Omelia 50esimo_DEF - Arcidiocesi di Sassari

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Transcript Omelia 50esimo_DEF - Arcidiocesi di Sassari

La parte applicativa dell’omelia dell’Arcivescovo
UNA FEDE PAZIENTE E GIOIOSA
L’Arcivescovo ha fatto scorrere l’attualizzazione della Liturgia della Parola della Terza Domenica di
Avvento sulle parole chiave di ciascuna lettura: la fede, la pazienza, la gioia.
[…]
- Quanto alla figura di Giovanni, questa, in genere, viene riproposta per tutti gli stati di vita cristiana,
a motivo della sua provocazione profetica. Accostato in particolare ai sacerdoti e ai consacrati, direi che il
Battista, per alcune caratteristiche spirituali, può essere il prototipo del sacerdote e del consacrato, in quanto
autentico e credibile uomo di Dio, penitente, coerente, tetragono; profetico per la sua totale dipendenza da
Dio e la totale disponibilità a servirlo, a prestargli la voce; sa stare al suo posto, non invadendo ambiti e compiti
altrui, avendo ben chiara consapevolezza di sé, della sua missione e relativa responsabilità; mai presuntuoso,
ma sinceramente teso a conoscere il Messia e indicandolo nella sua vera identità: perché è venuto, chi è, che
cosa opera. È l’Agnello di Dio – così lo indica – il Salvatore che dona se stesso per salvare dalla perdizione
intere generazioni.
- Quanto alla pazienza, secondo l’immagine usata dall’apostolo Giacomo, viene unita all’esempio
dell’agricoltore, per educare la comunità alla fede costante, forte, capace di soffrire. Questa virtù mi tocca da
vicino perché è il mio punto debole, teso come sono alla concretezza, all’efficacia nell’operare, poco disposto
ad attendere inutilmente, a dover rimandare o differire nel tempo.
Ma la vita da frate, sacerdote e vescovo, con qualche salutare bastonata, costringe ad educarci alla
pazienza, a rimettere tutto, ogni giorno, in ogni azione, nelle mani di Dio, ad attendere i suoi tempi, non ad
imporre i nostri. Se pazienza è credere imparando a soffrire ogni attesa, dando senso per costruire futuro, in
qualche modo ho capito che “non c’è sofferenza che non contenga in sé una gioia più grande”. Ecco talvolta
il silenzio, che costa, i fremiti interiori di fronte ad attese inspiegabili, ritardi fuori programma, mancanza di
passione e di zelo, negligenze e indifferenze.
Molta parte della mia personalità, come ben sapete, si gioca proprio tra una fede ‘certa’, docile, a tutta
prova, e il suo esercizio nella quotidianità quando vede e si scontra negligenze, omissioni, pigrizie, ritardi
indebiti, piccoli smascherabili arrangiamenti per scusarsi o autogiustificarsi.
Nei ruoli di guida svolti tra i frati o come parroco o pastore delle Chiese particolari, ho imparato ad
obbedire più che a comandare – non è una contraddizione! –, a stare dentro le mie proporzioni, ad aiutare a
capire che, in ultima analisi, a chi ha un ruolo di guida viene chiesto di stare continuamente dentro il mistero
di morte e risurrezione di Gesù, morendo a se stessi e ottenendo quella vittoria che significa amare e servire
sino alla fine per amore.
- Quanto alla gioia, ho sempre considerato tale dono dello Spirito caratteristica essenziale
dell’annuncio, sigillo di autentica evangelicità. Quel “in perfecta laetitia servire” del mio motto episcopale è
stata una scelta sanfrancescana per rassicurarmi ancor più che davvero la gioia interiore è un segno vivo
dell’effettiva appartenenza a Cristo, dell’essere evangelizzati, frutto maturo dell’amarlo e servirlo, anche
quando dovessero arrivare bastonate, ricorda San Francesco (FF 278).
L’apparire, a volte, poco gioioso, è dovuto a un vissuto quotidiano così espropriante, da non avermi
consentito di essere più sereno, nonostante tutto. Per essere sempre imperturbabili, occorre una tale fede e
tanta grazia da superare ogni contrarietà. Chiaro per me l’ideale della gioia, ma la cruda realtà del quotidiano
(fatica, stanchezza, provocazioni, croci, contrarietà,…) non mi consente talvolta di mostrare un tratto più
sereno.
Nel raccontare i miei 50 anni di sacerdozio, vorrei fare due premesse:
- la prima è la grazia di Dio nel nascere, crescere, diventare frate, sacerdote, vescovo. Una grazia
sovrana in tutti i giorni finora vissuti, nel senso che non sarei mai stato quello che voi conoscete senza la
grazia di Dio. Con una battuta, ripeto spesso: mi sembra di essere la prova viva della grazia di stato, ossia di
quella grazia che Dio accorda – ricorda San Benedetto da Siena – a chi ricopre un ufficio o compito per una
missione. Tutto è accaduto e accade per grazia di Dio, cui ho cercato di corrispondere, nonostante i miei limiti
e le mie infedeltà.
La seconda: ho imparato a crescere e maturare come sacerdote e vescovo, grazie all’esperienza tra i
frati: dall’esercizio dei rapporti comunitari alla fraternità più semplice e schietta; dalla preghiera alla
celebrazione dell’Eucaristia; dal lavoro in convento al ministero presbiterale tra persone di ogni età e
condizione di salute; dalla cura dei registri dei Sacramenti all’amministrazione finanziaria. Si è trattato di una
naturale integrazione dello stesso soggetto in due stati di vita che si implicano a vicenda, comunicando ed
interagendo tra loro: quello religioso e quello sacerdotale. L’uno è diventato propedeutico all’altro. Così la
profezia della vita consacrata si è unita alla consapevolezza del ruolo “insostituibile dei sacerdoti e dei pastori
della Chiesa”. […]