sarebbero in causalità reciproca, trasformandosi la materia in diverse energie
per ritornare poi al suo stato originale e ricominciare il ciclo indefinito delle sue trasformazioni. È noto che
molte dottrine antiche hanno ammesso questo ritorno eterno292. Orbene questa ipotesi, anche se si supponga
che abbia un fondamento, non produrrebbe alcun mutamento nella nostra argomentazione, poiché sia che l'evoluzione sia circolare o lineare, essa concerne soltanto la trasmissione della causalità e non l'origine d'essa. L'origine prima dovrebbe essere cercata necessariamente fuori dell'universo, poiché, secondo la stessa ipotesi, essa non si trova in nessuno degli elementi che lo costituiscono. Si dirà che questa origine si trova
nell'universo considerato come un Tutto? Ma questa concezione, che abbiamo già trovata (292), è una pura
petizione di principio, poiché il Tutto stesso può risultare solo dall'insieme e dall'ordine degli elementi. Esso
dunque nulla spiega, ma richiede di essere spiegato; ciò non si può fare, quando lo si consideri come un sistema di cause ordinate (sia pure questo sistema lineare ovvero ciclico), solo mediante una causa superiore a
tutto l'universo.
3. L'ESSERE PER SÉ - La causa suprema incausata, cui ci conduce l'argomento dell'efficienza, si identifica, come tale, col primo motore universale, e come questo, essa agisce per sé (a se), il che equivale a dire che
essa si identifica col suo agire e che è per sé (aseità). Da questo deriva che essa è Atto puro, sia quanto all'operazione che all'essere, poiché da nessun punto di vista essa ha da passare dalla potenza all'atto. Essa possiede dunque gli altri attributi che appartengono necessariamente all'Atto puro, ossia è una, immateriale, onnipresente e causa universale, creatrice e conservatrice di tutto ciò che è.
§ 3 - Prova tratta dalla contingenza
A. L'ARGOMENTO.
323 -1. FORMA DELL'ARGOMENTO - La via precedente, come quella del movimento, si fondava sulla
realtà di un concatenamento di movimenti e di cause ordinate tra loro. La considerazione di queste gerarchie
non è tuttavia essenziale alla dimostrazione dell'esistenza di Dio. Si può, se si vuole, ritenere l'universo come
un fenomeno unico, ossia come un Tutto, in cui non si cerchi affatto di determinare dei legami fenomenici.
Questo universo, per la sua stessa natura, si presenta ancora come una realtà finita e contingente, che esige
necessariamente, per essere intelligibile, una causa prima della sua esistenza. Così si dovrebbe ragionare,
senza considerazione di intermedi, se partissimo, ad esempio, dallo spirito finito: da lui a Dio la relazione
causale non ammette alcun intermediario, poiché la creazione è immediata (III, 636).
In realtà, come si vedrà, è la stessa natura dell'essere finito che impone di ricorrere ad una causa dell'essere, cioè qui ad un essere necessario. Per questa dimostrazione, nessun ricorso s'impone all'ipotesi di gerarchie causali in seno all'universo: è quanto v'è di più intrinseco all'essere finito, cioè la sua contingenza stessa,
che fonda l'esigenza assoluta di un primo essere, necessario per la sua stessa essenza.
2. ESPOSIZIONE - Questa nuova prova parte dal fatto che l'universo è composto di enti contingenti, cioè
di enti che sono, ma che potrebbero non essere, poiché questi enti, o li vediamo nascere, trasformarsi e perire, o la scienza ci mostra che sono stati formati e che sono sottoposti ad un processo permanente di dissociazione, o la loro composizione stessa li rivela dipendenti da un principio di unità interna. Pertanto degli enti
contingenti non hanno in se stessi la ragione della loro esistenza. In realtà, un ente che avesse in sé, ossia nella sua natura, la ragione della sua esistenza, esisterebbe sempre e necessariamente, e non potrebbe subire alcun mutamento. Gli enti contingenti devono dunque avere in un altro la ragione della loro esistenza, e quest'altro, qualora sia contingente, dovrà pure averlo in un altro. Ma non si può procedere in questo modo all'infinito: di ente in ente si deve pervenire alla fine ad un essere che abbia in se stesso la ragione della sua esistenza, cioè ad un essere necessario, esistente per sé, e in virtù del quale tutti gli altri esistano. Quest'essere
necessario, che esiste per la sua propria natura e che non può non esistere, è Dio.
B. ELEMENTI DELLA DIMOSTRAZIONE.
324 - Vi sono tre punti da esaminare in questa prova: il fatto della contingenza, il principio che il contingente può spiegarsi soltanto per mezzo del necessario, infine la conclusione che l'essere necessario per sé è
Dio.
1. IL FATTO DELLA CONTINGENZA.
a) I segni di contingenza. Come stabilire in modo assolutamente certo la contingenza di un ente e quella di
tutto l'universo? San Tommaso dà come segno certo di contingenza il fatto di non esistere sempre, di nascere
e di perire. È infatti il segno più sicuro della contingenza ed esso è sufficiente a fondare l'argomento, poiché
è evidente che nel mondo tali enti esistono. Si può aggiungere, il fatto d'essere composto da parti, poiché
ogni composizione o unione non può spiegarsi adeguatamente con i soli elementi del composto (251), come
il fatto d'essere sottoposto al divenire, poiché ciò che muta non è necessario.
b) Obiezione. Si è obiettato che questo concetto del contingente implicherebbe una petizione di principio.
Infatti, si dice, il fatto di nascere e di morire non significa necessariamente la contingenza, poiché è possibile
che la nascita e la morte di un essere siano assolutamente necessari, ad esempio in funzione del Tutto. Parimenti, il composto non è più contingente, se si ammette che gli elementi da cui risulta sono stati determinati
necessariamente a costituire il tutto.
Questa obiezione non tocca ciò che è in questione. Da un lato infatti, cerchiamo il necessario, non nell'ordine del divenire (subordinazione accidentale), ma nell'ordine dell'essere (subordinazione essenziale nell'esistenza): l'essere necessario nell'ordine del divenire rimane essenzialmente contingente dal punto di vista dell'esistenza attuale, giacché il fatto di nascere e di perire significa che non è necessario per sé, in virtù di se
stesso. D'altra parte, si intende tanto poco negare che vi sia alcunché di necessario al mondo, che l'ipotesi di
una contingenza universale appare assurda: se tutti gli enti fossero contingenti, nulla sarebbe mai passato da
questa indifferenza universale all'esistenza. Attualmente, assolutamente nulla vi sarebbe. Dunque nel mondo
c'è il necessario. Ora questo necessario, perché possa spiegarsi la realtà attuale degli enti contingenti, è necessario o in virtù di sé o in virtù di un altro. Se è tale in virtù di sé, questo necessario è Dio. Se è tale in ragione di un altro, quest'altro a sua volta è tale in virtù di sé o di un altro. Ad ogni modo, è impossibile, in
quest'ordine, procedere all'infinito, poiché non si avrebbe più il principio primo dell' essere. Bisogna dunque
porre un primo essere necessario per sé, principio dell'essere universale. Quest'essere necessario è Dio.
325 - 2. CONTINGENTE E NECESSARIO - Il principio che «il contingente non può spiegarsi adeguatamente che col necessario» sembra godere di una evidenza immediata, poiché non è che una forma del principio di ragion sufficiente. Essendo infatti il contingente ciò che non ha in sé la ragione della sua esistenza per
essere intelligibile, deve avere questa ragione in un altro, e siccome in quest'ordine non si può procedere all'infinito, bisogna dunque porre la esistenza di un necessario.
A questo argomento si è opposto (come al concetto di contingente) che essa costituirebbe una petizione di
principio, in quanto il principio di ragion sufficiente sarebbe già di per sé una implicita affermazione di Dio.
Questa difficoltà deriva invero da un errore sulla natura del principio di ragione: questo principio è fondato
soltanto sull'essere in generale, di cui esso enuncia le condizioni di intelligibilità (210). Se esso contiene virtualmente l'affermazione dell'esistenza di Dio, non suppone affatto la conoscenza attuale, sia pure semplicemente implicita, di questa esistenza, che rimane da dimostrare.
326 - 3. IL NECESSARIO PER SÉ - La prova conclude con l'affermazione che l'essere necessario per sé è
Dio. La conclusione è rigorosa, ma richiede alcune spiegazioni. In realtà, si potrebbe dire: la prova afferma
gratuitamente che l'essere necessario è Dio, ossia un essere distinto dal mondo, e infinitamente perfetto. Tutto ciò che è stabilito è l'esistenza d'un essere necessario. Non si può ammettere tuttavia che il necessario sia
l'insieme degli enti contingenti, considerati come un tutto, o la loro legge immanente, o ancora il divenire
soggiacente ai fenomeni? D'altra parte, non si dovrà scoprire un ritorno all'argomento ontologico nell'identificazione del necessario col perfetto? Queste sono le difficoltà che noi dobbiamo esaminare.
a) Il Tutto contingente. È chiaro che una semplice collezione o somma di enti contingenti non può essere
ritenuta necessaria: poiché, per ipotesi, la somma o la collezione dipende dagli elementi che la compongono,
è contingente come essi. Per attribuirle il carattere della necessità, bisognerebbe almeno farne un tutto reale e
supporre un principio immanente di unità (legge, idea o divenire), distinto dagli elementi ch'esso governa.
Per contro, si può opporre, come fa Boutroux (La contingence des lois de la nature, Parigi, 1874; cfr. tr. it.
di S. Caramella, Bari, 1949), di non conoscere alcuna legge, neppure quella della conservazione dell'energia,
che abbia in sé il contrassegno della necessità. Questa osservazione tuttavia non ha una portata sufficiente:
essa si limita all'ordine di fatto, non di diritto. Bisogna andare oltre e dimostrare che il Tutto come tale è affetto da una contingenza radicale. Questa risulta infatti dalla molteplicità interna del Tutto: abbiamo visto
come sia metafisicamente impossibile spiegare l'unità del diverso e del molteplice senza una causa distinta
dal Tutto come tale. Da un lato infatti ciò che è di per sé diverso non può essere uno nello stesso tempo e sotto lo stesso rapporto, dall'altro poi, la ragione dell'unità non può essere data in una legge immanente identica
al Tutto; poiché ciò sarebbe di nuovo uno spiegare il Tutto col Tutto, ciò che è un circolo evidente, o con gli
elementi, il che è escluso come contraddittorio. Quanto a supporre, alla maniera di Spinoza, una sostanza unica, unificante il divenire che essa genera e sostiene, ciò non fa che spostare il problema del mondo e non
risolverlo. Poiché si tratta di sapere se questa Sostanza si distingua realmente dal divenire o se sia essa stessa
in divenire. Nel primo caso, si ha, fuori del divenire, un essere necessario che spiega gli enti contingenti dell'esperienza. Nel secondo caso la Sostanza non potrà più (in base alla prima prova del movimento) essere
concepita come perfettamente in atto ed essa richiederà a sua volta, per essere spiegata, una causa trascendente, estranea al divenire, Atto puro, Essere necessario per sé.
Bisogna dunque concludere che il Tutto, proprio in virtù della sua molteplicità e della sua diversità interna, è contraddistinto dal segno della potenzialità e, per ciò stesso, dalla contingenza radicale.
327 - b) Divenire e contingenza. Alcuni filosofi hanno pensato che il divenire potesse conferire alle cose
tutto ciò che esse richiedono di necessità per essere. Il mondo, in questa concezione, sarebbe sottoposto ad
un divenire permanente, che costituirebbe la sua legge più profonda e che definirebbe anzi l'essenza dell'essere universale. Esso basterebbe dunque per spiegare adeguatamente tutto ciò che si produce successivamente nella durata, senza richiedere alcun altro principio distinto da se stesso.
Non si vede come ci si possa soddisfare di un tale spiegazione. Il divenire, come tale, non è che un passaggio, cioè passaggio dalla potenza all'atto. Ciò suppone assolutamente, al principio stesso del divenire, un essere in atto, diversamente il divenire rimarrebbe sospeso nel vuoto e procederebbe dal nulla. Si può senza
dubbio, per fargli spiegare l'universo e la sua organizzazione, in certo modo conferirgli l'attuosità e supporre
che esso contenga tutto ciò che deve produrre. Ciò tuttavia, evidentemente, non è che una petizione di prin-
cipio. È dunque impossibile porre il divenire all'origine o, se si preferisce, considerare il divenire come il
Principio primo, poiché ciò in sostanza equivale a spiegare l'essere col nulla.
328 - c) Il necessario e il perfetto. L'obiezione più speciosa è quella di Kant, che pretende di ridurre la terza prova all'argomento ontologico. Non basta, egli dice, approdare ad un essere necessario: bisogna ancora
stabilire che quest'essere necessario è Dio o l'essere sovranamente perfetto. Che ciò implichi il sofisma ontologico, se ne dà prova con la conversione semplice della proposizione: «Ogni essere necessario è perfetto»,
che diventa: «Qualche essere perfetto è necessario» (I, 67). Ma siccome non può esserci alcuna distinzione
tra enti perfetti ed essendo l'essere perfetto necessariamente unico, la proposizione convertita equivale a questa: «L'essere perfetto è necessario (= esiste necessariamente)», ciò che è la tesi stessa dell'argomento ontologico.
L'obiezione di Kant non regge. Abbiamo visto infatti che la proposizione «L'essere perfetto esiste necessariamente», quale si presenta nell'argomento ontologico, non esprime che una necessità logica: se c'è un Essere perfetto, egli esiste per sé. Sant'Anselmo, avrebbe potuto ancora enunciare: «Se un essere esiste per sé (è
necessario), è sovranamente perfetto», poiché i concetti di necessario e di perfetto si implicano reciprocamente. Tuttavia, diciamo, rimane da provare a posteriori l'esistenza del Perfetto, consistendo il sofisma ontologico nel passare immediatamente dal piano concettuale a quello reale. Se però si stabilisce a posteriori l'esistenza dell'Essere necessario per sé, non c'è più alcun paralogismo nel passare dal Necessario al Perfetto,
più che ve ne sia, una volta stabilita l'esistenza del Perfetto (prima via), nell'affermare che questo Perfetto esiste necessariamènte, per sé (a se), che è la sua stessa esistenza. Non c'è alcun rapporto tra questi procedimenti e quello dell'argomento ontologico.
d) Conclusione dell'argomento. Qui dunque constatiamo ancora che l'aspetto sotto cui ci è rivelata la causa
prima dalla terza via implica tutti gli attributi che risultano dalle altre prove. L'Essere necessario ci appare
infatti come l'Essere perfetto: se egli ha in se stesso la sua piena ragione d'essere, egli esiste per sé; è dunque
il suo proprio essere; la sua essenza e la sua esistenza costituiscono una unità e nulla in lui limita né restringe
l'ampiezza dell'essere o della esistenza. Per ciò stesso, bisogna dirlo Infinito, poiché, essendo colui che è per
essenza, egli possiede necessariamente tutto ciò che è essere: il nome di Infinito gli conviene dunque nel senso di pienezza dell'essere e non nel senso negativo di indeterminazione, di incompiutezza e di potenzialità,
tutte cose contraddittorie rispetto all'infinito divino, che è Atto puro. Infine, tale Infinito è necessariamente al
di sopra dell'ordine materiale e corporale, che è limitato, finito, molteplice e potenziale per natura. Egli è
dunque Spirito.
Art. II – Il perfetto sussistente
329 - La quarta via si presenta dapprima sotto una forma che sembra separarla dalle altre, poiché essa
sembrerebbe eliminare il punto di vista della causalità efficiente per sostituirgli quello della causalità esemplare (279), o almeno richiederla solo a titolo complementare. Vi si presenta una serie di difficoltà che dobbiamo analizzare, al fine di distinguere con tutta la precisione richiesta il senso della quarta via.
§ l - L'argomento
1. LA PROVA TRATTA DAI GRADI DEGLI ENTI - San Tommaso enuncia questa prova sotto la seguente forma: «Si constata che alcuni enti sono più o meno veri, più o meno buoni, ecc. Ora il più e il meno
si dicono di cose diverse secondo la loro diversa approssimazione ad un massimo. Esiste dunque qualche cosa che è la più vera, la migliore e, di conseguenza, ciò che è essere nel massimo grado. Ora ciò che è massimo in un genere è la causa di tutto ciò che appartiene a questo genere. Esiste dunque un essere che è, per tutto il resto, causa d'essere, di bontà e di ogni perfezione, e questo essere è Dio». (S. Theol., Ia, q.2, a. 3).
330 - 2. NATURA DELLA PROVA - L'argomento che precede è stato interpretato in due differenti modi.
Vi sono infatti due parti distinte nel testo della Somma teologica. La prima perviene a questa conclusione:
«esiste dunque un essere che è il migliore, il più vero e di conseguenza, l'essere più autenticamente tale», e
questa argomentazione si fonda semplicemente sul principio che ovunque esistano dei gradi di perfezione,
deve pure esistere un massimo di questa perfezione. La seconda parte inizia con queste parole: «Ora ciò che è
il massimo in un genere è la causa di tutto ciò che appartiene a questo genere», e conclude all'esistenza di
una causa di tutte le perfezioni che si riscontrano nelle cose. Molti interpreti hanno pensato che la prova del-
l'esistenza di Dio sia completa nella prima parte e che la seconda sia destinata, non a stabilire l'esistenza di
un Essere supremo, ma a provare che quest'Essere è causa universale293. Tuttavia questa opinione sembra poco sostenibile. La sua principale difficoltà è che la prima parte della prova, presa isolatamente e come sufficiente a se stessa, sembra ridursi ad una specie di argomento ontologico. Essa implicherebbe infatti il ragionamento seguente: per il fatto stesso che si può passare da un ente imperfetto in un ordine di perfezione reale, oppure dall'esistenza di gradi diversi di una stessa perfezione, all'idea di un essere assolutamente perfetto
in questo ordine di perfezione, si deve concludere che quest'essere esiste necessariamente. Per evitare questo
passaggio paralogico dall'ideale al reale, riteniamo che occorra far intervenire la seconda parte dell'argomento, destinata a stabilire che l'essere perfetto il cui concetto è imposto dall'argomento precedente deve esistere
in quanto causa, esemplare ed insieme efficiente, di tutti gli enti che possiedano in gradi diversi la perfezione
che esso possiede per essenza. In realtà, enti che possiedano gradi inuguali di perfezione non hanno in se
stessi la ragione ultima di questa perfezione e questa può spiegarsi solo in virtù d'un essere che la possieda
assolutamente e per essenza e che la comunichi agli altri come partecipazione finita294.
§ 2 - Elementi della dimostrazione
331 - Come nelle prove precedenti, esamineremo il fatto che costituisce il punto di appoggio della prova,
cioè i gradi di perfezione, il principio della dimostrazione e la conclusione dell'argomento.
1. I GRADI DI PERFEZIONE - Negli enti constatiamo l'esistenza di perfezioni attuate in gradi diversi.
Questo è il fatto su cui si fonda l'argomento. Per dargli tutto il suo significato, bisogna intendere che le perfezioni di cui qui si tratta, sono quelle che sono suscettibili di gradi e possono esistere sotto forma assoluta e
che, di conseguenza, non implicano alcuna imperfezione nella loro ragione formale. Bisogna dunque escludere le perfezioni generiche e specifiche, come pure le perfezioni dell'ordine materiale, poiché le prime non
possono comportare gradi (un uomo non è più animale né più o meno uomo di un altro), e le altre, implicando imperfezione essenziale, non possono esistere allo stato assoluto (non può esserci né quantità perfetta o
assoluta, né materia perfetta, né il numero più grande di tutti, ecc.).
Le perfezioni considerate sono dunque soltanto le perfezioni semplici, cioè le proprietà trascendentali (essere, unità, verità, bontà) e, in generale, tutte le perfezioni (come sapienza, intelligenza, potenza, ecc.) che,
trascendendo i generi e le specie, sono suscettibili di esistere analogicamente secondo il più e il meno e di
essere attuate allo stato assoluto, senza alcuna limitazione.
332 - 2. PRINCÌPI DELL'ARGOMENTO - Partendo da queste perfezioni semplici, si stabilisce l'argomento dei gradi. Esso conclude dall'esistenza di questi gradi, all'esistenza di un essere assolutamente semplice,
assolutamente vero, assolutamente buono, assolutamente sapiente e potente, ecc., che è, per conseguenza,
l'Essere stesso, la Verità stessa, la Sapienza e la Potenza stessa, ecc., ossia la Perfezione suprema. Il passaggio si effettua per mezzo dei seguenti princìpi: «Allorché una perfezione si riscontra a gradi diversi in diversi
enti, nessuno di quelli che la possiedono in un grado imperfetto riesce a renderne ragione; bisogna che essa
abbia la sua causa in un essere superiore, che la possieda allo stato assoluto e infinito, senza alcuna limitazione»; «le perfezioni attuate allo stato assoluto e infinito si implicano reciprocamente in un Essere supremo
infinitamente perfetto».
a) La perfezione suprema. Il primo principio stabilisce l'esistenza di una Perfezione suprema e infinita in
ogni ordine di perfezione attuata in gradi diversi o posseduta da enti distinti.
Dal primo punto di vista, in cui si considera una perfezione attuata secondo un certo grado in un ente qualsivoglia, diciamo che questo ente non può possedere questa perfezione per se stesso, cioè per la sua essenza,
poiché se la possedesse per essenza, esso l'avrebbe pienamente e assolutamente e non secondo un grado limitato. Esso non è dunque questa perfezione e deve perciò averla ricevuta da un altro, in rapporto al quale si
porrà la stessa questione. Siccome non si può procedere all'infinito, bisognerà sempre pervenire ad un essere
che possieda per sé e completamente la perfezione considerata. Il primo, infatti, in ogni genere, è la causa di
tutti gli altri295.
Dal secondo punto di vista, si considera una stessa perfezione posseduta da enti distinti. In questo caso bisogna dire che questi enti non possono avere questa perfezione per se stessi, ossia non possono averla tutti
come una cosa propria, costitutiva della loro essenza, altrimenti non si avrebbe più tra loro distinzione; essi si
identificherebbero con questa perfezione stessa che li definirebbe. Ad esempio, se Pietro, quest'uccello e
questo fiore sono viventi, ciò non può essere in ragione del fatto che l'uno d'essi è Pietro, l'altro è questo uccello o l'altro ancora è questo fiore, poiché come tali essi sono differenti, ma solamente in quanto essi parte-
cipano una perfezione, cioè la vita, che non appartiene essenzialmente e assolutamente a nessuno di loro. È
così che ogni perfezione posseduta da enti molteplici può spiegarsi solo come una partecipazione finita ad
una perfezione suprema, attuata in un essere che la possiede assolutamente e per sé e che ne è la causa prima universale in tutti quelli che partecipano alla sua perfezione.
Al principio generale che «ogni atto puro è perfetto e illimitato nel suo ordine» (180) bisogna ricondurre
l'argomentazione che stabilisce come un ente avente allo stato imperfetto un carattere il cui concetto non implichi imperfezione, non può possedere questo carattere per se stesso, ma solamente in virtù di un altro, che
lo possieda per sé. In altri termini, solo il perfetto rende ragione dell'imperfetto. Sappiamo infatti che ciò che
si possiede per sé o per essenza non si può che possederlo pienamente (cfr. Contra G., II, c. XV, n. 2), poiché
ogni atto puro è perfetto nel suo ordine. Se dunque un carattere che, da sé, non dice alcuna imperfezione, in
un ente si trova allo stato imperfetto, ciò avviene perché esso si unisce con una potenza. Ora quale può essere
la ragione di questa unione o composizione? Questa ragione è necessariamente estrinseca all'atto o alla perfezione, il che significa che quest'atto, imperfetto e limitato, è causato. Bisogna dunque, per rendere ragione
dell'imperfetto, ossia del composto, pervenire ad un essere semplice, atto puro, ossia perfetto, causa di tutto
il resto, sia nel suo ordine, sia nell'ordine totale dell'essere: Quod est maxime tale est causa omnium aliorum.
(Cfr. S. Theol., Ia, q. 44, a. 1).
333 - b) Il Perfetto sussistente. Il principio precedente, sotto i suoi due aspetti, ci conduce a stabilire, in tutti gli ordini di perfezione, una perfezione suprema. Non perveniamo così a una molteplicità di perfezioni infinite, poiché ogni perfezione infinita implica tutta la perfezione. È ciò che dimostrava Platone allorché riduceva i tipi eterni delle cose all'unità suprema del Bene, come al principio di tutto ciò che vi è di bello e di
buono nell'universo. (Repubblica, VI, 109 b, in ed. J. Adam, Cambridge, 1902; cfr. tr. it. di E. Turolla, Milano, 1954, 111).
3) Di questa dialettica, bisogna mantenere l'affermazione dell'unità necessaria del Principio primo, ma definire questo Principio come Essere infinito. Infatti, tutte le perfezioni trascendentali non esprimono che aspetti dell'essere e si implicano reciprocamente quando sono attuate allo stato assoluto e sono sussistenti. Esse si riducono dunque ad altrettanti aspetti dell' Essere infinitamente perfetto, che le contiene tutte nella semplicità assoluta della sua essenza infinita, e che come tale è ragione e causa universale delle perfezioni molteplici e diverse attuate nei modi finiti dell'essere.
L'essere infinito attua infatti in ciò che esse hanno di formale e in un modo eminente, assolutamente trascendentale a tutte le loro attuazioni finite, tutte le perfezioni il cui concetto non implichi alcuna limitazione
essenziale. Quanto alle altre perfezioni, l'Essere infinito, che ne è così causa prima, può possederle in una
maniera soltanto virtuale, poiché esse ammettono una imperfezione intrinseca. Né la quantità, né la materia,
né alcunché di ciò che comporta per natura quantità e materia, può ritrovarsi in Dio. Ma Dio contiene, in
quanto causa universale, tutta la perfezione positiva che possiedono le realtà affette da una finitezza essenziale.
3. CONCLUSIONE DELL'ARGOMENTO - L'Essere infinitamente perfetto cui conduce l'argomento dei
gradi, è dunque la causa esemplare da cui procedono, sotto forma di partecipazioni finite, tutte le perfezioni
degli enti della creazione, la causa efficiente di tutte queste perfezioni, ossia, poiché le perfezioni non sono
che aspetti dell'essere, la causa prima dell'essere universale, infine la causa finale, verso cui tendono tutti gli
enti, come verso il principio stesso di tutta la perfezione e l'essere che essi posseggono296.
§ 3 - Argomenti derivati o affini
334 - Un certo numero di prove dell'esistenza di Dio possono essere riallacciate all'argomento dei gradi o
addirittura hanno valore soltanto nella misura in cui esse si riducono alla dialettica dei gradi. Tale è la prova
per le verità eterne e molte di quelle che si è soliti chiamare prove morali.
A. LE VERITÀ ETERNE.
L'argomento delle verità eterne è stato particolarmente sviluppato da sant'Agostino297, poi, nel XVII secolo,
dai cartesiani298. Kant, dal canto suo, nella sua Dissertazione edita nel 1763 a Konigsberg su Der einzig
mogliche Beweisgrund zu einer Demonstration des Daseins Gottes (ora in Sammtliche Werke, 22 vol., Berli-
no, 1902-55, vol. II, Vorkritische Schriften) [L'unico fondamento possibile d'una dimostrazione dell'esistenza
di Dio], dichiarava che l'argomento delle verità eterne era, ai suoi occhi, la sola prova valida di Dio.
1. LA PROVA AGOSTINIANA.
a) ESPOSIZIONE - Il punto di partenza della prova è costituito dalle verità eterne. Che vi siano tali verità,
è quanto rivela l'analisi della conoscenza e delle sue condizioni. Vediamo infatti che la verità è indipendente
dallo spirito: non solamente le essenze delle cose sono eternamente e immutabilmente vere (198), ma altresì
ogni volta che noi giudichiamo, in qualunque ordine, noi ci riferiamo a norme che trascendono il nostro spirito e che s'impongono insieme a tutte le intelligenze. Così noi giudichiamo lo spirito stesso secondo la verità,
che lo misura, e riceviamo la verità come una norma immutabile, imperitura, eterna.
Dove risiedono dunque queste verità e questa fonte di verità? La verità non è in un luogo, poiché essa non
è corporea: essa non è nelle cose in divenire, perché non muta; non è nelle intelligenze finite, poiché queste
intelligenze non costituiscono la verità ed essa sussiste alla loro scomparsa così come precede la loro nascita.
Essa non può dunque risiedere che in una Intelligenza infinita, sottratta alle condizioni dello spazio e del
tempo, poiché i caratteri della verità sono intelligibili soltanto per una Verità sussistente, che è Dio stesso. La
verità, infatti, essendo propriamente ciò che è, deve identificarsi con Colui che è (cfr. sant'Agostino, De
Immortalitate animae, in ed. del «Corpus Vienn.», Vienna, 1896 segg., c. XII, n. 19) ed essendo il bene sovrano, essa deve identificarsi con Colui che è il nostro bene sovrano (cfr. De vera religione, c. XXXVI, n.
66, in ed. cit.).
335 - LA PROVA DI SAN TOMMASO - Così appunto san Tommaso ha inteso l'argomento delle verità
eterne, che egli utilizza in particolare nella Summa contra Gentiles, II, c. 84299. Se san Tommaso non fa menzione speciale della prova agostiniana tra gli argomenti della Somma teologica, ciò si deve al fatto che questa
prova si riduce alla quarta via, in quanto consiste nello stabilire che le verità eterne, essendo molteplici e gerarchizzate, non possono avere ciascuna in se stessa la loro ragione ultima e che esse esigono per conseguenza una verità suprema, un primo intelligibile (maxime verum), che sia origine universale dell'intelligibilità
(causa universalis contentiva omnis veritatis). Soltanto in questo modo, ossia mediante il ricorso alla causalità, sotto la forma agostiniana o tomistica, l'argomento delle verità eterne risulta una prova metafisica autentica o anzi la sola prova metafisica presa dal punto di vista del vero trascendentale, la quale guidi ad affermare
Dio come verità sussistente.
336 - 2. L'ARGOMENTO DI KANT - Bisogna citare a parte la prova proposta da Kant, poiché essa riveste una forma originale e incontra difficoltà estranee all'argomento agostiniano.
a) Esposizione. Kant parte dalla possibilità intrinseca, che è, egli dice, «l'accordo, conforme al principio di
non contraddizione, di ciò che in questa cosa è pensato simultaneamente». Dereinzig mogliche Beweisgrund
zu einer Demonstration des Daseins Gottes, in Kls Gesammelte Werke, 22 voll., Berlino, 1902-1955, vol. II
delle Vorkritsche Schriften 1757-77, L'unico fondamento possibile di una dimostrazione dell'esistenza di
Dio, I parte, 2a considerazione, § 1). È dunque ciò che noi abbiamo chiamato l'intelligibilità delle essenze.
Kant stabilisce poi che la possibilità interna presuppone qualche esistenza, poiché, se ogni esistenza fosse
soppressa, non si avrebbe più nulla di posto, più nulla di dato, non si avrebbe più materia e niente di pensabile, ed ogni possibilità sarebbe completamente annientata. Ogni possibilità è dunque data in ragione di qualche esistente, sia in se stesso, come sua determinazione, sia da esso, come sua conseguenza o effetto. Di conseguenza esiste necessariamente qualche essere che sia il fondamento di tutti i possibili (cfr. ibid., § 2-4).
Kant dimostra poi che quest'Essere è per sé, unico, semplice, immutabile ed eterno (cfr. 3a considerazione, §
1-5).
b) Discussione. La difficoltà capitale di questa argomentazione è che essa sembra si riduca ad una petizione di principio. In realtà, se si sopprime ogni esistenza, si sopprime evidentemente ogni materia pensabile e
di conseguenza ogni possibilità. La conseguenza è rigorosa. Tutta la questione tuttavia sta nel sapere se sia
necessario che qualche cosa esista. Ora la negazione di ogni esistenza non implica alcuna contraddizione interna. Tuttavia, Kant nega che si possa pensare la soppressione di ogni esistenza, poiché ciò sarebbe sopprimere ugualmente ogni possibilità. Il circolo vizioso è evidente.
Kant, è vero, pretende proprio di evitare il circolo, ma non l'evita che ricorrendo ad una specie di argomento ontologico. Infatti, egli dice, il possibile è insieme qualcosa che può essere pensato, e qualcosa di non
contraddittorio. Il possibile implica dunque la non contraddizione, più un dato o una materia fornito al pensiero (cfr. 2a considerazione, § 2). Quindi il possibile (o l'essenza) implica l'esistente. Si vede chiaramente
come Kant non faccia che passare indebitamente dall'ordine ideale (= pensabile) all'ordine reale (= esistente).
Se il possibile è «qualche cosa» che può essere pensato, questo qualcosa non esiste che nel pensiero.
Kant non ha ripreso questo argomento nella Critica, in cui confuta in generale ogni prova di Dio. Si può
supporre che egli si fosse convinto della sua inconsistenza. Per renderlo concludente bisogna far appello alla
causalità esemplare, che sola permette di stabilire l'esistenza necessaria di una Intelligenza che, in quanto
Modello sussistente di tutte le cose, sia il fondamento ultimo di tutti i possibili.
B. LE ASPIRAZIONI DELL'ANIMA.
337 - L'argomento fondato sulle aspirazioni naturali dell'anima per il possesso di un bene infinito è certamente di una grande forza, poiché esso muove vivamente la sensibilità, imponendosi nello stesso tempo per
le sue esigenze razionali. Si deve però presentarlo sotto una forma corretta, ciò che implica due condizioni:
da un lato si stabilisca che il desiderio dell'anima è naturale e, come tale, richiede una ragion d'essere; dall'altro lato, si provi che questa inclinazione naturale è orientata ossia definita nel suo fine da un termine che le
dà la sua ragion d'essere. (Cfr. S. Tommaso, Summa contra Gentiles, III, cc. XXIV-XXXVII).
1. IL DESIDERIO NATURALE DI DIO - Il punto di partenza dell'argomento è dunque un fatto dell'ordine
morale, cioè il desiderio naturale della perfezione o del bene infinito, manifestato dall'inquietudine inappagabile dell'anima umana. La nostra volontà si orienta da sé, dalla sua profondità, in virtù di una specie di logica immanente, verso il Bene assoluto e verso l'Essere necessario. Senza dubbio, molto spesso, la nostra azione reale viene a contraddire la nostra volontà profonda, quella volontà che è in noi autenticamente una natura. Tuttavia l'insoddisfazione della coscienza, gli scacchi, le debolezze di ogni specie non cessano di avvertirci dei nostri errori e di impegnarci ad obbedire più fedelmente alle esigenze del nostro voler-essere fondamentale. In questa via, impossibile arrestarsi: né i piaceri, né la scienza, né l'arte possono appagare le nostre
aspirazioni dalle ampiezze infinite. Esse ci orientano irresistibilmente al di là dell'umano, al di là di tutto l'universo, verso Dio, fine ultimo in cui solo il nostro cuore può trovare appagamento e gioia pura300.
338 - 2. IL BENE INFINITO - Il principio dell'argomento è quello di finalità: l'argomento stabilisce che le
aspirazioni infinite dell'anima non avrebbero alcun senso e sarebbero irrazionali se Dio non esistesse, poiché esse sarebbero orientate verso un termine inesistente, ossia sarebbero determinate da un termine inesistente, ciò che è inintelligibile.
Da quanto s'è detto risulta chiaro che quanto dà all'argomento il suo carattere proprio è il suo stabilire che
l'imperfetto e il relativo, ossia il desiderio naturale dell'anima umana, non può essere che per il perfetto e l'assoluto, cioè per Dio; ora ciò implica il principio di finalità, forma del principio di ragione sufficiente. Esso
differisce perciò dall'argomento dei gradi che consiste nel dimostrare che l'imperfetto può essere solo in virtù
del Perfetto, il che implica il principio di causalità. Tuttavia il fatto che esso conclude all'esistenza necessaria
del Perfetto sussistente o del Bene infinità, giustifica che lo si ravvicini all'argomento dei gradi, il quale conduce alla stessa conclusione301.
Questo argomento tratto dalle aspirazioni dell'anima è spesso proposto sotto una forma discutibile. In particolare ciò avviene quando si pretende di stabilire l'esistenza di Dio immediatamente partendo dall'aspirazione naturale dell'anima verso il bene infinito. Vi è in questa forma una petizione di principio, poiché per sapere che le nostre aspirazioni naturali non saranno frustrate, bisogna innanzitutto aver stabilito l'esistenza di
una Provvidenza giusta e saggia, e d'altra parte dimostrare che solo un Dio personale, Amore e Bontà infinita, può appagare tutte le aspirazioni del nostro cuore.
C. LA COSCIENZA MORALE.
339 - La prova tratta dalla coscienza morale si presenta sotto due aspetti differenti. Il primo concerne il fatto dell'obbligazione morale e del dovere, il secondo richiede la necessità di una sanzione dell'ordine morale e
si fonda nettamente sul principio di finalità.
1. L'OBBLIGAZIONE MORALE - L'argomento fondato sul fatto dell'obbligazione morale consiste nel
dimostrare che il dovere, cioè l'obbligazione assoluta che s'impone all'uomo di attuare il bene onesto o bene
razionale, può spiegarsi solo come una partecipazione in noi alla Legge eterna, ossia a Dio in quanto primo
Bene in sé, fondamento di ogni obbligazione e Legislatore supremo.
In realtà, non è possibile render ragione dell'obbligazione morale né per mezzo dell'individuo, che è dominato dalla legge del dovere e non può in alcun modo liberarsene, né per mezzo della società, che ha potere
soltanto sull'esterno e non sulla coscienza e che ha essa pure autorità solo in virtù della legge morale, né per
mezzo della legge stessa, che si riduce ad un effetto dell'obbligazione morale e di conseguenza la presuppone, lungi dal fondarla (almeno nell'ordine naturale): in altri termini, è il bene o l'obbligazione morale che
spiega il dovere (= la legge), e non inversamente, come pretende Kant, il dovere che spieghi il bene. Bisogna
dunque, per render ragione del fatto dell'obbligazione morale, ricorrere alla volontà d'un Legislatore supremo, che sia principio insieme dell'ordine fisico e di quello morale, in quanto l'ordine di diritto risulta dall'ordine essenziale delle cose. Il Legislatore supremo è dunque necessariamente Creatore e sovrano Padrone di
tutto.
Contro questo argomento, si sono fatte valere due obiezioni. La prima viene dalla Scuola sociologica e
consiste nello spiegare l'obbligazione morale con l'abitudine o l'eredità, risultando essa stessa da una lunga
pressione della società sugli individui. Ritroveremo in Morale questa teoria e mostreremo che essa è incapace di dar ragione del dovere così come ci è apparsa impotente a spiegare la logica e la ragione (III, 392393; 507-508). Basterà qui osservare che l'essenziale della tesi durkheimiana si riassume in questa argomentazione logicamente discutibile: la morale è per la società; dunque essa deriva dalla società (cfr. Durkheim, L'éducation morale, Parigi, 1915, pp. 1-98). In questa tesi v'è un duplice paralogismo: da una parte,
infatti, la società non è il fine totale e ultimo della morale; dall'altra parte, per il fatto che essa è fine (parziale), non si può concludere che essa sia causa efficiente.
L'altra obiezione incrimina l'argomento come petizione di principio. Per il medesimo fatto, si dice, che si
definisce la coscienza morale come una coscienza di obbligazione, ci si procura il concetto di Legislatore che
l'argomento finge di dedurre logicamente. In realtà l'idea di obbligazione morale suppone già almeno confusamente l'esistenza di un essere supremo, fine ultimo dell'uomo e principio primo dell'ordine morale. Questa
obiezione invoca a giusto titolo una conoscenza virtuale confusa dell'esistenza del Legislatore come implicata nel sentimento dell'obbligazione morale. Questa conoscenza confusa tuttavia ben si spiega con le ragioni
stesse che l'argomento si limita a precisare discorsivamente. Non v'è dunque petizione di principio, ma bensì
interpretazione metafisica che definisce nella sua essenza la coscienza morale ed altresì esplicitazione del
ragionamento mediante il quale questa coscienza si orienta spontaneamente verso il Bene, trascendente, vivente e personale, che solo rende ragione di ciò che essa è.
Per contro, l'obiezione reggerebbe, sembra, contro la, forma kantiana del medesimo argomento. Kant, infatti, parte dall'imperativo categorico (= il dovere) e dimostra che un tale imperativo include l'idea di una volontà pienamente morale, - quella del concetto di Bene supremo, - quest'ultimo il concetto di felicità perfetta,
la cui possibilità suppone l'esistenza di Dio. Dunque Dio esiste (cfr. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, in
ed. cit., voI. V; cfr. Critica della Ragion pratica, a cura di F. Capra, Bari, 6a ed. 1947). È chiaro che tutta
questa argomentazione rimane nel piano puramente formale e ideale, senza far appello ai princìpi di causalità e di finalità (il cui uso trascendente è sofistico, secondo Kant). Tutto si riduce dunque ad una deduzione di
concetti. È perciò che per confessione stessa di Kant, l'affermazione «Dio esiste», la quale conclude la deduzione, è unicamente un postulato e non una conclusione razionale. La stessa cosa per i concetti di libertà e di
immortalità dell'anima (cfr. Kant, Grundlegung zur Methaphysik der Sitten, in ed. cit., vol. V; cfr. Fondamenti della Metafisica dei Costumi, tr. it. di G. Galli, Padova, 1946, 3a Sezione). Tutta l'argomentazione di
Kant significa semplicemente che Dio (come la libertà e l'immortalità dell'anima) è postulato, ma non dimostrato, dall'imperativo categorico.
340 - 2. LA SANZIONE MORALE - L'argomento tratto dalla necessità di una sanzione morale è tra i più
celebri. Platone gli ha dato per primo la sua forma sistematica nella seguente maniera: L'ordine morale esige
che vi sia una sanzione giusta del bene e del male; ora è evidente che le sanzioni di quaggiù sono insufficienti; bisogna dunque che esista un Essere capace di attuare, in un'altra vita, l'armonia tra la virtù e la felicità.
Kant ha ripreso questo argomento come quello più atto a generare la fede razionale nell'esistenza di Dio (cfr.
Kritik der praktischen Vernunft, ed. e trad. cit., II, c. V). Egli osserva tuttavia che se la credenza in Dio che
ne risulta è soggettivamente sufficiente, essa rimane oggettivamente insufficiente, per non aver noi l'evidenza
del principio che costituisce il nerbo dell'argomento, e secondo cui «il giusto dev'essere perfettamente felice».
L'osservazione di Kant non manca d'un suo peso. L'argomento postula infatti che la virtù dev'essere ricompensata. Sennonché, per assicurarsi del valore di questo principio, bisogna conoscere già l'esistenza di
Dio? Non lo pensiamo, poiché questa richiesta della giustizia e dell'ordine è essa pure un fatto di coscienza
da cui è legittimo partire. Solamente, per dargli la sua forza e la sua portata, bisogna fare appello al principio
di finalità e dimostrare che se le richieste della coscienza morale dovessero essere frustrate, l'intero universo si ridurrebbe ad assurdità pura.
Noi sentiamo vivamente che la morte non può essere per noi uno scacco assoluto, un tuffo nel nulla. Di
fronte a tante miserie che ci circondano da ogni parte: l'insicurezza profonda che si prova in seno all'universo, le minacce perpetuamente sospese sulle nostre opere e sulla nostra vita, le sofferenze fisiche e morali, l'ostilità delle forze naturali o, in ogni caso, la loro indifferenza, le guerre fratricide che sembrano soggette alle
stesse fatalità della pioggia e della grandine, soprattutto le ingiustizie che accasciano l'uomo fedele al dovere
e i trionfi insolenti dei malvagi, e infine, dopo lotte spossanti, la morte con le sue angosce: l'uomo sente istintivamente che deve trovare il suo rifugio e la sua salvezza in una Provvidenza vigilante e giusta e che la morte è solo un transito. Poiché a lui s'impone l'idea che vi sia un ordine morale e spirituale il quale non si esaurisca nell'universo. Se è vero, infatti, come l'esperienza impone, che esiste un ordine, un ordine cosmico, diciamo noi, di cui pure i cataclismi, i terremoti, i tifoni e i maremoti sono la manifestazione, come si può ammettere che non vi sia pure un ordine morale, quello appunto cui leggi non scritte, ma scolpite nel più profondo del cuore umano, recano la chiara testimonianza? E se quest'ordine non si attua quaggiù, come potremo esimerei dal pensare che esiste una Provvidenza, sensibile alle sofferenze del giusto, come ai trionfi del
cattivo, la quale ristabilisca un equilibrio che l'universo, come la società, è impotente ad assicurare? Così
appunto l'uomo, oppresso dalla prova, ritorna naturalmente verso Dio e, in questa conversione, afferma la sua
credenza in una suprema e incorruttibile giustizia.
Vi è dunque qualcosa di irrazionale in questo atteggiamento? Al contrario, diremo noi. In virtù del gioco
stesso della ragione, nelle sue esigenze più invincibili, l'affermazione di Dio s'impone e si giustifica. Poco
importa qui che le ragioni della ragione rimangano spesso implicite e oscure. L'andamento, nel suo fondo, è
razionale, e dipende da quelle evidenze alle quali ogni uomo, anche «puramente uomo», è costretto a cedere.
Se c'è finalità universale, proprio la morte, molto ragionevolmente, ci apre un cammino verso Dio.
Art. III – Il fine universale
341 - L'argomento tratto dalle cause finali è senza dubbio uno dei più popolari e Kant riteneva che questa
prova fosse «la più antica, la più chiara, la meglio appropriata alla ragione comune» e che essa meritasse «di
essere sempre ricordata con rispetto». (Kritik der reinen Vernunft., in ed. cit., vol. IV; cfr. tr. it., Critica della
Ragion pura, di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, 2 voll., Bari, 4a ed., 1949, Dialettica trasc., 6.a sez.).
§ l - L'argomento
1. L'ORDINE DEL MONDO - Si può riassumere l'argomento sotto la seguente forma. Nell'insieme delle
cose naturali si constata un ordine regolare e stabile. Ora ogni ordine esige una causa intelligente, che adatta i
mezzi ai fini e gli elementi al bene del tutto. Dunque l'ordine del mondo è opera di una Intelligenza ordinatrice, trascendente tutto l'universo.
2. FINALITÀ INTERNA E FINALITÀ ESTERNA – L'argomento fa ricorso sia alla finalità interna, che
ordina gli elementi in funzione del tutto e per il bene del tutto, sia alla finalità esterna, che determina l'accordo dei differenti enti tra loro adattandoli e subordinandoli gli uni agli altri. Abbiamo già studiato questi due
aspetti della finalità (II, 114-116; III, 474); e qui non ci resta che da rinviare a queste analisi.
§ 2 - Elementi della dimostrazione
A. IL FATTO DELLA FINALITÀ.
342 - 1. L'ORDINE UNIVERSALE - L'argomento parte dall'ordine del mondo. Si sa come questo tema
alimenti un lirismo molto facile, in cui ci si appella al corso regolare degli astri, all'ordine immutabile delle
stagioni, alla fissità delle leggi della natura, all'organizzazione prodigiosamente complessa degli organismi
viventi, alle meraviglie degli istinti, ecc.302. Tutti questi fatti hanno evidentemente la loro eloquenza. Si oppongono tuttavia ad essi due obiezioni. Da una parte, si dice, essi non rappresentano che un quadro incom-
pleto: poiché si parla dell'ordine del mondo, bisognerebbe coglierlo nella sua complessità totale, sia temporale che spaziale. In realtà, al livello empirico, non abbiamo idea dell'universo, considerato come totalità assoluta. D'altra parte, dovrebbero esserci delle ombre in questo quadro. C'è nel mondo disordine, reale o apparente: il male esiste, la sofferenza ed il dolore opprimono tutti gli enti sensibili. È anzi risaputo come sia facile insistere su questo aspetto negativo del mondo.
2. LE FORME DELL'ORDINE - Tuttavia queste difficoltà sono lungi dall'essere decisive, sia dal punto di
vista scientifico, sia dal punto di vista filosofico.
a) La finalità esterna. Per ciò che concerne la scienza, sembra che essa favorisca molto più l'ipotesi dell'unità dell'universo che la concezione pluralistica, poiché per quanto lontana sospinga le sue investigazioni,
nel tempo e nello spazio, sono sempre le stesse leggi che essa scopre. È vero però che ciò risulta constatazione di fatto e non tesi di diritto e di conseguenza che l'idea dell'unità dell'universo, al livello empirico, si riduce a un semplice postulato.
La filosofia, almeno, ci permette di andare più lontano, poiché essa ci mostra che la discontinuità che regna tra i diversi gradi del reale, dalla struttura meccanica allo psichismo e dallo psichismo alla ragione e
alla moralità, non è assoluta. Essa implica una gerarchia, dunque una certa unità: la materia è al servizio della vita e questa è al servizio della moralità. La struttura meccanica non si oppone veramente né alla vita, né
alla moralità, poiché ne diviene lo strumento, ossia la natura non è contraddittoria alla moralità, poiché essa è
il campo in cui questa si dispiega. Senza dubbio, l'uomo è più che la natura - homo additus naturae - ma
l'uomo la completa e la perfeziona, utilizzandola per i suoi fini spirituali. In breve, nell'uomo, situato ai confini dell'ordine puramente materiale, partecipante della natura e dello spirito, del meccanismo e della moralità, del determinismo e della libertà, si afferma l'unità dell'universo. In tal modo, l'esperienza stessa, sapientemente interpretata, ci conduce a concepire come il molteplice si riconduca alla unità. Come la pura ragione, esclude il pluralismo.
343 - b) La finalità interna. Noi dunque non escludiamo affatto il punto di vista della finalità esterna o dell'unità dell'universo. Quest'ordine totale si impone così evidentemente alla ragione da non poter parlare di disordine che presupponendo l'ordine stesso. Si può tuttavia ammettere che sia vantaggioso insistere sulla finalità interna, che si riscontra particolarmente nell'attività degli enti sprovvisti d'intelligenza, come abbiamo
constatato, in Psicologia con lo studio dell'istinto (III, 274-277), e in Cosmologia, tanto nel campo dei
composti inorganici (II, 70-71), che in quello degli organismi viventi (II, 114-116). L'evidenza che qui
s'impone è quella per cui, ad esempio, l'occhio è fatto per vedere e le ali per volare.
Si è cercato di ridurre questa evidenza ad un puro postulato. Infatti, si dice, definendo «l'organizzazione»
con la «finalità», ossia con una intenzione, non è da stupirsi che poi si concluda all'esistenza di un ordinatore:
si postula semplicemente e puramente ciò che è in questione, cioè se la finalità o l'ordine non possano spiegarsi senza intenzionalità. Questa obiezione tuttavia non regge, poiché al punto di partenza dell'argomento,
l'idea di finalità non significa niente altro che il fatto della organizzazione o della relazione che si constata
tra la costituzione dell'agente, la sua azione e il termine di questa: l'occhio è organizzato per la visione, che
esso consente, le ali per il volo, che esse attuano. Constatiamo d'altro lato che questa relazione è determinata, cioè che il conseguimento dell'effetto per un determinato agente non è accidentale e contingente, ma costante e regolare. L'ordine o la finalità sono dunque rivelati dalla costanza e dalla permanenza della relazione
che lega questo determinato agente, ossia in questo caso, questa determinata organizzazione, a questo specifico effetto. Ecco il punto di partenza dell'argomento, che non implica alcun postulato.
Bergson, che critica il concetto di finalità (come si vedrà più avanti) mette tuttavia in evidenza, contro la
concezione meccanicistica, fatti che manifestano nel modo più sicuro l'esistenza di un ordine nel mondo. Da
questi fatti risalta che «la vita fabbrica alcuni apparati identici, con mezzi dissimili, su linee di evoluzione divergenti» (cfr. Bergson, L'évolution créatrice, Parigi 1907, p. 59; cfr. tr. it. di A. Vedaldi, Firenze, 1951). Tali sono, i fatti di «etero­blastia», rivelanti che in ogni momento «la natura perviene a risultati identici, in specie talvolta vicine le une alle altre, con processi embriogenetici del tutto differenti» (ibid., p. 81): così l'occhio di un vertebrato e l'occhio del pettine (mollusco) adempiono la stessa funzione, che è di assicurare la visione, ma nei vertebrati la rétina risulta di una espansione emessa dall'abbozzo del cervello nel giovane embrione, mentre, nei molluschi, essa deriva direttamente dall'ectoderma (ibid., p. 67 s.). Si ha qui un esempio
tipico di processi evolutivi differenti che tendono ad organi di uguale tipo, ciò che sembra non si possa spiegare diversamente che con una finalità od un ordine immanente.
B. FINALITÀ E INTELLIGENZA.
344 - Bisogna eliminare fino la parvenza del circolo vizioso e di conseguenza evitare di identificare a priori finalità e intenzionalità. La finalità, quale l'abbiamo constatata, non è niente altro che il fatto dell'ordine,
manifestato dalla costanza della relazione tra una organizzazione ed il suo effetto. Ora noi affermiamo che
l'ordine può spiegarsi solo mediante un'intenzione e che suppone di conseguenza una intelligenza. Non facciamo dunque dell'intenzione un postulato; ma la ragione d'essere dell'ordine. La riferiamo come la condizione necessaria dell'esistenza e della intelligibilità dell'ordine. Dobbiamo dunque stabilire che l'ordine implica una intenzione, e che l'intenzione suppone una intelligenza.
1. L'ORDINE IMPLICA INTENZIONE.
a) L'intenzione come orientazione. Non diamo al termine «intenzione» il senso antropomorfico di volontà,
ma solamente di tendenza orientata o di direzione definita. Precisiamo così la natura della relazione da cui
siamo partiti: il rapporto costante e regolare tra una organizzazione ed il suo effetto è propriamente la determinazione del tutto per virtù di un'idea, la disposizione di mezzi in rapporto ad un termine dato, il dominio dell'uno sul molteplice. Tuttavia, contro questa concezione, troviamo due teorie, che mirano entrambe a
rendere ragione dell'ordine senza far ricorso ad alcuna intenzionalità.
345 - b) Caso e finalità. L'esclusione di ogni intenzione nella spiegazione dell'ordine è ciò che perseguì,
nell'antichità, la teoria atomistica, che ammette solo il caso, e presso i moderni, la teoria meccanicistica, eretta a sistema da Cartesio303. Per quanto concerne il meccanicismo abbiamo più volte dimostrato che esso
non è una soluzione del problema dell'ordine, ma la forma stessa del problema da risolvere (83), e che in
fondo, nella misura in cui si pretende di attenervisi, esso equivale a spiegare tutto col caso (II, 71). In fin
dei conti, qui dunque v'è da considerare solo una teoria, cioè quella che fa dipendere l'ordine dal caso.
È noto che questa teoria è formulata dalla fisica epicurea. Il mondo è un aggregato di atomi, eterni e sempre in movimento nel vuoto incorporeo; dal loro incontro casuale, determinato dalla inclinazione (o clinamen) che Epicuro aggiunge alla teoria di Democrito, sono usciti infiniti mondi, e finalmente il mondo attuale,
che può durare grazie alla stabilità degli edifici d'atomi che lo costituiscono. La natura è dunque assimilata
ad un gioco casuale: il mondo è l'effetto di un sorteggio attuato tra le combinazioni possibili in numero infinito. Questa dottrina è parso venisse ripresa dall'indeterminismo quantico della fisica contemporanea, almeno
nel senso che l'ordine e la costanza, alla scala macroscopica, sono considerati come risultanti, al livello infraatomico, di una indeterminazione di fondo nel gioco degli elementi (I, 186).
La soluzione di quest'ultima difficoltà è stata fornita in Logica, in cui abbiamo osservato che la «indeterminazione degli elementi» senza dubbio equivaleva unicamente alla nostra ignoranza dei determinismi elementari. Dunque si introdurrebbe abusivamente il caso in un campo in cui esso nulla ha a che fare. Quanto
all'ipotesi epicurea, essa non è che una petizione di principio; suppone infatti che, tra le disposizioni possibili
degli atomi, la disposizione stabile (la quale definisce «l'ordine» in questa teoria) si effettuerà infallibilmente. Ma non si vede che significhi questa nozione di stabilità, di costanza o di ordine nel contesto del caso assoluto. Se il solo principio è il caso, non vi è né stabilità, né ordine o, più esattamente, queste parole sono
prive di qualsiasi senso. Supporre che nella massa infinita dei mondi possibili ve ne sia uno stabile e ordinato, significa introdurre in seno al caso un senso, una direzione, una finalità e una legge, ed in conseguenza
porre gratuitamente come un dato proprio, ciò che è in questione.
Le spiegazioni dell'ordine mediante le leggi della natura (o la necessità) o l'evoluzione sottostanno ugualmente alla faccia di circolo vizioso. Le leggi della natura sono l'ordine stesso (o un aspetto dell'ordine) e non
possono servire a spiegarlo. Esse rimangono da spiegare, come l'ordine stesso che esse manifestano. L'evoluzione non vi riesce meglio, perché essa è un effetto e non un principio primo. Si è voluto dedurre dalle teorie
di Lamarck e di Darwin che tutto si spiegherebbe con le cause efficienti e che, ad esempio, l'uccello non ha
ali per volare, ma che esso vola perché ha le ali. Questa, da una parte, è un'impostazione errata del problema,
perché si tratta non tanto di sapere se l'uccello ha le ali per volare, quanto se le ali sono fatte per volare (o
per nuotare, o per cantare): si può rispondere con franchezza con Aristotele che «l'arte di edificare non scende nei flauti». Dall'altra parte, e in una maniera più generale, è stato necessario riconoscere che i fattori e-
sterni fisico-chimici si limitano a condizionare il gioco dei fattori interni dell'evoluzione e che essi sono, in
ultima analisi, al servizio dell'idea immanente che li utilizza per i suoi fini (IV, 157). Ciò equivale ad ammettere parimenti la realtà di un ordine che governa tutto il meccanismo dell'evoluzione.
Si comprendono spesso nella categoria del caso gli eventi dipendenti dal calcolo delle probabilità. È noto
che, per i matematici, la probabilità di un avvenimento e il rapporto del numero di casi favorevoli alla sua
produzione con quello dei casi possibili, essendo tutti i casi supposti ugualmente possibili. Per «casi ugualmente possibili», si intende che nessuno d'essi ha una ragione speciale di avvenire, cioè che lo svolgersi di un
avvenimento qualsiasi è assolutamente indeterminato e fortuito. Partendo da questa concezione matematica
del caso si è voluto rendere intelligibile l'ipotesi di un universo nato dal caso assoluto. E. Borrel illustra infatti questa ipotesi con l'esempio che egli chiama «il miracolo delle scimmie dattilografe» (Le Hasard, p. 164):
è matematicamente possibile, egli dice, che delle scimmie arrivino a ricostruire l'Iliade, poi tutti i libri di tutte
le biblioteche del mondo battendo a caso su macchine da scrivere. Senza dubbio, la probabilità di un tale risultato è piccola in una misura sbalorditiva, ma non è nulla: se si dispone di un tempo infinito, non solamente
nulla vieta di ammettere che il «miracolo» si attui, ma si deve pensare che esso si attuerà necessariamente.
Così si potrà spiegare l'ordine dell'universo: i corpi possono essersi formati a partire dal caos iniziale e l'universo intero non sarebbe che il risultato di una lunga serie di casi, resi possibili dall'infinito del tempo e della
materia. (Cfr. L. Rougier, Les paralogismes du rationalisme, Parigi, 1920, pp. 351-355).
Si preciserà brevemente la qualità di queste deduzioni osservando che esse forniscono un buon esempio del
sofisma della confusione dei generi, poiché esse consistono nel trasportare puramente e semplicemente all'ordine fisico concreto, in cui esse non hanno alcuna applicazione, nozioni che valgono soltanto per l'ordine
astratto delle matematiche. In realtà, nell'ordine matematico, tutti i casi sono supposti ugualmente possibili:
ipotesi perfettamente legittima, come quella del numero infinito (II, 7), ma che non vale più nell'ordine reale
e concreto, in cui, di fatto, tutti i fenomeni sono strettamente determinati. Vi è dunque un vero paralogismo
nell'affermare, come fa L. Rougier, che gli effetti d'insieme hanno un carattere sovreminente rispetto alle loro
cause individuali, il che significa che l'ordine può risultare dal disordine o che cause irrazionali possono dare
effetti ordinati. In realtà l'ordine che l'effetto esprime nel mondo fisico, risulta sempre implicato nei movimenti elementari, che obbediscono alle loro leggi proprie e possono essere ridotti, quanto ai risultati di insieme, a medie statistiche (I, 240). In altri termini, il caso, nel mondo materiale, in cui non concerne che la
ripartizione completa degli elementi, è un aspetto del determinismo. Siamo così agli antipodi del caso matematico304.
Si vede in tal modo come siano fantasiose le ipotesi relative alla genesi del mondo a partire dal caso assoluto (nel senso matematico del termine). La stessa finzione delle scimmie dattilografe, lungi dal fornir loro
una base, ne fa risaltare l'assurdità. È infatti realmente insensato pretendere di far sorgere un significato (ordine o valore) da fluttuazioni o da un affastellamento degli elementi, che, per definizione stessa, non comportano né significato né valore, né alcuno che li osservi. Affinché il «miracolo delle scimmie dattilografe» sia
matematicamente plausibile, bisogna che vi siano, innanzitutto (naturalmente!), delle scimmie e delle macchine da scrivere; ma altresì un essere intelligente, capace di dare un senso all'unione di lettere e di segni
chiamato «Iliade». Diversamente, le scimmie ipotetiche, con le loro macchine ugualmente ipotetiche, dopo
aver casualmente « composto » l'Iliade comporranno indefinitamente altri «testi» che non avranno un senso
maggiore o minore dell'Iliade, il che significa che saranno, come essa, dei fatti bruti, assolutamente insignificanti.
Così è, a maggior ragione, dell'universo. Qui si parla di una «riuscita» del caso (analoga a quella dell'Iliade). Sennonché questo termine di «riuscita» implica evidentemente un giudizio di valore e, con ciò, postula
rigorosamente quello che l'ipotesi esclude. In realtà, come non ci sarebbe più Iliade nella supposizione delle
scimmie dattilografe, essendo, in questo caso, tale poema niente altro che una combinazione qualsiasi, tra altre, di segni ugualmente qualsiasi (e, come tali, non aventi alcun valore di segni), e non avendo essa Iliade,
del resto, alcuna ragione di sussistere, nemmeno vi sarebbe più universo, supponendo pure che il caso abbia
potuto produrre un mondo come il nostro; infatti la struttura della organizzazione effettivamente attuata, non
avrebbe un senso o una ragione di perdurare maggiori di qualsivoglia altra tra le strutture casualmente attuate305.
346 - c) Impulso e finalità. Bergson (Évolution créatrice, p. 42 sg., 83 sg.) non ammette che l'organizzazione implichi un'intenzione, ossia un orientamento predeterminato. Il fine, egli dice, non è stato posto in
modo identico anticipatamente. Tuttavia, egli aggiunge, esso è conseguito con un genere di operazione che è
analogo ad un atto di volontà, in quanto manifesta un principio interno di direzione, simile, ad esempio, allo
slancio dinamico che ci rivela la coscienza. Così la finalità del mondo organizzato si tiene piuttosto indietro
che in avanti: essa proviene da una vis a tergo ed è legata ad una identità di impulso e non ad una aspirazione
comune (p. 55).
Questa teoria è delle più ambigue, poiché non precisa se la vis a tergo o forza d'impulso sia orientata e orienti l'evoluzione in sensi definiti, o se essa l'abbandoni al caso. Sembrerebbe che si debba escludere quest'ultima ipotesi. È se non altro ciò che afferma J. Chevalier (Bergson, Parigi, 1926, p. 212): «Questo impulso (...) non è la propagazione di un moto istantaneo che si ripete indefinitamente, eternamente, in modo cieco; è qualcosa che ha più del volontario che del meccanico. Essa suggerirebbe piuttosto, aggiungeremo noi, il
colpo d'avvio dato da un pensiero creatore che largisce uno slancio di vita sulla strada del tempo». Ritorniamo così alla finalità, poiché se è il «pensiero creatore» che dà l'impulso, si è obbligati ad ammettere che questo pensiero conosce anticipatamente il senso dell'impulso e le molteplici forme che ne risulteranno: diversamente, come potrebbe essere «creatore»? Ne consegue che la vis a tergo è nient'altro che la stessa natura
degli enti, come principio di attività, ed altresì che queste nature svolgono e perseguono i fini del pensiero
creatore. A questo titolo dunque esse sono prede terminate in questo pensiero. La finalità così è «in avanti»
come un termine da raggiungere, e pure «indietro» come idea dell'opera da attuare. In ogni modo, il suo aspetto essenziale è proprio l'intenzione, ossia l'attività orientata.
347 - 2. INTENZIONE SUPPONE INTELLIGENZA - Caratterizzare l'ordine come intenzione o tendenza
definita e orientata, è dire che il fine esercita una vera causalità, e che determina le modalità dell'azione o le
forme dell'organizzazione. In qualche modo il fine dunque esiste. Ora esso non può esistere che in due modi,
o in sé, nel suo essere naturale, come costitutivo della cosa stessa, che è il termine dell'azione, oppure soggettivamente, sotto forma di rappresentazione, immagine o idea, nel soggetto conoscente, come principio dell'azione. Considerato in sé, nel suo essere naturale, il fine non può evidentemente essere causa, poiché è effetto
e risultato dell'azione: la statua, in quanto blocco di marmo scolpito, è effetto e non causa dell'attività dello
scultore; la visione, in quanto attività sensibile, è effetto dell'occhio e non causa di esso. Dunque, solo in
quanto concepito e conosciuto, il fine può esercitare una vera causalità. Per questo diciamo che la finalità
non può spiegarsi senza una intelligenza (271). L'ordine suppone un'intelligenza ordinatrice.
D'altra parte, siccome la finalità s'identifica con la natura degli enti (o con la forma, principio delle attività
specifiche) (272), l'intelligenza ordinatrice dovrà essere concepita nello stesso tempo come creatrice.
348 - 3. L'INTELLIGENZA INFINITA - L'intelligenza cui conduce l'argomento non può essere che l'Intelligenza divina. Infatti, questa intelligenza è necessariamente un'intelligenza creatrice, poiché l'ordine che
essa produce, adattando i mezzi ai fini, si identifica con le nature. Le nature sono dunque la sua opera e poiché creare è privilegio della potenza infinita, siamo indotti a concludere che l'intelligenza che sola può dar
ragione dell'ordine del mondo è l'Intelligenza divina.
Si vede così come sia inefficace l'obiezione di Kant contro questa prova. Kant ritiene che portando ad affermare l'esistenza di un'intelligenza potentissima bensì, ma non infinita (poiché, egli dice, né il mondo, né
l'ordine che esso implica sono infiniti), la prova della finalità imporrebbe a rigore l'idea di un demiurgo o di
un architetto del mondo, ma non di un creatore. Ciò equivale a prendere l'argomento sotto il suo aspetto più
stretto. In realtà, come si è visto, esso ha una portata molto più ampia, poiché ci conduce ad affermare il
primato di una Intelligenza che può essere ordinatrice solo se è nello stesso tempo creatrice. Dunque, proprio l'esistenza di Dio è stabilita a sua volta dall'argomento della finalità.
§ 3 - Conclusione sulle prove dell'esistenza di Dio
349 - 1. IL PRINCIPIO COMUNE A TUTTE LE PROVE - Tutte le prove dell'esistenza di Dio non sono
dunque, come si è visto, che applicazione del principio di ragion sufficiente: ogni cosa ha la sua ragione, o
in sé o in un altro. In altri termini: il più non può venire dal meno, né l'essere dal nulla (210). Ogni prova,
comportando un punto di partenza particolare, precisa l'applicazione del principio di ragione ai differenti
campi dell'esperienza, fisica o morale. Volta per volta, il principio di ragione induce a concludere all'esistenza necessaria di un primo motore universale, di un perfetto sussistente, di una intelligenza infinita, di un essere principio dell'ordine morale. Siccome d'altra parte, sotto ciascuno di questi aspetti in cui si scopre a noi
la Causa prima, noi affermiamo l'esistenza di un Essere esistente per sé, ossia di un Essere la cui essenza è
identica all'esistenza, il nome di Dio conviene univocamente per designare l'Essere al quale, per vie diverse
ma convergenti, ci conduce l'argomentazione razionale.
Da ciò si vede che non è necessario fare appello a tutte le prove insieme per stabilire l'esistenza di Dio.
Ciascuna, di per sé sola, ci conduce a Dio e implica tutte le altre. Ogni prova tuttavia serve a mettere in evidenza un aspetto della causalità divina e a dimostrare che, qualunque sia il punto di vista adottato, il mondo
non ha ragion sufficiente che in virtù di Dio, tanto che c'è scelta solo tra queste due conclusioni: o Dio o l'assurdità totale.
2. SPONTANEITÀ DELLA CREDENZA IN DIO - La conclusione cui perveniamo non è esclusivamente
il frutto di una dimostrazione scientifica quale i filosofi, per suprema cura della precisione, o per rispondere a
diverse difficoltà, sono stati tratti a formulare. La certezza dell'esistenza di Dio non dipende direttamente dalla perfezione scientifica delle prove che ne si possono fornire. Al contrario, la prova necessaria ad ogni uomo
per acquistare una piena certezza in questo campo è così facile e chiara che ci si accorge appena dei procedimenti logici che essa adotta, ed altresì ci si accorge che gli argomenti tecnici, ben lungi dal dare all'uomo la
certezza prima dell'esistenza di Dio, non possono avere per risultato che di rendere esplicita, d'illuminare e di
consolidare la certezza che già esiste. Questa spontaneità della credenza nell'esistenza di Dio appunto spiega
come si possa così spesso parlare di un'intuizione dell'esistenza di Dio, ossia, come noi abbiamo visto, di una
inferenza razionale che colga alla prima, e come per una specie di slancio naturale, le condizioni assolute
dell'intelligibilità.
Art. IV – Prove scientifiche e prova tratta dall'esperienza mistica
350 - Si possono accostare questi due tipi di argomenti, poiché Bergson ha proposto il suo argomento tratto dall'esperienza mistica solo a titolo di prova positiva e, di conseguenza, della stessa natura delle dimostrazioni delle scienze sperimentali.
§ 1 - Le dimostrazioni scientifiche
1. - IL CONCETTO DI «PROVA SCIENTIFICA» - L'espressione «prove scientifiche dell'esistenza di
Dio» è equivoca. Essa sarebbe inaccettabile nella misura in cui pretendesse di stabilire una opposizione alle
prove metafisiche, ritenute sprovviste di rigore scientifico, o di preconizzare, come solo valevole, il ricorso ai
metodi delle scienze sperimentali o matematiche. Infatti, l'espressione per lo più non serve che a designare
argomenti che mutuano sia i metodi, sia i risultati dalle scienze matematiche o positive. Si può ammetterla in
questo senso, salvo a ricercare se essa abbia veramente un contenuto intelligibile.
Gli argomenti detti scientifici si sono moltiplicati particolarmente nel XVII secolo e alla fine del XIX. Nel
XVII secolo hanno avuto maggior favore le dimostrazioni matematiche dell'esistenza di Dio, in rapporto ai
grandi progressi attuati in questo campo del sapere. Cartesio s'impegna in questa via, scoperta fin dal XIII
secolo da Raimondo Lullo, e propone sotto forma geometrica un sommario delle ragioni che fondano l'esistenza di Dio. (Cfr. Réponses aux Secondes objections, ed cit.). Dopo di lui, Spinoza, Leibniz riprendono lo
stesso tentativo306. Nel XIX secolo sono i dati delle scienze della natura che sembrano, ad alcuni pensatori,
suscettibili di fondare diverse prove di Dio. Tra queste, la più sfruttata è stata quella che si fonda sul principio di entropia di Clausius: «l'energia dell'universo è costante; l'entropia dell'universo (= la quantità di calore
contenuto in un corpo, divisa per il suo grado assoluto di temperatura) tende verso un massimo». Ci limiteremo ad esporre questa prova, che fornisce un esempio molto chiaro degli argomenti di tipo scientifico.
351 - 2. LA PROVA TRATTA DALL'ENTROPIA - Il principio dell'entropia significa da un lato che tutte
le energie della natura tendono a convertirsi in calore, e dall'altro che l'energia calorica tende verso un equilibrio finale stabile che renderà impossibile la vita organica. Partendo da questo dato, si ragiona nella maniera
seguente. Essendo l'energia visibile in costante decrescenza, essa sarebbe scaturita da un'eternità, se il mondo
fosse eterno, qualunque quantità di energia il mondo avesse potuto possedere. II fatto stesso che questa ripartizione uniforme dell'energia non sia ancora finita prova che il mondo non è eterno. Ma se il mondo è incominciato, questo inizio non può comprendersi che in virtù dell'azione creatrice della causa prima. Dunque
Dio esiste.
Nonostante la sua apparenza seducente, questo argomento è privo di valore. Esso suppone infatti che l'universo sia un sistema finito e chiuso (senza di che la prova non significherebbe più nulla). Ora quest'affermazione è solo un'ipotesi e si sa che né di diritto né di tatto si può escludere l'ipotesi contraria dell'infinitezza
dell'universo (II, 28). Di conseguenza, non possiamo, nel nome della scienza, assegnare in modo certo né un
fine né un inizio all'universo.
3. LA SCIENZA E LE ORIGINI RADICALI - Non solamente la prova dall'entropia non è valida; ma è la
stessa nozione di «prove scientifiche» dell'esistenza di Dio che bisogna respingere. Tali prove suppongono
infatti che noi potremmo cogliere la necessità di un inizio assoluto o di un fine dell'universo per via d'esperienza positiva. Ora questa dimostrazione (comunque stiano le cose nella realtà) è completamente impossibile poiché le origini radicali sfuggono necessariamente all'esperienza, e, di conseguenza, alla scienza.
Si può senza dubbio stabilire sperimentalmente l'inizio di un ente (o di un insieme di enti) in seno all'universo, ma non l'inizio assoluto del Tutto. Per la scienza come per l'esperienza, il Tutto può essere soltanto un
dato: la sua genesi radicale è accessibile unicamente al pensiero metafisico, che, in virtù dei suoi princìpi,
trascende tutta l'esperienza e definisce le condizioni assolute dell'intelligibilità dell'essere universale.
352 - 4. LE DIMOSTRAZIONI MATEMATICHE - Le dimostrazioni matematiche, così in auge nel XVII
secolo, urtano anch'esse contro una obiezione di principio, poiché, nella misura in cui intendono conformarsi
strettamente al metodo matematico (I, 150-153), non possono essere che a priori e pertanto costruite sul tipo dell'argomento ontologico. Ciò è dimostrato chiaramente dal tentativo di Cartesio alla fine delle Réponses
aux secondes objections, tentativo che si può esso stesso comprendere solo entro una dottrina professante che
il movimento della conoscenza va dalle idee alle cose, dal pensiero all'essere.
Gli altri tentativi, da Morin a Leibniz, sono della stessa forma e dipendono dallo stesso principio secondo
cui l'esistenza di Dio può essere conosciuta attraverso la sola considerazione della sua natura. Mediante ragionamenti i cui elementi sono costituiti da definizioni, da assiomi e da teoremi, si tratta sempre di analisi
aventi il fine di scomporre i concetti e le proposizioni in fattori semplici. Così appunto la dimostrazione dell'esistenza di Dio nel De vera cognitione Dei di Morin (Parigi, 1655) si riduce all'analisi del concetto di Essere infinito, come quella di sant'Anselmo si riduce al concetto dell'Essere maggiore che esista, quella di Gioberti all'analisi dell'idea dell'essere. Quello matematico è dunque per eccellenza il metodo dell'ontologismo307.
§ 2 - Prova tratta dall'esperienza mistica
353 - 1. L'ARGOMENTO - Bergson, per il quale, in base al suo nominalismo, le prove metafisiche dell'esistenza di Dio dipendono da una «illusione fondamentale» (Les Deux sources de la Morale et de la Religion, p. 258), si rimette solo all'esperienza per stabilire con certezza l'esistenza di Dio308. Di qui il suo appello ai mistici, che gli permette di presentare l'argomento seguente.
Grandi anime religiose, san Paolo, san Francesco d'Assisi, santa Teresa, Maria dell'Incarnazione, ecc., hanno affermato di essere entrate in contatto sperimentale con Dio, in un modo che oltrepassa certamente i mezzi di espressione umani, ma in cui esse hanno goduto dell'irresistibile evidenza della presenza di Dio. Si può
tacciarle di illusione. Ma bisogna pure esaminare tutte le difficoltà che questa spiegazione implica, quando si
tratta di spiriti lucidi e sani, di caratteri di una dirittura e lealtà assoluta, di persone la cui vita è stata di una
prodigiosa fecondità per il bene. In realtà, tutta questa esperienza del divino, culminante nei grandi mistici
cristiani, è assolutamente inspiegabile senza il ricorso a Dio. Si può, è vero, ammettere che l'uno o l'altro
mistico sia stato nell'errore, ma sarebbe realmente impossibile , che tutti s'ingannassero e che ci ingannassero
parlandoci, con tanta forza e convinzione, delle stesse realtà soprannaturali che hanno conosciute con esperienze assolutamente personali e incomunicabili. Bisogna dunque concludere che, nell'unanimità dei grandi
mistici cristiani nel descrivere le loro esperienze, v'è «il segno di una identità d'intuizione» o, più esattamente, di una identità di esperienza che non ha ragionevole spiegazione se non «attraverso l'esistenza reale dell'Essere con cui [i mistici] si credono in comunicazione»309.
2. OSSERVAZIONI - Questo argomento, nel contesto bergsoniano, non sembra aver valore, poiché la sua
portata risulta posta in discussione dai princìpi stessi di Bergson. Come far assegnamento sull'esperienza mistica, sebbene unanime (per ipotesi), se non si ammette già, per un'altra via, propriamente razionale, l'esistenza di un Dio personale? Ciò sembrerebbe impossibile e Bergson stesso ne conviene: «L'esperienza mistica, abbandonata a se stessa, egli scrive (Les Deux Sources, p. 265) non può apportare al filosofo la certezza
definitiva. Essa sarebbe del tutto convincente solo se si riuscisse per un'altra via, come l'esperienza sensibile
o il ragionamento fondato su essa, a considerare come veri simile l'esistenza d'una esperienza privilegiata,
per cui l'uomo potesse entrare in comunicazione con un principio trascendente».
Bergson, è vero, ritiene che «lo sforzo creatore ch'è manifestato dalla vita» ci fornisce il punto di appoggio
necessario per dare un senso all'esperienza mistica, con cui esso coinciderebbe. Noi crediamo che vi sia in
questa tesi un'illusione, poiché «lo slancio vitale» e il misticismo non sono dello stesso ordine. Tuttavia, l'osservazione di Bergson sulle condizioni richieste per dare il suo valore ed il suo senso all'esperienza mistica,
deve essere accettata. Se noi ammettiamo infatti che i grandi mistici cristiani ci presentano su Dio e sulla sua
natura una testimonianza di una forza ammirevole, pensiamo pure che si è in grado di comprendere, di utilizzare e di accettare questa testimonianza solo nella misura in cui, per la ragione e per la fede, si è già d'accordo, in certo modo, sugli enunciati di questa testimonianza.
PARTE SECONDA
LA NATURA DI DIO
Sappiamo che non possiamo conoscere Dio in se stesso. Tutto ciò che possiamo sapere di Dio attraverso la
ragione naturale procede, per via di ragionamento, dalla conoscenza degli effetti della potenza divina e per
conseguenza da ciò che ci hanno insegnato gli argomenti attraverso i quali abbiamo stabilito l'esistenza di
Dio. Così che tutto il trattato sui nomi divini, cioè sulla natura di Dio, è implicito nel trattato sull'esistenza di
Dio. Non abbiamo dunque che da sviluppare e precisare le nozioni acquisite attraverso le nostre ricerche precedenti.
L'ordine da seguire dipende, non direttamente dall'oggetto del nostro studio, poiché non conosciamo Dio in
se stesso, ma dal nostro modo di conoscere. Per questo motivo, pur sapendo che Dio non è suscettibile in se
stesso di divisioni e che la sua essenza è assolutamente semplice, partiamo dai numerosi attributi che ci sono
apparsi richiesti dal concetto di causa universale di tutto ciò che è, e ci sforziamo di definire insieme la natura e l'ordine logico dei suoi differenti attributi e, perciò, di determinare quale tra questi sia l'origine di tutti
gli altri e costituisca come tale ciò che chiamiamo il costitutivo metafisico dell'essenza divina.
CAPITOLO PRIMO
L'ESSENZA DIVINA
SOMMARIO310
Art. I - IL METODO D'ANALOGIA. Via di eliminazione - Via di eccellenza - I nomi divini - L'analogia
di proporzionalità ­ Obiezione.
Art. II - L'ESSENZA LOGICA DI DIO. Gli attributi divini - Concetto. Divisione - Il costitutivo formale
della essenza divina. - L'aseità - Teorie relative alla essenza di Dio - Platone - Duns Scoto - Giovanni di san
Tomaso - Secrétan.
354 - Il problema della natura di Dio pone la questione preliminare se la nostra pretesa di conoscere la natura divina sia fondata o se, come affermano le dottrine agnostiche, tutto ciò che noi diciamo di Dio sia
sprovvisto di significato positivo o, tutt'al più, si riduca a puro simbolismo. Di conseguenza, prima di affrontare lo studio della natura di Dio, dobbiamo cominciare con lo stabilire ciò che intendiamo per conoscibilità
della natura divina e fornire una giustificazione del metodo che stiamo per usare.
Art. I – Il metodo d'analogia
Abbiamo conosciuto Dio come Causa suprema universale ed a questo titolo gli attribuiamo tutte le perfezioni che si trovano nelle creature. Tuttavia è evidentissimo che possiamo fare queste attribuzioni solo a titolo di analogia. È però necessario che noi precisiamo come proceda il metodo analogico e la natura della conoscenza ch'esso ci garantisce.
A. VIA D'ELIMINAZIONE E VIA D'ECCELLENZA.
1. LA VIA D'ELIMINAZIONE - Il principio che deve guidarci in questo processo è che a Dio, così come
le prove della sua esistenza ce l'hanno fatto conoscere, essendo egli Atto puro, Essere per sé e Perfezione infinita, non può convenire identicamente nessuna delle perfezioni create il cui concetto implichi imperfezione
e limitazione essenziale. E pertanto non possiamo attribuire a Dio né un organismo corporeo, che comporta
la materia, né la sensibilità che significa passività: ciò equivarrebbe ad introdurre in Dio imperfezioni incompatibili con la sua natura.
Ciononostante, Dio, in quanto Causa prima universale, possiede eminentemente tutto quel che di positivo è
nelle perfezioni finite. Escluderemo dunque da Dio tutto ciò che esse comportano di essenzialmente limitato
e imperfetto e attribuiremo a Lui solo quel che contengono di realtà positiva. È chiaro tuttavia che, con quest'atto di esclusione o di eliminazione, noi attribuiremo a Dio perfezioni che formalmente non sono più le
stesse di quelle delle creature. Dio possiede virtualmente e eminentemente ogni perfezione positiva che l'organismo corporeo e la sensibilità esprimono, per esempio l'unità e la conoscenza, ma non ha corpo e, per
conseguenza, attività sensibile, che sono forme deboli e basse dell'unità ontologica e della conoscenza. Perciò diremo che Dio sente o vede sempre soltanto per metafora poiché è impossibile attribuire a Dio l'atto organico che le parole «sentire» e «vedere» sogliono designare. A lui convengono solo gli atti conoscitivi che
egli esercita secondo un modo essenzialmente differente e infinitamente più perfetto di quel che noi facciamo
con la molteplicità dei nostri organi corporei.
2. LA VIA DI ECCELLENZA - Vi sono tuttavia perfezioni che non comportano alcuna limitazione essenziale. Tali sono tutte le perfezioni semplici che trascendono i generi e le specie e convengono universalmente
a tutto ciò che è (essere, unità, verità, bontà) e quelle che, pur non riscontrandosi in tutti i generi di essere,
sono in relazione, immediata o mediata, con l'uno o l'altro dei trascendentali (causalità, intelligenza, volontà,
potenza, sapienza, giustizia, ecc.). Queste perfezioni possono essere attribuite a Dio secondo la loro ragione
formale, poiché, in sé, esse significano solo qualche cosa di assoluto e di perfetto, ma non secondo il modo in
cui, di fatto, esse si attuano nelle creature. È vero in senso assoluto che Dio è uno, intelligente, sapiente e
potente: ma Egli è tutto ciò secondo un modo che sovrasta all'infinito tutte le cose che, nella nostra esperienza, noi definiamo con questi nomi. Attribuiremo dunque a Dio tutte queste perfezioni secondo la loro natura
formale, ma escludendo ogni limitazione ed elevandole all'assoluto.
B. I NOMI DIVINI.
355 - 1. L'ANALOGIA DI PROPORZIONALITÀ - L'analogia della quale qui facciamo uso non può essere l'analogia di attribuzione (167), poiché sappiamo che le cose le quali sono dette analoghe in tal senso lo
sono per rapporto a un termine che è il solo a possedere a titolo intrinseco e proprio la perfezione analoga.
Ora ciò non può essere applicato a Dio, perché non c'è termine medio tra Dio e le creature. Possiamo dunque
valerci solo della analogia di proporzionalità (166), cioè la proporzione che esiste tra enti dei quali l'uno
possiede una perfezione a titolo principale e perfetto e gli altri a titolo secondario e limitato. In tal modo
vengono ad essere eliminati i due opposti errori dell'agnosticismo, il quale nega che possiamo avere di Dio
una conoscenza qualsiasi e che i nomi che gli diamo abbiano un senso reale, e dell'antropomorfismo, il quale
trasferisce in Dio gli attributi umani nella loro modalità imperfetta e difettosa.
Alcune formulazioni di san Tommaso si sono, forse, talvolta, prestate ad interpretazioni più o meno agnostiche. Vi sono, è vero, testi nei quali san Tommaso afferma che «non possiamo conoscere la natura divina
secondo ciò che essa è in se stessa, ma che la sola cosa che noi possiamo dire di Dio è che egli è» (S. Theol.,
I.a, q. 12, a. 12), o anche testi nei quali san Tommaso scrive che ogni nostra conoscenza di Dio è negativa 311.
Questi testi tuttavia considerano solo un aspetto del problema della conoscenza di Dio. Sarebbe certamente
eccessivo, sempre secondo san Tommaso, il negare che nella nostra conoscenza di Dio vi sia qualcosa di positivo. Altrimenti non sarebbe possibile alcuna negazione relativa a Dio, poiché la stessa negazione non è
possibile che in conseguenza dell'affermazione preliminare: se la nostra intelligenza non affermasse niente di
Dio, essa non potrebbe negarne niente, perché le sarebbe impossibile sapere se la negazione convenga a
Dio312. Pertanto quando san Tommaso dichiara che non possiamo comprendere che cosa è Dio, bisogna intendere non che non possiamo affermare assolutamente nulla di Dio, ma che non possiamo affermare nulla di
Dio propriamente, cioè univocamente. È d'altronde quel che san Tommaso precisa a più riprese e particolarmente nella Summa contra Gentiles, c. 30: «Possunt igitur, ut Dyonisus docet, huius modi nomina affirmari
de Deo et negari: affirmari quidem propter nominis rationem, negari vero propter significandi modum»313.
Conviene nello stesso tempo notare che le formulazioni con le quali san Tommaso sottolinea fortemente
l'importanza del metodo negativo, non sono inutili per eliminare l'antropomorfismo in tutte le forme ch'esso
può rivestire. Poiché il danno nel nostro caso può consistere nel ritenere, equivocando sul concetto della via
eminentiae, che basti, per applicarle a Dio, elevare le perfezioni finite al massimo nel loro ordine di perfezioni create, mentre al contrario bisogna superare tutti i modi creati nella determinazione degli attributi divini. In realtà, Dio non è Essere o Intelligibile: egli è Super-Essere e SuperIntelligibile, cioè al di là, all'infinito,
di tutto ciò che esprimono i nostri concetti d'essere e di intelligibile; non è, per parlare propriamente, il massimo dell'essere e dell'intelligibilità, ma il Principio trascendente dell'essere e dell'intelligibilità.
356 - 2. OBIEZIONE - Contro queste tesi sulla conoscibilità di Dio si sono elevate varie obiezioni che equivalgono a mettere in discussione il valore dei concetti concernenti l'infinito. Si ritiene, ad esempio che l'analogia non possa fornirci una conoscenza autentica, perché il termine che definisce l'analogia (analogato superiore) è, se si tratta di Dio, infinitamente al di là di ogni comprensione. Come si potrebbe dunque formulare un pensiero relativamente a un termine che lo supera all'infinito? L'analogia è quindi infinitamente difettosa e una deficienza infinita non si può misurare314. In altri termini, o l'analogia è una proporzione rigorosamente definita entro termini misurabili e appartenenti ad un contesto omogeneo di esperienza e di pensiero,
ovvero essa è proporzione solo in senso metaforico e in tal caso i termini dei quali ci serviamo per parlare di
Dio non potranno superare il livello del simbolo315.
La soluzione di queste difficoltà non richiede nulla più che un'esatta comprensione del metodo d'analogia.
Da una parte infatti e contrariamente a ciò che si afferma, l'analogia, per definizione stessa, non può sussistere fra termini omogenei (univoci), tali cioè che significhino cose della medesima natura, generica o specifica;
non ne consegue però che essa implichi termini puramente eterogenei (equivoci). L'attrazione che esercita un
fine e l'impulso che imprime un agente non sono evidentemente omogenei, tuttavia noi definiamo l'una e l'altro con lo stesso nome di causalità, perché, nonostante la loro essenziale diversità d'azione, vediamo chiaramente che l'una e l'altro concorrono positivamente alla costituzione o alla modificazione delle cose. In tal
senso, essi sono analoghi.
D'altra parte, occorre notare che l'analogia che qui entra in gioco è l'analogia di proporzionalità, cioè quella
che si fonda su un rapporto di proporzione. Ora, benché noi siamo capaci di cogliere il senso di questo rapporto, non è affatto necessario che conosciamo quidditativamente e propriamente tutti gli elementi del rapporto. Non possiamo sapere ciò che è propriamente e in se stesso il Pensiero divino, ma possiamo sapere
qualche cosa di questo Pensiero, non precisamente mettendolo in rapporto col nostro, col quale esso non ha
alcuna misura comune, ma comprendendo che esso deve stare all'Essenza divina in un rapporto proporzionalmente simile a quello in cui il pensiero è in noi relativamente alla nostra essenza finita. Questa, senza
dubbio, è una conoscenza miseramente difettosa. Non è tuttavia una negazione di conoscenza, né un procedimento antropomorfico, perché il rapporto si stabilisce tra l'ordine derivato e partecipato ove si alimentano i
nostri concetti e la sorgente che comprende ma trascende all'infinito tutto l'ordine della partecipazione. L'analogia costituisce dunque tra l'agnosticismo e l'antropomorfismo un termine medio autentico che non può
ridursi né all'uno né all'altro316.
Art. II - L'essenza logica di Dio
§ 1 - Gli attributi divini
357 - 1. CONCETTO - L'attributo divino, in generale, si definisce come una perfezione assolutamente
semplice, che esiste necessariamente e formalmente in Dio e che, secondo il nostro modo imperfetto di conoscere, o costituisce l'essenza dell'Essere divino o da questa essenza si deduce.
2. DIVISIONE - Possiamo suddividere gli attributi divini secondo i molti punti di vista in cui li consideriamo. Il principale punto di vista è quello che distingue gli attributi entitativi dagli attributi operativi. I primi
sono relativi all'essere stesso di Dio e non comportano relazione alcuna con gli enti contingenti: unità, verità,
bontà, - infinità, immensità, ubiquità, eternità. I secondi, relativi alle operazioni divine, concernono gli uni le
operazioni divine immanenti: intelligenza, sapienza, prescienza e provvidenza; volontà, amore, misericordia
e giustizia, - gli altri, le operazioni dalle quali derivano effetti esteriori a Dio: creazione e conservazione,
concorso divino.
Dividiamo spesso gli attributi divini, secondo il nostro modo di conoscere, in negativi e positivi. Si chiamano negativi gli attributi che si enunciano per mezzo di una negazione (immutabilità, immensità). Si dicono
positivi gli attributi che esprimiamo in forma affermativa (la scienza, la sapienza). Questa divisione è tuttavia
imperfetta, perché alcuni attributi, che noi enunciamo positivamente, implicano nondimeno una negazione:
ad esempio la semplicità è negazione di ogni composizione.
Viceversa, attributi di forma negativa, come l'infinità, esprimono tuttavia una perfezione positiva.
§ 2 - Il costitutivo formale dell'essenza divina
358 - Per quanto è relativo all'essenza divina, il primo quesito è il seguente: in che cosa consiste quest'essenza? È evidentissimo che tutto consiste in una determinazione logica dell'essenza di Dio, perché in Dio ogni realtà è l'essenza stessa di Dio. Il problema dunque si riduce a chiederci: che cosa dobbiamo intendere
come costitutivo della divinità, ovvero quale è la perfezione radicale donde tutte le altre logicamente derivano?
A. L'ASEITÀ.
1. CONDIZIONI DEL COSTITUTIVO FORMALE - Per determinare in che cosa consista l'essenza logica
della divinità, dobbiamo innanzi tutto definire a quali condizioni debba soddisfare la perfezione che dovremo
considerare come il costitutivo formale della natura divina. Queste condizioni sono le tre seguenti: il costitutivo formale della divinità è ciò che di Dio ci appare come assolutamente primo, logicamente anteriore ad
ogni altro attributo, ciò per cui noi distinguiamo principalmente Dio da ogni cosa che non è lui, infine ciò
che costituisce la ragion d'essere e il perché di tutte le altre perfezioni divine.
2. L'ESSERE SUSSISTENTE PER SÉ - Diciamo che Dio è l'Essere stesso sussistente per sé, perché l'aseità o esistenza per sé (a se) è quanto risponde più adeguatamente alle condizioni richieste dal costitutivo formale.
a) L'aseità è assolutamente prima. Pare che ogni altro principio in Dio sia subordinato all'aseità. Possiamo
bensì scoprire la aseità dopo e per mezzo di altre perfezioni; ma ben si vede che la perfezione radicale consiste nel non dipendere da niente e nell'essere sufficiente a se stesso in senso assoluto, cioè nell'essere per sé:
l'infinità, l'onniscienza, l'onnipotenza appartengono a Dio in quanto egli esiste per se stesso.
b) L'aseità è principio assoluto di distinzione. È altrettanto evidente che l'esistenza per sé contribuisce più
di tutte le altre perfezioni a distinguere Dio dagli altri enti che sono gli effetti della sua potenza. Tutte le perfezioni divine possono essere imitate in qualche modo: l'intelligenza, la provvidenza, la potenza creatrice,
l'infinità stessa. Solo l'esistenza per sé è propria a Dio in senso assoluto. Nessun concetto di Dio si presta ad
equivoco meno di questo: Dio è l'essere che esiste per sé.
c) Tutti gli attributi derivano dall'aseità. È chiaro infine che dall'esistenza per sé si deducono tutte le perfezioni divine molto più logicamente che dagli altri caratteri essenziali della divinità. Possiamo dire persino
che gli attributi di Dio sono reciprocamente implicati proprio perché ciascuno d'essi include l'essere: così
l'infinità di Dio implica l'intelligenza senza limiti, l'eternità, l'immensità, ecc., perché quest'infinità è un'infinità d'essere. D'altra parte, poiché l'aseità significa che in Dio l'essenza e l'esistenza costituiscono un'unità, ne
consegue che la natura divina è semplice in senso assoluto. Parimenti, Dio è infinito, in quanto è essere sussistente, poiché, come tale, non è ricevuto da un soggetto che lo limiti e non dipende da alcuna cosa che possa limitarlo. Altrettanto possiamo affermare di tutti gli attributi divini che procedono logicamente dall'aseità.
L'aseità divina soddisfa dunque e soddisfa da sola a tutte le condizioni necessarie per le quali la si può legittimamente considerare l'essenza logica della divinità. Dio è per eccellenza l'Ipsum Esse subsistens. Come
dice san Tommaso (S. Theol., Ia, q. 13, a. 12), «Colui che è» è il nome proprio di Dio.
Si è obiettato alla tesi precedente, da una parte che l'esistenza per sé è solo un modo dell'essere e quindi
non è possibile considerarla ciò che di più radicale e di primo ci sia nell'Essere divino, e d'altra parte che l'aseità essendo solo una perfezione negativa (perché consiste nel non dipendere da un altro per quanto concerne l'esistenza), non può costituire la perfezione principale di Dio:
Queste difficoltà derivano solo dal nostro modo necessariamente imperfetto di parlare di Dio. L'esistenza
per sé è un modo d'essere solo nell'insufficiente espressione del nostro linguaggio. L'aseità non è una proprietà dell'Essere divino; è lo stesso Essere assoluto di Dio, Ipsum esse subsistens. E pertanto, benché pos-
siamo enunciarla solo negativamente, essa esprime quella realtà positiva costituita dalla sussistenza perfetta e
infinita dell'Atto puro o Essere assoluto di Dio.
B. TEORIE RELATIVE ALL'ESSENZA DI DIO.
359 - Molte teorie hanno proposto - intorno all'essenza logica di Dio - ipotesi differenti da quella enunciata
in precedenza. Ci limiteremo a fornire brevi ragguagli sulle più notevoli.
1. Platone - Platone definisce Dio mediante l'idea del Bene dalla quale egli ritiene che derivino tutte le altre
perfezioni di Dio317.
Tuttavia, questa opinione non sembra fondata, poiché, come osserva san Tommaso (S. Theol., Ia, q. 13, a.
12 ad 2um), l'attributo della Bontà, che è effettivamente uno degli attributi principali di Dio, non è primo in
assoluto perché Dio è buono in quanto Causa. Sennonché la causalità presuppone necessariamente l'essere.
2. OCKAM - I nominalisti della corrente di Ockam negano che vi sia alcun attributo che in Dio costituisca
l'origine delle altre perfezioni. Per questi l'essenza divina consiste nell'insieme di tutte le perfezioni.
Questa posizione risulta evidentemente dalle teorie nominalistiche, perché se l'universale è un termine collettivo, il costitutivo formale non può che designare l'insieme di tutte le perfezioni divine. Sempre a proposito delle teorie nominalistiche, è necessario però osservare che questo termine che «sta per» (supponit pro)
l'insieme degli attributi divini, è puramente equivoco e non ha un contenuto proprio. È dunque un puro simbolo di una realtà in sé sconosciuta e inconoscibile. Ritroviamo quindi, nel loro stesso principio, le tesi agnostiche che abbiamo discusse altrove.
3. DUNS SCOTO - Duns Scoto ritiene che l'essenza logica della natura divina consista nell'infinità radicale, cioè nell'esigenza di tutte le perfezioni possibili. (Op. oxon., in rist. Vivés, 23 voll., Parigi, 1891-95, 1.
Dist., 3, q. 2) È per questa infinità che Dio si distingue dalle creature che hanno un essere finito.
Questa tesi deriva logicamente dalla teoria scotista sull'univocità dell'essere (160) e sembra porti a far dell'essere un genere comune a Dio e alle creature. Scoto nondimeno evita di collocare Dio in un genere. Tuttavia, senza entrare nel merito della discussione, osserveremo che la infinità suppone un soggetto e di conseguenza un principio anteriore. D'altra parte non abbiamo nulla in contrario ad ammettere che l'infinità è uno
dei concetti che esprimono meglio la natura divina perché tutte le perfezioni ne conseguono. Ciò conviene
tuttavia in qualche modo a tutti gli attributi divini, che sono tutti gli uni impliciti negli altri. Resta che l'essenza logica deve, non solo implicare tutte le perfezioni divine, ma fornirne anche la ragione più alta.
4. GIOVANNI DI SAN TOMMASO - Secondo Giovanni di San Tommaso, il costitutivo formale dell'essenza divina consiste nell'intellezione sussistente perché l'intelligenza, egli dice, è, sia in Dio che negli uomini, la prima di tutte le perfezioni, dalla quale dipendono tutte le altre. (Cfr. In I.a Part., in Cursus theologicus,
8 voll., Québec-Parigi, 1947-54, disp. XVI, a. 2, n. 10).
Questa opinione urta contro la difficoltà che l'intellezione è un modo dell'essere e presuppone logicamente
il soggetto o l'essenza. È tuttavia vero che in Dio non vi è un modo distinto dall'essenza e che Giovanni di
san Tommaso parla qui dell'Intellezione sussistente, nella quale consiste in realtà l'operazione propria ed essenziale di Dio. Tra l'Essere sussistente e l'Intellezione sussistente esiste solo una distinzione puramente logica. Rimane vero però che se si considera il punto di vista dell'essenza come più fondamentale di quello della natura (o principio d'operazione), bisognerà considerare come costitutivo formale della divinità lo stesso
Essere sussistente.
360 - 5. SECRÉTAN, LEQUIER - Questi filosofi, le cui dottrine si fondano interamente sull'idea di libertà, considerata come la più alta e la più perfetta manifestazione dell'essere, ritengono che sia la stessa libertà
e solo la libertà a costituire il carattere primo e assoluto dell'essenza divina. Secrétan nella sua Philosophie
de la Liberté (3a ed., Parigi, 1879), si scaglia contro il razionalismo che fa di Dio l'essere intrinsecamente
necessario e induce perciò al panteismo. Si può sfuggire a quest'ultimo, egli pensa, solo ammettendo che Dio
è libertà assoluta. «Libero di fronte alla sua stessa libertà, egli è solo ciò che vuol essere, egli è tutto ciò che
vuol essere, egli è tutto ciò che vuol essere solo perché egli vuole esserlo [...]. L'idea di un essere naturalmente perfetto è contraddittoria, perché un siffatto essere perfetto sarà meno tale di quello che si dà la perfezione liberamente» (Philosophie de la Liberté, t. II, p. 16). Queste teorie sono state riprese, sotto varie forme,
da molti filosofi contemporanei e particolarmente da Lequier (La recherche d'une première vérité, Parigi,
1924, pp. 82-85), Boutroux318 e Hamelin319.
Queste teorie, che s'avvicinano a quella cartesiana secondo la quale Dio è causa di sé, non solo negativamente ma anche positivamente e si dà la perfezione della quale possiede l'idea (cfr. Réponses aux premières
objections, ed. più volte cit., 5-6), non riescono a proporsi in maniera intelligibile. Poiché bisognerebbe spiegare come la libertà possa essere anteriore all'intelligenza senza divenire una contingenza radicale equivalente al puro caso. Nulla v'è di più assurdo di questa illazione perché in conseguenza di essa non solo la determinazione all'azione, ma anche la determinazione all'esistenza non dipendono letteralmente da nulla.
Dunque il nulla diviene ragione suprema e principio primo. Dobbiamo senza dubbio affermare la realtà in
Dio di un libertà infinita, ma essa non può essere la libertà di esistere, bensì solo la libertà di agire conformemente alle esigenze della Ragione e della Sapienza infinita.
CAPITOLO SECONDO
GLI ATTRIBUTI DIVINI
SOMMARIO320
Art. I - GLI ATTRIBUTI ENTITATIVI. Unità e semplicità di Dio - Semplicità assoluta di Dio - L'unicità
divina - La Verità suprema e il Sommo Bene - La Verità prima - Il Sommo Bene ­ La perfezione infinita Indefinito e infinito - L'infinito di perfezione - Dio e il mondo - Perfezione infinita e semplicità - L'immutabilità e l'eternità di Dio - L'immutabilità - Concetto dell'eternità - L'immensità divina.
Art. II - GLI ATTRIBUTI OPERATIVI. L'Intelligenza divina - Esistenza della scienza divina - Oggetto
della scienza divina - Mezzo della scienza divina - La volontà di Dio - Natura - Oggetto - Proprietà - La giustizia e la misericordia di Dio - La provvidenza di Dio - Natura - Modo della provvidenza ­ Il problema del
male - Il male e la provvidenza - Male fisico e male morale - L'onnipotenza di Dio - La potenza creatrice La vita e la beatitudine divine.
361 - La nostra ricerca, come abbiamo detto, si fonda solo sui dati dell'esperienza, dai quali deduciamo la
necessità dell'esistenza di Dio, come causa prima universale, e scopriamo differenti aspetti della natura di
Dio, principio primo di tutte le perfezioni che conosciamo nell'universo. Così la nostra intelligenza, conoscendo Dio attraverso le creature, si forma, per pensare Dio, concetti che sono in rapporto con le perfezioni
che procedono da Dio agli enti finiti, negando di Dio tutto ciò che, nelle perfezioni create, definisce propriamente il loro stato finito, dipendente e mutevole, ed elevando all'infinito tutta la perfezione positiva e semplice in esse contenuta. Infatti Dio che le esigenze dell'intelligibilità ci impongono di riconoscere come Atto
puro o Essere esistente per sé, non può ammettere nella sua essenza alcuna sorta di composizione o di limitazione, di divenire o di pluralità reale.
Questo è il processo che chiamiamo deduzione degli attributi divini, entitativi e operativi. Questa deduzione è a priori, se così si può dire, solo al secondo grado, perché noi non conosciamo l'essenza divina in se
stessa, e perché non vi può essere, sotto questo punto di vista, scienza di Dio. Una volta però che abbiamo
conosciuto a posteriori e mediante lo stesso processo sia l'esistenza che la natura di Dio, sarà possibile il
tentativo di stabilire a priori un ordine logico fra gli attributi divini e perciò di derivarli tutti da quello che
pare esserne la ragione suprema.
Art.. I – Gli attributi entitativi
362 - Gli attributi che hanno rapporto con l'essenza stessa di Dio sono la semplicità assoluta e l'unicità, la
suprema verità e il sommo bene, la perfezione infinita, l'immutabilità, l'eternità e l'immensità.
§.1 - L'unità e la semplicità di Dio
1. SEMPLICITÀ ASSOLUTA DI DIO - Dio è uno in se stesso in senso assoluto, cioè perfettamente semplice. Egli, come tale, esclude ogni composizione fisica risultante sia di parti costitutive dell'essenza (materia
e forma, corpo e anima), sia di parti integranti e quantitative (quantità), ogni composizione metafisica (potenza e atto, essenza ed esistenza, sostanza e accidente), infine ogni composizione logica (genere e differenza).
Infatti Dio, che è lo stesso Essere sussistente, possiede ogni pienezza dell'essere e deve anche possedere tutta
la perfezione dell'unità, che è una proprietà trascendentale dell'essere. D'altra parte, Dio, essendo l'Essere per
sé, non causato e increato, non può essere un tutto composto di parti, poiché, se fosse composto in tal modo,
richiederebbe una causa estrinseca a spiegare l'unificazione degli elementi che, per ipotesi, lo comporrebbero: la pluralità non può costituire ragione dell'uno. Inoltre, Dio, Atto puro, non può essere composto di materia e di forma, che implicano potenzialità e imperfezione essenziale. A maggior ragione non può essere
composto di parti quantitative, che significano fondamentalmente indeterminazione e passività. Infine, Dio
non può essere composto di essenza e di esistenza, perché è l'Essere per sé, né di genere e di differenza, perché come principio primo universale trascende tutti i generi e le differenze dell'essere, né di sostanza e di accidente, perché è Atto puro e come tale è perfettamente determinato in se stesso e non è potenzialmente suscettibile di alcuna altra determinazione.
2. L'UNICITÀ DIVINA - L'unicità di Dio deriva necessariamente dall'assoluta semplicità divina. Infatti, se
la divinità comportasse molteplicità, bisognerebbe distinguere in ciascuno degli esseri divini la divinità, che
risulterebbe comune a tutti, dalle condizioni individuanti che li distinguerebbero fra loro. Si riscontrerebbe,
dunque, in questi esseri composizione di genere e di differenza e, perciò stesso, nessuno tra essi potrebbe essere l'Essere sussistente per sé, cioè nessuno di essi sarebbe Dio. In altri termini, possiamo dire che Dio, essendo la sua stessa natura, poiché egli è tutto ciò che è per sua stessa natura, non può assolutamente moltiplicarsi. Se un uomo fosse determinato nella sua individualità non mediante le caratteristiche individuanti
che lo distinguono dagli altri, ma in virtù della natura umana, egli sarebbe l'umanità stessa e non potrebbe esistere altro uomo fuori che lui. Così è di Dio: egli è la sua stessa natura divina e per questo non esiste e non
può esistere che un solo Dio.
§ 2 - La Verità suprema e il Sommo Bene
363 - 1. LA VERITÀ PRIMA - La verità consiste, ontologicamente, nella conformità dell'essere con il suo
tipo eterno, o, logicamente, nella conformità dell'intelligenza col suo oggetto. In ambo i sensi, Dio è suprema
verità. Da una parte, infatti, l'Essere stesso sussistente è necessariamente conforme al tipo eterno conosciuto
dall'intelligenza divina, poiché coincide assolutamente con essa. D'altra parte, e reciprocamente, l'intelligenza divina non può che essere perfettamente conforme all'essenza divina ed essa esprime e conosce in maniera
assolutamente adeguata tutte le realtà contingenti che procedono da Dio. Dio è dunque, sia nell'ordine ontologico che nell'ordine logico, la Verità stessa, e le verità particolari che illuminano la nostra intelligenza sono
soltanto il riflesso di questa Verità sussistente.
2. IL SOMMO BENE - Identico all'assoluto vero, Dio è anche identico al bene. Il bene è l'oggetto della
volontà, come il vero è l'oggetto dell'intelligenza: è la perfezione e solo la perfezione che rende l'essere desiderabile ed amabile, in quanto è esso stesso capace di soddisfare un bisogno o di appagare un desiderio. Il
bene è dunque essenzialmente fine e mèta ed ogni fine è tale solo in quanto è un bene.
a) LA BONTÀ ESSENZIALE - Se la bontà di un ente si misura su quanto d'essere esso possiede, è evidente che l'Essere sussistente per sé debba possedere tutta la perfezione dell'essere e, per ciò stesso, tutte le perfezioni assolute, che in realtà sono semplicemente modalità dell'essere. Dio dunque è per essenza la Bontà
suprema e infinita.
b). IL FINE UNIVERSALE - Dio, essendo il Bene assoluto, è il fine ultimo di tutti gli enti dell'universo.
Quod omnia appetunt. Tutti aspirano, in certo modo, a Lui, perché tutti cercano la loro perfezione. Ora tutte
le perfezioni sono in rapporto a quella di Dio come alla loro causa efficiente e modello. Perciò ogni creatura
tende a Dio e gravita, in certo modo, intorno a Dio, centro donde procede tutta la vita dell'universo e verso il
quale convergono tutte le energie degli enti finiti. Aristotele affermava in tal senso che il cielo e la terra sono
sospesi per attrazione di desiderio al Primo Motore (I de Coelo, c. 9, 279 a 22; Metaph., XII, c. 7, 1072 b 13)
e san Tommaso precisa questa dottrina scrivendo (S. Theol., Ia, q. 60, a. 5) che «ogni creatura è naturalmente
incline ad amare Dio nel suo modo e più che se stessa».
§ 3 - La perfezione infinita
364 - 1. INDEFINITO E INFINITO - Chiamiamo infinito ciò che è non-finito, cioè senza limite. Vi sono
tuttavia parecchi modi di essere illimitato. Così la materia o la quantità è infinita privativamente, in quanto
essa non è suscettibile di essere compiuta per se stessa: l'infinito, in tal senso, è l'indefinito o l'indeterminazione profonda e per ciò stesso l'imperfezione essenziale (II, 85). In senso contrario, l'infinito può significare ciò che è senza limite, in ragione stessa della sua perfezione. Secondo questo punto di vista, distinguiamo
l'infinito relativo, che è ciò che non ha limiti in un genere di perfezione data, e l'infinito assoluto ovvero puro
e semplice, che è ciò che non ha limiti in tutti i generi di perfezione possibili. Questa è l'infinità di perfezione
che noi attribuiamo a Dio.
2. L'INFINITO DI PERFEZIONE - Dio è la perfezione infinita in quanto egli è l'Essere per sé. Infatti, in
lui l'esistenza non è contenuta in una essenza suscettibile di esistere: egli è l'esistenza stessa non-contenuta e
per conseguenza illimitata. Possiamo, secondo un altro punto di vista, dire anche: se Dio comportasse un limite, sarebbe suscettibile di divenire più grande e di acquisire una nuova perfezione; sarebbe dunque composto di potenza ed atto. Inoltre, se avesse un limite, lo subirebbe e, sotto questo rapporto, sarebbe passivo. Da
entrambi i punti di vista non sarebbe, dunque, Atto puro.
Dio è pertanto infinito per la sua essenza stessa e in tutti i sensi. Non bisogna tuttavia confondere questa
infinità con l'indeterminazione, poiché ogni indeterminazione è imperfezione. L'infinità divina essendo infinità dell'Atto puro è per ciò stesso assoluta determinazione, cioè esclude ogni potenzialità e implica l'attualità totale e piena di tutte le perfezioni.
365 - 3. DIO E IL MONDO - L'obiezione più speciosa che si oppone all'infinità divina consiste nel dire
che se il mondo è reale, o limita Dio, che pertanto non sarà più infinito, o si aggiunge a Dio infinito, il che è
contraddittorio.
Questa obiezione si fonda su un concetto inesatto dell'infinità divina. L'universo non può limitare Dio perché procede da lui e sussiste solo per causa sua. Da ciò consegue che l'essere del mondo non si può in alcun
modo aggiungere all'essere divino, perché gli enti hanno una realtà solo in quanto essa è causata da Dio. Dopo la creazione, c'è molteplicità di enti e diversità di perfezioni, ma non c'è più essere e non c'è più perfezione. Possiamo certo dire che, in virtù della creazione, vi sono enti nuovi, ma la novità è in essi, non in Dio
che, come Causa, li contiene virtualmente ed eminentemente nella sua potenza creatrice.
4. PERFEZIONE INFINITA E SEMPLICITÀ - Si pone ora il problema di conoscere come Dio contenga,
nella. sua essenza infinita, tutte le perfezioni semplici secondo la loro ragione formale e propria. Ciò è compatibile con l'assoluta semplicità di Dio?
È certo che bisogna evitare nel medesimo tempo di ritenere che i nomi divini siano puri sinonimi, perché
esprimono concetti diversi, e di credere che essi significhino perfezioni realmente distinte fra loro, poiché ciò
equivarrebbe ad introdurre in Dio una composizione fisica. L'unica soluzione consiste, dunque, nell'ammettere tra le perfezioni divine una distinzione virtuale, nel senso che ogni singola perfezione significhi esplicitamente, mediante la sua ragione propria, ciò che è implicito nelle altre perfezioni. Pertanto, tutti i nomi divini
designano una sola e medesima cosa, assolutamente una e semplice, ma la designano sotto aspetti molteplici
e diversi. La loro pluralità non lede dunque la perfezione divina perché noi sappiamo che se, per la nostra ragione, Dio è nel tempo stesso realmente uno e molteplice, ciò dipende dalle condizioni della nostra intelligenza, che concepisce Dio sotto aspetti diversi, come sotto aspetti diversi le cose ce lo rappresentano. (Cfr.
S. Tommaso, S. Theol., Ia, q. 13, a. 4).
§ 4 - L'immutabilità e l'eternità di Dio
A. L'IMMUTABILITÀ.
366 - 1. L'ATTO PURO - Per mutamento s'intende il passaggio da un modo di essere ad un altro, da uno
stato ad un altro stato. Di conseguenza, ogni mutamento implica potenzialità, composizione e imperfezione
essenziale. Ora ciò è assolutamente incompatibile con la natura di Dio, che è l'Atto puro, infinitamente semplice e perfetto.
2. L'IMMUTABILITÀ ASSOLUTA - Quando affermiamo l'immutabilità di Dio, non dobbiamo eccettuare
da questa affermazione né l'intelligenza né la volontà divina. Il Pensiero divino è totalmente in atto e sussiste
senza mutamento: non c'è nulla che esso possa dimenticare e nulla che possa scoprire che avanti ignorasse.
Lo stesso dicasi della Volontà divina, che non può conoscere né le incertezze derivanti dall'esitazione e dalla
deliberazione, per difetto di luce intellettuale, né le vicissitudini dell'azione o la resistenza delle cose, per difetto di potenza nell'agire.
Contro questa tesi si obietta che Dio ha creato il mondo e che egli vuole o permette tutto quanto accade e di
conseguenza un'infinità di mutamenti, cosa che sembra comporti anche modificazione nel pensiero e nella
volontà. A questa obiezione si risponde osservando che gli effetti nuovi del pensiero e della volontà divina
interessano gli enti finiti e non il pensiero o la volontà di Dio. Dio conosce e vuole immutabilmente, eternamente ciò cui il tempo dà cominciamento; egli vuole il mutamento, senza mutare egli stesso.
B. L'ETERNITÀ.
367 - 1. CONCETTO - L'eternità è un attributo che deriva dall'immutabilità. L'eterno è infatti ciò che non
muta e non può mutare in alcun modo, di conseguenza ciò che non comincia e non finisce e ciò che possiede
la pienezza del suo essere nell'attualità pura, esclusiva di ogni successione o modificazione. Donde la definizione di Boezio (De Consolatione Philosophiae, Heidelberg, 1947, V, prosa 6; cfr. tr. it. di Moricca, Firenze,
1942), ripresa da san Tommaso (S. Theol., Ia, q. 10, a. l): l'eternità è il possesso nello stesso tempo totale e
perfetto di una vita senza limiti. (Interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio). Di conseguenza l'eternità è un presente immutabile, che coesiste a tutto il tempo.
Per spiegare questa presenza dell'eternità a tutti i tempi, si ricorre ad un paragone espressivo: l'eternità è
come il centro di un cerchio o di una sfera i cui raggi sono sempre in movimento. Tutto si muove attorno a
questo centro immobile: i punti della sfera e dei cerchi il cui numero è infinito non sono presenti gli uni agli
altri, essi possono mutare il loro reciproco rapporto e addirittura muoversi in senso inverso; ma sono sempre
presenti al centro e ciascuno di essi conserva con questo sempre lo stesso rapporto. Così Dio, immobile e eterno, muove tutte le creature attorno a lui nel tempo, e l'avvenire sta davanti a lui come il presente.
L'eternità differisce dunque essenzialmente dal tempo, anche se questo è concepito senza principio né fine,
perché essa è immutabilità perfetta, possesso totale e pieno dell'essere, mentre il tempo è successione e dispersione dell'essere nella durata. Per questo Boezio nota che «se vogliamo dare un nome che loro convenga
alle cose del mondo, diremo, sull'esempio di Platone, che Dio è eterno, ma che il mondo [supponendo la creazione ab aeterno] è perpetuo».
2. L'ETERNITÀ DI DIO - L'eternità di Dio risulta dalla sua immutabilità assoluta. Dio esiste senza alcuna
successione né mutamento, non solamente la sua vita è senza principio né fine, ma essa non ammette né perdita né acquisizione. Egli possiede in atto la pienezza del suo essere infinito, cioè la sua eternità è lui stesso
poiché essa è la sua stessa esistenza.
§ 5 - L'immensità divina
368 - 1. CONCETTO - L'immensità, nel senso etimologico, è ciò che è o sembra senza misura, ciò che è o
sembra infinito: come l'oceano, il cielo, lo spazio. Tuttavia, l'immensità delle cose, supponendo che sia reale,
non è l'immensità divina come la perpetuità del tempo non è l'eternità di Dio. Clarice e Newton si sono ingannati su questo punto (II, 21). Per immensità divina, infatti, bisogna intendere l'attributo per il quale la
presenza di Dio è ovunque necessaria. Così intesa, l'immensità divina non si identifica con l'ubiquità, o presenza di Dio in ogni luogo, poiché questa non è che una conseguenza dell'immensità. Anche supponendo che
l'universo non esistesse, Dio sarebbe immenso, in quanto avrebbe la virtù inalienabile di essere presente a
tutti i mondi possibili.
2. L'IMMENSITÀ DI DIO - Mediante la sua immensità essenziale Dio è presente in tutte le cose, è presente in ogni luogo, è effettivamente ovunque con la sua essenza, con la sua presenza e con la sua potenza.
a) Dio è in tutte le cose. Dio come Causa prima universale è presente nella maniera più intima in ogni ente:
poiché tutto si compie in virtù di Dio e con Dio, è necessario che tutto si compia in lui. Dio è dunque presente in ogni dove, non come una parte del tutto, come un elemento di un complesso o un accidente nella sostanza, ma come il creatore in un'opera che dipende necessariamente, immediatamente e interamente da lui.
b) Dio è in ogni luogo. L'ubiquità divina risulta necessariamente dall'immensità di Dio. Infatti, se Dio è
presente in tutte le cose, è presente in tutto ciò che occupa luogo e spazio. Egli stesso, per conseguenza, occupa lo spazio, non come un corpo solido o fluido, ma in quanto fa che tutti i corpi occupino spazio e in
quanto lo stesso spazio ha capacità e realtà solo in virtù di lui.
c) Modi dell'immensità divina. Dio è ovunque presente con la sua essenza, cioè per se stesso immediatamente, perché tutto ciò che esiste riceve l'essere da lui e per opera di lui lo conserva e perché nulla, fuorché
l'Essere stesso sussistente per sé, può dare e conservare l'essere. Dio è ovunque con la sua presenza, perché
egli conosce tutto, vede tutto, assiste a tutto ciò che avviene. Dio è ovunque con la sua potenza, perché tutto
sottostà al suo sovrano dominio.
Art. II – Gli attributi operativi
369 - Tratteremo qui degli attributi operativi, cioè relativi alle operazioni immanenti di Dio ovvero a quella
che noi chiamiamo la vita divina così come la ragione naturale ci consente di conoscerla. Questi sono gli attributi che derivano dall'intelligenza (scienza e prescienza di Dio) e dalla volontà (amore, giustizia e misericordia, provvidenza).
§ 3 - L'intelligenza di Dio
L'intelligenza di Dio è il principio della scienza divina della quale dovremo stabilire l'esistenza, l'oggetto e
il mezzo.
A. ESISTENZA DELLA SCIENZA DIVINA.
La scienza consiste, in generale, nella conoscenza della verità. Considerata nel suo atto stesso, la scienza è
il possesso intuitivo e perfetto da parte dell'intelligenza di tutte le verità che sono nel suo dominio. Più scienza v'è, più v'è luce e se la scienza è infinita, la luce è priva d'ombre; Tale è la scienza di Dio.
1. L'INTELLIGENZA DIVINA - Sappiamo che Dio possiede in assoluto tutte le perfezioni. Tra queste, la
scienza, che è la perfezione dell'intelligenza, è la prima nell'ordine operativo, perché specifica la natura divina, ossia il principio d'operazione divino. Come tale, essa regola in certo modo, tutte le operazioni divine:
possiamo infatti amare e volere in proporzione di quanto conosciamo.
D'altra parte, Dio è assolutamente immateriale, perché non solo Egli non ha la materia propriamente detta,
ma esclude anche ogni specie di potenzialità. Egli è Atto puro. Poiché la conoscenza è proporzionata al grado
di immaterialità: più una cosa si svincola dalla materia, più è capace di assimilarsi le forme degli enti esteriori; per questo la potenza conoscitiva cresce immensamente quando dall'animale, chiuso nel mondo sensibile,
si passa all'uomo, la cui intelligenza, spirituale nel suo principio, trascende lo spazio e il tempo, attinge gli
oggetti immateriali e s'apre in certo modo a tutta l'ampiezza dell'essere. Dio, che è Spirito puro, deve dunque
per ciò stesso essere sommamente intelligente e possedete la scienza perfetta e assoluta.
2. L'INTELLEZIONE SUSSISTENTE - Bisogna anche osservare che in Dio l'intelligenza è l'essere stesso
e non, come in noi, una facoltà distinta dall'essenza e principio di atti molteplici e diversi. In Dio, Atto puro,
non c'è nulla di potenziale. L'intelligenza divina non può dunque essere in potenza all'atto conoscitivo: essa è
necessariamente in atto e in atto di verità infinita, cioè essa è propriamente l'Intellezione sussistente.
B. OGGETTO DELLA SCIENZA DIVINA.
370 - 1. IL PENSIERO DEL PENSIERO - Così Aristotele chiama Dio e nulla di più alto ha mai detto su
Dio la sapienza naturale. L'intellezione divina, che non procede da una facoltà, non può distinguersi dall'essenza divina, che è nel medesimo tempo suo soggetto e suo oggetto.
Infatti l'essenza divina non è semplicemente intelligibile in potenza, come se richiedesse di essere espressa
in un'idea. Essa è supremamente intelligibile poiché è l'essere stesso di Dio: Dio conosce se stesso immediatamente quanto è conoscibile, cioè assolutamente. In altri termini l'intelligenza divina è essa stessa la sua
propria idea e il suo proprio oggetto: essa si conosce da sé e per sé. Il Soggetto e l'Oggetto costituiscono unità assoluta.
L'essenza divina è dunque l'oggetto formale e primo della conoscenza divina, perché essa è il solo oggetto
proporzionato alla scienza infinita. Essa è infatti l'oggetto più perfetto, più attuale, più intelligibile, più presente e infine il migliore che possa offrirsi al pensiero divino. Dunque lo sguardo di Dio è fisso principalmente sulla sua propria essenza.
2. LA SCIENZA DEI POSSIBILI.
a) Dio vede l'infinità dei possibili. La scienza divina ha un oggetto secondario, costituito dall'infinità dei
possibili, in quanto partecipazioni finite della sua essenza infinita. Dio infatti conosce necessariamente tutte
le cose alle quali si estende la sua potenza, poiché possiede necessariamente la perfetta comprensione di ciò
che egli è e può fare. Pertanto conosce tutti i possibili, ma non in maniera generale, confusa, progressiva e
discorsiva, poiché simile conoscenza sarebbe tutta pervasa di potenzialità e frammista di oscurità. Dio vede
l'infinità dei possibili con visione intuitiva ed esaustiva, fin nelle loro modalità più transitorie e fino alla radice delle loro minime differenze individuali. Egli vede tutti i possibili condizionali, cioè le cose che non sono
esistite, non esistono, né esisteranno mai, ma che avrebbero potuto esistere se ne fosse stata posta la condizione. Questa scienza dei possibili si definisce col nome di scienza di semplice intelligenza.
371 - b) Dio vede tutta la realtà creata. La conoscenza assoluta e perfetta della realtà creata costituisce ciò
che, in Dio, chiamiamo la scienza di visione. In virtù di questa scienza la realtà creata è totalmente sotto lo
sguardo di Dio, poiché nulla di tutto ciò che esiste è o agisce in virtù d'altra potenza da quella di Dio, principio primo dell'essere universale. Ne consegue che Dio conosce tutte le singole realtà, tutti i futuri liberi ed
anche il male ed il peccato.
Dio conosce non solo le leggi generali dell'universo, ma tutte le realtà singole che lo compongono. Egli le
coglie in un solo sguardo, che va sino alla radice stessa della loro singolarità e che raggiunge, se si tratta di
esseri ragionevoli, le minime manifestazioni della loro vita e i movimenti del loro pensiero più segreti e meno accessibili a colui stesso da cui nascono. Dio conosce le sue creature infinitamente meglio che esse non
possano conoscere se stesse.
Dio conosce tutti i futuri liberi, cioè tutti gli atti che gli esseri intelligenti compiranno liberamente, poiché
anche questi atti, in tutta la loro realtà ontologica, dipendono dalla sua potenza creatrice. È vero che per conoscere con certezza i futuri liberi non è sufficiente conoscerli nelle loro cause, poiché in essi non sussiste
relazione necessaria tra causa ed effetto, ma bisogna conoscerli anche in loro stessi. Dio li conosce proprio
così, perché essi gli sono sempre presenti, senza che d'altra parte, come vedremo, l'infallibilità della sua prescienza impedisca agli atti d'essere futuri liberi, cioè contingenti in rapporto alle loro cause prossime.
Parimenti, e contrariamente all'opinione di Aristotele (Metaph. 1074 b 32), Dio conosce il male e il peccato, in primo luogo perché egli è supremo Legislatore e Rimuneratore, ma anche perché come Causa prima,
egli concorre all'essere fisico del peccato, cioè a tutto quello che in esso sussiste di positivo e di buono.
c) Dio vede tutto nella sua essenza. Dio conosce nella sua essenza tutti i possibili e tutta la realtà, in quanto
partecipazioni o imitazioni infinitamente molteplici e diverse di tale essenza infinita. Dio non può conoscere
diversamente le cose distinte da Lui, perché la sua scienza non è l'effetto, ma la causa stessa delle cose. Non
perché le cose esistano o possano esistere, Dio le conosce, ma perché Dio le conosce esse possono esistere o
esistono. Supporre, come certi filosofi, che i possibili esistano fuori dell'intelletto divino, vale ad immettere
in Dio potenza ed imperfezione, perché significa attribuirgli un oggetto distinto da Lui stesso come capace di
determinarlo.
372 - 3. LE IDEE DIVINE - I possibili nel pensiero di Dio non sono altro che l'essenza divina, conosciuta
da Dio, non precisamente in se stessa, ma in quanto partecipabile e imitabile da parte delle creature. Pertanto mediante un solo e medesimo atto Dio conosce insieme la sua essenza infinita e l'infinità dei possibili.
Se ne deduce che la scienza divina comprende tutte le idee possibili. Infatti bisogna ammettere in Dio l'esistenza di un numero infinito di idee, poiché le idee si moltiplicano come le cose delle quali sono il tipo intelligibile. Ora, i possibili sono infiniti, poiché essi sono l'essenza divina in quanto partecipabile e poiché l'essenza divina è imitabile all'infinito. D'altra parte siccome Dio è causa prima, onnipotente e perfettamente intelligente, la sua scienza ha la stessa estensione che la sua azione effettiva e parimenti un raggio tanto vasto
quanto la sua azione possibile.
Dio ha dunque idee distinte di tutto ciò che fa e di tutto ciò che può fare.
Con ciò che abbiamo detto non abbiamo introdotto in Dio alcuna potenzialità, perché le idee, in Dio, non
sono come in noi, il principio della conoscenza delle cose, sono solo modelli secondo i quali Dio attua o può
attuare tutte le cose. In Dio, l'idea non è mezzo di conoscenza: il mezzo della conoscenza in Dio è la sua essenza stessa, in quanto essa è imitabile all'infinito. Osserviamo anche che questo concetto delle idee divine
non introduce in Dio alcuna composizione reale, perché piuttosto che un'infinità di idee bisognerebbe dire
che Dio ha l'idea di un'infinità di cose. Ora, quest'idea dell'infinità delle cose è la sua stessa essenza in quanto infinitamente partecipabile.
C. MEZZO DELLA SCIENZA DIVINA.
373 - 1. IL PROBLEMA - Il principio per il quale Dio conosce è l'essenza stessa di Dio. Il modo secondo
il quale Dio conosce consiste in un atto unico e infinitamente semplice che non differisce realmente dall'Essere divino. Sarà necessario sapere qual è il mezzo della conoscenza divina, cioè ciò in cui Dio conosce le
cose distinte da lui.
È senz'altro evidente che le conosce in se stesso. Ma si può approfondire ancora la ricerca e domandarsi se
Dio conosca gli enti nella contemplazione della sua essenza ovvero nei liberi decreti della sua volontà. Se si
trattasse solo di enti non liberi, la soluzione non sarebbe difficile: Dio vede i puri possibili nella sua essenza
e gli enti reali nei suoi liberi decreti. La cosa tuttavia si complica quando si vuol definire il mezzo col quale
Dio prevede gli atti liberi degli uomini. Se diciamo che Dio conosce i futuri liberi attraverso la sua essenza,
indipendentemente da ogni decreto, ammettiamo che la scienza di Dio dipenda da fatti contingenti e sia, di
conseguenza, potenziale e imperfetta. Se diciamo che Dio conosce i futuri liberi attraverso i suoi decreti, pare
compromessa la libertà delle creature poiché i loro atti sono predeterminati. È, quindi, evidente che ci incombe il difficile problema di conciliare la prescienza divina con la libertà delle creature321.
2. OPINIONI - Vi sono due cose certe, al di là di ogni discussione: la prescienza universale di Dio, fino a
ciò che concerne i futuri liberi e contingenti, e la libertà umana. Infatti come negare la prescienza infallibile
a Dio che è eterno, la cui scienza è infinita come l'esistenza e che cesserebbe d'essere causa prima universale,
se non gli fosse possibile la previsione delle libere determinazioni? In quanto alla libertà umana, sappiamo
che essa è affermata dalla coscienza nella maniera più certa e che deriva dalla ragione (III, 522-526). Si
può certo ammettere che la conciliazione di queste due certezze racchiuda per noi un mistero, che è propriamente quello della coesistenza dell'infinito col finito. Tuttavia, secondo il paragone di Bossuet, noi dobbiamo
ammettere che la catena ha due estremità, anche se non vediamo in che modo siano unite l'una all'altra. Comunque i filosofi e soprattutto i teologi sono stati più volte tentati di spiegare come possano coesistere la
prescienza divina e la libertà umana. Le loro opinioni su quest'argomento possono ridursi a due principali,
quella dei tomisti, che sostengono la premozione fisica, e quella dei molinisti, che sostengono la teoria della
scienza media.
a) La premozione fisica. Per i tomisti, Dio vede i futuri liberi nei decreti della sua volontà. Dio non può,
essi dicono, vederli diversamente, cioè né nella causa libera che li produce, né nelle proposizioni che li significano, perché queste proposizioni sono per natura posteriori a ciò che esse significano. Dio conosce la verità
di tutte le proposizioni, proprio perché egli conosce le cose stesse. Si potrebbe dire, è vero, che Dio conosce i
futuri liberi nella loro esistenza che è sempre attuale e presente nel pensiero divino. Sennonché, se questo è
certo, tuttavia non costituisce una soluzione: è, piuttosto, il problema da risolvere, poiché si tratta precisamente di conoscere come un fatto, che è futuro e contingente per se stesso, possa essere già attuale in rapporto a Dio.
Bisogna dunque dire che Dio vede i futuri liberi nei liberi decreti della sua volontà, cioè nel concorso mediante il quale li determina all'esistenza e che glieli rende presenti da tutta l'eternità. Questo concorso, d'altra parte, non deve essere concepito come semplicemente simultaneo all'attività delle cause libere perché la
scienza divina apparirebbe, almeno in parte, passiva rispetto ai futuri liberi, ma come antecedente a questa
attività libera, cioè come una predeterminazione (o premozione fisica) infallibilmente efficace.
b) La scienza media. Il teologo spagnolo Molina, ritenendo che l'opinione tomista conducesse alla negazione della libertà umana, propose nella sua Concordia liberi arbitrii cum gratiae donis (Lisbona, 1588; ora Parigi, 1875) un sistema fondato sull'esistenza in Dio di una scienza media, distinta dalla scienza di pura intelligenza e dalla scienza di visione. Infatti se vogliamo conciliare l'efficacia del concorso divino con la libertà,
bisogna ammettere, spiega Molina, in Dio una scienza intermediaria, che abbia per oggetto i futuri condizionali, cioè che preveda, prima d'ogni decreto, ciò che farà la volontà dell'uomo se si pone questa o quella
condizione. Essendo il decreto divino, o la determinazione dell'atto dipendente dall'esistenza dalle condizioni
o dalle circostanze dell'atto, che sono in potere dell'uomo, se ne deduce che l'atto resta libero nonostante la
determinazione divina, perché è prodotto dal concorso simultaneo dell'agente libero e di Dio.
374 - 3. DISCUSSIONE - Le due opinioni comportano delle difficoltà. A noi importa tuttavia conoscere se
queste difficoltà dipendano dalla natura stessa del problema o se provengano da una concezione inesatta dei
suoi termini. Quest'ultimo pare sia il caso delle opinioni moliniste.
a) Difficoltà della scienza media. Sembra che la scienza media non abbia realmente un oggetto distinto
dalle due altre scienze. Infatti i futuri condizionali, che sono presunti l'oggetto di questa scienza, sono o non
sono dei puri possibili. Se sono dei puri possibili, cioè se la condizione dalla quale dipendono non sarà posta,
essi rientrano nel dominio della scienza della semplice intelligenza. Se non sono dei puri possibili, cioè se la
loro condizione deve essere posta, essi appartengono alla scienza di visione.
I molinisti rispondono che l'esistenza dei futuri contingenti dipende da una condizione e che questa dipendenza li distingue al tempo stesso dagli oggetti della scienza di semplice intelligenza e dagli oggetti della
scienza di visione. Questa risposta appare nondimeno inefficace e lesiva del principio della libertà: inefficace, poiché non si comprende perché la scienza divina veda i futuri nella loro condizione o attraverso la loro
condizione, in quanto, per definizione, non esiste connessione necessaria tra gli atti liberi e le loro condizioni, lesiva del principio della libertà, perché se la scienza di Dio è certa, questa certezza nel caso dei futuri
condizionali, implicherà l'esistenza di una connessione necessaria tra le condizioni dell'atto, presunto libero,
e quest'atto stesso, il che contraddice alla nozione di libertà (III, 512).
375 - b) Il mistero della predeterminazione. Le osservazioni che precedono ci inducono a pensare che la
dottrina della premozione fisica è, più che una teoria, l'enunciato stesso di un mistero, che è quello dell'azione divina; il cui modo divino proprio resta a noi necessariamente celato. Tutto il problema si riduce dunque a
sapere se, da una parte, le esigenze assolute della causalità divina impongano di ammettere la predeterminazione e il mistero che essa cela, e, d'altra parte, se la predeterminazione sia contraddittoria alla libertà umana.
La risposta al primo punto deve essere affermativa, poiché se Dio è causa prima universale, necessariamente l'essere dei futuri liberi, come tutto ciò che è e come tutte le modalità dell'essere, senza eccezione né
condizione, viene da Dio. Appunto perciò anche la prescienza dei futuri liberi deve essere concepita come
infallibilmente efficace. Ogni altra soluzione ha per conseguenza di introdurre in Dio potenzialità e passività,
cosa propriamente assurda, poiché Dio è Atto puro.
Il secondo punto, relativo all'accordo della prescienza e della predeterminazione con la libertà, non può avere soluzione diretta e positiva. È solo possibile stabilire in questo caso che non vi può essere contraddizione reale. A questo proposito san Tommaso mostra che l'efficacia trascendente della volontà divina concilia
l'infallibilità della prescienza di Dio con la libertà delle nostre azioni. «La volontà di Dio, essendo sovranamente efficace, non solo compie tutto ciò che vuole, ma fa che tutto si compia come essa vuole. E Dio vuole
che, per l'ordine e la perfezione dell'universo, alcune cose accadano per necessità, altre per contingenza. Per
conseguenza, in vista di effetti necessari, dispone cause necessarie e indefettibili; in vista di effetti contingenti, prepara cause contingenti e defettibili» (S. Theol., Ia, q. 19, a. 8). Le difficoltà che si adducono sono causate dal fatto di non comprendere che «se il nostro libero arbitrio è causa del suo atto, non ne è necessariamente la causa prima. La causa prima che muove le cause naturali e le cause volontarie è Dio. Muovendo le
cause naturali egli non distrugge la spontaneità o la naturalità dei loro atti. Così, muovendo le cause volontarie, egli non distrugge la libertà della loro azione, ma la crea in esse, poiché egli opera in ciascuna creatura
secondo quel che conviene alla natura che ha ad essa data» (S. Theol., Ia, q. 83, a. 3 ad 1um). La volontà umana e la mozione divina sono dunque due cause totali, delle quali l'una è subordinata all'altra, cosicché l'atto libero è interamente di Dio come causa prima e interamente dell'uomo come causa seconda.
Permane, tuttavia, il mistero sulla maniera con cui l'efficacia trascendente della causalità divina, lungi dal
distruggere la libertà, opera in ogni agente libero e con lui fino al modo libero dei suoi atti322. Certo è che il
punto più alto della nostra sapienza è nel discernimento del significato e delle ragioni di un mistero che si
riuscirebbe a dissolvere soltanto riducendo Dio alle nostre misure.
§ 2 - La volontà di Dio
376 - Dopo aver considerato l'intelligenza e la scienza di Dio dobbiamo studiare la volontà e l'amore divino. Secondo il nostro modo di concepire, l'amore è l'atto della volontà, come la scienza è l'atto dell'intelligenza. È però evidente che anche queste distinzioni sono puramente logiche, quando si parla di Dio, e servono solamente come ausilio al nostro linguaggio insufficiente quando noi parliamo di Lui. Alla volontà e all'amore aggiungiamo la giustizia e la misericordia, che concepiamo come virtù divine che hanno rapporto
specialmente con la volontà.
A. LA VOLONTÀ DIVINA.
1. NATURA DELLA VOLONTÀ DIVINA - Che vi sia in Dio una volontà consegue dal fatto che la volontà è inseparabile dalla natura intelligente, perché è essenziale ad ogni natura di agire e di ricercare la sua
perfezione.
Noi conosciamo la volontà divina mediante la nostra. Essa non è però come la nostra una facoltà o un atto
transitorio, perché sarebbe imperfetta non potendo essere sempre e pienamente in atto. Essa è l'essere stesso
di Dio, in quanto agisce e ama il bene d'un amore essenzialmente spirituale, come la conoscenza intellettuale
donde essa procede.
2. OGGETTO DELLA VOLONTÀ DIVINA - La volontà divina ha per oggetto primo e necessario la bontà divina o il bene assoluto e per oggetto secondario tutti i beni distinti dall'essenza divina. Infatti, il bene è
l'oggetto formale e necessario di ogni volontà. La volontà divina deve dunque aderire al bene e, poiché è perfettissima, aderirvi nella misura in cui il bene è esso stesso perfetto. Noi sappiamo però che l'essenza divina è
il bene assoluto e infinito e l'origine di tutti i beni che essa contiene eminentemente. Dio l'ama dunque infinitamente, come la conosce, in quanto essa è il fine principale e primo della sua volontà. Quanto ai beni finiti,
Dio li vuole e li ama nello stesso atto con cui vuole e ama la propria essenza, poiché essi sono beni solo in
virtù della partecipazione alla sua Bontà essenziale ed infinita.
Noi diciamo: Dio vuole in quanto conosce, poiché la volontà segue l'intelligenza. Ciò non significa tuttavia
che Dio voglia necessariamente gli enti distinti da lui, come necessariamente li conosce. C'è una differenza
capitale tra ciò che Dio conosce e ciò che vuole: le cose sono conosciute da Dio in quanto sono in lui, ma esse sono volute da lui (o create) in quanto sono in se stesse. Che le cose siano conosciute da Dio costituisce
una perfezione di Dio ed è la ragione per cui esse sono necessariamente conosciute da lui; ma che le cose esistano, è una perfezione delle cose e non di Dio e perciò Dio non le crea necessariamente: esse restano contingenti in se stesse, benché necessariamente conosciute da Dio.
377 - 3. PROPRIETÀ DELLA VOLONTÀ DIVINA - La volontà divina è assolutamente indipendente,
immutabile ed efficace. Essa è assolutamente indipendente, perché non può dipendere da alcuna causa propriamente detta. La volontà di Dio è nella condizione stessa della sua intelligenza: Dio conosce le cose non
perché esse esistano, ma le cose possono esistere perché Dio le conosce: se Dio non le conoscesse, esse sarebbero impossibili. Parimenti, non perché le cose esistano e siano buone Dio le vuole, ma perché Dio le
vuole, le cose esistono e hanno il loro grado di perfezione.
La volontà divina è assolutamente immutabile, da una parte, perché la scienza di Dio è infinita e perché i
suoi decreti hanno necessariamente tutto previsto da tutta l'eternità, e d'altra parte, perché la sua natura, essendo perfetta e non potendo nulla perdere e nulla acquistare, non può variare nei suoi disegni. Dio non muta
dunque di volontà, benché voglia il mutamento: ciò che egli vuole, lo vuole una volta per tutte ed eternamente.
Infine la volontà divina è infallibilmente efficace, perché è la causa prima di tutto ciò che è: tutte le cause
seconde, cieche o libere, non possedendo realtà che per la causalità prima di Dio, non possono contrastare né
limitare l'efficacia suprema del volere divino.
4. LA LIBERTÀ DIVINA - Dio è sovranamente libero. È tale, da una parte, relativamente a tutti i beni
contingenti, perché la divinità basta a se stessa, essendo il Bene assoluto. Dio può dunque creare e non creare
e creare questi enti piuttosto che quelli. Dio è libero, d'altra parte, relativamente ai mezzi con i quali attua i
fini della sua sapienza infinita. Non c'è limite, fuori che il nulla assoluto, che circoscriva la sovrana indipendenza della sua azione. Egli è legato, se così possiamo dire, solo dalla sua scienza e dalla sua sapienza e dalla
necessità naturale delle cose. La sua scienza e la sua sapienza sono, d'altra parte, lui stesso e non una legge
estranea o superiore a lui. Quanto alla necessità naturale delle cose, essa non può né indebolire né limitare la
sua libertà, poiché dipende dalla sua perfezione e dalla sua libera decisione. Dio è dunque non solo infinitamente libero: egli è la Libertà stessa.
B. GIUSTIZIA E MISERICORDIA DI DIO.
378 - La giustizia e la misericordia di Dio derivano egualmente dalla sua perfezione.
l. LA GIUSTIZIA DIVINA - La giustizia di Dio non è la giustizia di un inferiore rispetto ai suoi superiori,
né d'un eguale verso gli eguali, e neanche di un padrone potentissimo verso i suoi servi. È l'attributo in virtù
del quale Dio elargisce ad ogni creatura ciò che a ciascuna conviene, cioè tutto ciò che richiede la sua natura e il suo compito nel concerto universale.
In quanto, poi, alla creatura razionale, Dio la tratta secondo i suoi meriti e le sue opere: non permette che
nessun atto libero che essa compie resti senza effetto, senza riparazione o ricompensa.
2. LA MISERICORDIA DIVINA - Dio è infinitamente misericordioso. La sua misericordia tuttavia non
comporta, come nell'uomo, un sentimento di pietà o di commiserazione. Come abbiamo detto per la giustizia,
essa esclude ogni imperfezione. Ha in comune tuttavia con la nostra l'allontanare il male altrui, intendo per
«male» ogni specie di difetto. Questo ufficio anzi è, per eccellenza, proprio di Dio, poiché il male può essere
eliminato solo per effetto di una sovrabbondanza di bene. Ora noi sappiamo che Dio è la Bontà essenziale.
Bisogna aggiungere, con san Tommaso (S. Theol., Ia, q. 21, a. 4), che l'opera di giustizia presuppone sempre
la misericordia e si fonda su di essa. Effettivamente alla creatura nulla è dovuto se non in ragione di qualche
cosa che in essa preesista, o che in essa si consideri anteriormente e anche quel che le è dovuto, lo è sempre
in funzione di qualche cosa di anteriore. Quindi, non essendo possibile risalire all'infinito, bisogna ammettere
qualche cosa che dipende solo dalla bontà divina, la quale è il fine supremo. E pertanto la misericordia divina
si presenta come l'origine prima delle opere di Dio.
§ 3 - La provvidenza di Dio.
A. NATURA DELLA PROVVIDENZA.
379 - La provvidenza comprende due elementi o aspetti principali: la conoscenza di ciò che conviene fare
in vista di un dato fine e l'esecuzione del piano determinato in tal modo. La provvidenza dipende dunque nello stesso tempo dall'intelligenza e dalla volontà.
1. LA PREVIDENZA INFINITA DI DIO - La provvidenza appartiene necessariamente a Dio in quanto
Egli è la causa prima dell'universo, sia nell'insieme che nei suoi singoli elementi, poiché nulla avviene che
non proceda da Lui. Dio ha concepito l'ordine o il disegno di tutte le cose e lo attua per mezzo della sua potenza determinando per ogni creatura e per tutto l'universo il fine da perseguire e i mezzi necessari per conseguirlo. Se la prudenza umana è tanto più perfetta quanto meno si affida al caso e all'imprevisto, a maggior
ragione la provvidenza di Dio, che è, se così si può dire, una prudenza infinita, elimina assolutamente il caso,
cioè prevede tutto, tutto ordina e tutto dispone nella maniera più sapiente.
2. IL GOVERNO DIVINO - La provvidenza è anche un'arte, cioè un'opera di governo. In realtà, la perfetta
sapienza consiste nel conoscere tutto e nel servirsi di tutto ciò che si conosce per mandare ad effetto tutto ciò
che si vuole. E se Dio è perfettamente sapiente, ne consegue che la sua provvidenza non è una scienza sterile:
essa amministra la totalità ed ogni suo particolare così che si deve dire anzi che in questo governo di tutte le
cose consiste formalmente la provvidenza divina.
B. MODO DELLA PROVVIDENZA.
380 - 1. LA PROVVIDENZA E LA NATURA DELLE COSE ­ È evidente che la provvidenza, la quale
procede dalla scienza infinita di Dio e dalla sua volontà assolutamente perfetta, non può essere, in nessun caso, concepita come un'azione capricciosa che modifichi arbitrariamente il corso delle cose. Deve essere invece pensata come azione di una volontà suprema e infinitamente sapiente, conforme alla natura di ogni creatura e perciò, nell'uomo, alla libertà: azione il cui fine essenziale consiste nell'orientare il corso delle cose in
vista del bene di tutte le creature, quale è definito dal loro posto e dalla loro funzione nell'architettura universale.
L'azione provvidenziale è sottesa, non giustapposta alla attività delle creature. Essa l'utilizza e la penetra
come la vita utilizza il meccanismo e penetra la materia. Essa è dappertutto e in tutto, nelle rivoluzioni delle
sfere, nell'innumerevole accrescimento delle specie, nella vita e nel movimento del nostro cuore, nelle aspirazioni della nostra anima e negli slanci della nostra buona volontà, persino nel male che deve inserirsi in
qualche modo nei disegni della Provvidenza. L'universo intero, in tutto ciò che contiene e in ogni suo istante,
è il visibile dispiegarsi dell'Amore.
2. IL MIRACOLO - Il termine miracolo sta, etimologicamente, a significare una cosa meravigliosa, che
provoca lo stupore e l'ammirazione, perché non ne conosciamo la causa. Quando diciamo: «Questo ha del
miracolo», vogliamo significare che l'avvenimento è inspiegabile mediante una causa ordinaria. Nel senso
proprio, chiamiamo miracolo ogni fatto sensibile e straordinario prodotto da Dio fuori del corso ordinario
delle cose. Il miracolo è dunque un fatto insolito, non nel senso che è raro, ma nel senso che esclude ogni
spiegazione mediante il corso ordinario della natura.
Nulla ci permette di negare la possibilità del miracolo, né dal lato delle leggi della natura, che dipendono
dal suo autore, né dal lato di Dio, del quale esso non contraddice né la sapienza né l'immutabilità, poiché se il
miracolo deroga all'ordine della natura sensibile, rientra nell'ordine totale che è spirituale, ed è stato previsto
da Dio come elemento di quest'ordine.
C. IL PROBLEMA DEL MALE.
381 - IL MALE E LA PROVVIDENZA - Si ricorre frequentemente all'esistenza del male nel mondo per
negare l'esistenza di Dio o la realtà della Provvidenza divina 323.
a) L'esistenza di Dio e la realtà del male. La negazione dell'esistenza di Dio, lungi dal risolvere il problema
del male, lo rende completamente insolubile. Infatti se i mali dei quali soffriamo fossero senza rimedio né
compensazione, il mondo sarebbe definitivamente assurdo, privo di senso e radicalmente cattivo. In tal caso,
come spiegare tuttavia l'ordine fisico che vi regna? Se esiste un ordine cosmico, a maggior ragione, come potrebbe non esistere un ordine morale, cioè come potrebbe il male non avere alcun senso e alcuna spiegazione?
b) Il dualismo manicheo. Bisogna rinunciare alla spiegazione del male mediante l'ipotesi dell'esistenza di
un Principio del male, accanto o avverso ad un Principio del bene. Questa ipotesi dualistica, che è stata sostenuta dai Manichei (discepoli di Manete o Mani, III secolo dopo Cristo), è, infatti, contraddetta, da una parte, dall'unità interna dell'universo, dall'altra, dall'inintelligibilità della supposizione che esistano due Princìpi
assolutamente primi, autonomi ed infiniti, i quali si limitino reciprocamente. (Cfr. sant'Agostino, De duabus
animabus e De moribus Manichaeorum, ed. più volte cit.).
382 - c) Le teorie ottimistiche. Alcune dottrine, dette ottimistiche, negano la realtà del male, considerandolo una pura apparenza. È una tesi che contrasta ogni evidenza. L'esistenza degli innumerevoli mali è un fatto
così certo che tutte le descrizioni fattene non hanno mai adeguato la realtà. Mortalità e iniquità, disordini fisici e disordini morali: l'uomo esperimenta questi due abissi di dolore, per quanto si sforzi di sfuggirli. Noi
siamo come immersi nel dolore: esso è, su questa terra, di fatto, il nostro elemento naturale.
Può la vita sociale apportare un rimedio efficace a questo stato? Come pensarlo, se la società umana di ogni grado, dalla famiglia, alla città e alla patria universale, soffre essa stessa di innumerevoli mali: ingiustizie, sospetti, inimicizie, tradimenti, sedizioni, omicidi, guerra e incertezza della pace? Un po' di bene che la
vita sociale elargisce non fa se non rendere più amari i dolori che apporta. È lecito fare affidamento sulla
giustizia degli uomini? Ma chi non vede che quanto le sfugge è il santuario stesso dell'innocenza e della colpa, la coscienza: poiché essa non scandaglia le reni ed il cuore dell'uomo, spesso condanna il giusto ed assolve il colpevole e questi mali che procedono da una imperfetta giustizia sono talmente inevitabili che il giudice più saggio li provoca proprio come il più corrotto. Miseria dell'uomo, peggiore della stessa malvagità.
Contro queste constatazioni gli Stoici enunciano solo inconsistenti paradossi, quando presumono che dipenda dal sapiente di sopprimere il dolore, fino alla possibilità della sopportazione, opponendo ai mali che
affiggono l'umanità un'estrema impassibilità. Sennonché, in primo luogo, l'impassibilità, ammesso che sia
possibile, cosa che i fatti smentiscono, dovrebbe essere ottenuta a prezzo di uno sforzo talmente difficile e
arduo che ci si ridurrebbe a guarire un male mediante un altro male. Di più, se noi non avessimo nulla da temere, il male sarebbe tanto più grande in quanto temeremmo senza ragione. Infine gli Stoici si contraddicono
e condannano le loro stesse dottrine quando consigliano al sapiente, - il cui coraggio si senta sopraffatto dai
mali che lo accasciano -, di darsi la morte: come si osa dire che dipende solo dal sapiente la felicità della vita
umana, nel momento in cui egli cerca soccorso nella morte?
383 - d) Le teorie pessimistiche. Un altro eccesso consiste nell'attribuire la causa del male, come fanno
Schopenhauer e Leopardi, all'esistenza stessa o, come dice Heidegger, all'essere stati «gettati nell'esistenza»,
giustificando questa teoria coll'affermazione che esistere è lottare e soffrire, o in ogni caso, provare l'angoscia del nulla. Innanzitutto, noi possiamo ben concepire l'essere senza lotta né sofferenza: queste sono dunque accidentali all'essere e non possono servire a definirlo. In quanto a «quella orribile cosa di sentir sfuggire
tutto ciò che possediamo» (Pascal, Pensées, ed. Brunschvicg, p. 429), essa sarebbe un male assoluto solo nell'ipotesi materialista: l'angoscia della dissoluzione corporea nell'uomo è il sintomo e l'effetto di una coscienza
d'immortalità.
D'altra parte, se il male è un non-essere, in quanto è una privazione, esso come tale consiste nel diminuire il
bene che conviene ad una data natura. Tuttavia, qualunque sia la misura di questa privazione, non sarà mai
totale al punto da non lasciare sussistere alcun bene: il termine del male è il nulla. Pertanto è contraddittorio
il supporre una sostanza assolutamente cattiva, poiché equivale a porla, nello stesso tempo, come essere, in
quanto sostanza, natura o essenza, e a negarle ogni specie d'essere, in quanto assolutamente cattiva. Se esiste
dunque del male, ciò avviene perché esiste del bene.
Distinguiamo due tipi di pessimismo, secondo il principio, affettivo ovvero razionale, sul quale esso si fonda.
Il pessimismo di Schopenhauer (di tipo affettivo) si fonda sull'analisi della relazione tra desiderio e volontà. Il desiderio produce il passaggio da uno stato di inquietudine e di insoddisfazione ad uno stato di sazietà
accompagnato da disgusto e da abbattimento. Poi insorge di nuovo il desiderio, con l'inquieta agitazione
ch'esso comporta; poi ancora subentra la sazietà e così indefinitamente. Il risultato di questa alterna dialettica
del desiderio e della sazietà, è l'insoddisfazione ciclica, l'assoluta impossibilità di stabilirsi in uno stato di
tranquillità e di quiete. Di quale mezzo disponiamo noi per sottrarci a questa alternativa e per giungere ad
uno stato di atarassia, se non dell'annichilire in noi la volontà profonda o volontà-di-vivere originaria dalla
quale essa deriva, e per conseguenza il desiderio mediante il quale questa volontà si manifesta e produce in
noi senza tregua ora l'inquietudine, ora la delusione?
Schopenhauer non ha sbagliato identificando nel desiderio (o tendenza) la forza primitiva, che è in noi, ma
propone una soluzione contraddittoria. Poiché, come si potrà annientare un desiderio, se non per mezzo di un
più profondo desiderio, e come distruggere la volontà se non per mezzo di una volontà più profonda? In realtà il desiderio è molto più primitivo di quel che pensasse Schopenhauer. Esso è l'espressione di quanto di più
fondamentale esiste nella natura. Esso esprime in certo modo il soggetto stesso, ovvero ciò che gli è necessario per affermarsi e compiersi nel suo essere. Per esso ed in esso si manifesta quella volontà di natura (voluntas ut natura), che è principio primo d'attività e origine di dinamismo per l'essere vivente.
È fuori di dubbio che, per gli enti i quali devono cercare fuori di se stessi ciò che soddisfi il bisogno e
compia il desiderio, la sofferenza potrà derivare dalla sproporzione esistente tra il desiderio e la cosa atta a
soddisfarlo. Da questo punto di vista, cioè sia dal punto di vista dello stesso desiderio, che è sintomo di un
difetto, e come tale intriso di sofferenza, sia da quello dello sforzo da compiere per soddisfare il bisogno, lo
stato della creatura comporta «pena e difficoltà». (Sant'Agostino osserva che ce ne sarebbe stata anche nell'ipotesi che l'umanità adamitica non avesse peccato)324. Ciò non giustifica tuttavia il pessimismo di Schopenhauer. Poiché queste pene e queste difficoltà non sono un male assoluto, anzi, prese in se stesse, sono condizione di un bene maggiore perché conservano nell'uomo lo slancio verso la perfezione. Sono la molla che
spinge l'uomo a non essere mai soddisfatto della sua condizione presente e che fa procedere l'umanità verso
uno stato di sempre più alta giustizia e di più grande amore.
Le filosofie contemporanee dell'assurdo325, costituiscono una corrente più o meno apparentemente dissimile dalla precedente, orientata in senso intellettuale piuttosto che affettivo e che spesso presenta analogie con
il neo-stoicismo di A. De Vigny326. Esse, infatti, si rifanno, senza nulla aggiungervi di originale, ai temi scettici, cui il loro concetto della morte conferisce il sentimento drammatico dell'universale illusione. «La vita è
destinata a perdersi nella morte e il cognito nell'incognito. La conoscenza spalanca la sua porta sull'incognito. Il non-senso è il termine e lo sbocco di ogni senso possibile». «Non c'è più Dio nell'insondabile della
morte, non c'è più Dio nella notte nera come inchiostro, si ode solo il lamma sabachtani, la piccola frase che,
fra tutte, gli uomini hanno colmata di sacro terrore» (Bataille, op. cit., pp. 157 e 113). «In un universo improvvisamente privato di illusioni e di luce, scrive Camus (op. cit., p. 18), l'uomo si sente straniero. Quest'esilio è senza rifugio perché manca dei ricordi di una patria perduta o della speranza d'una terra promessa. Il
sentimento dell'assurdità è propriamente in questo divorzio tra l'uomo e la vita, tra l'attore e le sue scene».
Ora, a tale presunta assurdità essenziale e irrimediabile del mondo e della vita, i filosofi dell'assurdo intendono opporre o il riso olimpico, che significa «rinuncia ad ogni speranza». (Bataille, p. 158), o il disprezzo,
perché, dice Camus (p. 166), «non c'è destino che non si superi col disprezzo». Duplice attitudine che si potrebbe simbolizzare nell'acquaforte di Durer, Il cavaliere, il cane e la morte (come la interpreta Nietzsche in
Die Geburt der Tragodie, Lipsia, 1872 [Origine della Tragedia]): «uno spirito che si sente isolato, disperatamente solo, che, senz'altra compagnia che il suo cavallo e il suo cane, segue impassibile la sua strada di
paura, senza cura dei suoi compagni, e tuttavia senza alcuna speranza».
Non sono forse, queste, due forme dell'atarassia stoica, che non escludono formalmente il suicidio solo
perché vi scoprono semplicemente un'altra maniera di confessare la realtà del male e di consentirvi? Ma in
queste filosofie dell'assurdo, non vediamo forse, come nelle stoiche, più propriamente un'«attitudine», un
punto di vista dello spirito, se vogliamo, che una condotta reale esistenzialmente esercitata e fondata? Poiché
in questo caso la sola condotta coerente sarebbe quella del silenzio o, come notava Kierkegaard a proposito
dell'eroe della fede, l'incognito del comportamento banale e comune. È altrettanto incoerente per la disperazione pretendere di spiegare e commentare se stessa quanto per l'assurdo pretendere di fornire una dimostrazione razionale di se medesimo. Le filosofie dell'assurdo appaiono infelici, appunto, per il cumulo di tale duplice disgrazia.
384 - 2. MALE FISICO E MALE MORALE - C'è dunque coesistenza del bene e del male. Il problema
consiste nel conoscere perché esista il male. Per risolverlo, sarà necessario, innanzi tutto, distinguere il male
fisico, che appartiene all'ordine corporale e si manifesta con la sofferenza, e il male morale, che è essenzialmente la violazione volontaria e libera dell'ordine voluto da Dio e che chiamiamo colpa o peccato. L'uno e
l'altro sono, non semplice assenza d'un bene superiore alla natura, ma privazione di un bene conveniente alla
natura. Bisogna dunque respingere l'ipotesi di Leibniz di un «male metafisico», che consisterebbe nella semplice finitudine dell'essere creato, cioè nell'assenza di una perfezione non richiesta per l'integrità naturale delle creature. Per la pietra non è un male reale l'essere priva di sensibilità, né per l'animale essere privo di ragione.
La distinzione tra male fisico e male morale ci permette di cogliere il senso generale di una soluzione del
problema del male.
a) Il male non è naturale. Il male non può rientrare nella definizione della natura. Dio, creatore infinitamente buono e sapiente di tutte le cose naturali, non può volere che il bene. Dunque nessuna natura in quanto tale, può comportare né il male morale, né il male fisico, intesi come privazione di un bene morale o fisico
necessario alla natura. È vero che l'ordine corporale comporta, come tale, pene e difficoltà, ma queste pene e
queste difficoltà sono ordinate naturalmente al bene e alla felicità dell'uomo. Così intese, non conviene loro,
propriamente, il nome di male, poiché esse non sono privazioni, ma condizioni del bene.
Non si può nondimeno ritenere che la realtà della sofferenza sopravanzi immensamente ciò che può apparire come la condizione naturale del bene? In tal caso, siccome il male propriamente detto non può venire da
Dio ed è, secondo l'espressione di sant'Agostino (De vera religione, cap. XII, n. 23, ed. cit.), «o il peccato o
la conseguenza del peccato», siamo condotti a dire che i mali dei quali soffre l'umanità devono derivare solo
da un disordine morale volontario nelle creature ragionevoli e libere. È noto che questo è il punto di vista di
Pascal. Perché quest'argomentazione tuttavia conduca ad una conclusione, bisogna evidentemente ammettere
che i mali dei quali è effettivamente in preda l'umanità superano in realtà ciò che è compatibile con una natura integra quale Dio ha dovuto crearla. Questa prova d'altronde ci condurrebbe solo a congetturare che il male provenga da una specie di tara che gravi su tutta la umanità327. La ragione, affidandosi solo ai suoi propri
lumi, non ci può permettere di andare oltre questa congettura. Soltanto la fede cristiana può definirei le modalità storiche della caduta del genere umano.
385 - b) La possibilità radicale del male. L'origine del male consiste nella finitudine della creatura ragionevole che la fa capace di commettere il peccato e perciò di introdurre nel mondo i mali che ne conseguono:
si tratta, beninteso, di una pura capacità e non di una necessità. L'uomo è libero e Dio che lo ha creato rispetta e garantisce questa libertà. Se, dunque, l'uomo pecca, lo fa volontariamente e liberamente.
Il problema che ora si presenta è di spiegare la libertà del male, cioè di indagare quale sia l'origine prima
del male. Il male effettivamente proviene da un certo difetto presupposto nella volontà (207). È però evidente, da una parte, che questo difetto non può dipendere dalla natura fisica della volontà, altrimenti non sarebbe
effetto di una attività libera, e d'altra parte, che non può essere un male morale per se stesso, altrimenti spiegheremmo il male con il male e saremmo costretti ad un regresso all'infinito.
Interessa, dunque, spiegare il male mediante un'azione che sia libera (senza di che non vi sarebbe male morale) e che, tuttavia, non sia già un male (nel quale caso incorreremmo in una circolo vizioso).
La soluzione di questo problema è implicita nell'analisi che abbiamo fatto della libera volontà, nella nostra
Psicologia (III, 519). Abbiamo visto che, per se stessa, cioè per natura, la volontà è tendenza al bene, ma in
modo tale che spetta alla ragione definire se il bene che sollecita la volontà sia moralmente legittimo. È non-
dimeno in potere della volontà di agire, cioè di scegliere tra i beni che la sollecitano, senza considerare la regola della ragione dalla quale il suo atto dovrebbe essere giustificato e ordinato. Questo è propriamente il difetto primo che costituisce l'origine metafisica del male morale. Difetto che ha per causa prima la stessa libertà (o potere di scegliere senza essere necessitato); ma questo difetto non è un male per se stesso, poiché
non è affatto richiesto di considerare costantemente la regola dell'azione, ma soltanto di considerarla nel
momento stesso dell'azione. Il male morale deriva più precisamente dal fatto che la volontà procede alla scelta senza la considerazione attuale della regola, cosa che priva il suo atto della rettitudine che dovrebbe avere.
È chiaro dunque che prima dell'errore morale, non c'è privazione di un bene necessario (cosa che sarebbe
già un male), ma nient'altro che una pura e semplice negazione328.
È chiaro, anche in forza di ciò che abbiamo affermato, che essere libero, nel senso pieno del termine, significa agire sempre secondo ragione. Il male, in tutte le sue forme, è un asservimento, perché è un abbandono
al determinismo irrazionale. Ciò che lo definisce male morale tuttavia, è il fatto che esso è un asservimento
volontario. La volontà si serve della sua libertà, cioè della sua indeterminazione, per incatenare se stessa,
poiché, per effetto della non-considerazione della regola (passione o interesse, precipitazione o pigrizia, vanità, ecc.) essa si sottomette alla determinazione affettiva (III, 346-348).
Non possiamo, d'altra parte, rimproverare a Dio di aver donato all'uomo il bene pericoloso della libertà.
Poiché è un meraviglioso privilegio che enti dotati della capacità di determinarsi mediante la propria libera
scelta, si conformino, in virtù d'un atto di libera volontà, all'ordine divino e collaborino così, in certo modo,
all'attività creatrice di Dio. Questa perfezione indubbiamente non è assoluta perché comporta la fallibilità
come conseguenza necessaria della natura finita delle creature, ma la giustizia esige soltanto che l'uomo sia
padrone della sua volontà e della sua scelta, così che, peccando, egli solo porti la responsabilità del suo errore e dei mali che ne derivano.
c) Dio fa servire il male al bene. La giustizia di Dio d'altra parte, fa in modo che il male rientri nell'ordine,
non essenzialmente, perché esso non è stato voluto da Dio, ma accidentalmente, in virtù delle esigenze della
misericordia, della sapienza, della potenza divine. Ciò equivale a dire che Dio fa sì che la sofferenza serva.
Sarebbe assurda soltanto una sofferenza che non servisse a niente, che non fosse o l'espiazione di un errore o
la condizione di un bene. Appunto il male fisico o la sofferenza, derivante dal peccato, può essere un mezzo
di riparazione o una sorgente di merito; può servire a ricondurre all'osservanza del dovere. Nello stesso peccato, Dio introduce per il peccatore una possibilità di bene: l'uomo per mezzo di esso, può conoscere la propria miseria, umiliarsi davanti a Dio e invocare il suo soccorso. Vediamo quindi alla luce di questi soli princìpi generali, che la Provvidenza divina è esente da ogni biasimo. Molte cose ancora restano per noi misteriose. Ci rendiamo ben conto tuttavia che, se v'è mistero, non v'è certamente ingiustizia329.
La questione dell'ottimismo cosmico (la questione che indaga sulla possibilità che il mondo sia il migliore
dei mondi possibili) è legata al problema del male, ma non si identifica con esso. Possiamo effettivamente
ammettere che il mondo comporti il male, e anche una grande somma di mali, e pur tuttavia continuare a professare che esso sia il migliore dei mondi possibili. È precisamente la posizione di Leibniz (cfr. Discours de
Métaphysique, I a VI, Monadologie, 53-54, Théodicée, I, § 7-10, Correspondance avec Arnauld in Die philosophischen Schriften von G. W. L., ed. Gerhardt, 7 voll., Berlino, 1875-90; cfr. tr. it. di Barié, Torino, 1938
[Discorso di metafisica], di De Ruggiero, 2a ed. Bari, 1942 [Monadologia]), che ritiene che «se il minore dei
mali che accadono in questo mondo venisse a mancare, non sarebbe più questo mondo, che, ponderata e pesata ogni cosa, è stato ritenuto il migliore dal creatore che l'ha scelto» (Théodicée, I, 9), e che «se è vero che
è possibile immaginare mondi senza peccato né infelicità... questi mondi sarebbero di gran lunga inferiori in
bene al nostro» (ibid., 10). Ciò, aggiunge Leibniz, non si può dimostrare in ogni particolare, ma si può dedurre ab effectu, «poiché Dio ha scelto questo mondo quale esso è». Il mondo è dunque realmente e in tutti i
sensi il migliore dei mondi possibili.
È noto il sarcasmo che l'ottimismo leibniziano ha ispirato a Voltaire(cfr. Candide, in Oeuvres complètes de
V., ed. Moland, 52 voll., Parigi, 1878-85; cfr. tr. it. Candido e altri racconti, Milano, 1953). È vero che codesto sarcasmo non è un ragionamento. Nondimeno è anche vero che la tesi di Leibniz presta un po' il fianco
alle ironie volterriane. Il suo errore consiste, pare, nel non aver distinto due differentissimi aspetti della questione. Possiamo effettivamente chiederci o se Dio avrebbe potuto creare un mondo diverso e migliore, (cioè
più perfetto), di quello che ha creato, oppure se Dio non avrebbe potuto dare più perfezione e bontà all'universo stesso che ha creato.
Se ammettiamo che Dio ha creato liberamente l'universo, risponderemo alla prima domanda che Dio avrebbe potuto creare un universo differente da quello che ha creato e tale da poter essere migliore o più perfetto in rapporto al nostro. Un tale universo tuttavia non potrebbe mai, senza contraddizione, essere definito o
considerato «il migliore possibile» perché alla perfezione finita possiamo sempre, come a un numero, aggiungere qualche cosa. Parlando in senso assoluto, il concetto del «mondo migliore possibile» comporta la
medesima contraddizione che sussiste nel concetto del «numero più grande possibile». Considerando però
l'universo reale, per rispondere alla seconda domanda, dovremo dire che Dio lo ha necessariamente creato il
migliore possibile: ammettere il contrario corrisponderebbe all'affermare che l'opera di Dio è mal fatta o che
è, in qualche modo, manchevole. Ora ci appare evidente che Leibniz confonde le due questioni or ora da noi
distinte: sotto l'apparenza di tutelare da ogni sospetto di manchevolezza l'opera divina (il che è giusto), egli
afferma che Dio non avrebbe potuto creare un mondo differente, suscettibile d'essere più perfetto dell'universo effettivamente voluto e creato da Dio (il che è falso).
Dobbiamo, d'altronde, considerare un altro aspetto della questione. Possiamo ancora indagare se l'universo
presente (che, abbiamo detto, considerato nella sua realtà effettiva, è il migliore possibile), contenga per ciò
stesso tutte le perfezioni possibili compatibili col suo grado d'essere. Su questo punto san Tommaso risponde, a ragione, come pare (I Sent. d. 44, q. l, a. 3), che conviene effettivamente ammettere che le perfezioni
compatibili con l'universo creato sono state a questo conferite tutte da Dio (senza di che l'universo non sarebbe tutto quanto deve essere), ma che, tuttavia, non altrettanto si può dire dei gradi o modi di queste perfezioni essenziali: questi gradi, in realtà, sono di numero infinito e solo una parte di essi è stata conferita da
Dio all'universo creato. Così pure, se lo consideriamo nella sua «individualità concreta» (al che concorrono i
gradi o modi di perfezione che compongono la perfezione essenziale dell'universo: cfr. De Potentia, q. 3, a.
10, ad 2um), ammetteremo la possibilità di una infinità di universi differenti, dei quali ciascuno è il migliore
possibile, essendo comprensivo dell'insieme delle perfezioni assolute che lo definiscono e dei modi o gradi
che attuano o concretano queste perfezioni assolute.
§ 4 - L'onnipotenza di Dio.
386 - 1. NATURA DELLA POTENZA DI DIO. - La potenza dell'ente creato è di due specie: attiva e passiva (178). È evidente, che essendo Dio Atto puro, non possiamo attribuirgli in alcuna forma e alcun grado
la potenza passiva la quale implica dipendenza in rapporto ad un principio esteriore ed imperfezione essenziale. Quanto alla potenza attiva che è in noi, essa è nel con tempo principio attivo dell'effetto e principio dell'azione. La potenza di Dio invece deve essere principio attivo dell'effetto, ma non può essere principio dell'azione, cioè qualche cosa di distinto dall'azione, di determinato e di perfezionato dall'azione medesima. Dio
è tutto atto e la sua potenza è un atto supremo, principio di tutti gli effetti.
2. LA POTENZA INFINITA. - La potenza di Dio è infinita. Infatti la potenza di un ente è tanto più grande
quanto più è attiva e quanto più largo è il raggio della sua azione. Ora, la potenza di Dio è un atto puro, che
non comporta alcuna limitazione: essa è l'atto stesso di Dio, che costituisce il suo essere, il quale è infinito.
La potenza di Dio abbraccia dunque tutti i possibili assoluti. Diciamo: i possibili assoluti per evitare il circolo vizioso che consisterebbe nel definire i possibili come ciò che è in potere di Dio, ora, se, per possibili
assoluti, intendiamo tutto ciò che è intelligibile e vero (197), possiamo affermare, senza tautologia, che Dio
può fare tutto quanto è intelligibile, cioè tutto ciò che può imitare o sussistere come partecipazione in un
modo qualsiasi della sua essenza infinita. La potenza di Dio è coestensiva alla sua verità, alla sua scienza e al
suo essere, dal quale essa, in realtà, non si distingue. Dio è dunque la potenza infinita.
Che Dio non possa attuare i contraddittori non limita affatto la potenza divina, poiché il contraddittorio è
negazione d'essenza e negazione d'intelligibilità.
387 - 3. LA POTENZA CREATRICE. - Formalmente immanente, la potenza divina è anche virtualmente
transitiva, cioè capace di produrre effetti esteriori o di creare. Dio, infatti, ha creato l'universo e tutto ciò che
contiene e conserva tutte le cose con la stessa potenza che le ha create.
a) La creazione. Più che il fatto, è il modo della creazione che presenta difficoltà alla nostra ragione. Su
questo punto, la maggior parte delle obiezioni che vengono opposte alla dottrina della creazione ex nihilo dipendono dall'errata impostazione del problema. Si suppone che parlare di creazione presupponga la necessità
di porre un tempo iniziale. Questo, come abbiamo già osservato, è un errore. L'idea di creazione, infatti, astrae assolutamente da ogni idea di inizio temporale; essa non afferma altro che la dipendenza assoluta del
mondo, e fino alle radici dell'essere, in relazione a Dio. Non solo, ma bisogna dire pure che, dal punto di vista della ragione naturale, la creazione deve essere pensata come non-temporale, non solo da parte di Dio, il
che è del tutto evidente, ma anche da parte dell'universo. Dire che il mondo è stato creato non significa dunque affermare che il mondo sia cominciato, che sia stato dopo che non era stato, sebbene tale frase per sé non
significhi nemmeno il contrario. Ciò vuol dire che il mondo non è per sé (a se), ma che procede assolutamente da Dio e da un atto della libertà suprema.
Senza alcun dubbio, l'atto mediante il quale Dio produce l'universalità dell'essere trascende infinitamente il
nostro pensiero; questa non è tuttavia una ragione per negarlo. Negare la creazione, nel senso che abbiamo
appena esposto significa professare l'aseità dell'universo, cioè affermare una tesi che comporta di gran lunga
più enigmi ed è di gran lunga più insolubile della dottrina della creazione. In verità la negazione della creazione dell'universo ad opera d'un libero decreto di Dio, cioè l'affermazione dell'aseità dell'universo (che è la
stessa cosa), costituisce un rifiuto d'intelligibilità. Da una parte, infatti, questa affermazione, posto che il
mondo abbia in se stesso la ragione perfetta e totale della sua esistenza, pone la ragione ultima dell'essere
nell'imperfezione e nella mutabilità, e in ultima analisi, come abbiamo visto mediante le prove della esistenza
di Dio, nel nulla, cosa che è la somma delle assurdità. D'altra parte, se vogliamo conservare un senso alla parola Dio, per esempio pensare Dio come l'Essere perfetto e distinto dall'universo, l'affermazione dell'aseità
del mondo induce a giustapporre a Dio un essere che non procede da lui e letteralmente lo limita, cosa che ci
pone in piena contraddizione. Così la negazione della creazione ex nihilo conduce a professare il panteismo
del quale ci occuperemo in seguito.
Inoltre, l'idea della creazione non comporta affatto l'idea d'una durata vuota, precedente la durata concreta e
l'esistenza reale. È quest'ultima soltanto una forma immaginativa e, come tale, radicalmente falsa, poiché
consiste nel porre dell'essere creato preesistente all'essere creato. È questo il motivo per il quale nulla è più
giusto dell'affermare che il tempo è coestensivo all'universo reale: se l'universo è cominciato ad essere, il
tempo è cominciato con esso, e il tempo deve essere addirittura considerato come logicamente posteriore all'essere mobile, poiché esso è una conseguenza del movimento. Se, dunque, il mondo ha avuto un inizio,
prima del mondo non c'era niente, né essere del mondo, né durata temporale, né vuoto, né materia preesistente. L'essere universale, la sostanza e tutti gli attributi che la definiscono, ivi compresa la durata, sono nati da
un atto assoluto e intemporale di Dio.
Contro queste tesi, J. P. Sartre afferma che una creazione ex nihilo non avrebbe alcun senso. Infatti, da una
parte, la creazione ex nihilo non può spiegare il sorgere dell'essere: l'essere, in questa ipotesi, dovrebbe essere concepito in seno alla soggettività divina e resterebbe, per ciò stesso, un modo d'essere intra-soggettivo,
che non ammetterebbe neanche la rappresentazione di un'oggettività, né, per conseguenza, la volontà di creare alcunché d'oggettivo. D'altra parte, perché la creazione fosse reale, occorrerebbe che l'essere creato riprendesse e strappasse se stesso al creatore «per richiudersi subito in se medesimo e assumere il suo essere»: ma
in tal caso il creato diverrebbe a se, cioè avrebbe autenticamente la qualità di creato soltanto fondandosi in sé
come assoluto, autonomo e indipendente. Si dirà infine che il creato riceve indefinitamente l'influsso creatore
(creazione continua)? Ma allora, dice Sartre, «non ha alcuna indipendenza propria, esso è in se stesso un nulla», e, per conseguenza, «la creatura non si distingue in nulla dal suo creatore»; essa è riassorbita in lui: siamo di fronte a una falsa trascendenza e il creatore non può nemmeno avere l'illusione di uscire dalla sua soggettività. Bisogna dunque concludere che l'essere è increato, senza alcun rapporto con un altro essere (L'Être
et le Néant, Parigi, 1943, pp. 32-34; cfr. tr. it., Milano, 1958).
Questi argomenti di Sartre non sono, in sostanza, che un puro e semplice rifiuto di ammettere la creazione
ex nihilo, ma non valgono affatto a smentirla. In realtà, affermare che, nell'ipotesi creazionistica, l'essere resterebbe un modo soggettivo della divinità, equivale a negare ciò stesso che è in discussione. Invero Sartre
aggiunge che questo modo d'essere intra-soggettivo non può nemmeno comportare la rappresentazione di un
mondo oggettivo. Ma non potrebbe essere la rappresentazione di un mondo attuabile dalla potenza divina,
infinita per definizione? Pur in questo caso Sartre si limita a negare ma non adduce alcuna prova. D'altra parte, la volontà di creare dell'«oggettivo», non comporta affatto la rappresentazione di quest'«oggettivo» come
tale, perché quest'«oggettivo» (o reale «in sé») deve essere soltanto un effetto dell'atto creatore. Ciò ch'esso
esige è semplicemente la rappresentazione di un mondo oggettivabile o concretabile in virtù dell'atto di una
volontà assolutamente onnipotente.
Gli altri argomenti di Sartre presentano lo stesso errore intorno al senso della tesi in discussione. Il mondo
creato, dice Sartre, si staccherebbe, a causa della sua sussistenza stessa, dal suo autore e sarebbe dotato d'aseità. Sennonché è questo appunto il nocciolo della questione! Si tratta di sapere se il creato non possa «sussistere» senza possedere l'autonomia assoluta dell'aseità. A questo Sartre obietta che, in virtù della continuità
dell'atto creatore, cioè d'una creazione rigorosamente coestensiva alla realtà successiva del mondo, il mondo
non potrebbe più essere distinto dal creatore e sarebbe riassorbito in Lui. Quest'argomento tuttavia è evidentemente dello stesso tipo dei precedenti. Infatti si tratta di sapere se il mondo non possa possedere contemporaneamente il duplice carattere della sussistenza e dell'essere creato o creaturalità, o, in altre parole, se la
creazione sia possibile. Sartre non esamina neanche questo problema e si limita a eliminarlo mediante i suoi
argomenti che sono semplici negazioni, ma non prove. Fermo rimane che la creazione trascende il nostro intelletto: essa include il mistero di Dio e della sua potenza infinita.
b) La conservazione. Sappiamo che la permanenza degli enti contingenti nell'esistenza non si spiega adeguatamente mediante il fatto che l'esistenza e la vita sono state loro trasmesse. In ogni momento, questi enti e
l'intero universo dipendono dalla Causa prima: e questa dipendenza non è se non la continuazione dell'atto
creatore, che chiamiamo conservazione. L'attività creatrice di Dio dunque non cessa di penetrare fino alla
stessa radice di tutto l'essere creato, per mantenerlo nell'esistenza.
La conservazione, dal punto di vista divino, non è un atto temporale: essa si identifica con l'atto creatore,
che non è nel tempo. Dal nostro punto di vista, invece, essa è l'aspetto temporale nel quale per noi, che siamo
nel tempo, si traduce l'atto unico per il quale Dio ci crea.
388 - c) Il fine ultimo del mondo. L'idea d'un fine ultimo delle cose create, cioè di una finalità esterna del
mondo, non equivale affatto a supporre un termine estremo del futuro in cui il mondo, cessando le sue mutazioni e le sue variazioni, debba compiere il suo destino, il che corrisponde ad un abolire il tempo tramutandolo a un tratto in eternità. Ciò è pura immaginazione, perché il futuro non ha termine che lo limiti, o almeno,
l'idea di fine ultimo non è legata a quella d'un limite estremo del futuro: come l'idea di creazione, astrae dal
tempo. Essa postula solo che l'ordine regna nell'universo, che il concetto di ordine è convertibile con l'idea
dell'essere e che Dio come è principio così è anche fine di tutte le cose e, in misura particolare, delle creature ragionevoli, capaci di conoscerlo e di amarlo. Si può dire che il conseguimento di un tal «fine» sia un'«estremità»? Sì, ma in senso relativo, non al tempo o alla durata, ma alla tendenza: il fine ultimo è il termine di una tendenza, il conseguimento di un destino, immanente e trascendente insieme all'essere creato, ma
mai termine dell'essere come tale: conseguito il suo fine, l'essere perdura.
Ed ecco che se l'idea di creazione, presa in senso assoluto, non ci costringe più a supporre un momento
primo dopo un momento zero, a pari titolo il concetto di fine ultimo, preso in senso assoluto, non ci porta ad
abolire la durata. Questa potrà mutare natura o forma, in dipendenza del conseguimento del fine: resterà una
proprietà radicale dell'essere creato e contingente. Il concetto di fine ultimo postula solo che tutto l'universo e
tutti gli enti dell'universo tendono a un fine il quale li trascende: Dio. Omnia entia intendunt assimilari Deo.
§ 5 - La vita e la beatitudine divine
389 - Tutti gli attributi di Dio dei quali abbiamo parlato finora, tutte le operazioni della sua intelligenza e
della sua volontà ci hanno fatto conoscere qualche cosa della vita divina. Non che questa vita consista negli
effetti esteriori che abbiamo considerati: la vita e la grandezza di Dio sono del tutto interiori. Poiché tuttavia
noi conosciamo Dio solo attraverso le sue opere, volgiamo sempre il nostro sguardo su quelle quando intendiamo parlare di Dio.
1. LA VITA DIVINA - La vita conviene per eccellenza a Dio, benché Egli sia immobile. Infatti la vita non
esige necessariamente il movimento. Al contrario, più essa è perfetta, più esclude l'imperfezione della successione e le vicissitudini della potenzialità, per crescere invece nell'immanenza che essenzialmente la caratterizza. In Dio, quest'immanenza dell'agire è necessariamente totale e piena, perché Dio è Atto puro. La vita
divina è propriamente l'atto dell'intelligenza, perché, scrive Aristotele (Metaph. XII, c. 7, 1072 b 28) «l'atto
dell'intelligenza è una vita e Dio è l'attualità stessa dell'intelligenza: questa attualità presa in sé, tale è la vita
perfetta e eterna. Perciò chiamiamo Dio un vivente eterno perfetto. La vita eterna appartiene dunque a Dio,
perché essa è Dio stesso».
2. LA BEATITUDINE DIVINA - Questa vita divina è la beatitudine perfetta. Infatti, Dio, essendo infinito,
possiede la pienezza di tutte le perfezioni, essendo l'Intellezione sussistente, conosce se stesso adeguatamente
e conosce in sé tutte le cose, essendo eterno e onnipotente, non è suscettibile di alcun male che possa limitare
la sua perfezione infinita. Egli non solo possiede la beatitudine, ma è la Beatitudine essenziale. Per questo le
creature posseggono la felicità solo in virtù d'una partecipazione alla beatitudine propria di Colui che è il bene sommo e la sorgente di ogni bontà.
CAPITOLO TERZO
LA TRASCENDENZA E LA PERSONALITÀ DI DIO
SOMMARIO330
Art. I - IMMANENZA E TRASCENDENZA DI DIO. Il panteismo - Nozione generale - L'emanatismo - Il
panteismo realista - Il panteismo idealista - Il panteismo evoluzionista - Discussione del panteismo - I concetti di immanenza e di trascendenza - La trascendenza necessaria - Le esigenze di una vera trascendenza.
Art. II - LA PERSONALITÀ DI DIO. L'essere personale - Lo spirito puro - L'amore sussistente - L'amore
di Dio - Il primo Motore e il Bene sommo - Le esigenze morali.
Art. III - LA CREDENZA IN DIO. Il Dio nascosto - Il Dio sensibile al cuore.
390 - Al termine dei nostri discorsi su Dio, non può non restare in noi un profondo sentimento della nostra
impotenza a pensare Dio quale Egli è in se stesso. Questo è il punto più alto della nostra conoscenza naturale
di Dio la quale può essere solo, secondo l'espressione di sant'Agostino, «una dotta ignoranza», consistente
nell'affermare tanto l'immanenza di Dio a tutto ciò che è, quanto la trascendenza infinita dell'Essere che non
ha alcuna misura comune con gli enti della creazione. Ciò sarebbe, a rigore, sufficiente, se le difficoltà presentate principalmente dalla filosofia moderna non ci obbligassero a precisare i concetti di immanenza e di
trascendenza e il concetto di personalità divina, che sono al centro della disputa tra teismo e panteismo.
Art. I – Immanenza e trascendenza di Dio
§ 1 - Il panteismo
Abbiamo già esposto, nella critica della conoscenza, i principali aspetti delle dottrine panteistiche (33-34;
123­124) e le abbiamo discusse per quanto riguarda i princìpi dalle quali dipendono. Ora si tratta di esaminare queste dottrine in se stesse, cioè come concezione di Dio. Basterà allo scopo riassumere le differenti
forme in cui il panteismo si è presentato nel corso dei secoli.
1. NOZIONE GENERALE DEL PANTEISMO - Il panteismo è essenzialmente un monismo, cioè consiste
nel negare che Dio e l'universo siano realmente distinti. Questa tesi fondamentale può essere espressa in due
maniere differenti. Possiamo dire, riducendo l'universo a Dio, che Dio solo è reale e che il mondo è soltanto
un complesso di manifestazioni o di emanazioni di Dio, che non ha né realtà né sostanza distinta da Lui, ovvero, riducendo Dio all'universo, che il mondo solo è reale e che Dio equivale soltanto alla somma di tutto
ciò che esiste.
La prima forma del panteismo è rappresentata principalmente dai sistemi di Plotino, Averroè, Spinoza, Fichte, Hegel e Taine. La seconda forma costituisce il panteismo materialistico, sostenuto nell'antichità da
Parmenide, nel Medioevo da David De Dinant e, nel XIX secolo, da Vogt, Moleschott e Buchner. Non ci occuperemo del panteismo strettamente materialistico, la cui confutazione è contenuta in quella del materialismo (III, 611-621): l'assurdità di quest'ultimo vi è portata, se è lecito dire, all'assoluto. Restano quattro tipi
principali di panteismo, che sono: l'emanatismo e i panteismi realista, idealista ed evoluzionista.
391 - 2. L'EMANATISMO - Le teorie emanatiste consistono essenzialmente nell'affermare che l'universo
non è stato creato da un atto libero della potenza divina, ma emana o esce necessariamente da Dio per effetto di una legge della natura divina. Questo concetto, proposto sul principio dell'era cristiana dagli gnostici e
nel XVI secolo da Giordano Bruno, ha trovato espressione sistematica per opera di Plotino.
a) L'emanazione. Plotino cerca di comprendere come l'Uno o Principio assolutamente primo, esista per
stesso, totalmente autonomo, pur restando presente ovunque, in maniera più reale del fuoco degli Stoici, del
Pensiero supremo aristotelico, o anche del Bene di Platone.
Come si attua la molteplicità, domanda Plotino? Come deriva dall'Uno infinito? Quali sono i gradi intermedi tra il Principio primo e la materia? Plotino risponde che la molteplicità emana dall'Uno, attraverso una
«processione» che comprende diversi gradi. Bisogna però precisare che in realtà tutto è uno e che niente esce realmente dall'Uno. La «processione» non è che uno spiegamento interno di ricchezze virtuali infinite
del Principio primo.
Al di sopra della natura vi sono tre ipostasi o sostanze: l'Uno, l'Intelligenza o Pensiero e l'Anima. La più
elevata è l'Uno infinito. Non bisogna attribuirgli nulla di ciò che noi predichiamo degli altri enti; esso è assolutamente ineffabile e impensabile, perché ogni concetto è una determinazione: tutto ciò che noi dicessimo di
lui, finirebbe per limitarlo. È l'Infinito, cioè l'indeterminazione assoluta. Essendo l'Uno così concepito come
l'energia vivente primitiva, le ipostasi che ne derivano saranno considerate come espressioni della pienezza
infinita. Esente da invidia, il Bene si comunica con liberalità, senza subire alcuna diminuzione. Esso genera,
innanzitutto, ciò che esiste di più perfetto dopo di lui, l'Intelligenza o Pensiero (Νοϋς) che non è dunque, in
rapporto con lui, la parte rispetto al tutto, ma la conseguenza rispetto al principio. L'Intelligenza procede dall'Uno come i raggi emanano dal sole. A sua volta l'Intelligenza è feconda: essa genera l'Anima, con la quale
arriviamo ai confini del mondo intelligibile e attingiamo le origini del mondo sensibile. Questo è generato
dall'Anima, non per capriccio, desiderio o volontà, ma necessariamente, come un nuovo grado dell'essere, e
in maniera che tutte le virtualità dell'essere, immanente, nella sua infinitezza, al Principio primo, siano attuate, sino al punto in cui risulta talmente estenuato da confinare col nulla. Questo termine ultimo della «processione» dell'essere è la materia, sede della molteplicità essenziale e principio del male. (Cfr. Plotino, Enn, VI,
7, n. 34 in ed. Bréhier. Parigi, 1923-28; cfr. tr. it. di Cilento, 4 voll., Bari, 1947-50).
b) Senso panteistico della dottrina. Questa teoria non ha affinità con alcun sistema creazionistico secondo
il quale l'Uno avrebbe prodotto l'universo dal nulla e con un atto libero della sua volontà. In realtà, la «processione» plotiniana non implica né previsione, né deliberazione, né libertà, né contingenza di sorta. Questo
è uno dei punti sui quali più frequentemente Plotino ritorna nelle sue argomentazioni. La natura della provvidenza, egli dice, (Enn., III, 2, c. 1, nn. 1-3) esclude sia il caso, sia la creazione propriamente detta, nel modo
di produrre le cose: il caso in quanto esso è una negazione d'intelligibilità, la creazione o «spontaneità», in
quanto supporrebbe nell'Intelligenza «una previsione e un calcolo», il che equivarrebbe ad introdurre in essa
il mutamento. «Attribuire alla spontaneità l'esistenza e la formazione del mondo sensibile, è assurdità dell'uomo che non sa né guardare né comprendere». Come vediamo, questa dottrina non esclude la realtà degli
enti, ma postula che la produzione di essi è necessaria, cioè che l'Uno li genera per una necessità naturale.
Appunto da ciò tale dottrina assume nel modo più chiaro il suo carattere panteistico331.
392 - IL PANTEISMO REALISTA - Il panteismo oggettivo o realista, ancora più definito di quello plotinico, ha la sua summa nell'opera di Spinoza. Possiamo riassumerlo in queste tre proposizioni: la sostanza esiste necessariamente, questa sostanza necessaria è infinita, la sostanza infinita è unica. Per dimostrare queste tesi, Spinoza parte dalla definizione cartesiana della sostanza, ma lasciando cadere la restrizione che Cartesio vi aveva aggiunta per distinguere la sostanza infinita dalle sostanze finite: «Per sostanza intendo ciò che
è in sé, cioè quella cosa il cui concetto, per essere formato, non ha bisogno del concetto di alcuna altra cosa».
(Ethica, more geometrico demonstrata, in ed. crit. di Gentile, Bari, 2a ed., 1933 ; cfr. tr. it. con note di E.
Troilo, Milano, 1914, 1. I, def. 3) (233). Per deduzione immediata da questa definizione, Spinoza afferma
che è impossibile che una sostanza sia prodotta da un'altra sostanza, perché una sostanza prodotta da una altra potrebbe essere conosciuta solo per mezzo della sua causa e il suo concetto deriverebbe dal concetto di
un'altra cosa, cioè essa sarebbe (per ipotesi) una sostanza e non sarebbe una sostanza, il che è contraddittorio.
Se, dunque, la sostanza può essere concepita soltanto per sé, ciò dipende dal fatto ch'essa esiste soltanto per
sé; non può esservi quindi che una sola Sostanza necessariamente infinita. Non esiste e non si può concepire
sostanza al di fuori di Dio. e tutto ciò che esiste, esiste in Dio e niente può esistere né essere concepito senza
Dio. (Cfr. Ethica, 1. I, teoremi 6-8, 14-15).
Da tutto ciò si deduce che pensiero ed estensione, se coesistono, sono soltanto attributi di una sostanza unica: ben lungi dall'escludersi reciprocamente, come cose complete ed autosufficienti, essi sono solo due aspetti parziali dell'universo, cioè, tra gli attributi in numero infinito dell'unica Sostanza infinita sono i due a-
spetti che si presentano alla nostra esperienza, essenze infinite l'uno e l'altro, indipendenti precisamente in
quanto aspetti distinti di una stessa ed unica realtà, ma inseparabili e inconcepibili l'uno senza l'altro. Attributi di una stessa Sostanza, la quale, pur diversificandosi in modi infiniti, resta sempre identica a se stessa, il
pensiero e l'estensione si identificano esattamente come due espressioni diverse d'una stessa legge universale, legge della natura divina (natura naturante). Così diremo che nella Natura (natura naturata) non esiste
nulla di contingente: al contrario, tutte le cose sono determinate in virtù della necessità della natura di Dio a
esistere e ad agire in una data maniera (Ethica, l. I, teorema 29).
393 - 4. IL PANTEISMO IDEALISTA - Il panteismo idealista è stato sostenuto principalmente dai postkantiani, Fichte, Schelling ed Hegel, in forme varie ma nondimeno tali da supporre la tesi comune secondo la
quale, tra le cose finite e il loro principio assoluto, la relazione è essenzialmente la stessa che esiste, in una
deduzione razionale, tra il principio assolutamente primo e le sue conseguenze necessarie. In conseguenza,
spiegare l'universo significa dedurlo a partire dallo Spirito infinito, cioè stabilire che, posto lo Spirito Infinito, il mondo ne deriva necessariamente, con tutti i caratteri che presenta l'esperienza e tutta la varietà successiva degli enti e della storia. Il sistema razionale, se è rigoroso, esprimerà dunque l'evoluzione immanente
dell'assoluto indeterminato, evoluzione che traduce obbiettivamente, mediante il gioco delle limitazioni interne (o degli enti finiti), ciò che l'Assoluto è soggettivamente, e gli dà coscienza di sé nelle limitazioni stesse, mediante le quali egli esplica successivamente le sue virtualità infinite332.
Spettò ad Hegel di presentare la forma più rigorosa e suggestiva di questo panteismo e forse è addirittura
soltanto nel suo sistema che il panteismo si offre, se è lecito dire, allo stato puro. «La contraddizione fondamentale, è quella dell'Assoluto che limita se stesso e diviene così il contrario di sé. Ma in tal modo esso si
determina e in tale determinazione, in siffatta limitazione di sé ch'è negazione, si nega di nuovo, si pone dunque concretamente come se stesso nel suo contrario... L'Assoluto pertanto è solo per questa divisione - ch'è
negazione - questa duplicazione antitetica nella quale ciascuno dei termini è una determinazione, ma siffatta
da esistere solo nel suo rapporto all'altra, alla sua altra, cosicché l'Assoluto, ponendosi in ciascuna delle determinazioni sue, appare a sé in se stesso interamente in ciascuna (poiché, ciascuna, rimanda all'altra...).
L'Assoluto si contraddice per identificarsi a sé, esso è l'identità concreta, l'unità che si fa dualità, l'essere interno a sé, entro l'essere esterno a sé, l'essere esterno a sé entro l'essere interno a sé. Quest'identità assoluta è
contemporaneamente forma e contenuto, analitica e sintetica, tautologica e contraddittoria»333.
5. IL PANTEISMO EVOLUZIONISTA - Questa forma di panteismo è particolare di alcune filosofie francesi del XIX secolo, in particolare di Taine, Renan e Vacherot. Esso costituisce una dottrina intermediaria tra
quella di Spinoza e quella di Hegel. Possiamo riassumere l'idea generale di questo sistema nella seguente
formula: «Dio non è ma diviene. Il suo divenire è il nostro stesso progresso». (Éd. Le Roy, Le problème de
Dieu, Parigi, 1907, p. 131).
Il senso della dottrina bergsoniana di Dio, come è esposto nell'Evolution créatrice, opera nella quale l'essere
è definito mediante il divenire, è stato oggetto di vivacissime discussioni. La disputa, almeno nelle intenzioni
di Bergson, si è chiusa con la reiterata affermazione che tutta la sua dottrina implica l'affermazione teistica334. In seguito, le Deux Sources de la Morale et de la Religion sono venute a confermare palesemente quest'orientamento del pensiero bergsoniano. Tuttavia sussistono alcune difficoltà. Per quanto riguarda la prova
di Dio, abbiamo già osservato che l'affidamento esclusivo di Bergson all'esperienza mistica risponde esattamente ad una sfiducia molto accentuata per i procedimenti razionali.
Quanto alla natura di Dio, non v'è dubbio che Bergson, il quale mutua la sua concezione di Dio dai grandi
mistici cristiani, affermi la realtà di un Dio personale, creatore e provvidenza universale, ed intenda perciò
escludere il panteismo. È bene tuttavia osservare che la dottrina delle Deux Sources dipende troppo evidentemente dalla concezione dello slancio vitale, così come è esposta nella Évolution Créatrice. In realtà la dottrina bergsoniana di Dio ha anch'essa due origini che pare non coincidano perfettamente: da una parte, la metafisica dello slancio vitale, e, dall'altra, la metafisica dell'esperienza mistica. La prima, senza alcun dubbio,
richiama l'emanatismo plotinico. Se ci poniamo solo nel punto di vista dell'Evolution Créatrice, trascurando
le precisazioni, invero, capitali, apportate dalle Deux Sources, possiamo fondatamente parlare di un emanatismo bergsoniano: le celebri pagine nelle quali la creazione è paragonata allo scaturire di una fonte non fanno
che confermarci nel nostro giudizio, tanto più che l'atto creatore non è presentato come un atto di volontà e di
libertà propriamente detta, ma piuttosto come effetto di una semplice spontaneità, come la conseguenza naturale di una sovrabbondanza di potenza e di energia intime. (Evolution Créatrice, p. 270). La concezione
dell'Evolution Créatrice non segue dunque la stessa direzione di quella delle Deux Sources e pare che non si
possa passare «naturalmente», come si esprime Bergson, cioè logicamente, dall'una all'altra. L'ontologia iniziale del bergsonismo grava pesantemente sulle successive tesi della sua teodicea. Bergson ha tentato, nelle
Deux Sources, di eludere le esigenze della logica propria del bergsonismo. Difficile impresa che ci lascia,
almeno in parte, l'impressione di un fallimento335.
§ 2 - Discussione del panteismo
394 - 1. I CONCETTI DI IMMANENZA E DI TRASCENDENZA.
a) I concetti solidali. Bisogna riconoscere che il panteismo è una delle tendenze alle quali più facilmente
inclina lo spirito umano. Infatti ciò che ne costituisce la forza e conferisce al panteismo un irresistibile fascino, è il profondo sentimento, cui esso cede, dell'immanenza di Dio in tutto ciò che è. È verissimo, come abbiamo precedentemente dimostrato, che Dio, essendo necessariamente principio primo e causa universale,
deve essere presente a tutto ciò che esiste, anzi deve essere presente agli enti più di quanto questi siano presenti a se stessi, poiché esistono e sussistono unicamente per effetto di un continuo influsso della potenza
creatrice. Perciò nulla di più vero è possibile dire di Dio della frase: «in Lui noi abbiamo la vita, il movimento, e l'essere». Il panteismo trova dunque un fondamento per l'insistenza sul motivo della profondità e universalità della immanenza divina.
Tuttavia, il suo errore consistere nel compromettere la trascendenza di Dio, cioè l'assoluta indipendenza
di Dio in rapporto al mondo, nel non comprendere che dobbiamo concepire Dio, per analogia e (per servirci
di una espressione di Leibniz), come «ciò che un inventore è alla sua macchina, ciò che un principe è ai suoi
sudditi e ciò che un padre è ai suoi figli». (Monadol., op. cit., ed. cit., 84). La trascendenza di Dio conduce,
per svolgimento logico necessario, alla dottrina della creazione, cioè ad ammettere la libera produzione operata da Dio, di tutte le cose che esistono, e, per conseguenza, la realtà in Dio d'una intelligenza e di una volontà infinite, il che significa che Dio deve essere concepito solo come un Essere personale. Nessuna di queste affermazioni d'altronde, che sono necessarie, in virtù stessa del processo che ci ha portato ad affermare
l'esistenza di Dio, deve né può portarci a negare od a compromettere l'immanenza di Dio, ugualmente necessaria. Immanenza e trascendenza sono due aspetti inevitabili e solidali di un concetto di Dio conforme alla
fede, ai dati dell'esperienza e alle esigenze della ragione. Senza immanenza, infatti, Dio è estraneo all'universo e non è né infinito né perfetto. Senza trascendenza, Dio diviene identico all'universo, e appare un'altra
volta imperfetto, potenziale e in divenire. Il concetto di Dio è contraddittorio tanto nell'uno che nell'altro caso. In ambedue i casi, in verità, si nega implicitamente Dio, in modo che, come dimostrava Malebranche
(Entretiens sur la Métaphysique a cura di A. Cuvillier, 2 voll., Parigi, 1948, VIII, 9), ogni panteismo si riduce ad una forma di ateismo.
b) I concetti analogici. È essenziale nel nostro caso il corretto intendimento delle idee di trascendenza e di
immanenza. Con la maggior frequenza le nostre difficoltà derivano da un uso rovinoso dell'immaginazione
spaziale. Né l'immanenza né la trascendenza possono essere rappresentate, perché non appartengono all'ordine materiale e perché l'essenza e gli attributi divini, come abbiamo detto, trascendono la nostra intelligenza
all'infinito. La trascendenza non è dunque un al-di-là spaziale, ma essenzialmente indipendenza assoluta,
aseità perfetta. L'immanenza, da parte sua, non è una certa qual mescolanza dell'Essere divino alle cose create, ma un modo di presenza spirituale, irriducibile alle presenze corporee, e per ciò stesso, infinitamente più
intima e più avvolgente.
395 - 2. LA TRASCENDENZA NECESSARIA - È. necessario esaminare ora più da presso, la concezione
panteistica, essendo questo il punto cruciale del problema di Dio. Questo esame sarà, d'altronde, una sorta di
verifica o di prova dei risultati che abbiamo conseguiti: avremo infatti occasione di vedere se implicano realmente tutto quanto di sicuro e rispondente alle esigenze razionali abbiamo creduto di scoprire in essi intorno alla natura di Dio.
a) Il punto di vista panteistico. Osserviamo, dapprima, che anche i panteisti, da Plotino ad Averroè, da
Bruno a Spinoza, da Schleiermacher a Hegel e a Taine, sono d'accordo nell'attribuire a Dio una certa trascendenza: è necessario, essi dicono, distinguerlo in qualche senso dall'universo, altrimenti l'affermazione di
Dio sarebbe puram