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16 dicembre 2016 delle ore 18:04
Quell’arte non allineata
Incontro con Marco Scotini, curatore della più ampia rassegna di arte esteuropea di sempre. Un
fenomeno rimosso del ‘900 che ci racconta qui
Ai Frigoriferi Milanesi, dopo "L’Inarchiviabile”,
Marco Scotini con "Non-Aligned Modernity/
Modernità non Allineata” riabilita un altro
capitolo ‘saltato’ nei manuali di storia dell’arte
del ‘900. 120 artisti per un totale di oltre 700
opere costruiscono la più grande esposizione
mai realizzata di arte esteuropea del periodo
della Guerra Fredda in grado di decostruire
l’idea stessa (tutta occidentale) di arte dell’
"altra metà dell’Europa”. La mostra, realizzata
grazie ai prestiti della Collezione Marinko
Sudac di Zagabria, si focalizza sulla realtà
artistica jugoslava, l’anomalia critica del
sistema rigidamente bipolare dei tempi predisgelo, sospesa tra Est e Ovest, tra ideologia
sovietica e liberismo occidentale, politicamente
non allineata e artisticamente non conforme al
Realismo Socialista. Un caso troppo scomodo
nell’assetto di allora che non si è limitato a
diffondere le tendenze moderniste astrattiste e
concettuali nei Paesi limitrofi (quali Ungheria,
Polonia, Cecoslovacchia di cui sono presenti
diversi materiali) ma anche un potente spirito
critico unito a sperimentazioni artistiche
radicali, molto spesso marginalizzate o
censurate per essere dissidenti, soprattutto in
quei contesti allineati al Blocco Sovietico dove
la censura era più rigorosa. Siamo di fronte a
un fenomeno fino ad ora sconosciuto che
sconfessa il primato occidentale di modernità,
scoprendo delle declinazioni autonome di
Modernismo locale che ci costringono a fare i
conti con un’altra arte dell’Est, molto più
variegata e complessa di quanto la storiografia
occidentale ha preferito livellare nel tritacarne
del Realismo Socialista allora dominante.
Insomma, un ruolo tutt’altro che marginale
quello giocato dall’arte jugoslava che,
rappresentando un’alternativa borderline troppo
scomoda di fronte alle dicotomie obbligate
della Guerra Fredda, ha pagato con l’esclusione
dai circuiti ufficiali il proprio dissenso politico
e artistico. Ecco quello che ci dice a tal proposito
Marco Scotini
definita) è una vera e propria anomalia che
scardina gli assetti artistici invalsi per anni e tali
da aver definito le collezioni museali di arte
contemporanea quanto i manuali di storia. Il
primo colpo di scena corrisponde, nel ’48, alla
rottura di Tito con l’URSS e alla nascita
dell’Astrattismo geometrico e pre-cinetico di
Exat 51 a Zagabria. L’importanza degli artisti
di Exat 51, come Ivan Picelj, Alexander Srnec,
Vlado Kristl e Richter, sta nel fatto che non
fanno solo arte nei modi convenzionali ma
anche architettura per i padiglioni dell’Expo o
graphic design. Exat 51 è, sì, l’espressione di
una "cultura del progetto” ma per un’economia
non liberista. In mostra c’è la copertina della
rivista femminile "Svijet” progettata da Srnec
che sfido chiunque nel poterla attribuire al
giusto contesto culturale e geopolitico di
provenienza. Ma che dire della forte
anticipazione di institutional critique promossa
dal Gruppo Gorgona, oppure della fine
dell’antropocentrismo dichiarata dal gruppo
sloveno OHO con il suo sconfinamento
ecologista e comunitario? Prendiamo il gruppo
dei Sei Autori di Zagabria negli anni ’70. Anche
qui un’arte apparentemente tradizionale (come
fotografia, pittura e poesia visiva) viene
realizzata ed esposta per strada con una matrice
che, però, è performativa e concettuale. Si tratta
di un’arte che sceglie come pubblico quello del
passante anonimo e che lo elegge a vero e
proprio soggetto dell’opera. Penso al lavoro di
Goran Trbuljak e Braco Dimitrijevic. Gli
esempi sono davvero molti e ogni caso è
un’ibridazione originale, sia dal punto di vista
morfologico che tematico, che solo apparentemente
potrebbe essere assimilabile a ciò che si sta
facendo al di qua della Cortina di Ferro. Sarebbe
un esperimento davvero interessante far visitare
la mostra tanto ad un pubblico dell’Ovest che
dell’Est senza fornire alcuna informazione per
vedere come, in entrambi i casi, riuscirebbe ad
orientarsi. Risulterebbe una vera e propria sfida
».
Come si è tradotto sul piano artistico l’essere
per la Jugoslavia la cerniera politicamente non
allineata tra l’Est e l’Ovest in piena Guerra
Fredda? «Credo che il ruolo della scena artistica
jugoslava, tra il ’48 e gli anni ‘80, sia stato
quello di un grande mediatore culturale che non
aderiva integralmente né alle istanze dell’arte
avanguardista occidentale né a quelle del
Realismo Socialista del Blocco Sovietico.
Questa modernità non-allineata (come l’abbiamo
Quali erano i contatti tra l’arte esteuropea e
l’Occidente? Perché nonostante lo spazio
artistico jugoslavo abbia dato un contributo
notevole allo sviluppo delle tendenze
moderniste è rimasto a lungo un capitolo
sommerso della storia dell’arte del ‘900? «
Questo è l’aspetto davvero sorprendente e,
nonostante seguo l’arte dell’Est Europa a
partire dal 2000, non sono riuscito ancora a
darmi una risposta e farmene una ragione. Di
fatto gli scambi tra Est e Ovest sono davvero
molti come si deduce dal materiale archivistico
esposto in mostra. Abbiamo selezionato
corrispondenza con Piero Manzoni, Fontana,
Mari e Dieter Roth ma anche con Germano
Celant, Argan, Trini, Bonito Oliva e Politi. Ma
penso anche al fatto che Walter De Maria nel
1970 visita il gruppo OHO a Lubiana o Chris
Burden incontra Peter Stembera e Karel Miler
a Praga e invita Stembera a Los Angeles. Milan
Knizak viene nominato da Maciunas "direttore
di Fluxus East”. Dunque non si tratta solo del
capitolo jugoslavo ma, più ampiamente,
dell’area centro-europea. Perciò potremmo
continuare a lungo, con la ricostruzione di una
vera e propria rete culturale, ma la domanda è
sempre quella: perché questi artisti non sono
entrati nelle collezioni occidentali e nei libri di
storia dell’arte? Ma non solo: perché sono stati
rimossi e solo ora vengono riscoperti e integrati
nelle sale della Tate e del MoMA? Nelle
biennali di ogni dove e nelle Documenta?»
Com’è possibile costruire un percorso
espositivo al di là dei clichés storiografici
occidentali colpevoli di aver omologato al
Realismo Socialista dominante a Est un
fenomeno artistico variegato e radicale come
quello jugoslavo? «Riguardo al percorso
espositivo, diciamo che si è trattato di definire
una sorta di mondo artistico parallelo e tangente
rispetto a quello egemonico ed esempio
esclusivo dell’arte occidentale. Per questo si è
scelto una struttura narrativa lineare e storica
che potesse non solo rendere obsoleta la
divisione accettata tra un Est realista e un Ovest
astrattista ma anche scompaginare le carte di
ogni assegnazione pre-definita. Intendo dire
che si scopre una molteplicità di mondi ad Est
e, nello stesso tempo, ci si accorge che non tutte
le conquiste artistiche e concettuali vengono
dagli Stati Uniti e dal Nord Europa. In mostra
sono visibili delle vere e proprie forme
pionieristiche di un’arte concettuale che non
sospettavamo. Penso all’uso esclusivo della
figura del meandro in bianco e nero nella pittura
di Julije Knifer prima dell’uso delle righe
colorate da parte di Daniel Buren, oppure alla
riduzione testuale delle opere nel Gruppo
Gorgona o ad un’arte "di genere” in figure come
Sanja Ivekovic, Katalin Ladik e Natalia L.L.
Per non parlare delle strategie di Mangelos
rispetto a quelle di Marcel Broodthaers o ai "
teatri invisibili” della scena praghese. Ma
muovendosi così si rimarrebbe ancora dentro i
canoni artistici occidentali mentre avrebbe più
senso confrontarsi con le modalità produttive,
espositive e di natura ideologica che informano
le diverse aree in oggetto. Dunque lo scopo del
percorso espositivo è stato quello di presentare
qualcosa che non apparisse come periferico o
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Exibart.com
marginale ma, all’opposto, mostrasse la
consistenza di un’altra polarità, equivalente a
quella con cui finora abbiamo avuto a che fare.
Per questo abbiamo scelto molte opere della
collezione Marinko Sudac che rimandavano al
Costruttivismo delle origini e la mostra stessa
apre con l’immagine di una sorta di Torre di
Tatlin – il ‘Petrova Gora’ di Bakic – che è un
grimaldello utile per leggere l’intero percorso».
La riscoperta di questa modernità ibrida e
autonoma come modifica l’idea occidentale di
modernità? «Diciamo che per il momento
sarebbe già molto se si riuscisse a inficiare la
certezza che è stata alla base della costruzione
storiografica occidentale. E, cioè, il fatto che la
modernità occidentale non avesse rivali e che
fosse da pensarsi nei termini della ‘modernità
come tale’. Per questo faceva buon gioco
ritenere l’Est socialista come arretrato, non
sviluppato e identificato solo dal realismo di
stato. Una compagine che, dunque, nel proprio
sviluppo avrebbe ostacolato l’accesso stesso
alla modernità. Adesso invece ci troviamo di
fronte ad un "Modernismo Socialista” e sono
nuove le domande da porsi di fronte a queste
opere. Me ne viene in mente una. In che modo
il Modernismo, in rapporto alle sue
determinazioni storiche e sociali specifiche, ha
potuto denotare mutualmente contrapposte
ideologie politiche?» La conoscenza dell'"altra
metà dell'Europa" è destinata a tradursi anche
nella riscrittura della storia dell'arte del
Novecento? «Sembra che solo Marina
Abramovic e Roman Opalka abbiano superato
l’esame di ammissione e siano stati ritenuti
idonei e tali da poter essere inseriti nelle
storiografie ufficiali dell’arte contemporanea.
E tutto quanto il resto? Sicuramente il mercato,
come molla trainante dell’arte contemporanea
occidentale, ha giocato un ruolo tutt’altro che
ininfluente nel considerare un’arte che, per sua
natura, era posta fuori dal mercato. Ho ben
presente le difficoltà che, anche in tempi
recenti, artisti del calibro di Ivekovic e
Stilinovic hanno posto nei confronti della
mercantilizzazione. Ma credo che il vero
problema stia in un processo di valorizzazione
di natura più ampia. Per questo sarà necessario
a breve riscrivere le storie dell’arte. Ma ciò sarà
possibile solo a condizione di utilizzare uno
sguardo non-allineato, come afferma il titolo
della mostra. Altrimenti si tratterà dell’ennesima
occasione di far apparire questo grande capitolo
come un piccolo paragrafo della nostra stessa
colonizzazione».
Martina Piumatti
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16 dicembre 2016