Immersioni - Diwali rivista contaminata

Download Report

Transcript Immersioni - Diwali rivista contaminata

immersioni
Numero XV Autunno 2016
L'Editorial
Sommario
dicembre 2016 - n.15- anno 4
www.rivistadiwali.it
Direttore Editoriale
Maria Carla Trapani
Direttore Responsabile
Flavio Scaloni
Redazione
Dona Amati, Pietro Bomba, Alessandra Carnovale,
Laura Di Marco, Giulio Gonella, Letizia Leone, Sara
Lombardo, Valentina Meloni, Antonella Rizzo, Simone
3
InSistenze
4
Rationnel Irrationnel di Simone Scaloni
5
Se Poison Ivy si dedica alla scultura di Geremia Doria
10
Alla fine dell’abisso di Lucio Costantini
14
I vortici ascendenti e discendenti di Anish Kapoor di Helmut Schilling18
La nascita dell’ottava arte di Cristina La Bella
22
Plancton Meccanico di Gioele Marchis
28
InVerso
32
Francesco Di Giorgio33
Helena Caruso35
Michael Crisantemi36
Simona Petrecca37
Simona D’Urbano38
Patrizia De Vita40
Flavio Rivabella - ErMedicus42
Angela Donatelli43
Scaloni
Ufficio Stampa
Les Mots Contaminés
Franca Palmieri44
Daniela De Nicolò46
Focus Haiku: Iratsume, custode dell’amore
48
InStante
52
Diwali - Rivista Contaminata
Giulio Gonella
53
Trimestrale di Arte & Letteratura
Kahn & Selesnik
56
Jonathan Nimerfroh
60
Miloje Savic
64
InMobile
68
In copertina: Serge Salat, Beyond Infinity, particolare
Contatti
Apnee: Immersioni di Vita in Emersioni di Gioia di Sara Lombardo69
facebook.it/diwalirivistacontaminata
InContro
73
Nicola Rotiroti
74
InDicazioni
76
Associazione culturale no-profit
La Terra di Tutti di Massimo Pacetti
77
20, Rue Condorcet, 38000, Grenoble - Francia
Una Volta l’Estate di I. Palomba e L. Annibaldi
80
Il sole che nessuno vede di Tiziano Fratus
82
InAscolto
84
[email protected]
Edizioni Les Mots Contaminés
ISSN 2275-0606
2
L’Editorial
In-mergere, in latino, suona più o meno come intuffare. Il tuffo è dinamico, rimandando al passaggio da un
elemento a un altro, ma anche statico, poiché allude a
uno stare prolungato nel nuovo elemento, accentuato dall’in che forma il termine immersione. Indica infatti al contempo un agire e un permanere, l’immergere: la
novità dell’atmosfera nella quale (ci) si immerge contiene l’atmosfera dalla quale (ci) si strappa. (Queste parentesi significano la pari rilevanza, nel concetto di immersione, della forma attiva, in cui si immerge qualcosa, e
della forma riflessiva, in cui ci si immerge in qualcosa).
È in questa simultaneità del prima e del dopo, dell’abbandonare il vecchio e dell’abbandonarsi al nuovo, che
si situa la complessità figurativa dell’immersione. Collocata l’immersione nello spazio, il prima è il fuori e il dopo
è il dentro. Verrebbe così da rappresentarla con una Sirena colta nell’atto di (ri)tuffarsi in mare, le pinne e il viso
che (ri)emergono, il busto sommerso, il collo e il ventre
sul filo. (Qui le parentesi significano la contemporaneità
concettuale del prima e del dopo: non è possibile, o meglio non ha senso, nel concetto di immersione, definire
la direzione del movimento: che le pinne stiano riemergendo e il busto immergendosi, o che al contrario le pinne stiano immergendosi e il busto riemergendo, non incide sulla rappresentazione istantanea dell’immersione).
L’immersione appare inoltre nella sua veste positiva, se affiancata alla sommersione: chi è sommerso
non è salvato, mentre chi si immerge esplora, aprendosi a un ignoto promettente più che minaccioso. Persino in un lavoro ci si può immergere con entusiasmo.
Resta però il fatto che desideriamo che l’amante ci sommerga, di baci di carezze e di attenzioni, mentre da altro si può
essere sommersi nel senso di oberati, come si dice, di lavoro.
È allora forse il rapporto tra il prima e il dopo, tra il fuori
e il dentro, ciò che maggiormente caratterizza l’atto puro
dell’immersione?
Quale che sia la direzione, quale che sia il valore, negativo o positivo, del passaggio, l’istante dell’immersione è sempre carico di senso, pesante ma dinamico.
Come l’immersione in questo numero di Diwali: dalla lettura e dalla visione, non si può non uscire trasformati.
Buone immersioni,
in uno qualunque dei sensi in cui vi immergerete.
Diwali - Rivista Contaminata
3
Insistenze>>>
Attraversamento. Transizione da un medium ad un altro. Rapporto con il tempo. Il vuoto.
RATIONNEL IRRATIONNEL
Simone Scaloni
Queste sono alcune delle suggestioni che il tema dell’immersione evoca e attorno a cui verte la ricerca degli artisti proposti in questo numero di Diwali.
Per Anish Kapoor (Helmut Schilling) sono ricordate due istallazioni, Ascension e Descension, in cui, rispettivamente, il fumo si fa colonna verso l’alto o un vuoto è rigenerato di contempo si possono citare i contributi di Cristina La Bella, che ripercorre la storia dell’ottava
arte, la fotografia, con le sue caratteristiche di immediatezza e di capacità di riprodurre all’infinito ciò che nella realtà è avvenuto una volta sola e l’istallazione murale Mécaniques Discursives (Gioele Marchis), opera del lavoro congiunto di due artisti molto distanti tra loro
dal punto di vista della scelta dei mezzi espressivi: l’incisore belga Frédéric Penelle e il videoartista svizzero Yannik Jacquet, una sorta di grande affresco cinetico che intende fare riflettere l’osservatore sui temi della lentezza, della pausa e del punto di saturazione (o esplosione) a cui è arrivata la società attuale.
Ancora in tema di fotografia, Diwali, insieme con Simone Scaloni propone al lettore le atmosfere assurde e surreali in cui si trova immerso l’immancabile uomo in giacca e cravatta delle opere di Philippe Ramette, moderno Caspar David Friedrich e fotografo artigianale;
surreale che lo accomuna ad un altro degli autori presentati in questo numero, Yves Tanguy
per la penna di Lucio Costantini, pittore autodidatta bohemienne ed elemento di spicco
della corrente artistica surrealista, con i suoi paesaggi ispirati alle coste bretoni, dove era
cresciuto, e all’opera di De Chirico, che aveva avuto occasione di ammirare a Parigi negli
anni Venti.
Infine, grazie a Geremia Doria, dal mezzo acquatico dei contributi sopra citati, emergiamo
di nuovo in superficie per immergerci ancora, ma nelle imponenti istallazioni e sculture lignee
del brasiliano Henrique Oliveira, dai colori autunnali, caldi e avvolgenti: un mezzo, per l’artista, di far riflettere il pubblico sul problema dello sfruttamento del pianeta da parte dell’uomo.
E ora buon immersione nella lettura.
4
Alessandra Carnovale
Per Philippe Ramette, artista francese nato nel 1961 in
Borgogna, ad Auxerre nel dipartimento della Yonne, naturalmente dotato per il disegno da egli stesso considerato
imprescindibile e propedeutico alla realizzazione di ogni
sua opera, immergersi significa innanzitutto contemplare.
E contemplare significa dapprima selezionare e guardare
con ammirazione, poi lentamente concentrare la mente
su un unico pensiero o immagine impressa nella retina, e
infine riflettere come farebbe uno specchio. Ma se da una
parte riflettere significa brillare, rilucere ed emettere bagliori, dall’altra significa sparire. Dunque ricapitolando, per
Philippe Ramette, plasticien cinquantenne che vive e lavora a Parigi, scultore d’ispirazione surrealista nella migliore
tradizione francese e fotografo formatosi fra l’Accademia
di Belle Arti di Mâcon e la scuola d’arte di Villa Arson a Nizza, immergersi nel verde smeraldo del mare della Corsica
o nelle trasparenze bianche e blu dei cieli della Provenza,
che poi è lo stesso poiché acqua e aria hanno molte cose
in comune, è sinonimo di sparire. E sparire non è altro che
sconfinare. Dove sconfinare sta per fare il giro completo
e finire dall’altra parte dello specchio.
L’attitudine contemplativa e uno sguardo décalé sul mondo, uno sguardo cioè spostato e dunque alternativo, fanno da intelaiatura alla visione artistica di Ramette e ne
sostanziano l’intera produzione d’immagini. L’osservazione nel senso di pratica dell’osservare, da vero regardeur
come egli ama definirsi, conduce infatti all’approdo naturale di una ricerca continua e destinata a non essere
mai soddisfatta. Senza accorgersene, sospinti dalla forza
propulsiva di un’indomabile e istintiva curiosità e dall’incantamento sempre vivo per il Creato, si va come esploratori alla ricerca di cose nuove, da scoprire e aggiungere al bagaglio dell’esperienza. Si arriva infine a sconfinare
in un territorio sconosciuto, estremo, a volte sublime e a
volte abissale, dove cambiano i punti di vista come cambiano le regole della prospettiva e le leggi della fisica. È
un sentimento dell’avventura, il desiderio di conoscenza
e di misurarsi prima con se stessi prima e poi con le forze della Natura, che entra in gioco in questi casi e fa da
guida irresistibile. È ciò che accade nei racconti di Jules
Verne, in cui si scende di ventimila leghe sotto il livello del
mare o si cerca coraggiosamente di raggiungere il centro
della Terra. Dove ci s’imbarca nella circumnavigazione del
Insistenze>>>
tinuo, movimenti entrambi ricchi di significati spirituali e simbolici; quanto al rapporto col
5
Insistenze>>>
globo per illudersi, anche solo per la durata del viaggio, di
averlo conquistato.
Ci riferiamo qui a un sentimento o moto naturale dello spirito, che è anzitutto romantico e in questo senso trova nella produzione artistica di Caspar David Friedrich, il pittore
tedesco vissuto a cavallo fra il Settecento e l’Ottocento,
uno fra gli esempi più alti nella storia dell’arte. Seppure
non certo l’unico, basti qui citare almeno alcuni dei più
celebri paesaggisti romantici come John Martin e John
Robert Cozens, John Constable e Joseph Mallord Turner,
nel corso del tempo il modello offerto dall’opera di Friedrich è diventato paradigmatico. Il riferimento primo ogni
qualvolta si cerchi di definire uno stato d’animo che per
sua natura resta difficile da rappresentare, e ancor più da
esprimere a parole. Il Naufragio della Speranza, appunto
un olio su tela dipinto da Friedrich nel 1824, potrebbe fare
da sfondo e set a un’immagine di Ramette, oppure costituirne l’antefatto ideale. Il relitto del galeone che nel 1819
partecipò alla spedizione artica dell’Ammiraglio William
Parry, tragicamente rovesciato in mezzo a lastre di ghiaccio acuminato, fa pensare alla più terribile delle sciagure e
al predominio incontrastabile della Natura sull’Uomo.
Ma l’Uomo di Ramette, non si sa se vivo o morto, forse
più morto che vivo o più vivo che mai, ha trasceso morte
Pagina 5 e Pagina 6: Philippe Ramette, dalla serie Exploration
rationnelle des fonds sous-marins
6
<<<Insistenze
e tragedia sconfinando in un’altra dimensione. Nello specifico, è precipitato fino a toccare il fondo degli abissi. Qui,
ironicamente, nel silenzio assoluto del Nulla e nella pace
estatica di un improbabile vuoto sottomarino, si fa paradosso in carne e ossa. Tira fuori una mappa e cerca di
orientarsi, di localizzare il punto in cui è finito e magari la
strada per tornare a casa. Poi prende una scala e ci sale
sopra per arrivare a sfiorare il pelo dell’acqua, ma dalla
parte opposta a quella che sarebbe normale aspettarsi
quando si voglia toccare la superficie del mare con la punta delle dita. Alla fine, si siede su una roccia a meditare sul
da farsi, la ventiquattrore nera a pochi passi da lui.
Come nelle opere di Friedrich, nelle immagini di Ramette
gli stati d’animo di solitudine e desolazione, e sopraffazione del paesaggio sull’essere umano che lo abita e lo
percorre, costituiscono l’elemento centrale della ricerca
artistica dell’autore. Ma costituiscono anche l’occasione
dalla quale partire nella riflessione esistenziale che l’artista cerca di portare avanti e rappresentare visivamente.
Qual è il vero significato delle cose che ci accadono e dei
fenomeni di cui siamo di volta in volta protagonisti o spettatori? E quale il ruolo dell’artista all’interno della società
in cui vive e lavora, sempre ammesso che ne abbia uno?
Non tutto è ciò che sembra, ripeteva sibillino il pittore bel-
ga René Magritte, lanciando così una provocazione rivolta all’ordine costituito della società, e una sorta d’invito a
mettere in discussione il modo convenzionale in cui abitualmente si pensa e si guarda alle cose. Come le opere di
Friedrich, le fotografie di Ramette sono rappresentazioni
estreme e sublimi, quindi romantiche nell’accezione più
inclusiva del termine. Ma diversamente dalle prime, non
sono realistiche e simboliche allo stesso tempo. Piuttosto,
sono assurde e surreali. Oniriche anche, poiché non di
rado scaturiscono dalle visioni notturne apparse in sogno
all’autore, e sottilmente inquietanti.
Protagonista delle immagini di Ramette è un uomo, anche se verrebbe voglia di definirlo un omino, in giacca e
cravatta. Questi è sempre vestito di scuro, composto e
concentrato, i capelli pettinati con precisione, lo sguardo
assorto nella riflessione e nella contemplazione di obiettivi
lontani come orizzonti avvistati dal pinnacolo di un vascello. È molto dignitoso nell’attenzione che rivolge ai dettagli
e alla cura della sua persona, silenzioso e pensieroso. È
finito, non sa neanche lui perché, né saprebbe darne una
spiegazione a chi gliela chiedesse, in una situazione difficile, al di fuori da ogni norma e apparentemente piena di
pericoli. L’uomo di Ramette è un personaggio al limite e
non a caso è sempre collocato su una soglia. Un’ipotetica
linea di demarcazione che sta fra il sole e il vuoto, la vita
e la morte, la vittoria alata e la più nera e vertiginosa delle
cadute. È dunque un personaggio estremo, nonostante le
apparenze borghesi e quasi dimesse che evocano la proverbiale impassibilità di certi personaggi di Georges Simenon o l’enigmatica apatia degli scrivani di Herman Melville,
sempre in tensione e sotto sforzo, perennemente in bilico
fra il tutto e il niente.
La sua tensione è causata da una lotta. Una lotta senza
esclusione di colpi che è come un supplizio di Tantalo e
che l’omino di Ramette, dalle regioni desertiche e remote
in cui è stato catapultato, come il suo alter ego blu di Jean-Michel Folon o il principe di Antoine de Saint-Exupéry,
è chiamato a sostenere e alla quale ormai è troppo tardi
per sottrarsi. Pertanto, costretto com’è a mantenere una
posizione eretta, compatta e bilanciata, pancia in dentro e
petto in fuori, in una continua ed estenuante performance
esistenziale, egli combatte da fermo. E combatte in silenzio.
Il luogo dove si trova poi, come accennato sopra, è una
soglia. Appunto un limite. Il bordo di un baratro, l’orlo di
un orrido spaventoso, uno strapiombo senza fondo. È per
questo motivo che la sua posa è rigida e come ingessata,
non potrebbe essere altrimenti. È un uomo che si trova
Pagine 7-9: Philippe Ramette, dalla serie Contemplation irrationnelle
7
Insistenze>>>
<<<Insistenze
costantemente in una posizione delicata. La difficile situazione nella quale è obbligato a stare non gli lascia grande
libertà di movimento, deve muoversi con estrema cautela.
La sua figura fa pensare a un Icaro che debba stare attento
a non avvicinarsi troppo al Sole, pena lo scioglimento delle ali di cera che ha montate sulle spalle. O al trapezista di
un circo. Un povero funambolo prezzolato per mettere in
gioco la sua vita ogni sera, costretto a eseguire un numero di equilibrismo sulla corda, a metri e metri di altezza da
terra. Non è un caso che espressioni come tirare la corda
o camminare sul filo del rasoio siano molto care all’autore.
Ramette l’equilibrista, allora, il funambolo e il trapezista.
Ramette l’eroe romantico che draga i fondali degli abissi,
e sonda le invisibili traiettorie della volta celeste.
Tuttavia il protagonista di queste immagini, che si tratti di
un tecnocrate in fase di stallo o di un commercialista votato alla risoluzione di calcoli che non tornano, un agente
di commercio in crisi di mezza età o un impiegato dello
Stato perso nei labirinti della burocrazia, presenta anche
un risvolto poetico e per così dire scanzonato e leggero.
È l’aspetto incarnato da figure come quella dell’omino di
Folon, come dicevamo prima, e del principe di de SaintExupéry. Stralunato e fluttuante in rarefatte atmosfere oniriche il primo, in esilio su un altro pianeta il secondo. Poi
vi sono i personaggi amaramente burlesque del cinema in
bianco e nero delle origini. Ad esempio quelli un po’ magici
e un po’ diabolici delle fantasmagorie di Georges Méliès,
o quelli malinconici e maldestri dei film muti interpretati da
Buster Keaton, l’attore americano amato dall’artista al di
sopra di ogni altro.
Le fotografie di Philippe Ramette, va ricordato infine, sono
sempre al naturale e realizzate in maniera rigorosamente
artigianale. Vale a dire senza l’ausilio di tecnologie digitali
e ritocchi al computer, ma piuttosto per mezzo di protesi
meccaniche realizzate dallo stesso autore e da egli definite sculture-protesi. Questi dispositivi non soltanto svolgono la funzione propriamente fisica e meccanica di sostenere il peso dell’artista durante i lunghi tempi d’attesa
che le sessioni di shooting inevitabilmente comportano,
ma anche e soprattutto, simbolicamente, di sopperire alle
mancanze e alle fragilità dell’anima. Specialmente quando
si trovi relegata in condizioni critiche di affanno e difficoltà.
E se è sempre vero che nomina sunt consequentia rerum,
vale qui la pena rilevare come in Italiano il vocabolo ramette si traduca con piccolo sostegno, piccolo tutore.
8
Qui sopra: Philippe Ramette, video Le Regardeur, disponibile su
Youtube
*[Simone Scaloni vive a Roma tra le pieghe di una
decennale passione per l’arte. Diplomato in restauro
pittorico, si laurea in seguito in Storia dell’Arte. Si interessa particolarmente alle incisioni del 900 ma non si
preclude incursioni nelle manifestazioni dell’arte contemporanea.]
9
<<<Insistenze
Insistenze>>>
Se Poison Ivy si dedica alla scultura
Geremia Doria
La natura si riprende i suoi spazi, li invade in un grido di
libertà e di autoaffermazione. Il legno di Henrique Oliveira
è materia viva, in un processo di crescita espansiva che
sembra non avere fine. Entriamo in spazi che assomigliano ad una foresta incantata, oppure uno scenario postapocalittico dove il tessuto urbano è stato riconquistato
dagli alberi che ramificandosi ed allargandosi penetrano in
ogni dove, si aggrappano a pavimenti e soffitti, sfondano le
porte, protrudono dalle finestre, si avviluppano su colonne
e scalinate. Gli oggetti non sono risparmiati, anch’essi subiscono una trasformazione che li deturpa e al contempo
li porta ad una dimensione post-umana e post-industriale.
Guardiamo alla natura come ad un blob informe e convulso, eppure straordinariamente affascinante e armonico
nel suo disordine. È il lavoro di Henrique Oliveira, artista
brasiliano classe 1973, attivo tra San Paolo e Parigi, sempre più apprezzato e riconosciuto, tanto da ottenere nel
2013 la possibilità di esporre la gigantesca installazione
Baitogogo nei saloni del Palais de Tokyo a Parigi, tempio
dell’arte contemporaneissima. Nel 2014 è stata invece la
città di San Paolo a rendergli omaggio offrendogli gli ampi
saloni del Museo di Arte Contemporanea per l’installazio-
ne “Transarquitetonica”, che viste le dimensioni e le modalità di fruizione non esitiamo a definire “immersiva”. La
sua opera si inscrive a pieno titolo nella tendenza dell’arte
“organica” e di “recupero” che ha già visto diversi nomi
affermarsi sulla scena internazionale negli ultimi decenni.
In un’intervista rilasciata nel 2012 al sito Yatzer (www.
yatzer.com) l’artista ha dichiarato:
My works may propose a spatial experience, an aesthetic
feeling, a language development and many more nominations to refer to the relation it establishes with the viewer.
(I miei lavori potranno proporre un’esperienza spaziale, un
sentimento estetico, lo sviluppo di un linguaggio e molte
altre denominazioni per riferirsi alla relazione che stabiliscono con lo spettatore.)
Le opere di Oliveira sono di dimensioni imponenti, a volte
occupano edifici interi, o la totalità dello spazio espositivo
di una galleria. Nella maggior parte dei casi si estendono su una parete longitudinalmente, mentre sono relativamente poche le opere di piccole dimensioni che l’artista
ha realizzato a beneficio del mercato, vista la crescente
domanda dei collezionisti di averlo nella propria scuderia.
10
La materia protagonista del suo lavoro è indiscutibilmente
il legno, sempre di recupero, come quello che l’artista raccolse dopo il completamento di un edificio non distante
dall’accademia d’arte presso la quale si stava diplomando
(siamo sul finire degli anni ’90) e che costituì la base del
suo percorso.
Non a caso molti dei suoi primi lavori portano il titolo di
Tapumes in portoghese, termine che potremmo tradurre
come barriere o palizzate. Sono pannelli di legno sottili,
residui di staccionate ad esempio, che l’artista dapprima
dipinge e quindi modella tramite vapore e altre tecniche di
lavorazione, assieme a materiali come il PVC e il ferro che
costituiscono l’impalcatura delle sue maxi sculture.
What first caught my attention on this kind of deteriorated
plywood was its pictorial aspect. The textures, the colors
and the different tones that were organized in layers, reminded me of a painting surface.
(La prima cosa che catturò la mia attenzione circa questo
tipo di legno deteriorato fu il suo aspetto pittorico. La tessitura, i colori e le differenti tonalità che erano organizzate
in strati, mi ricordarono una superficie pittorica.)
11
Insistenze>>>
Un altro aspetto interessante del suo lavoro è quindi la
scelta dei colori da utilizzare su sculture che si propongono allo spettatore anche come enormi tele pittoriche. Sono
spesso colori autunnali, una palette di sfumature che da
un lato ricorda l’essenza più sotterranea del legno, e quindi le radici, e dall’altro ci proietta in una sorta di mondo
delle fiabe. Quasi sempre toni caldi, avvolgenti : il colore
contribuisce ad attirarci dentro l’opera.
Possiamo identificare nel suo lavoro anche un certo interesse per alcune deformazioni arboree tutt’affatto naturali, i tumori delle piante, che vediamo in terre nostrane
attaccare gli olivi, ad esempio. Enormi protuberanze sulla
corteccia degli alberi provocate dall’invasione e la proliferazione dell’agente patogeno Agrobacterium tumefaciens
esercitano sull’artista uno strano potere fascinatorio. Con
le sue venature e le sue ramificazioni, il legno ricorda drammaticamente la carne umana in diverse opere dell’artista,
tessuti metastatici rigonfi e maligni che aggrediscono il
corpo fino a sopraffarlo.
Per capire l’intricato mondo dell’artista non si può prescin-
12
<<<Insistenze
dere dalla sua terra d’origine, il Brasile, il polmone verde
del pianeta. Il Brasile è fonte di una straordinaria varietà
di legni differenti, esportati in tutto il mondo, che costituisce al tempo stesso una risorsa di ricchezza del paese e
una lacerazione incessante del paesaggio. Quella foresta
tropicale che lascia spazio al cemento e alle megalopoli
grida vendetta e lacera la sensibilità dell’artista. Le opere di Oliveira ci espongono alla bellezza e alla poliedricità
della natura tanto quanto ci pongono di fronte alla nostra
vergogna di sfruttatori sconsiderati del pianeta.
I believe that everything that we make is the result of our
life experience, our culture, our language and the exchanges we have made with other people during our lives.
(Credo che tutto ciò che facciamo sia il risultato della nostra esperienza di vita, la nostra cultura, il linguaggio e
tutti gli scambi che abbiamo avuto con gli altri.)
Le installazioni organiche e “viventi” di Oliveira ci ricordano
la Potenza della natura, la sua supremazia e la possibilità
di un suo violento riscatto, una riaffermazione degli elementi naturali sulle sciagurate e sciocche politiche umane.
L’artista è attualmente rappresentato da due gallerie, la
Galleria Millan di San Paolo e la Galleria Georges, Nathalie
et Philippe Vallois di Parigi.
www.henriqueoliveira.com
www.galeriamillan.com.br
www.galerie-vallois.com
*[Geremia Doria nasce a Trieste nel settembre di 40
anni fa. Interior designer di professione, si interessa di
antiquariato e collezionismo d’arte. Frequenta con regolarità gallerie e case d’asta e negli anni acquisisce e
affina le proprie competenze nell’arte contemporanea,
con una forte predilezione per gli autori figurativi. Scrive
note critiche e monografie per diverse riviste di settore.
Vive con uno Scottish terrier e non è presente in nessun social network.]
Pagina 10: Henrique Oliveira, Tapumes, Plywood, 2,7 x 16 x 5 m, 2005,
Brasilia, Brasil.
Pagina 11: Henrique Oliveira, Tapumes, Plywood and Pigments, 4,7 x
13,4 x 2 m, 2009, Houston, USA.
Pagina 12: Henrique Oliveira, Baitogogo, Plywood and Tree Branches,
6,74 x 11,79 x 20,76 m, 2013. Palais de Tokyo, Paris.
Pagina 13: Henrique Oliveira, Tapumes – Casa dos Leões, 2009. Porto
Alegre, Brasil.
Di lato: Excerpts from Gallery Talk, video disponibile su YouTube
13
<<<Insistenze
Insistenze>>>
ALLA FINE DELL’ABISSO
Lucio Costantini
Osservando con attenzione una tela dipinta alla fine del
Settecento da un paesaggista inglese o fiammingo, magari
uno di quelli esperti in epiche saghe marinare che narrano
le gesta eroiche di ammiragli e corsari di qualche secolo
fa, una tela che illustra la scena di una battaglia navale in
piena regola, potremmo accorgerci di un particolare apparentemente secondario al quale prima non avevamo fatto
caso. Incastonato nell’increspatura che separa un mare in
tempesta, simile a una lastra di ferro, da cieli minacciosi e
corruschi, gonfi di plumbee nuvole cariche dei più terribili
presagi, come nella spaccatura di una lastra di ferro martoriata da Efesto rabbioso, questo piccolo e quasi insignificante dettaglio, un segno appena abbozzato in punta di
pennello, sarà il nostro protagonista. Tra fischi di marinai
e sibilanti schegge infuocate, ci farà da guida nello svolgimento di questo scritto. Facendoci noi scrupolo di non
perderlo di vista, altalenante e sbalzato com’è dalle onde
e i flutti infuriati delle correnti, ascoltiamo con attenzione la
storia cha ha da raccontare.
Si tratta di una polena. Una statua lignea, intarsiata e policroma, che sorregge una lanterna. Che raffiguri una santa mistica dallo sguardo estatico, protettrice di marinai o
allegoria della potenza degli elementi e dell’invincibilità sui
mari, una sirena dai lunghi capelli dorati e un diadema
di conchiglie e stelle marine, un nerboruto tritone armato
di scudo e tridente, adesso poco importa. Nella violenza
dello scontro o sotto il colpo di una palla di cannone, la
polena si è staccata dalla prua di un veliero ed è precipitata in mare. Ora è in balia della furia di marosi inferociti, fra
muri d’acqua ghiacciata ed esplosioni di schiuma e polvere da sparo. L’aria è sferzata dal vento gelido del Nord
e improvvisi lampi di luce ne squarciano la nera e drammatica compattezza. Imprecazioni in fin di vita, grida rauche di richiamo, guerra e morte, fendono in ogni direzione
14
lo spazio saturo e congestionato che sembra contrarsi e
dilatarsi sul ponte dei galeoni. In diagonale come le traiettorie delle pallottole dei fucili, e in verticale lungo gli assi
degli alberi maestri che urlano al vento.
Lentamente la polena s’inabissa. Se ne va. Il legno saturo d’acqua, essa scende in profondità caracollando con
dolcezza e piroettando lievemente su se stessa. Sparisce
alla nostra vista, mentre su in coperta la battaglia va avanti
più sanguinosa e spietata che mai. Per adesso ne perdiamo le tracce. Va giù, sempre più giù, silenziosamente, fin
Yves Tanguy, The Great Mutation, Cut-and-pasted painted paper,
gouache, and pencil on paper, 29.1 x 21.9 cm, 1942.
Yves Tanguy, Deux fois du noir, Oil on canvas, 53.5 x 74 cm, 1941.
dove le acque si mischiano e si confondono, mutano di
colore e consistenza, dove forse non sono più acque e le
temperature non più rilevabili. Là dove la luce non è mai
penetrata, o forse c’è ma d’altra e ignota natura. Là dove
in realtà il mare non è più mare, la Terra non è più Terra
e nessuno sa, ma proprio nessuno, cosa ci sia davvero.
La polena ora è là, e a un certo punto s’incaglia nel fondo
sabbioso alla fine dell’abisso. In un silenzio assoluto. Nel
vuoto, nel nulla. Attraverso i suoi occhi, ecco quello che
vediamo.
Raymond Tanguy, conosciuto come Yves Tanguy, era
bretone. La famiglia della madre e quella del padre erano
entrambe originarie della Bretagna. Tuttavia egli era nato a
Parigi, proprio all’inizio del XX secolo, la notte dell’Epifania
del 1900, quando dalle terre d’Oriente i tre Magi giungono
a omaggiare il giro che finisce e l’Astro che rinasce. Quella
notte egli veniva alla luce in una stanza all’interno del Ministero della Marina situato in Place de la Concorde, dalle
cui finestre si potevano ammirare le belle fontane poste
al centro della piazza, ai due lati dell’obelisco, la Fontana
dei Fiumi e la Fontana dei Mari, con le vasche in marmo
e granito abitate da minacciose e anfibie divinità acquatiche. Il padre era un capitano della Marina Militare francese
e morì nel 1908 lasciando il piccolo Yves, che aveva allora
poco più di otto anni, solo con la madre. Qualche anno
più tardi Tanguy avrebbe frequentato le scuole superiori
presso il prestigioso Lycée Saint-Louis dove avrebbe incontrato Pierre Matisse, destinato a diventare l’amico più
caro. L’estate, durante il periodo delle vacanze, Yves la
trascorreva nella nativa Bretagna. Villeggiava nella località
di Locronan, nel dipartimento del Finistère, che era sia la
cittadina originaria di sua madre sia, come dice la parola
stessa, la fine della Terra. Qui non gli mancarono le occasioni per ammirare dolmen celtici e menhir, cromlech
e luoghi mistici di grande suggestione, soprattutto per un
ragazzo la cui accesa sensibilità avrebbe portato a diventare un artista di fama internazionale. I paesaggi bretoni e
gli scenari che qui s’impressero nella sua memoria, Tanguy li avrebbe poi trasferiti nei suoi dipinti. Trasfigurandoli
appena, ne riprodusse sempre le peculiarità cromatiche e
formali.
Nel 1918, a ridosso della Prima Guerra Mondiale appena
15
Insistenze>>>
conclusa, il giovane Yves decise d’imbarcarsi per qualche
anno sulle navi della Marina Mercantile francese, facendo
rotta verso l’Africa e l’America del Sud. Come in Bretagna,
anche in Africa avrebbe ammirato paesaggi rocciosi e formazioni geologiche di grande impatto visivo, destinate a
diventare l’elemento caratteristico della sua pittura. Tornato a Parigi nel 1922, poco tempo dopo partì per il servizio
militare. Trasferito di stanza a Lunéville, qui conobbe il poeta e sceneggiatore Jacques Prévert e ne divenne amico
fraterno. Nel 1924, di ritorno dalla leva, Tanguy andò a vivere con Prévert e Marcel Duhamel nell’arrondissement di
Montparnasse, al numero 54 di Rue du Château. L’anno
dopo Prévert lo avrebbe introdotto ad André Breton, il fondatore della confraternita dei Surrealisti. Ben presto il loro
appartamento si trasformò nel quartier generale del gruppo di cui l’allora venticinquenne Yves sarebbe diventato
un membro illustre. Erano gli anni poveri ma fecondi della
bohème parigina, scapigliata e zingaresca, fatta di privazioni e improvvisi lampi di fortuna. Gli anni di quella vita al
Café che gli artisti, Surrealisti compresi, non mancarono
di illustrare nelle loro opere. In realtà, stando a quanto ne
diceva lo stesso Breton, Tanguy era il più surrealista dei
Surrealisti, la quintessenza del Surrealismo. E la sua arte,
dalla paletta cromatica e i tratti formali immediatamente
riconoscibili, avrebbe avuto in seguito numerosi epigoni.
Come Roberto Matta, ad esempio, Wolfgang Paalen ed
Esteban Francés.
Una quindicina di anni più tardi, nel 1939, Tanguy conobbe a Parigi la pittrice americana Kay Sage. Il 17 agosto
dell’anno dopo i due si sposarono a Reno nel Nevada e
si trasferirono stabilmente negli Stati Uniti. Andarono ad
abitare a Woodbury, nel Connecticut. Qui vissero sino alla
fine dei loro giorni che per Tanguy arrivò con un infarto il
15 gennaio del 1955 e per sua moglie Kay otto anni dopo,
nel 1963. Il corpo del pittore fu cremato e le sue ceneri, preservate in un’urna fino alla scomparsa della Sage,
furono sparse dall’amico Pierre Matisse fra la sabbia e il
vento della spiaggia di Douarnenez, nella nativa e sempre
evocata Bretagna.
Yves Tanguy, che parlava poco e di rado e non aveva alcuna
formazione artistica in particolare, fu un pittore autodidatta. Aveva l’abitudine di lasciarsi completamente assorbire
dal dipinto al quale stava lavorando, come risucchiato dai
vortici di una corrente sottomarina, e di dipingere in uno
spazio talmente esiguo da contenerlo appena. Come la
cabina di una nave con una tela su un cavalletto al posto
dell’oblò. Gli piaceva rubare temi e titoli per le sue opere dai
manuali di psichiatria clinica, e soprattutto dalle dichiara16
<<<Insistenze
zioni dei pazienti, le povere anime in affanno degli Invisibili
di ogni epoca e società, in essi contenute. Mostrò subito
il suo talento e notevoli capacità tecniche, evidentemente
un dono di natura, tanto che già nel 1927 il suo stile aveva
raggiunto la maturità ed egli poteva allestire la sua prima
mostra personale presso la Galerie Surréaliste. L’ispirazione, e dichiarato punto di partenza, gli era venuta dai lavori
di Giorgio de Chirico, già ammirati a Parigi all’inizio degli
anni Venti, con la loro magnetica e imperscrutabile aura
metafisica, sempre sospesi fra sogno e allucinazione. Di
lì a poco Tanguy avrebbe sviluppato uno stile assolutamente personale e sempre, in qualche modo, legato agli
scenari acquatici e agli orizzonti marini delle coste bretoni.
La polena che avevamo incontrato all’inizio non esiste più.
Si è dissolta. I bei colori di cui era dipinta, l’essenza lignea
di cui era composta e gli intarsi che la decoravano, sono
definitivamente scomparsi e trasformati in altro da quello
che erano. È diventata parte dell’abisso, un mondo sottomarino che ha sembianze lunari e ultraterrene. Dune e
altopiani desertici, canyon e precipizi senza fondo, faraglioni appuntiti e crateri di vulcani spenti che risalgono a
epoche preistoriche in cui tutto, crosta terrestre e dorsali
montuose, fosse oceaniche e giacimenti minerari, doveva
ancora prendere forma e trovare il suo assetto. L’apparente equilibrio sempre in bilico fra il Tutto e il Nulla, la luce
e le tenebre primordiali. Qui ogni cosa trova il suo inizio,
la sua origine e la sua fine. Ogni storia, ogni esperienza
e forma di sapere, trovano qui l’archivio universale, sedimentate e conservate per sempre nello scrigno del Tempo. Come dobloni spagnoli del Seicento, forzieri colmi di
gemme e brillanti, file di perle che si sgranano come rosari
e pietre preziose, come coralli di fogge e dimensioni eccezionali e chiavi d’oro che aprono le porte del Paradiso
e dell’Inferno, qui tutto, come si vede nelle opere di Yves
Tanguy, può improvvisamente tornare a galla e spuntare
dalla superficie schiumosa delle onde, per esistere e riesistere all’infinito.
*[Lucio Costantini, napoletano di nascita, milanese d’adozione, classe 1968. Si avvicina alla fotografia
nell’era pre-digitale, quando realizzare una foto era un
lavoro che includeva ancora una certa dose di artigianalità e ci si formava sul campo con ore e ore di esperienza. Nel corso della sua carriera ha esplorato diversi
generi e tecniche, pubblicando per riviste importanti
come National Geographic, GQ, L’Espresso. Scrive per
passione, convinto che tra immagine e racconto esista
un sottile fil rouge.]
Pagina 16: Yves Tanguy, The Sun in its Jewel Case, Oil on canvas,
115.4 x 88.1 cm, 1937.
Pagina 17, a sinistra: Yves Tanguy, Mama, Papa Is Wounded!, Oil on
canvas, 92.1 x 73 cm, 1927.
a destra: Yves Tanguy, Time and Again, Oil on canvas, 100 x 81 cm,
1942.
Di fianco: Woodkid, I love You, video musicale disponibile su Youtube
17
<<<Insistenze
Insistenze>>>
I vortici ascendenti e discendenti di
Anish Kapoor
Helmut Schilling
Parlare di arte contemporanea oggi significa (anche) passare per alcuni nomi “obbligati” che dominano la scena.
Acclamata come geniale a suon di milioni di euro dagli
estimatori e definita “arte dell’establishment” dai detrattori, solo il Tempo e la Storia potranno stabilirne il valore.
Ad ogni modo, di fronte al lato bling-bling di taluni autori
(Koons, Hirscht), il glamour di altri (Cattelan, Pierre et Gilles) o l’approccio politico (?) di altri (Ai Wei Wei, Banksy),
per Diwali e per l’Immersione a cui siamo invitati in questa circostanza, preferiamo orientarci verso artisti a più
alto contenuto di Poesia. Non possiamo quindi non soffermarci sulla mirabile opera di Anish Kapoor (Mumbai,
1954). L’artista indiano-britannico di fama mondiale, già
vincitore del Turner Prize nel 1991 e insignito delle principali onorificenze, ci sembra di fatto l’autore più evocativo
degli ultimi decenni.
L’opera di Kapoor rientra nelle collezioni permanenti del
Moma di NYC, della Tate Modern di Londra, del Guggenheim di Bilbao e della Fondazione Prada di Milano,
tra gli altri. Notevoli sono i suoi contributi monumentali
e architettonici presenti nelle città di Chicago, Toronto,
New York, Londra nonché in Giappone e Israele. Un artista estremamente riconosciuto e apprezzato quindi, di
cui non proporremo qui una retrospettiva esaustiva, per
la quale si rimandano i lettori al volume “Anish Kapoor” di
Germano Celant per l’editore Charta.
Preferiamo invece concentrarci su alcuni lavori che meglio
si prestano ad un’Immersione evocativa e multi-sensoriale. Da sempre interessato dal rapporto forma-spazio,
Kapoor ha esplorato i concetti di centro, di equilibrio, di
percezione dello spazio e dell’immagine. Celebri sono i
suoi specchi convessi, spesso colorati, che distorcono
l’immagine fino ad annullarla. A partire dagli anni ’90 l’ar-
18
tista ha investigato il concetto di vuoto, realizzando opere
che scompaiono in pareti o pavimenti, per destabilizzare
le nostre ipotesi sul mondo fisico. Opere di impatto visivo immediato pur nella loro astrattezza: siamo di fronte al
dialogo irrisolto tra presenza e assenza, materia e sensazione, solidità e intangibilità. Kapoor ha dichiarato: “Sono
molto interessato al non-oggetto o il non-materiale. Ho
fatto oggetti in cui le cose non sono quello che in un pri-
mo momento sembrano essere. Una pietra può perdere
il suo peso o un oggetto in modo speculare può mimetizzarsi nei suoi dintorni da apparire come un buco nello
spazio”.
Proprio in questo contesto, nell’indagine sull’immateriale
e sul vuoto che prende corpo, proponiamo qui un’analisi
più dettagliata delle due opere in dialogo “Ascension” e
“Descension”, che in maniera speculare ma egualmente
efficace catturano lo sguardo dell’osservatore e lo convogliano in una dimensione quasi ascetica fuori dal tempo.
Osserviamo dapprima Ascension, un’installazione sitospecifica del 2003, presentata in Italia presso la Galleria
Continua ed in seguito nel 2011 presso la Basilica di San
Giorgio Maggiore a Venezia. Una versione alternativa in
rosso è stata esposta al Guggenheim di NYC nel 2010.
La sua notorietà resta comunque legata alla collocazione
a San Giorgio in occasione della biennale.
https://www.youtube.com/watch?v=67MNFmjcVxs
L’opera esplora l’aspetto transiente del fumo, una materia intrinsecamente effimera e intangibile, che qui si fa
colonna ascendente e poderosa. Una spirale che si erge
verso l’alto, e in questo senso la collocazione all’interno di
una basilica cristiana contribuisce a caricarla di significati. Potrebbe ricordare di fatto anche l’incenso consumato
durante le cerimonie che in una scia lenta e continua fuoriesce dai bruciatori.
La colonna si erge da una base circolare posta all’intersezione tra il transetto e la navata centrale, con quattro pannelli ai lati e le ventole che determinano la salita del fumo
verso la cupola della chiesa. Impossibile dunque non pensare al Cristo al momento della sua salita al cielo. Questa
non è tuttavia un’opera di matrice prettamente cristiana,
e al posto del Cristo potremmo immaginare qualsiasi forma di “spirito”, anche pagano, nell’atto di trasfigurarsi ed
elevarsi al sovraumano.
Un imponente impianto minimalista (sono bastate una sorgente di fumo come quelle del teatro e delle ventole) per
un impatto massimalista che interpella il sentire spirituale
dello spettatore.
A proposito di questo lavoro Kapoor ha precisato che “nella mia opera ciò e ciò che appare si confondono spesso.
In Ascension, ad esempio, quello che mi interessa è l’idea
dell’immateriale che diventa un oggetto, ed è esattamente ciò che accade: il fumo diventa una colonna. C’è anche
Sotto: Anish Kapoor, Ascension, Museo Guggenheim, NYC, 2010.
Pagina 19: Ascension, Basilica di San Giorgio Maggiore, Venezia, 2011.
I video delle due installazioni sono disponibili su Youtube per gentile concessione di Galleria Continua
19
Insistenze>>>
un richiamo alla figura di Mosé, che segue una colonna di
fumo, una colonna di luce, nel deserto…”
Un’opera meditativa, da osservare a lungo (per quanti ne
abbiano avuto l’occasione), seduti sui marmi della basilica ad ammirare questa continua eruzione discreta di un
corpo ectoplasmatico, un’essenza divina fatta di semplicità e tensione.
In Descension, del 2014, ripresentata quest’anno in occasione della Notte Bianca di Parigi direttamente nella
Senna e visibile dal Pont Neuf, osserviamo un moto opposto, una discesa vorticosa che ci avviluppa e non lascia
scampo.
Un gorgo di acqua scura, verosimilmente marina, che convoglia al suo centro le nostre paure, vulnerabilità, i pensieri
più intimi e reconditi che respingiamo. Tutto si convoglia in
questo turbine, che è concettualmente semplice, perché
una spirale d’acqua rientra decisamente nelle immagini
che tutti conosciamo. Cionondimeno questo vortice si fa
densissimo, ipnoticamente attrattivo, carico di un vuoto
che ci spaventa e ci richiama (horror vacui) come sul precipizio di un burrone.
20
<<<Insistenze
https://www.youtube.com/watch?v=3TLBVOVkOxk
Anche in questo caso l’opera è ingegneristicamente semplice: si tratta di un bacino d’acciaio riempito d’acqua e
dotato di un motore idraulico che crea il movimento. In
questa versione l’opera è stata presentata in India alla
biennale Kochi-Muziris, in seguito presso Galleria Continua a San Gimignano e infine a Versailles. Diverso invece
l’allestimento realizzato quest’anno a Parigi per la Notte
Bianca: in questo caso sono state agitate direttamente le
acque della Senna, con l’ausilio del comune e della polizia
fluviale.
Osservare l’opera da una posizione sopraelevata ha contribuito, a detta degli spettatori, a questa tensione verso
l’ignoto, ovvero a compiere il salto, metaforico si intende,
nel vortice.
A proposito di questa realizzazione l’autore ha dichiarato:
“Per tutta la mia vita ho riflettuto e lavorato sull’idea che
ci sia molto più spazio di quello che possiamo vedere, ci
sono gli spazi vuoti, c’è un orizzonte più vasto. La cosa
ambigua del rimuovere il contenuto, nel creare spazio, è
che tutti noi, come essere umani, siamo disturbati dall’as-
senza di contenuto. È l’horror vacui, il pensiero platonico
che soggiace al mito della caverna, dalla quale gli uomini guardano verso l’esterno. Ma c’è anche un’immagine
freudiana di senso opposto, quella del retro della caverna,
che rappresenta il lato oscuro e vuoto dell’essere. Il più
grande poeta italiano, Dante, si è avventurato in un luogo
simile, lo spazio del vuoto, che paradossalmente è pieno,
di paure e di oscurità. Sia che lo si rappresenti con uno
specchio, o con una forma scura, è sempre il “retro” il
punto che attrae il mio interesse e stimola la mia creatività.”
Due opere antagoniste e sorelle, due lati della ricerca sui
concetti di presenza e assenza, di elevazione al divino e
discesa agli inferi, in un percorso ai limiti della psicanalisi
e della spiritualità.
Due opere che ci coinvolgono emotivamente, ci fanno “immergere” nel nostro “io” collettivo e individuale e ci mettono a confronto con gli interrogativi primari dell’uomo.
Anish Kapoor ha colpito nel segno, ha toccato il profondo
degli spettatori, riaffermando ancora una volta da maestro
il potere dell’Arte, nella sua semplicità fatta di complessità.
*[Helmut Schilling nasce a Salisburgo da padre austriaco e madre italiana. Trasferitosi a Lugano per motivi di studio, si occupa come ricercatore di estetica del
linguaggio. Pubblica il suo primo saggio ‘La vocazione
cubista del tu’ a venticinque anni e prosegue nella propria carriera accademica per i successivi dieci anni. A
volte affaticato dall’universo delle parole, evade nelle
potenzialità del gesto: la recitazione e la scultura del
bronzo come necessità fisiche di rappresentazioni
visive e materiche.]
Pagina 20: Anish Kapoor, Descension, Galleria Continua, San Gimignano, Siena, 2014.
Sotto: Descension, Pont Neuf, Parigi, 2016.
21
<<<Insistenze
Insistenze>>>
LA NASCITA DELL’OTTAVA ARTE:
SONO I FOTOGRAFI I NUOVI PITTORI?
cristina la bella
“Da oggi la pittura è morta”1, così il ritrattista Paul Delaroche commentò la nascita di quell’invenzione che avrebbe
cambiato radicalmente il mondo dell’arte: la fotografia2.
È il 19 agosto 1839: a Parigi lo scienziato François Arago presenta il dagherrotipo3, realizzato da Louis Jacques
Mandè Daguerre e ideato da Joseph Nicephore Nièpce,
davanti ai membri riuniti de l’Académie des Sciences e
dell’Académie des Beaux Arts. Se la maggior parte dei
pittori del XIX secolo accolse la novità con scetticismo,
memorabili le parole del caricaturista Daumier: la fotografia imita tutto e non esprime nulla o quelle del noto pittore
Paul Gauguin: sono lontano dal pensare che la fotografia
possa esserci utile; quella più acuta vide in essa una tecnica efficace e assai più economica per catturare le immagini.
Venne subito apprezzata da giornalisti e storici, basti pensare che già nel 1841 Frederick Catherwood fece riprese
nello Yucatán, così come l’inglese Roger Fenton ci ha lasciato alcune foto della guerra di Crimea. Ma nel rapporto
con la pittura la strada fu certamente più in salita; bisognerà, infatti, aspettare il dadaismo e il surrealismo, perché alla fotografia sia riconosciuto il suo giusto potenziale,
nonché intrinseca autonomia. Considerata agli inizi come
l’ultima ancella delle arti, essa fu utilizzata soltanto come
base di ispirazione per i più noti pittori dell’Ottocento. Ad
esempio il parigino Eugène Durieu fece molti scatti di nudi
per Delacroix, parimenti Ingres e Courbet, i quali usarono
le fotografie come modelli per i loro dipinti. Celebre è una
litografia, che trae spunto da una foto scattata da Nadar,
realizzata da Manet per Baudelaire, che si era mostrato
ostile verso la nuova arte, dopo aver partecipato ad una
delle primissime mostre fotografiche, tenutasi nel 1859
agli Champs-Élysées, affermando che la fotografia aveva
contribuito all’immiserimento del genio artistico francese,
22
già tanto raro. Sempre nella stessa recensione pubblicata
nel ‘59 il poeta maledetto scriveva: “Se si permette alla
fotografia di sostituire l’arte, essa l’avrà ben presto soppiantata o corrotta completamente, grazie alla naturale alleanza che troverà nella scempiaggine della moltitudine”.
Chissà quanto avrebbe riso Baudelaire nel vedere oggi
come si sentano fotografi quelli che hanno più di mille
seguaci su Instagram o che scattano al giorno una sessantina di foto con una reflex appena acquistata, avendo
scambiato il proprio bagno per un set pubblicitario. Certo nessuno potrebbe biasimare l’autore de Les Fleurs du
mal4: il nuovo spaventa sempre, preoccupa soprattutto chi
è dell’avviso che il mondo, invecchiando, peggiori. Eppure, a Baudelaire, che considerava la democrazia qualcosa
di sopravvalutato, anticipando così Frank Underwood, il
protagonista della serie tv House of Cards, replico che
adesso la fotografia non soltanto non è più un’umile serva
della pittura, né una sua naturale continuazione, ma una
nuova arte capace di raccontare poeticamente l’invisibile.
“Non mi sono mai chiesto perché scattassi delle foto. In
realtà la mia è una battaglia disperata contro l’idea che
siamo tutti destinati a scomparire. Sono deciso ad impedire al tempo di scorrere. È pura follia” – sono queste le
parole con cui Robert Doisneau spiegava la sua innata
passione.
Passeggiando per le vie di Roma, accanto ai turisti che
consumano con i loro flash l’incantevole panorama del
Gianicolo o ai cinesi più attrezzati, che camminano tenendo in mano il bastone del selfie, oggetto più venduto del
2015, il che la dice lunga sulle condizioni del nostro mondo, non è difficile trovare una galleria fotografica entro cui
perdersi. L’Italia è piena di tesori nascosti, benché l’arte
sia, probabilmente, la Cenerentola dei finanziamenti mai
stanziati dalla classe dirigente. Perché è vero che di mac-
Fotografia di Piergiorgio Pirrone
chine fotografiche ne è pieno il mondo, ma è il talento,
unito alla sensibilità, a fare la differenza. Il successo del
digitale ha inavvertitamente decretato la morte della fotografia d’autore, proprio come il telecomando ha sancito
quella del cinema e internet quella del buon giornalismo.
Quanti, infatti, avrebbero consumato un intero rullino soltanto per scattare una foto al cibo, che stavano mangiando? Quante foto di bagni pubblici ci saremmo risparmiati,
se i cellulari non avessero avuto la fotocamera? Quante
aspiranti modelle e presuntuosi fotografi nuotano nel web,
senza purtroppo affogare? Ma non è dei paparazzi del
piatto che voglio parlare, ma di quella che è stata definita
come la capacità di riprodurre all’infinito ciò che ha avuto
luogo una sola volta, della più gratificante forma d’arte,
così grande da comunicare emozioni, di quel solo strumento capace di lottare contro una realtà, in cui si ha a
che fare con cose che continuamente svaniscono, si dissolvono e si perdono.
La fotografia è tutto questo insieme: folgorazione, genialità
e intelligenza. “Non esiste la fotografia artistica. Nella fotografia esistono, come in tutte le cose, delle persone che
sanno vedere e altre che non sanno nemmeno guardare”5.
Un’idea spontanea, ma non facile. Sembra un paradosso,
eppure, come in tutte le arti, la cosa più difficile è restare
semplici. Per questo sarebbe bello introdurre nelle scuole
la fotografia come mezzo espressivo, sarebbe produttivo
consentire ad un bambino di rispondere alla traccia di un
tema in classe con una foto; sarebbe un’incommensurabile forma di libertà. Non solo perché nessun’altra tecnica
è più vicina al disegno, ma proprio perché la fotografia è
veloce e molto spesso arriva dove le parole non servono
più. È innegabile che sta sulle spalle dei giganti il fotografo
che dispone di quell’arma innocua, ma vincente, chiamata
immediatezza, vale a dire della tempestività di imprigionare il momento. Qualcuno ribatterà che l’occasione nasce
dal caso, ma è pur vero che la fortuna un uomo deve saperla con pazienza costruire. Ed è per questa subitaneità
che il fotografo è simile al bambino, e non dimentichiamoci che quest’ultimo è il parente più stretto dell’artista.
Tenendo la demagogia fuori da queste poche righe, non si
può certamente non guardare alla fotografia come ad un
spassoso giocattolo, ma ancor di più, come ad un poten23
Insistenze>>>
<<<Insistenze
te modo per entrare in competizione con il tempo, eterno
rivale con cui l’individuo si misura. E voglio parlare anche
di chi ha studiato per fare del suo sogno un mestiere, di
chi quotidianamente ha deciso di documentare qualsiasi
dettaglio con rapidità e precisione, di chi ha scritto la storia della fotografia: Ansel Adams (1902-1984) ad esempio,
tra i primi a dedicarsi alle foto paesaggistiche, Bill Brandt
(1904-1983), assistente di Man-Ray e poliedrico artista,
dapprima surrealista, in seguito reporter di guerra, Brassaï
(1899- 1984), innovativo fotografo che seppe coniugare
giornalismo e fotografia, raccontando la vita notturna dei
sobborghi parigini; sino ai moderni Elliott Erwitt (1928),
che, dotato di uno spiccato senso dell’humor, riesce a
realizzare scatti sorprendenti, in cui la casualità sembra
agire da mano invisibile e l’ironia esserne il suo elegante guanto e Gianni Berengo Gardin (1930), amante degli
scatti in bianco e nero e attento alla geometria dell’inquadratura e della sua composizione; senza dimenticare l’intramontabile Henri Cartier-Bresson, scomparso nel 2004,
che dopo aver iniziato come pittore e allievo di J. Renoir,
è stato fra i fondatori della Magnum-Photo con Capa e
Seymour, ed è stato autore di servizi di fotogiornalismo
documentaristico da tutto il mondo. Accanto a loro non
posso non citare uno dei più affermati fotografi contemporanei del nostro paese: Piergiorgio Pirrone, classe
1976. Si laurea in legge nel 2003, ma capisce che la fotografia è la sua strada. Inizia così a collaborare con l’agenzia fotografica Team, dove ha la possibilità di crescere
professionalmente. Perché, certamente, un campo fertile
è da preferirsi ad uno sterile, ma se non coltivato, diventa una cosa improduttiva come tante altre. Seguono poi
molti progetti con numerosi brands italiani e stranieri con
il settore Margophoto dell’agenzia Margo, da lui fondata
nel 2007, con la socia Martina Venettoni. Rilevante la sua
campagna sociale “194 Non toccarla”, portata avanti con
l’intento di difendere la legge sull’interruzione volontaria di
gravidanza, perché arte vuol dire anche impegno. I suoi
scatti sono apparsi su importanti riviste italiane come Ai-
Fotografia di Piergiorgio Pirrone
24
rone, Focus e Marcopolo; senza contare le pubblicazioni
per quotidiani quali La Repubblica o Wall Street Journal.
Accanto alle innumerevoli mostre nazionali e internazionali, Pirrone è fotografo ufficiale dei maggiori festival di cinematografia, tra cui Cannes e Venezia. Non dimentichiamo,
infatti, che la settima arte nasce come fotografia in movimento. Anche molti ritrattisti del ‘900 ci hanno raccontato
l’altra faccia del cinema, quella fatta di passerelle, attese,
abiti, luci e stelle. Perché senza fotografia non c’è magia
e senza riflettori l’attore non esiste. Si pensi soltanto a
Marcello Geppetti, spesso ricordato come il paparazzo di
Via Veneto nel ‘60, che ha immortalato centinaia di dive,
tra cui Brigitte Bardot, della quale in seguito, sul set de
Il disprezzo di Luc Godard, colse il primo nudo; e Arturo
Zavattini, che ebbe il merito di fotografare i retroscena di
molte pellicole memorabili, come La dolce vita di Federico Fellini. Ereditando il tempismo del primo e la genialità
del secondo, nel 2011 Piergiorgio Pirrone trionfa al Venice
Movie Stars Photography Award, aggiudicandosi il primo
premio.
“Vincere è stato gratificante, una soddisfazione enorme.
Noi, fotografi, lavoriamo, per lo più, dietro le quinte. La
gente a noi non pensa, non guarda nemmeno ai truccatori, costumisti o sceneggiatori, a dire il vero. La fotografia
non è spesso riconosciuta come arte, soprattutto in Italia. Si fa sempre una gran fatica! Quello del fotografo è un
mestiere meraviglioso, a mio avviso il più bello del mondo,
ma è innegabile che venga spesso bistrattato ... Probabilmente, perché i più la considerano una tecnica facile, che
non richiede chissà quali competenze, doti e abilità.
Quando arrivano riconoscimenti del genere, naturalmente si dimenticano le difficoltà e si continua con passione”.
Così il fotografo romano ha commentato la gioia di aver
ottenuto uno dei massimi riconoscimenti italiani e quando
gli ho chiesto l’occasione di quello scatto, mi ha spiegato:
“Per il fotografo come per l’atleta, il tempo è l’eterno rivale
da battere. È avvenuto tutto in un secondo, come del resto
succede sempre nella fotografia. Quel secondo ha avuto
Piergiorgio Pirrone, dalla serie Places of Memory
25
Insistenze>>>
<<<Insistenze
in sé una serie di coincidenze, che meritavano di essere
catturate. Difficile da spiegare, ma è davvero una miscela
esplosiva e il fotografo non può far altro che concentrare
tutto in un click. Eravamo al Lido di Venezia sul lungomare,
Vittoria Puccini stava giocando a posare con noi fotografi, durante lo shooting d’apertura, perché madrina della
Mostra. Una congiuntura favorevole: un misto di fortuna e
razionalità da parte mia, un’unione di magia ed eleganza
da parte dell’attrice. A quell’intensissimo secondo devo
moltissimo!”. Riguardo l’arte, a cui ha deciso di dedicare
l’esistenza, ha detto: “La fotografia è la più affascinante
attività illecita che si possa immaginare: furti più o meno
premeditati, misfatti acuti, reati innocenti, di cui si macchia
continuamente il fotografo, il quale abusivamente prende
possesso degli attimi che il mondo a lui propone per poi
restituirli un istante dopo arricchiti della sua stessa personale impronta. E così, da questa istintiva e singolare trasgressione prende forma un’espressione nuova, talvolta
semplice e immediata, talora misteriosa, inattesa, criptica
addirittura, ma capace di rivolgersi a chiunque. La fotografia è universale ed è proprio la sua peculiare ambiguità, a renderla lo strumento di comunicazione più potente.
Con le lingue si corre il rischio di non capirsi, con l’arte
soltanto quello di confrontarsi. Chiunque secondo la propria sensibilità, delicatezza e percorso di vita può farsene
interprete. La fotografia è genialità, splendido equilibrio di
ragione e sregolatezza, sperimentazione e ricerca. Potrei
azzardare dicendo che il fotografo è un funambolo, che ha
a che fare con questo circo sorprendente, che è la vita”.
Come diceva la scrittrice di gialli Agatha Christie: “Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre
indizi fanno una prova”, sono sicura che alla terza foto di
Piergiorgio, avrete la “prova” che davvero i fotografi sono
i poeti per immagini dei giorni nostri. Alla faccia di Baudelaire che non c’avrebbe scommesso neanche un franco.
Piergiorgio Pirrone, dalla serie Europe - Bruges
26
Note:
1) MIRZOEFF NICHOLAS, Introduzione alla cultura visuale, Bo-
*[Cristina La Bella nasce a Frosinone nel 1991. Lau-
oklet Milano, 2005.
reata in Lettere Moderne all’università La Sapienza di
2) Tutte le fotografie presenti nel seguente saggio sono state
Roma, frequenta attualmente il corso di Filologia Mo-
scattate da Piergiorgio Pirrone.
derna. Collabora dal 2013 con Prima Pagina on line
3) Si tratta del primo processo fotografico rudimentale, capace
e scrive su Euterpe Rivista. Lo scorso settembre ha
di creare una copia non riproducibile, su supporto in argento o
rame sensibilizzato, in camera oscura, mediante esposizione a
vapori di sodio. I tempi di esposizione erano abbastanza lunghi e
fondato assieme a due colleghi il blog Voci di Fondo.
Ha partecipato ad alcuni concorsi letterari internazio-
variavano da un minimo di quindici minuti fino a tre quarti d’ora.
nali come “Si te grata quies” e “Franco Marasca” ed è
4) I fiori del male (Les Fleurs du Mal) è una raccolta lirica di Char-
arrivata tra i finalisti di “Campiello Giovani 2008” e del
les Baudelaire (1821-1867), pubblicata il 25 giugno 1857, presso
“XXVI Concorso nazionale letterario Giuseppe Gioachi-
l’Editore Auguste Poulet-Malassis, in una tiratura di 1300 esem-
no Belli”. Col presente saggio sulla fotografia ha vinto
plari. È costituita da 100 liriche divise in sei sezioni: Spleen et
una menzione d’onore al Premio Poetikanten 2016. Ol-
ideal,Tableaux parisiens, Les Fleurs du Mal, Révolte, Le vin e La
tre che dalla letteratura, è affascinata dal cinema, dalla
mort.
fotografia e dal mondo del giornalismo.]
4) CIT. Nadar, pseudonimo di Gaspard-Félix Tournachon (1820 –
1910), fotografo, scrittore e caricaturista francese.
Piergiorgio Pirrone, dalla serie Subways
27
<<<Insistenze
Insistenze>>>
PLANCTON MECCANICO
Gioele Marchis
L’opera che qui presentiamo è un’installazione murale realizzata per mezzo di strutture metalliche, cartone e fili di
cotone. S’intitola Mécaniques Discursives e nasce in Belgio, a Bruxelles, nel 2011. È il frutto dell’azione congiunta
di due competenze artistiche distinte, per questa occasione associate a dare vita a un’unica e ispirata sinergia
creativa. Esito della collaborazione sperimentale di due
diverse discipline, l’opera in oggetto rappresenta un’interessante e innovativa miscela, una sorta di efficace ibrido
artistico, ben congegnato e d’ipnotico impatto visivo. A
comporla vi sono da una parte le litografie in bianco e nero
o silhouette realizzate dall’incisore belga Frédéric Penelle,
dall’altra le proiezioni video del videoartista svizzero Yannick Jacquet, conosciuto anche come Legoman. Si tratta dunque di tecniche e media espressivi apparentemente senza punti in comune, distanti nel tempo come nelle
pratiche di realizzazione. Quest’opera ne costituisce una
fortunata sintesi e, operando una contrazione del Tempo,
svolge anche la difficile funzione di sutura fra secoli così
lontani l’uno dall’altro. Il Quattrocento dell’invenzione della
stampa a caratteri mobili per opera del tedesco Johannes
Gutenberg, e il nostro XXI, dominato dalle innovazioni elettroniche legate al dominio digitale dei numeri, delle telecomunicazioni e della tecnologia informatica. In Mécaniques
Discursives il Rinascimento incontra l’epoca del Big Data,
dove per Big Data s’intende una sconfinata raccolta di informazioni e dati elettronici che viaggiano in continuazione
attraverso Internet alla velocità della luce.
Ciò che appare ai nostri occhi è un grande affresco cinetico. Un fregio istoriato e semovente in due dimensioni, fatto di figure in bianco e nero, le litografie di Penelle. Impulsi
vettoriali e luminosi che si spostano da una parte all’altra,
cursori intermittenti e segnali elettronici, sonar e piccoli allarmi, lievi effetti sonori che si percepiscono appena,
28
minute proiezioni video disseminate ovunque all’interno
dell’opera, costituiscono invece l’apporto di Jacquet. La
prima immagine che viene in mente è quella di un laboratorio in fase di sperimentazione, o una fabbrica nel fervore
della sua attività produttiva. Una serie di ingranaggi interconnessi che si muovono e lavorano, autoalimentandosi
e basandosi sul principio fondamentale della reazione a
catena. O meglio, Mécaniques Discursives sembra l’interno di un grande orologio ottocentesco, installato al centro
di un edificio industriale di cui scandisce orari, ritmi e turni
di lavoro. Forse si tratta della progettazione di una bomba
Tutte le immagini presentate in questo articolo sono tratte da Mécaniques Discoursives di Frédéric Penelle e Yannick Jacquet.
a orologeria, pronta a esplodere in qualsiasi momento e
alla cui messa a punto stanno provvedendo i tanti piccoli
operai che vediamo, ognuno affaccendato nell’adempimento della sua mansione. O è al contrario il dispositivo di
un innocuo e poetico carillon, il cui funzionamento evoca
la ciclicità dell’infinito e sprigiona un’influenza nostalgica
ed evocativa come la cantilena di un bambino? Sia come
sia, è al Charlie Chaplin di Tempi Moderni che pensiamo
poco dopo, imprigionato nella catena di montaggio della
fabbrica in cui lavora, e perso all’interno dei meccanismi
di produzione senza requie della società contemporanea
di cui incarna la tragicomica caricatura. La sua del 1936
come la nostra del 2016.
In questo senso, con la loro opera multimediale Penelle e
Jacquet intendono proporre il tema della lentezza e della
pausa, la sospensione temporale intesa come necessario
momento di sosta e riflessione ricreativa. Per il recupero
di una dimensione sensibile e contemplativa della realtà,
e di una rigenerante sospensione dal ritmo frenetico del
nostro vivere quotidiano. Mentre offrono un ritratto convincente della società globalizzata nella quale viviamo,
magari un po’ cinico e feroce come suggeriscono le figure incise di Fred Penelle, i due artisti sollevano dubbi sul
progresso umano in costante e rapida accelerazione, sulla vanità scientifica e le prepotenze meccaniche, percepiti
come esiti incerti delle nostre spesso azzardate e rischiose manipolazioni. Come riflesso di un’improbabile ma verosimile industria universale, la fabbrica umana di Penelle
e Jacquet si fa allora mitologia contemporanea, eterna e
contingente allo stesso tempo. Ponendolo al centro della
sua indagine, Mécaniques Discursives fa del nostro rapporto quotidiano col Tempo e la tecnologia, ormai assurti
al livello di tecnocrazia e tempo tecnologico, l’oggetto in
questione. Un elemento che genera dubbi e perplessità,
poiché è il significato stesso del Tutto che alla fine rischiamo di perdere di vista, trasformato com’è da un eccesso
semantico di segni e informazioni in paradossale nonsense finale.
La naturale conclusione alla quale siamo giunti a seguito
di questa breve analisi dell’opera è che qui tutto fa riferimento al Tempo. Con i suoi ritmi, le scadenze e le infinite
attività, le tante storie che s’intrecciano l’una all’altra in29
Insistenze>>>
fluenzandosi reciprocamente, il Tempo costituisce dunque
il vero argomento attorno al quale si sviluppa la poetica di
Mécaniques Discursives. Si tratta tuttavia di un tempo decomposto o decostruito. A voler essere più radicali, quello qui rappresentato è un tempo esploso in mille pezzi.
Frammenti e brandelli, briciole e frantumi di una narrazione ormai sghemba e un tempo perduto che non tornerà
più. Le schegge impazzite e volate via, eppure ancora immerse in occupazioni divenute inutili e vuote. I coriandoli
di una società che ha fatto il giro completo e ha raggiunto
il punto di saturazione. Una comunità di soggetti all’apparenza sconosciuti e lontani ma in realtà interconnessi l’uno
all’altro, e che adesso si ritrovano incantati, come sospesi
in una sorta di loop spazio-temporale, a fare i conti con la
vanità e l’autoreferenzialità nella quale sono caduti. Come
una palude, un plancton meccanico.
Neanche si trattasse della partitura di un brano musicale,
per esempio Il Mare di Claude Debussy, col disegno di
crome e biscrome che la identifica, Mécaniques Discursives fa pensare a un codice crittografico e alla stesura di
una carta geografica, irta di segni e riferimenti spaziali. La
<<<Insistenze
mappa per il rinvenimento di un antico bottino, forse precipitato in mare e giunto alla fine di un abisso, forse seppellito in un’isola deserta le cui coordinate soltanto vecchi e consumati pirati ricordano ancora. Che si tratti della
partitura di un canto di sirene, la mappa di una caccia al
tesoro degna di un racconto di Robert Louis Stevenson,
o la rappresentazione animata di una rete da pesca con
il prodotto di una giornata di lavoro che essa contiene,
l’opera di Penelle e Jacquet esercita un fascino ipnotico
sugli spettatori e ha già riscosso un grande successo in
tutta Europa. A soli cinque anni di vita è già stata premiata
alla Slick Art Fair di Parigi e alla Settimana del Design di
Milano.
Frédéric Penelle nasce a Bruxelles nel 1973. È principalmente un incisore ma anche disegnatore, illustratore, caricaturista, animatore, grafico, scenografo e curatore di
mostre ed esposizioni. Insegna litografia presso l’École
des Arts di Ixelles, e tecniche d’incisione all’ENSAV La
Cambre, di cui è stato a sua volta studente. Il suo sito Internet è www.penelle.be
Yannick Jacquet, conosciuto anche come Legoman, na-
sce nel 1980 in Svizzera, a Ginevra, ma vive e lavora a
Bruxelles. Illustratore e grafico di formazione, si è subito
votato all’immagine animata e alla realizzazione di video.
Come quella di Penelle, anche la sua ricerca è caratterizzata dalla precisa volontà di far uscire la disciplina di cui si
occupa dai confini tradizionali e gli impieghi canonici che
le vengono solitamente attribuiti, per conferirle una dimensione più ampia e allargata. Nella fattispecie, con la sua
arte Yannick Jacquet mira a inserire il video nello spazio,
a dargli cioè un’inedita connotazione tridimensionale. Si
dedica soprattutto alla creazione di performance audiovisive, installazioni e scenografie, e il suo lavoro è spesso
influenzato da tematiche legate all’architettura. Il suo sito
Internet è www.legoman.net
Fra gli artisti ai quali Penelle e Jacquet si sono ispirati nella
realizzazione di Mécaniques Discursives, spiccano i nomi
della scultrice belga Berlinde De Bruyckere, con la sua
ricerca sulle mutazioni del corpo e della materia vivente,
e dello svizzero Jean Tinguely, anch’egli scultore. Questi,
negli ultimi anni della sua vita, si dedicò alla creazione di
grottesche sculture composite, quasi personificazioni di
incubi e allucinazioni, costituite dagli oggetti più disparati
assemblati insieme. Con l’aggiunta di un piccolo motore elettrico, queste creature fondamentalmente statiche e
immobili si trasformavano in opere d’arte animate. Attraverso l’emissione di gemiti soprannaturali e sinistri scricchiolii, ruote e ingranaggi si mettevano lentamente in moto
conferendo alle strane sculture meccaniche una sorta di
bagliore animale e parvenza di vita. Divenuto famoso nella storia dell’arte anche per la sua ironica risata luciferina,
negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso Jean
Tinguely realizzò macchine semoventi, commestibili e musicali. Ma soprattutto, il motivo che rende possibile accostare Mécaniques Discursives alla sua opera è che fu
il padre di questi inquietanti automi meccanici, progettati
per mettere in scena la loro performance, fare un piccolo
giro, e poi autodistruggersi.
Di lato, il duo di artisti di fronte all’opera ultimata.
Sopra: Mécaniques Discoursives, short documentary, disponibile su Youtube
*[Gioele Marchis (1977) nasce a Torino e si trasferisce
a Londra appena ventenne, come molti coetanei, con
l’idea di trascorrerci un’estate o poco di più. La città
diventa la sua nuova ‘casa’ e lo spinge ad iscriversi alla
Central Saint Martins School, diventata negli anni la più
affermata fucina di nuovi talenti. Industrial Designer di
professione, è fortemente attratto dalla ricerca sui materiali e dal connubio del “vecchio” con il “nuovo”. Collabora con diverse riviste di settore.]
30
31
Inverso>>>
francesco di giorgio
Per saltare sopra la propria ombra…
Come tracciare il confine tra lo spazio degli immersi e quello dei sommersi?
Questa l’interrogazione che apre la ricerca artistica di questo ultimo numero della nostra
La dimensione centrale intorno alla quale si articola e sviluppa la poesia di Francesco Di Giorgio è quel-
Rivista. Questo il compito che grava da sempre la parola della poesia dato che la poesia
la della “soglia” (come evidenziato dai testi qui presentati). E per soglia intendiamo quel limite più incerto
costituisce l’esperienza più essenziale del linguaggio. Una parola carica di “ombra”, che
e sfuggente (ponte, confine, buio limitare…) dove approda la parola poetica oscillando pericolosamente
porta in sé silenzio ed infinito. Una parola che, come ci chiarisce Heidegger, non è segno ma
sul vuoto della presenza e della significazione. Una zona liminare, tra il vuoto e il pieno, l’essere e il tempo,
“cenno” e dunque ha bisogno di “un campo di oscillazione amplissimo (…) nel quale i mortali
l’ombra e la chiarità, e dove si annuncia una nuova visione, un evento che sfida continuamente logica e ra-
si muovono in un senso e nell’altro…” e la soglia, il limen, quella porta sensoriale oltre la quale
zionalità.
vediamo o percepiamo un al di là del mondo, della poesia, del linguaggio e del senso.
[Letizia Leone]
Tra i massimi poeti contemporanei dell’attraversamento è lo svedese Kjell Espmark (1930).
L’ultimo libro “La Creazione” pubblicato in Italia nella traduzione di Enrico Tiozzo, Aracne
Editrice, 2016 con una prefazione di Giorgio Linguaglossa esemplifica la forza della grande
poesia nel sondare e aprire nuove prospettive elaborando continuamente quel sentimento
FANTASMI
dell’inesprimibile del quale ci ha parlato Wittgenstein.
Scrive per l’appunto Linguaglossa nel suo continuo definire, abbozzare e denunciare la
fisionomia del poeta del “Dopo il Moderno”: “Le «ombre» commerciano con i vivi. Ci sono
molte «ombre» in queste poesie, e noi non sappiamo chi sia più vivo, se le «ombre» o i vivi:
Trovai sì l’ombra del mio amato
ma brancicò sopra di me senza riconoscermi.
Nell’afa notturna livida di luna
Gonfi di vento caldo
Aggrappati alla carena
Vapori saturi ribollono
Decisi scalano la scotta.
Allora passai la goccia di sangue sulle sue labbra,
l’ombreggiatura più scura che erano le sue labbra,
e lui stupìQuesto «passaggio» tra le «ombre» è un Um-Weg, una via indiretta, contorta, ricca di
andirivieni, di anfratti. Ma percorrere un Umweg per raggiungere un luogo non significa girarvi
attorno invano – Umweg non è Irrweg (falsa strada) e nemmeno Holzweg (sentiero che si
Immoto il battello all’orizzonte
Lampeggia di ectoplasmi
Lattiginosi fluorescenti
Che danzano sul ponte
Mano nella mano un girotondo.
interrompe nel bosco) – ma significa compiere una innumerevole quantità di strade, perché
la «dritta via» è impenetrabile, smarrita e, come scriveva Wittgenstein, «permanentemente
chiusa». Non v’è alcuna strada, maestosa e tranquilla, come nell’epos omerico e ancora in
Hölderlin e in Leopardi, che sin da subito mostri la «casa», il luogo dal quale direttamente
partire per ritrovare la patria da dove gli dèi sono fuggiti per sempre.”
Questa la forza straniante di certi versi con i quali è necessario confrontarsi nella ricerca di
È stato faticoso ricucire il volto
Per darci un ultimo saluto
Mentre la luna con scatto di lampreda
S’immerge a ridonar la notte
Che nel suo nero sudario ci avviluppa.
una parola poetica deviante come mostrano i poeti esposti in questo numero.
Letizia Leone
32
(Da “A ricercare Dice”, Lepisma Edizioni, Roma,
2014)
Tutte le immagini presentate in questa sezione sono Mirrors di Anish Kapoor, visti dagli spettatori in giro per il mondo
33
helena caruso
TALORA SOSTAVAMO SOPRA IL
PONTE
Una sfida allegorica sembra di leggere in queste parole tra un insetto ed una creatura marina o che aspira
a divenirlo. Per superare gli abissi delle nostre paure, gli antri oscuri, ed imparare da essi, non basta osservarli dall’alto e, come odierni Narciso, poggiarsi delicatamente sulla loro fragile superficie, con la leggenea, passarci attraverso e risalire solo alla fine verso la luce, con la consapevolezza di avere acquisito una
E così se ne vanno
e te ne vai con loro
con un ricordo stampato
in un sogno in chiaro-scuro.
forza che rende veramente liberi e detentori di una verità incondivisibile.
[Laura Di Marco]
Come un insetto
*[Francesco Di Giorgio, nato a S. Agata di Puglia
(Fg.) nel 1952, risiede a Roma dal 1956. Ha pub-
Un turbinio di nubi volteggiava
nella conca dove la goccia a specchio
al limite del bosco scintillava.
Poi dal bagliore t’inoltrasti attratta
mentre l’intrico si faceva fitto
nero di assenze voci di dormienti
tra un sospirar di foglie in vento lento.
A inseguire curiosa ti volgesti
un alito di luce oltre il confine
ma un sorriso più forte e ti smarristi
rezza di chi, beandosi del proprio riflesso, non va oltre sé stesso, bensì immergersi al loro interno, in ap-
e poi silenzio.
Inverso>>>
Talora sostavamo sopra il ponte
quando l’aria al respiro faticosa
d’argento c’imperlava sulla fronte.
Guardavamo all’arida bituminosa
petraia desolata che il suo greto
nuda mostrava senz’acqua e sassosa.
Ti piaceva scalza toccar la mota
e quel giorno la mano non mi desti
e in un franar di sassi senza posa
dall’argine in declivio poi scendesti.
blicato le raccolte: Il sogno e il risveglio (1981); La
morte del gallo dipinto (1983); Infinitesimale (1989,
più volte rappresentato) e il poemetto Allucinazioni
in penombra (1999). Ha pubblicato nel maggio del
2014 la raccolta di poesie A ricercare Dice, Lepisma Edizioni.]
Ti posi sullo specchio d’acqua
sorretto soltanto dal tuo riflesso
e da lì pretendi di investigare l’abisso.
Mentre sfoggi le tue alette iridate
io miglioro i miei tempi di apnea,
credi di conoscere la libertà
ma solo io posso averne un’idea.
Presto avrò branchie
per respirare nel profondo
e non cederò una goccia della mia verità
per tutto il cielo del tuo inutile volo.
*[Helena Caruso dice di sé: sono nata nel 1989
ad Augusta ed abito a Priolo Gargallo. Scrivo, leggo, amo, lavoro e studio tra il mare e il vulcano. Recentemente, una delle mie poesie ha ottenuto una
menzione di merito alla prima edizione del premio
letterario “Gustavo Pece”. Trascrivo i miei versi più
belli in un taccuino con la copertina a rose.]
Oggi ancora quando è arido il giorno
mi rincammino lento sopra il ponte
ed inseguo la luce oltre il confine
mentre al tramonto al sussurrio del vento
improvvise s’informano le ombre
34
35
Michael crisantemi
simona petrecca
L’inverno ci si dimentica di quant’è calda l’aria che, d’estate, ci attraversa la gola. D’inverno dimentichiamo
Elementali, i versi di Simona Petrecca. E l’acqua si fonde con la creta impastando parole, intrecciando ver-
il senza motivo, i giorni che passano rincorrendosi, dimentichiamo i balconi e il volo dei gabbiani. D’inver-
si, sul farsi di un Io liquido tanto da trovare il respiro laddove lo abbiamo lasciato al momento della nascita:
no. D’inverno ci sono le stazioni. Ma l’aria non muore, come l’opulenza di un ricordo senza sosta, che sia
nel grembo acquoso che chissà, forse ci ha visti Sirene, prima ancora che esseri umani. Naufraga, Petrec-
di macerie o di vasti oceani: Michael Crisantemi non ci permette di dimenticarlo, neanche per un istante.
ca, come forse lo fu Odisseo. E noi approdiamo con lei. [Maria Carla Trapani]
Inverso>>>
E ciò che non muore, dilania e/o rivive. [Maria Carla Trapani]
Tento una sintesi delle estati
arse nei muraglioni
senza motivo,
sguardi affacciati dai balconi
ad eludere un altro giorno in più.
Il vento di ponente consola
la ricerca dei gabbiani
senza sosta tra le macerie.
Respiro il Barocco
che mi dilania
e mi rivive dentro.
Tutto origina da qui
più che nel ventre di una madre.
I binari, morti,
gli orinatoi sopravvissuti.
Non ha segreti la stazione,
per chi smercia illusioni.
Ci pensi questa luce
a confondere ogni cosa.
Sembra il 1977.
Ma il treno gemendo
tradisce la mia pena:
“è ben altro, poeta,
il viaggiatore
che attendi...”
*[Michael Crisantemi nasce a Terni sul finire dei mitici anni ’80. Praticante avvocato, tra scartoffie e atti giudiziari
trova sempre il tempo per dedicarsi alla poesia. Il suo primo libro, “Dimmi che m’ami, ma dimmelo piano” (Octopus Edizioni, 2015), ha vinto il Logo d’Argento al premio internazionale “Logo d’oro” (2016). I suoi dialoghi teatrali
si aggiudicano il primo premio al Concorso internazionale “Castello di Duino” per due anni consecutivi. Nel tempo
libero è impegnato nella lotta per i diritti civili e per migliorare la condizione dei detenuti in carcere. Di recente, si è
risvegliato Bodhisattva della Terra.]
36
in me
Io sono terra,
ma non conosco la polvere.
Sono mani,
ma non strappo con esse la vita al mio destino.
Immersa nel silenzio
danzo su note sconosciute,
accarezzandomi come fa la pioggia
con i vetri quando li bagna. ]
Risucchiata dallo scintillio del mondo
osservo i giochi delle sue luci.
Nuoto nella creta che mi ha plasmato,
cercando respiro
dove respiro non può essere.
Io,
inquietante urlo.
Io,
melodica Sirena
naufragata tra le stelle.
Fotografia di Annalisa Marino
*[Simona Petrecca nasce a Roma nel 1976, di
formazione umanistica coltiva fin da giovanissima
l’amore per la scrittura che però trasformerà solo
negli ultimi anni in veri e propri progetti lavorativi.
Pubblica nel 2014 “Il Faro e L’Onda i racconti del
mare” per Aletti editore. Esce a novembre 2016
con una selezione di sue poesie nella Enciclopedia
dei Poeti Italiani contemporanei edita da Aletti. Una
sua poesia, inoltre, dal titolo “Crisalide” sarà inserita
nella raccolta del federiciano 2016. Cura due pagine pubbliche “Anomis” (facebook) e “Il Nodo” (Tumblr). Proprio tramite questo lavoro scopre la bellezza
e l’importanza dell’associazione poesia/fotografia
d’autore, soprattutto grazie alla collaborazione lavorativa con Annalisa Marino con la quale fonda KultImmagine e cultura.]
37
simona d’urbano
In questi testi inediti di Simona D’Urbano la via dell’autocomprensione si alimenta di realtà intime e di vita
vissuta. Così questa inquieta “anima straniera sulla terra” (per citare un verso di Trakl) e “coscienza dispersa nella neve” attraversa la città, le vie, i dati spaziali e temporali del reale e li trasmuta in elementi della poesia. Questa immersione totale nelle proprie soggettive sensazioni e questo sostare nelle profondità come
Euridice alludono anche ad una riflessione sottesa sul “fare” poesia, al travaglio dell’ispirazione e alla liber[Letizia Leone]
Inverso>>>
tà creativa.
Come Euridice
Immersioni
Eccomi,
Una piccola viandante, dispersa nella neve.
Questo vedo. Questo immagino di me. E trasfiguro.
Vago in questa città, fatta di anditi, di visioni, spazi, luoghi
faccende.
Vago tra la realtà e il cervello che apre e comprime mentre il terzo occhio osserva e mi
osserva. Si osserva.
Passi. Ogni giorno quasi scendo agli Inferi, i miei Inferi.
È una sensazione di grigio e fissità quella che m’appartiene mentre le magnolie giapponesi
già traboccanti di fiori e luce chiamano e mi rapiscono nel cammino, o in macchina. Mi desto
alla meraviglia che mi desta. E allontana, in un volo che non è saggio.
La Luna, strana sorella, mi chiama anch’essa, in modo più pacato e l’ascolto è più faticoso.
Udire le sue parole lontane, sotterranee per quanto bianche.
Infine il cielo, a qualunque ora del giorno o al crepuscolo riapre la porta degli Inferi da cui mi
libera. Ho già perso la mia testa. E cerco solo di ricomporre le armonie che possiedo ma non
sento. Che non dono.
Dilato il mio microcosmo solo col pensiero. Dove letargizzano ancora i miei sensi?
come Euridice nell’Ade,
discesa alla pienezza dell’
In Sé, a custodire
il sapore che tutto ha.
Sì, è l’impalpabile che
ascolto, quell’attimo fugace
che non ha un tempo.
Tutto vibra nell’anelito
di quel che forse mai sarà.
Sono Poesia – incomunicabilità? –
*[Simona D´Urbano ha pubblicato sue poesie su
e chi mi guarda scompare
due antologie della casa editrice Giulio Perrone, “Di
mentre io resto radice
invisibile, sotterranea.
quel fuoco: versi erotici”, nel 2007, e “I grandi temi
della poesia: l’amore”, nel 2008. Nel 2010 pubblica
la raccolta “Lunazioni d’amore” per Giulio Perrone
Le promesse sono ormai
LAB edizioni. Avvocato ed enologa, è redattrice di
parole vane. E così
“Duemilavini”, guida ai vini d´Italia edita dall’AIS.]
la vera trasparenza. Inafferrabile.
38
39
patrizia de vita
Una “immersione scritturale” questa di Patrizia De Vita che qui ripropone due testi estrapolati dai suoi ultimi libri. Così scrivevo nella prefazione a “Le stagioni dell’anima femmina”: anima è parola antica, rischiosa
da usare perché può aprire le botole dei facili sentimentalismi, ma è anche parola coraggiosa per una donna, non a caso Jung la definisce archetipo della vita e del femminile, regno dell’immaginale che si nutre
degli “Sforzi delle donne verso la profondità, l’interiorità, la sensibilità.”
Inverso>>>
[Letizia Leone]
RINASCITA
Dalla frana che inghiotte la terra
in sevizia e speranza
e conduce nel regno dei morti
dopo lungo e impetuoso tormento.
è rapita l’eterna bellezza
della Dea che rinasce nel bulbo.
Abisso e Rinascita, Tratte dalla raccolta edita
È Persefone, vita che muore.
“Le stagioni dell’anima femmina” (Edizioni
Dalla terra riemerge
Giulio Perrone, 2011)
e nel gelido inverno
è mistero del fiore che cresce.
Zolla arida genera foglia.
Se narciso nel freddo sfiorisce
sarà nuova giunchiglia raccolta,
di sapere e d’istinto,
con cammino e poi sosta
trice e poetessa, ha pubblicato nel 2011 la raccolta
di versi “Le stagioni dell’anima femmina” (Perrone
editore) con la quale ha vinto il concorso Pensieri d’inchiostro e il Premio creativa 2012. In seguito
è la brina a gennaio,
ha pubblicato il volume di poesie dal titolo “Parole
e profumo di maggio al contempo.
svenute e di versi ordite” (Edizioni Progetto Cultura),
Alternanza di soffio e scomparsa,
sofferenza e risveglio,
è dolore carnale
che lo spirito ha vinto,
40
*[Patrizia De Vita vive a Roma, dove è nata. Scul-
Viscere labirintiche / segnano la notte livida./Respirano gli scuri delle case / schiudendomi
la strada nella stretta attesa dell’alba. Il vento fende / sibilando dal porfido / come da canna
cava./ Sola / Donna primigenia / in cammino./ Nel silenzio il cuore sgrana / di terrore e
desiderio./
Proseguo là / dove la colonna spezzata dorme / nel miraggio di un pentagramma. Là / dove
la pietra pazientemente eterna / tutto comprende. Non conosco l’approdo / eppure m’inoltro
/ là / dove conduce la soglia / il non luogo. Là / dove la meta non ha meta. Mi perdo nel
marmo finale / sprofondo nel vortice caotico / delle acque buie / per un sonno riparatore /
mentre lampeggiano fari di fuoco vulcanico. /
Viscere e luce.
secondo classificato al premio internazionale Città
di Castrovillari 2012 e finalista al Premio dei Premi
di Poesia, Progetto Cultura 2014. La prosa poetica
“Colmi di crucci e sogni” è stata segnalata al Premio “Lorenzo Montano”, Anterem 2013.]
Tratta dalla prosa poetica “COLMI DI CRUCCI E SOGNI”, nella raccolta edita “PAROLE
SVENUTE E DI VERSI ORDITE” (Edizioni Progetto Cultura, 2012)
41
flavio rivabella - ErMedicus
angela donatelli
Il mare, quale incognita che ci incute timore, al pari dell’esistenza vasto e pieno di insidie ed allo stesso
Un’atmosfera da fiaba o da giardino dell’Eden perduto e ritrovato, quello che si trova sotto la cascata di
tempo, di opportunità. Il tre come numero della totalità cosmica: cielo, terra, uomo, qui atto a sintetizzare i
Angela Donatelli, un bosco esperito con tutti i sensi e dove i protagonisti, primi abitanti del mondo, o forse
tempi della vita e il tuffarsi in essa per raggiungere traguardi e superare sfide. E i sogni, che talvolta posso-
suoi unici superstiti, si incontrano e che esplorano, facendosi dono reciproco di quanto la natura sta of-
no al contrario essere perfino zavorra nelle tasche di chi nuota verso le speranze.
frendo loro. Un’immersione totale nell’ambiente circostante e nel rapporto con l’Altro, in un dare e ricevere
La delusione tuttavia ora è nel presente, fatto di speranze riposte in un “qualcuno” che non è il nostro “io”,
senza filtri né difese.
[Laura Di Marco]
[Alessandra Carnovale]
tre scogli
SOTTO LA CASCATA
ci son tre scogli, là nel mare della vita:
dal primo si tuffa il mio passato
con tutti i sogni infranti e le delusioni che ho vissuto;
dal secondo si tuffa il mio futuro
coi miei sogni in tasca e il mio destino oscuro;
dal terzo ti tuffi tu
che sei il mio presente
e ti sfracelli sulla roccia sottostante.
Sotto la cascata…
Sotto l’acqua battente, ritrovo il bosco dei rovi.
Densa è l’atmosfera, rugiada che
sale dal ventre della terra.
Solo il silenzio nella vita del bosco mi
accompagna.
Come un essere ancestrale,
con le narici accese, le zampe possenti,
il corpo proteso nello slancio iniziale.
Si è aperta una porta sul principio del mondo
quando eravamo tutt’uno con ogni sostanza.
Profumi di legno, di pioggia,di cipresso,
tu ed io intrecciati,danziamo la stessa danza.
Due corpi sinuosi e azzurri,
nelle profondità dell’abisso,
nuotiamo alla ricerca di piccoli molluschi,
ci sfamiamo di pesci argentei, mentre coralli
arancio
ornano i nostri capelli.
*[Flavio Rivabella, classe 1962, musicista sperimentale dopolavorista, entra a far parte della corrente “disgustista” come poeta nel 1993 con lo pseudonimo di “ErMedicus”; partecipa per la insana gioia dei presenti (ma
soprattutto degli assenti) a numerosi readings di poesia “underground” presso vari locali romani poi caduti ovviamente in disgrazia, come il Nuvolari, l’Assenzio, il Letterecaffé, fino alla Gran Serata Disgustista del 2002 che ha
sancito in qualche modo la fine del movimento. Fonte di ispirazione per le poesie di ErMedicus, oltre ai suoi neuroni innestati a casaccio, sono il disagio personale e sociale e un generale senso di disprezzo per il mondo...
Dal Manifesto della poesia, pittura e scultura disgustista del 1983:
punto 18 - “noi siamo già dentro la discarica del XXI secolo”]
42
Inverso>>>
ed è dunque entità incontrollabile e talvolta fallibile.
Siamo venuti a cercare la perla, l’unica
che l’ostrica
è riuscita creare.
Delle nostre ferite facciamo dei doni
affinché diventino un frutto,
maturo al punto giusto,
pronto a sfamare le nostre anime
indolenti.
*[Angela Donatelli nasce in Puglia e si stabilisce a
Roma. È un’artista visiva che si occupa da tempo
di pittura e poesia. Nella sua ricerca di mediazione
fra vari contesti artistici ha realizzato diverse performances durante le quali pittura, musica e poesia
creano un contenitore scenico multiforme, che permette di vivere un’esperienza sinestetica.]
43
franca palmieri
In queste poesie di Franca Palmieri, spesso ricche di allitterazioni e suoni sibilanti emerge di frequente un
sentimento di impossibilità o quasi di immobilismo, sia che si tratti di intraprendere un dialogo autentico
con qualcuno, come in Domandare, sia che si tratti dell’aria grigia e inerte di una mattina cittadina (La città
dormiente); l’immersione sembra essere il segno di uno scacco, dove si è persa la fiducia nella possibilità
di un’azione e restano a fare compagnia le ombre della notte, destinate a svanire al primo chiarore lunare. Inverso>>>
[Alessandra Carnovale]
Domandare
una potente muraglia.
Il mio domandare
La città dormiente
La notte
al mio forte abbraccio
Sembra dormire la città
La notte arriva quando
tra radici e rami
è terra stratificata e senza fondo.
al suono sfumato dei motori
ogni parola scompare
è cercare spine acute
Il tuo petto stringe
che disorientano appena
e lascia sospeso lo sguardo.
conficcate in angoli bui.
dietro una corazza
una diffusa tristezza
Con passo lento
È far luce al dolore annidato
che non libera alcuna pietà.
nell’aria grigia e inerte.
qualcuno cammina nel viale del ricordo
dimenticato tra sassi pesanti.
La mattina dimessa
e aspetta che un altro lo segua.
La mia nuda pelle
cammina a testa bassa sul viale.
La notte ascolta respiri
stretta alla scorza tagliente
*[Franca Palmieri, nata a Morolo (FR), risiede ad
Dritto è lo sguardo della donna
che avvicinano volti
della tua anima graffiata,
Aprilia (LT). Docente di Lettere nella Scuola Secon-
alla finestra
e poggiano mani sulla pelle.
dietro il vetro dalla tenda scostata.
Avvince ombre svanite
blicato Arabeschi di luce, Il Filo (2008); Quando la
Attento all’indolenza dominante,
al primo chiaro di luna.
vita profuma di nuovo, Albatros (2013); La coscien-
all’isolamento corrente,
Il mio volto strofina il tuo,
za e la vanità, Seam (2015); e il libro di narrativa La
alla solitudine imperante.
appaiono lacrime pietose
fiamma del cuore, Pellicano (2016). Suoi aforismi
Anche il cielo è sommesso
sanguina
inesorabilmente.
sul vetro dei tuoi occhi.
Il mio spirito penetra lento
44
La tua schiena
daria di primo grado e pedagogista, conduce laboratori di scrittura creativa, poesia e teatro. Ha pub-
sono presenti in numerose agende a cura de L’Erudita, Orlando Esplorazioni, Bookpusher di Giulio
e si domanda perché
Perrone Editore. Molte sue poesie sono presenti in
la volontà è assente,
nel trascurato spiraglio
diversi libri tra i quali L’insostenibile leggerezza della
perché ci si nasconde,
in cerca di sofferenze smarrite
precarietà per Caffè Letterario, La luna e il Drago e
perché nessuna fiducia nel presente.
e nell’intravederle urta
Perché i poeti per L’Erudita.]
45
daniela de nicolò
Ci addentriamo in una selezione di Haiku propostici da Daniela De Nicolò. Assieme ai richiami agli elementi naturali che caratterizzano questa forma poetica, ritroviamo stralci della sfera intima dell’autrice, fatta di
fragilità e sicurezze, delicatamente delineate nello spazio di tre versi. [Flavio Scaloni]
Inverso>>>
Stesa al sole
Spiaggia di pietre
Scarlett, in cambio
Neve sul fuoco
come un ladro rubo
bianche come ossa nel
dell’oro voglio le tue
l’incendio si disseta
la sua energia
sole spietato
ali di seta
ma non si spegne
Sul mio viso la
Sorrido quando
Vele spiegate
Non mi distrarre
maschera gualcita del
ho paura per stanare
a trovare la linea
sono concentrata nel
tempo trascorso
il mio coraggio
dell’orizzonte
non fare niente
Tarassaco in
La mia zattera
Ricordi persi
Ombre di nubi
fiore macchia il gelo
incrocia le rotte di
dietro un delirio di
si specchiano su aspri
con un sorriso
grandi velieri
lontani spettri
monti pietrosi
Te ne vai sola
Sopravvivo sul
Madre e figlia
inesorabilmente
fronte lampeggiante di
per mano sorridono
senza un addio
aspre battaglie
alla tempesta
*[Daniela De Nicolò è nata il 13 agosto del 1952 a
46
Tengo chiusi in
Sento i pezzi
Nella mente i
gabbia i creatori di
che si rincollano
pensieri scricchiolano
arcobaleni
se mi stringi forte
come la ghiaia
Roma, dove risiede tuttora. È laureata in Sociologia
e lavora come insegnante presso un istituto tecnico. “Le pieghe dei sogni” è la sua seconda raccolta
poetica.]
47
Inverso>>>
Iratsume, custode
dell’amore
a cura di Dona Amati
Fotografia di Robert Voit tratta dalla serie “New Trees”
48
Otomo no Sakanoue no Iratsume fu una importante poetessa del “periodo Nara”, l’epoca storico-culturale che attraversò il Giappone dal 710 al 794 d.C., una
delle settanta poetesse inserite nel Man’yoshu o “Raccolta delle diecimila foglie”, prima grande opera collettiva
giapponese risalente all’ottavo secolo e che da un punto
di vista contenutistico si struttura in tre categorie letterarie. I quattromilacinquecento testi poetici che lo compongono, attribuiti a oltre cinquecento poeti delle più varie
estrazioni sociali, tra cui è compresa una nutrita compagine femminile, si inoltrano in molteplici contenuti espressi
sia in forma breve (waka) che lunga (choka): temi classici
come la relazione con l’amata/o (somonka), dove l’haijin si esprime sullo scambio e sulle sofferenze d’amore, o come la relazione parentale, sentimenti del poeta
per i figli, o per fratelli e sorelle, ma anche temi tradizionali riguardanti cerimonie, viaggi, banchetti e leggende.
Di Iratsume sappiamo che nacque intorno all’anno 700
d.C., e che ancora adolescente andò in sposa al principe Hosumi no Miko. Rimasta prematuramente vedova
si unì in seconde nozze con Fujiwara no Maro, membro
di un’importante famiglia che dominò il panorama politico e sociale per i successivi duecento anni. Sorellastra
e zia di due altrettanto importanti poeti, Otomo no Tabito (665-773) e il figlio di questi, Otomo no Yakamochi
(?-785), considerato per molto tempo l’unico compilatore del Man’yoshu, nel 728 circa Iratsume andò a vivere nella casa del fratellastro, rimasto anch’esso vedovo,
per aiutarlo a crescere il figlio Yakamochi; alla morte di
Tabito, due anni dopo, proseguì nel suo ruolo di seconda madre e mentore, continuando ad occuparsi del nipote e a svilupparne la vena poetica, divenendo di fatto
la matriarca del clan Otomo. All’interno del Man’yoshu la
presenza di Iratsume è più determinante rispetto a quella
delle altre poetesse: suo nipote inserì ben 88 componimenti che si distinguono per la forte sincerità espressiva;
un terzo di queste liriche trattano il tema dell’amore, che
la poetessa descrive con uno slancio fresco e spontaneo
riferibile a una grande passionalità; altre illustrano scene
di vita familiare, come la venerazione agli ujigami (spiriti
tutelari degli antenati) della famiglia Otomo, in altre ancora
la poetessa si esprime in lamentele rivolte all’imperatore.
Visse a lungo nell’isola di Kyushu, dove Tabito era stato inviato come governatore, ed ebbe l’opportunità di
incontrare alcuni dei nomi più influenti della poesia di
quel periodo. Tornò nella capitale nel 730. Ebbe almeno una figlia a cui dedicò una lirica pregna di amore materno quando questa si allontanò da lei per seguire il proprio marito. Morì presumibilmente nel 750 d.C.
Dona Amati
Inverso>>>
il focus di
Fotografia di Robert Voit tratta dalla serie “New Trees”
49
Il sole del mattino brilla
sulla collina
mentre stiamo insieme,
le lacrime che piangiamo
non cessano per un momento.
**
**
Una montagna blu
con nuvole alla deriva,
come chiaramente
tu mi sorridi;
Lasciate che non vedano gli altri!
Egli sorgeva una volta
su quest’isola che vedo;
una piena d’acque inonda un giardino,
**
**
È dolore nel mio cuore
quando
una foschia umida
fluttua intorno
al mio amore verdeggiante.
Mattino coperto di nuvole
il sole splende
dove una volta [lui] si trovava.
Torno all’isola
nel dolore.
**
**
le mie lacrime sgorgano
e non riesco a fermarle.
Fino a questi anni di capelli bianchi misti a neri,
Amore ancora non m’aveva tanto preso.
Amore, amore!
Ogni volta che possiamo incontrarci,
dimmi tutto il tuo amore,
se a lungo mi vorrai.
(trad. Mario Teti)
Inverso>>>
Recentemente
mille anni o più
sono passati -o almeno così ho pensato;
Forse perché ho voglia di vederti.
**
Figlia, sei tu/ a me diletta/ più assai delle gemme/ conservate, dicono/ riposte nella/ toletta della/Augusta divinità/ dei mari. Eppure per la/ legge di
questo mondo, fugace/ come spoglia ninfale di cicala,/ sollecita all’invito/ del
tuo sposo/ per la via di Kochi [sei partita]/aspra e [faticosa]./ Dal giorno del
nostro distacco [penoso]/ come quello di edera abbarbicata,/ gli archi delle
ciglia tue, curve/ come onde del largo,/ senza motivo m’appaiono/ in una
visione di te/ ondeggiante come/ grande nave [sull’acqua]./ Poiché tanto
t’amo,/ io, che sto invecchiando,/ potrò mai sopportare [la tua assenza]?
(trad. Marcello Muccioli)
**
Lavate dall’acqua
le rocce lungo la riva,
le azalee delle rocce
crescono spesso lungo il sentieroriuscirò mai a vederlo più?
**
Oh luce splendente,
mio principe del Sole,
se fossi stato qui
il tuo palazzo
non sarebbe caduto in rovina, lo sento.
**
Fotografia di Robert Voit tratta dalla serie “New Trees”
50
Fotografie di Robert Voit tratte dalla serie “New Trees”
51
Instante>>>
giulio gonella
Instante>>>
La realtà ci avvolge e ci imprigiona negli scatti di Giulio Gonella. Siamo all’interno di una spirale senza inizio e
senza fine, al di là dello spazio e del tempo, in una dimensione (quasi orientale) ciclica e perpetua. La realtà
catturata dal fotografo è deformata, ma al contempo si lascia comprendere in virtù della presenza di uno o più
elementi che rimangono fedeli alla loro natura originaria. Una lente deformata alla quale qualcosa sfugge, una
scheggia impazzita, un quid immanente in un tutto vorticoso.
Sono muto, sono sordo
finalmente avvolto da questa viscosità aumentata ed avvolgente
indifferente al mondo indifferente
estraniato in questo istante attutito e rallentato
protetto, per qualche mentre, da una realtà pesante e inconsistente
fuggo abbandonato in un amniotico respiro rassegnato e rincuorante
e mi rigiro e mi rigenero
senza peso, sospeso, accarezzato e sostenuto
in un tempo e per un tempo
non precisamente determinato
sono tutto
e non sono niente
Pietro Bomba
Foto di Giulio Gonella
52
53
Instante>>>
<<<InstantE
*[Giulio Gonella (Roma, 1983) dopo il conseguimento del diploma scientifico, intrapende un viaggio in India, dalle
cui suggestioni nasce l’interesse per la fotografia. Frequenta un corso introduttivo presso il liceo Virgilio e approfondisce linguaggio e tecnica fotografica all’Istitito Superiore di Fotografia e Comunicazione Integrata, dove consegue il diploma triennale. Nel 2012 vince il concorso nazionale “Nikon Talents” categoria ritratto. Nel 2013 inizia ad
insegnare fotografia presso il Liceo Malpighi di Roma. Nello stesso anno inizia la sua collaborazione con Diwali –
Rivista Contaminata.]
54
55
<<<InstantE
Kahn & SELESNIK
Instante>>>
Quelle di Kahn & Selesnick sono fantasie assurde meticolosamente dettagliate. Siamo portati a chiederci se
siano fatto o finzione, storia o premonizione. Ciò che rende questi lavori così convincenti è l’eclettismo dei soggetti, delle situazioni e dei supporti utilizzati. In Truppe Fledermaus le distopie degli scatti pongono questioni
sociali e ambientali in stretta relazione con la realtà contemporanea, forzando la nostra attenzione attraverso
storie immaginarie e ludiche che celano ben altre implicazioni.
Per gentile concessione degli artisti e della Galleria Jackson Fine Art di Washington D.C.
*[Nicholas Kahn & Richard Selesnick costituiscono un team artistico che collabora dai tempi dell’Università Saint
Louis di Washington fin dai primi anni ‘80. Entrambi nati nel 1964, a NYC e Londra rispettivamente, lavorano principalmente attraverso la fotografia e l’installazione, con una predilezione per il racconto di finzioni ambientate sia nel
passato che nel presente. http://kahnselesnick.biz/]
56
57
Instante>>>
58
<<<InstantE
59
<<<InstantE
Jonathan Nimerfroh
Instante>>>
Queste immagini sono state scattate nel Febbraio del 2015 durante una sessione di surf. L’autore racconta
che al momento di lasciare la spiaggia scorse l’orizzonte assumere sembianze nuove. Salito sulla cima delle
dune osservava l’oceano congelarsi progressivamente. Ciò che ne derivò fu qualcosa di perfetto, sublime nella sua surrealtà: le onde si erano cristallizzate. Il mare mantenne questo aspetto per almeno un giorno intero,
grazie anche al vento che soffiava in quei giorni. Nessun abitante o pescatore della zona aveva mai visto nulla
del genere, essendo stato l’inverno 2015 il più freddo degli ultimi 80 anni.
*[Jonathan Nimerfroh è un fotografo e surfista Americano. La serie “Slurpee Wave” è recentemente diventata oggetto di interesse mediatico “virale”. Jonathan vive sull’isola di Nantucket, a 30 miglia dalla costa del Massachussets,
dove gestisce tre progetti imprenditoriali di fotografia: JDN Photography, Nantucket Salt e Runaway Bride Nantucket.
Quando la sua isola diventa troppo piccola, Jonathan viaggia attraverso il mondo, a patto che ci sia un’occasione per
surfare. Le sue celebri “Onde congelate” sono disponibili al pubblico in esclusiva presso la Samuel Owen Gallery.]
60
61
Instante>>>
62
<<<InstantE
63
<<<InstantE
miloje savic
Instante>>>
Siamo nell’arcipelago delle isole Lofoten, in Norvegia, oltre il circolo polare artico. Una manciata di isolette dove
la pesca è l’unico mestiere. Immergersi in queste acque vuol dire conoscere i ghiacci, con la preghiera che la
corrente del Golfo non si dimentichi di lambire le coste. Vuol dire anche aspettare le luci del Nord (l’Aurora boreale) o il sole di mezzanotte, sorseggiando un lungo caffè. Miloje Savic ci mostra i colori violenti e carichi della
natura, spezzati dal rosso vivo della presenza di uomini coraggiosi.
*[Miloje Savic nasce in Serbia, studia in UK, si trasferisce negli USA per poi stabilirsi in Norvegia. Si muove tra Stati Uniti ed Europa, la macchina fotografica sempre al seguito. L’Italia è uno dei suoi paesi d’elezione ed è spesso a
Roma. Ha all’attivo mostre fotografiche a NYC, Belgrado, Manchester. Per Diwali ha realizzato gli speciali sulle fiere
di arte contemporanea FIAC e Frieze. È membro dell’Associazione Americana Haiku.]
64
65
Instante>>>
66
<<<InstantE
67
APNEE
immersioni di vita in emersioni di gioia
SARA LOMBARDO
Nelle diverse espressioni artistiche la persona si immerge
completamente al fine di riscoprire la propria vera essenza e, come spruzzando l’ossigeno in emersione, infrange
quella barriera tra l’io e l’altro che si pone di fronte ed in
contrasto, il fruitore dell’opera.
Se nella pittura l’artista immerge tutto se stesso nella realizzazione di una parte di sé, respirando a pieno l’odore
acre dei colori preparati con dovizia e pazienza, nella letteratura lo scrittore ricerca quelle parole idonee ad esprimere i suoi pensieri e le sue fantasie. Una immersione
nelle lettere e nella punteggiatura che ora diventano solo
mezzi per emergere nella narrativa o nella poesia o nella
saggistica.
Quando riempi i polmoni, proprio in
quell’attimo, quando senti la profondità del
tuo io e chiudi gli occhi e ascolti l’intimo
Ma quando il movimento – il corpo – diventa protagonista
ed immergendosi nelle note fluttuanti dell’aere, interpreta, fagocitando passi e sequenze fluide, è in quel preciso
istante che il ballerino e con lui lo spettatore si fondono
per emergere, alla fine dei giochi, in una dimensione diversa e arricchita l’un dell’altro in una riemersione, appunto,
totale e naturale. Allo stesso modo il coreografo impegna tutto se stesso nella fantastica quadratura dei passi e
delle sinuose curve corporee che definiscono uno spazio
esteriore ed interiore, allo stesso tempo.
Nella danza e nel ritmo virale dell’evoluzione di coscienza si sviluppano i video che di seguito ho selezionato per
questo numero.
Inmobile>>>
Inmobile>>>
della tua anima e ti tuffi, immergendoti
nell’infinito mare della vita, proprio in
quell’attimo riesci a ricongiungerti con la
pace e in sequenza ripercorri un vissuto fatto
di esperienze, emozioni, amori e delusioni,
tristezza, inganno ed ira. Quell’attimo in cui
si preannuncia l’esplosione dell’io nell’oblio
delle brutture del mondo circostante.
In apnea dal mondo in boccate d’ossigeno
di delizie.
Sara Lombardo
Foto di scena tratta dall’Orfeo e Euridice, coreografia di Pina Bausch
68
69
Inmobile>>>
<<<Inmobile
HERCULES & LOVEAFFAIR
Questo progetto musicale che ha avuto un grande successo a livello internazionale con il singolo Blind, si propone con
questo brano di affrontare il tema di cui sopra.
Il pezzo I try to talk to you, infatti evidenzia il linguaggio del corpo a ritmo di musica che parla più di un libro stampato.
I protagonisti ballerini del video comunicano con la sinuosità dei movimenti spiegando la loro “storia”, in corpi parlanti di
leggiadra bellezza. Dispiegano gesti e intimano promesse con sguardi profondi e concitati. Ci proiettano immergendoci
nel loro dialogo muto, cercando di parlare.
Proust Ou Les Intermittences Du Cœur
Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust è la fonte d’ispirazione per questa splendida coreografia di Roland Petit
(1924-2011), interpretata da Mathieu Ganio e Stéphane Bullion (entrambi étoiles de l’Opéra de Paris). Due giovani uomini all’apice della propria bellezza si scambiano gesti delicati e forti in questa ricerca malinconica di un passato mitico,
degno della figura di Swann.
h t t p s : / / w w w. y o u t u b e . c o m /
watch?v=AvK4hiEow8Y
h t t p s : / / w w w. y o u t u b e . c o m /
watch?v=BTFf8jqPNu0
Mona Lisa
Potrebbe essere una lettera d’amore quella scritta dalla macchina da scrivere che ticchetta l’intera composizione di
questo passo a due. Una partitura certamente modernista composta da Itzik Galili e Thomas Höfs. Galili firma anche la
coreografia, magistralmente interpretata da Alicia Amatriain e Jason Reilly.
h t t p s : / / w w w. y o u t u b e . c o m /
watch?v=wqw8WFfhxO0
ROBERTO BOLLE – La mia Danza Libera
Uno dei maggiori ballerini sulla scena nazionale ed internazionale, insignito nel 1999 del titolo di “ambasciatore di buona
volontà dell’UNICEF”, calca le scene dei maggiori teatri internazionali. Nel 2016 è protagonista su RAIUNO con il suo
spettacolo Roberto Bolle La Mia Danza Libera, in cui si dispiega la perfezione del suo corpo paragonandolo all’uomo
vitruviano e focalizzando l’attenzione sui movimenti impeccabili e serpeggianti che ci riportano alle primigenie delizie
danzanti. Una riemersione di echeggianti moti perpetui che delineano la danza come completamento del movimento
corporeo.
http://www.raiplay.it/video/2016/10/Bolle-esegue-i-treballetti-Prototype-95cfaf70-a7324948-86d7-82bd8888a652.html
70
Orfeo e Euridice
Impossibile non soffermarsi nell’universo immaginifico e rivoluzionario di Pina Bausch, da molti considerata la più geniale coreografa e danzatrice de XX secolo, fondatrice del “Teatro-Danza”, il movimento che ha riscritto le regole della danza avvicinandola alla drammaturgia. Qui osserviamo un estratto dall’Orfeo e Euridice, musiche di Christoph W.
Gluck, andato in scena nel 2014 all’Opéra de Paris, a cinque anni dalla scomparsa della coreografa. Gli interpreti sono
i danzatori Marie-Agnès Gillot e Stéphane Bullion.
h t t p s : / / w w w. y o u t u b e . c o m /
watch?v=cyC4X6aGn_M
71
Inmobile>>>
Incontro>>>
EVA LOMBARDO – Feelings Untold – 2015/2016
Ballerina classica, diplomatasi all’Accademia Nazionale di Danza in Roma, lavora presso Oper Leipzig. Una giovane
promessa nell’ambito della danza classica che si è cimentata, negli ultimi tempi, alla realizzazione di due coreografie in
cui si da grande importanza ai sentimenti. Un’immersione nella sfera sentimental-romantica sempre attuale e che genera forti contrasti. Nell’emotività della genesi e dell’esecuzione delle coreografie, i ballerini incarnano perfettamente il
sentire profondo e recondito del coreografo. Una osmosi perfetta, in questo caso, tra l’ideatore e l’esecutore del pezzo.
Nel primo brano intitolato Feelings Untold, Eva ha voluto descrivere la vita di una persona ripercorrendo il suo percorso
emotivo fatto di tristezza, felicità, amore e odio.
EVA LOMBARDO – Au delà de la porte – 2015
Coreografia ideata basandosi sulla selezione di canzoni francesi per la programmazione del Leipzig Ballet “Chanson
Franzosisch”.
La porta è l’elemento principale che appare a prima vista nella scenografia ed è il punto focale attraverso e nella quale
si svolge il balletto.
La porta separa ed unisce, allo stesso tempo, tra diverse situazioni, che ripercorrono sotto nuova luce scene tratte da
tre film francesi (L’Amante, The Perfume e Le fabouleux destin d’Amélie Poulain).
Espressione coreografica in cui la coreografa si è immersa completamente nell’atmosfera francese per cogliere a pieno
le sfumature danzanti e musicali e riproporle al pubblico con forte sensibilità artistica.
“Non potrei stare senza condividere con altre
persone mentre realizzo il mio lavoro; stare a
lungo chiusi in un luogo da soli con il proprio
lavoro, può diventare opprimente”
Nicola Rotiroti
72
73
<<<InContro
Incontro>>>
Nicola rotiroti
Ho incontrato Nicola Rotiroti presso lo “Studio 54” a Roma,
spazio da lui fondato dieci anni or sono e di condivisione
con altri artisti. Era a lavoro su una sua opera, l’ultima facente parte della collezione “Lo Re”.
Avevo avuto modo di apprezzare dal vivo alcune sue tele
qualche anno fa sempre a Roma, in occasione della sua
personale “Water Colors”. L’autore qui partiva dallo scatto fotografico immortalando persone all’interno di una dimensione acquatica e successivamente trasponendole
su tela in una visione mobile in cui l’acqua, che qui non è
elemento di contorno, ma principale, esaspera o trasfigura alle volte i contorni; in cui il muoversi “a pelo d’acqua”
segna una linea tra la terra reale ed un mondo fantastico
in cui i corpi, gli occhi chiusi come in un sonno, fluttuanti o
rannicchiati in posizione fetale come in liquido amniotico,
sembrano vivere una seconda nascita.
A distanza di qualche anno, le opere della personale “Lo
Re” dunque, anche se lontane dal tema acquatico, sono
in realtà un’evoluzione della trasfigurazione trovata nei lavori precedenti. Qui la pittura trova il suo esprimersi attraverso chiese romane barocche in un’esplorazione del
concetto di sacralità che Rotiroti avverte come tale anche
nell’atto stesso del dipingere che può essere considerato
un rituale, uno sforzo fisico che è sofferenza e dunque de-
vozione all’arte. Si è chiusi nel proprio studio a dipingere,
come lo si può essere a pregare in un luogo di culto quale
è una chiesa.
Ed ecco quindi il nostro sguardo riempirsi dei fasti delle
chiese di San Francesco a Ripa, Sant’Ignazio, Santa Maria delle Vittorie, in una destrutturazione in cui il barocco,
stile in contrapposizione tra spiritualità e teatralità, religiosità ed opulenza, appare liquefatto in scenari di tridimensionalità fluida, a volte fatti di tonalità cupe, altre di colori caldi e sanguigni, a tratti illuminati da sprazzi realizzati
in foglia d’oro. Rappresentazione questa che tuttavia per
l’artista non è volta alla dissacrazione, bensì alla consa-
crazione di elementi architettonici che cessano di essere
relativi al solo concetto visivo di “luogo” e si demolecolarizzano dando vita ad una nuova forma non più statica, in
grado di fluire attraverso tempo e spazi, riaffermando in
diverso modo il concetto di imponenza, concetto evocato
anche dallo stesso titolo.
Laura Di Marco
Note biografiche:
Nicola Rotiroti nasce a Catanzaro nel 1973, e qui si è
diplomato presso la scuola di pittura dell’Accademia di
Belle Arti nel 1996. Vive e lavora a Roma. Nel 2014 con
Arianna Bonamore, Paolo Assenza e Germano Serafini,
ha fondato a Roma Lo Spazio Y Quadraro (http://www.
spazioy.com/). Nello stesso anno è stato selezionato per
la collezione della Farnesina (MAE) in occasione del semestre italiano alla Presidenza del Parlamento Europeo.
Nel 2013 è stato selezionato per la collezione del Museo
MAGI’900 di Bologna, Museo d’Arte delle Eccellenze Artistiche e Storiche.
Nel 2011 ha partecipato alla 54° Biennale di Venezia, “Padiglione Calabria”, Villa Genovese Spena, Reggio Calabria.
http://www.rotiroti.it/
74
75
Immergiamoci in queste proposte di lettura:
la raccolta poetica La Terra di Tutti, con il
ricordo amicale di Antonella Rizzo per il caro
Massimo Pacetti, scomparso prematuramente.
Proseguiamo con le indagini psicologiche
estremamente contemporanee di Una volta
l’estate, romanzo scritto a quattro mani da
Ilaria Palomba e Luigi Annibaldi. Chiudiamo
con la meditazione del percorso arboreofilosofico di Tiziano Fratus in Il sole che nessuno
vede,
presentatoci
da
Valentina
Meloni.
Flavio Scaloni
76
LA TERRA DI TUTTI di Massimo Pacetti
È scomparso da pochi giorni Massimo Pacetti, poeta e scrittore, lasciando un vuoto nella comunità letteraria romana. Lo voglio ricordare con una mia personale lettura de “La terra di tutti”, una raccolta di poesie
pubblicata per la Edilet. Manifesto del suo cosmopolitismo per vocazione, la silloge raccoglie le esperienze di
vita del poeta attraverso i volti degli emisferi che ha percorso, con rispetto e attenzione alla durezza della vita.
Io non sono una viaggiatrice e neanche Pacetti lo è nel
senso letterale del termine. Lo affermo con una sorta di
sfida contemplando i suoi versi asciutti che svoltano l’angolo e sbucano in una viuzza di Harlem, passando dal
Tropico del Capricorno. Lo dico perché reputo che il viaggiatore non è colui che si sposta compulsivamente ma
l’uomo che contempla senza compiere razzie di emozioni
in terra altrui, riportando orgogliosamente ferite di viaggio.
Il viaggiatore dell’anima, spinto dalla contingenza e dalla necessità fisica e psicologica, non programma la
sua vita con metodicità, a tavolino ma viene risucchiato, desiderato, fagocitato dagli eventi e si abbandona alla sincronicità delle coincidenze, domando con
grazia e saggezza l’onda anomala della cattiva sorte.
che paralizzano l’intelligenza emotiva e la creatività umana.
Sono ammaliata dalle sue descrizioni, minuziose ed
eleganti, fatte di versi intensi, scanzonati e gravi, pregni di quell’ironia positiva di cui l’esistenza ha un assoluto bisogno. La ricerca del particolare e il bisogno di
comunicare con le istanze fisiche del nostro pianeta lo
rende produttore di cultura vera, non viaggiatore di frodo ma rispettoso fruitore di esperienze e di emozioni.
InDICAZIONI>>>
InDICAZIONI>>>
“Sono salito fra i boschi
per fotografare la voce degli uccelli
e il gorgogliare
dell’acqua del ruscello
nascosto nell’erba
e per udire le ondeggianti
vette dei pini e degli abeti
“...quando la morte
si ferma sulla vetta
di una montagna
le parole sono il sogno
di un eroe che è morto
là dove voleva vivere”.
Così sono le sue liriche. Egli è un uomo formato alla politica e conosce i meccanismi perversi e complessi di chi si
occupa della cosa pubblica ma la sua personalità emerge
miracolosamente incontaminata dalle leggi economiche
77
InDICAZIONI>>>
<<<InDICAZIONI
Metafore e suggestioni corrono
su binari paralleli
e tenere nella mano le pietre:
che da millenni erano ad aspettarmi”.
Il senso intrinseco della pienezza della parola terra ancora
ci sfugge. Siamo diventati dei consumatori voraci di vita e
abbiamo occultando la faccia vera della medaglia, quella
che regola i rapporti tra i viventi. La Madre Terra, da entità
superiore e trascendente divinizzata nelle civiltà antiche
si è trasformata in un una miniera a cui attingere con un
rapporto di sudditanza inversa, schiavizzata dal sistema
di produzione che rappresenta la nostra emancipazione.
Così si sono evoluti anche i rapporti tra gli esseri umani, fratelli
nel cosmo ma acerrimi nemici in una lotta intestina che vede
contrapposte culture e fazioni, come in una lontana preistoria del mondo dove la lotta, finalizzata alla sopravvivenza, era però regolata da un codice etico a noi sconosciuto.
Questo mi ha profondamente colpito in questa raccolta
di Pacetti, scrittore prolifico e fecondo: l’amore per la Terra di tutti, la capacità di riunire prassi e cuore in una sola
percezione, splendidamente suggerita da parole suggestive e non banali. Una conoscenza del mondo come patria comune, come momenti di tempo che si alternano
in una meridiana di luoghi ameni eppure vicini alla sensibilità di tutti. Un concetto di conoscenza che rispetta la
sacralità degli archetipi presenti nell’immaginario collettivo malgrado la distinzione netta tra locali e globali operata dalla globalizzazione, relegando i primi alla non-conoscenza e alla subordinazione nei confronti dei secondi.
E nei suoi versi si rivela l’uomo-poeta, generoso e incosciente nel valicare pregiudizi e confini mentali, malgrado
le severe lezioni della vita che avrebbero potuto paralizzarlo e confinare la speranza in un silenzio inaccessibile. Egli osserva con rinnovato stupore i meccanismi che
regolano la conflittualità umana, le ingiustizie, la terra
78
arida sterile di frutti e il sinuoso movimento dell’animale, come nella lirica dedicata ai gatti. Pacetti è un uomo
politico, inteso come significato etimologico ed opera una speculazione verbale e intellettuale nella società
che lo circonda in modo attivo, costantemente presente.
“....qual era la forza immensa
che si stava prendendo la mia vita?
Dietro il tormento indecifrabile
Mi attanagliava la mente, il corpo
I muscoli, ogni parte vitale...”
Eppure non possiamo parlare di poesia sociale, termine
restrittivo e categorizzante perché il poeta, nonostante attinga la sua ispirazione dalla realtà esterna e ne sottolinei
velatamente le miserie e il baratro delle differenze come la
bellezza delle uguaglianze, sa mantenere i rapporti con le
caratteristiche fondamentali della scrittura come Arte assoluta e non necessariamente funzionale a un fine secondario.
Il concetto di Bellezza si fa etica ed estetica nella poesia di Pacetti: le descrizioni delle città sono miniature di
architetture preziose ma anche di sentimenti dignitosi,
stradine che portano al cuore di donne e di madri, città come Lisbona morbidamente adagiate su dormeuse di velluti blu come il mare, mangrovie antropizzate
come braccia umane. Metafore e suggestioni corrono
su binari paralleli che nonostante lo stile mai edulcorato, trasportano immagini e le trasformano in sentimenti.
La metrica libera ha una gradevolezza assoluta che mantiene la tensione emotiva dei primi versi fino alla fine, senza ripiegamenti ecolalici che nei componimenti di media
lunghezza rischiano sovente di comparire nella ricerca di
una musicalità della parola. È da apprezzare la modernità della scrittura, lineare ma non semplicistica, senza so-
vraccarichi stilistici e elaborazioni didascaliche in nome
di una presunto intellettualismo di nicchia mai superato.
La realtà, presentata nella sua nudità percepibile dai
sensi periferici si staglia lapidaria sui fogli di carta ma,
come nelle essenze di alta profumeria, la nota di fondo arriva appena la fragranza ha stabilito il suo possesso. E qual è l’ingrediente prezioso e scarsamente segreto che mette in comunicazione due livelli non
naturalmente comunicanti? È l’ironia, naturalmente.
L’ironia appartiene tanto alla sofferenza che alla felicità, e
l’uomo che viaggia nella speranza di ritrovarsi porta sempre
con sé e con la sua penna la capacità di sorridere e di prendere le giuste distanze dalla quotidianità e dalla dipendenza.
Antonella Rizzo
TITOLO La Terra di Tutti
AUTORE Massimo Pacetti
EDITORE EdiLet
PREZZO DI COPERTINA 14,00 €
PAGINE 156
EAN 9788898135301
79
<<<InDICAZIONI
UNA VOLTA L’ESTATE
di Ilaria Palomba e Luigi Annibaldi
InDICAZIONI>>>
Gli autori formano un unico, eccezionale corpus
generativo
Ilaria Palomba e Luigi Annibaldi, giovani scrittori già
forgiati da fortunate esperienze letterarie sono gli autori di
Una volta l’estate - Edizioni Meridiano Zero, un libro singolare scritto a quattro mani. Sicura di non peccare di giovanilismo imperante, fenomeno particolarmente apprezzato
ultimamente in letteratura, sono particolarmente entusiasta dalla lettura di un noir dall’estetica nordica, tagliente e
sofisticata. Una lunga serie di piccoli capitoli che contengono le verità dei protagonisti in forma di introspezione.
Maya cerca nell’arte un sentire lontano dalle convenzioni,
Edoardo parte per una feroce missione in Medio Oriente
lasciando sola sua moglie incinta e mentre una postina
ribalta ogni cosa, uno psichiatra lacaniano tenta di ricomporre il caleidoscopio. L’estate dell’umanità scompare ma
c’è ancora qualcosa che Maya ed Edoardo possono fare
per salvarsi. Una storia che lascia sapore di ennui, di quello stato depressivo che annuncia il momento maniacale
dell’ispirazione. Immagino un approccio ludico, il nonsense
esistenziale mentre ci si appresta a compiere un lavoro di
scrittura di questo genere. Ebbene, il risultato supera ogni
aspettativa, complice il transfert letterario dei due autori.
Apprezzare con uniformità un libro scritto a quattro mani
non è semplice, i rimandi sono troppi e si rischia di rendere cronologica o peggio enciclopedica la posizione
della critica, impegnata a riconoscere il tratto singolo e
la loro complementarietà. In questo caso invece gli autori formano invece un unico, eccezionale corpus generativo, e il diario serrato degli avvenimenti si declina nelle due polarità con la stessa forza e la stessa sensibilità.
Straordinario evento questo, perché il linguaggio di entrambi non ha la sobrietà sintattica che potrebbe essere appannaggio di chiunque ma possiede la musicalità
scaturita dell’uso elevato della Parola. La trama si svela infatti all’interno dei personaggi stessi estremizzati nel-
80
la caratterizzazione delle patologie umane di personalità,
conclamate o suggerite dalle diagnosi psicoanalitiche.
Personalità borderline quella di Maya, elegante icona dark
in cui riconoscere la caverna buia dell’adolescenza di un
genio. Musa lacaniana e simulacro vivente di ogni disordine esistenziale Maya attrae, in un vortice di angoscia e
di smarrimento. Ciò che cerca nell’Arte è la fine dell’infinito, dell’incompiutezza in cui è condannata a vivere per
la colpa di Elettra e per quella di Eva, vagabonda errante
rea di aver svelato l’enigma della lussuria. Una figura di
una complessità spudorata ed estrema che si confronta con un protagonista maschile perfettamente integrato
dal magnifico Luigi Annibaldi come immagine speculare
del femminino in decadenza. Compiuto solo nell’aspetto
sociale, Edoardo sceglie la roulette russa di un legame
che si nutre della trascendenza del sogno e degli umori
della carne. Le offre la libertà in cambio di una culla uterina dove adagiare i tormenti, libertà-dipendenza dall’arte. Anche Nietzsche crede nel valore salvifico dell’arte, in
una delle sue prime fasi filosofiche, ma come nell’epilogo del romanzo non riuscirà ad evitare la morte di Dio.
I flussi di pensiero che ispirano le descrizioni sono di una
pregevolezza assoluta, un mondo liquido e instabile che vive
dentro gli occhi malati di allucinazioni o costretti a fissare l’orrore di una guerra. Ma l’estate della Grecia, i corpi che dormono abbracciati come il sigillo dei serpenti sono più forti, e
potenti, di un legame quotidiano di ordinaria sregolatezza.
Ci si perde nella narrazione, fino a quando amare la pazzia si rivela l’unico antidoto alle coercizioni.
Antonella Rizzo
TITOLO Una Volta l’Estate
AUTORE Ilaria Palomba - Luigi Annibaldi
EDITORE Meridiano Zero
PREZZO DI COPERTINA 13,00 €
PAGINE 159
ISBN 8882374092
81
<<<InDICAZIONI
Il sole che nessuno vede
- meditare in natura e ricostruire il mondo -
InDICAZIONI>>>
di tiziano fratus
Entrare nel bosco. Uscirne. Non essere più la stessa persona che vi era entrata. Immergersi nell’acqua di un torrente,
di una cascata, lasciarsi lavare dall’acqua limpida, fresca
di una sorgente. Le mani a coppa in raccoglimento: dissetarsi attraverso colei che scorre, che segue un sentiero tortuoso, a noi ignoto, per arrivare limpida alla nostra bocca.
La goccia di rugiada pianse, dicendo:
« Chi, oltre il cielo, o Sole,
potrebbe contenere la tua immagine?
Io ti sogno, ma dispero di poterti servire.
Sono troppo piccola per rifletterti,
o grande re, la mia vita è tutta un pianto».
Rispose il Sole:
« Io illumino il cielo sconfinato,
eppure posso concedermi
ad una lieve, piccola goccia di rugiada.
Diventerò una semplice scintilla di luce,
ti riempirò, così la tua piccola vita
sarà una sfera sorridente».
È una bellissima poesia di Rabindranath Tagore da Il paniere di frutta (1915) citata ne L’ascolto delle acque, uno
dei capitoli di Il sole che nessuno vede-meditare in natura
e ricostruire il mondo- un libro in cammino come l’uomo,
il poeta, lo scrittore che lo ha firmato, Tiziano Fratus. In
cammino come l’acqua che è in movimento perpetuo, si
trasforma e si lascia plasmare da luce, terra, vento. L’ascolto delle acque è già un mantra, noi stessi siamo acqua, in ascolto profondo del mondo ascoltiamo anche noi
stessi, cerchiamo di mettere ordine in un “disordine” da
crescita selvatica che ha occupato la nostra esistenza in
inconsapevole muta, in incessante propagazione radicale
e apicale. «Sono goccia nella corrente, da ogni pensiero
82
«Sedendo quietamente senza fare nulla,
la primavera giunge e l’erba cresce da sé.»
Zenrin Kushu
nasce un torrente. Sono goccia nella corrente, da ogni
pensiero nasce un torrente. Sono goccia nella corrente,
da ogni pensiero nasce un torrente.» È uno dei mantra
che costellano il paesaggio narrativo di questo percorso
scaturito dalle meditazioni in natura che Tiziano affronta
nel suo cammino interiore. In questo libro, che è solo una
delle pagine del suo vasto poema arboreo-filosofico, ritrovo l’amore per i grandi alberi che lo accompagna fin dalla
sua prima rinascita in California, l’amore per i boschi narrativi, poetici, filosofici che sono parte integrante della sua
scrittura, del suo abitare continenti tra carta e corteccia, la
tessitura di un proprio percorso di vita solitario eppure accomunante di cui ne è fulcro e testimonianza la scrittura.
« Al termine della meditazione, quando la fonte ha scavato, sento le mani umide. Apro. Capisco che mi ha piovuto
dentro. Mi alzo e inizio a camminare: non ho più nome,
non ho più cognome, sono nessuno, sono uno spirito che
cammina.[…] Meditare nel cuore della natura è ridiventare elementi semplici, privi di pensiero» scrive Tiziano.
Meditare non per attuare il distacco dalle cose del mondo,
meditare per essere nel mondo, tacitare il pensiero, pacificare la propria esistenza almeno per un momento, diventare semplici uomini tra gli uomini. Che l’acqua si raccolga
dalle cime dei monti nelle sponde calme di un lago e che
specchi in ritrovata unità ciò che è visibile e ciò che non lo
è. Tiziano si lascia percorrere dal paesaggio, s’interroga,
si siede, raccoglie il pensiero che tende a sfuggire di mano
come quell’acqua sorgiva. Tra i faggi funamboli del bosco
del Palanfrè recita la propria preghiera, una bellissima preghiera: «Salute a te o Gran Bosco che mi stai per ospitare
nei tuoi frondai.[…] Abbi compassione di me […] accoglimi con la tua grazia, e porgi ai tuoi abitanti la mia richiesta
di cittadinanza. Fammi abitare per porzioni dei tuoi anelli
la tua stessa pace, la tua anima è chiesa e tempio[…]»
È ancora qui Tiziano a «…tentare di mettere tutto in comunione. Ciò che era mio sarà vostro. Qui nelle mie mani come nelle vostre.» Il proprio cammino di
uomo radice, spirituale e non, le letture, i libri, gli incontri, i silenzi, la propria solitudine, la tristezza, la malinconia di esistere. Il vuoto. Il silenzio. La profondità.
Il sole che nessuno vede è un libro per chi desidera «Entrare nella foresta senza muovere un filo d’erba; Entrare nell’acqua senza incresparne la superficie» ; è un libro
che va letto ma anche meditato nelle sue innumerevoli suggestioni: alla ricerca del silenzio, quello profondo,
che non è assenza di rumore ma ascolto in armonia con
ciò che esiste e lentamente si manifesta, sia che venga
speculato dall’uomo oppure no. La natura traccia il proprio corso, semplicemente esiste che venga nominata,
indagata, catalogata o che venga ignorata, è mossa da
quell’armonia nascosta, di cui parlava Eraclito, superiore all’armonia manifesta. Concetto espresso anche nello
Zenrin Kushu (raccolta Zen del XV sec.) in questi splendidi versi: «Il vecchio pino stormisce la divina saggezza.
L’uccello nascosto nel bosco canta l’eterna armonia.»
Non è il verbo, come per gli aborigeni nelle Vie dei Canti
di Bruce Chatwin, che fa esistere il paesaggio e la natura,
che lo rende reale; è la natura stessa che si rigenera -e noi
come lei- a un sole visibile ma anche a un sole invisibile
che alimenta la vita e il suo scorrere. «Al di fuori del mondo
umano, l’ordine della natura va avanti senza consultare libri» scrive il filosofo Alan Watts e -continua Tiziano Fratus«La natura emerge come un libro di regole e principi, ma
lo è anche prima che si inizi a distinguere, a nominare».
Eppure colui che scrive e canta la natura, gli alberi e il paesaggio traccia delle linee immaginarie, invisibili, ognuno
traccia la propria o più d’una, un unico vasto poema, scrive
l’autore, su cui possiamo anche noi camminare: « Il canto che dà il nome alla terra cantata continua a esistere ».
Valentina Meloni
TITOLO Il sole che nessuno vede
AUTORE Tiziano Fratus
EDITORE Ediciclo
PREZZO DI COPERTINA 15,00 €
PAGINE 176
ISBN 8865492120
83
Inascolto>>>
La scelta del Podcast per questo numero cade su “The conversation”:
http://www.theconversationpod.com/
Un podcast che comprende sia conversazioni “one to one” che in stile “tavola rotonda” con artisti contemporanei, galleristi, curatori e collezionisti che hanno sede in varie località anglofone (NYC, Los Angeles, Londra) e
si muovono a livello sia nazionale che internazionale.
Conosciamo quindi più da vicino Mat Gleason, John Walter, Ann Lewis, Deborah Fisher e molti altri ancora.
84
85