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09 dicembre 2016 delle ore 14:01
“Venice International Performance Art Week”,
ovvero sette giorni di azioni che trasformano
Palazzo Mora nel luogo dell’accadere. Tre
domande agli ideatori VestAndPage
Hibryd body – poetic body, ritual body –
political body, fragile body – material body.
2012. 2014. 2016. Un corpo declinato
attraverso molteplici aperture su un realtà fisica
e spirituale allo stesso tempo. L’ultimo tassello
di una trilogia completamente dedicata alla
performance art come se ne vedono poche.
Ideatori e curatori, gli artisti Andrea Pagnes e
Verena Stenke, ovvero VestAndPage. Un duo
inscindibile, che crea esso stesso identità. Ogni
due anni, nel cuore pulsante di una Venezia
vinta dall’errore del turismo, di cui si dice
sempre che è vetrina e non luogo dell’accadere,
i due artisti presentano una settimana
intensissima di pura realtà, un luogo che diventa
altro da sé, attraverso cui non passi indenne.
L'inizio domani, a Palazzo Mora, dalle 18. Non
è una mostra, non è un evento, non è il mero
ripetersi di un’occasione mondana. È la soglia
del rito di passaggio Venice International
Performance Art Week, il luogo dove la
comunità si ritrova per sacrificare la sua
verginità o la sua parte animale, è
l’osservazione dall’interno. È il luogo in cui
portare la performance con tutte le sue
contraddizione, in cui il corpo corrotto e
corruttore non ha paura di mostrare la sua
primigenia purezza. Come duo abbiamo
osservato un altro duo perché ne percepiamo
sempre l’alchimia, però ci siamo avvicinati con
cautela e abbiamo deciso di parlare di loro solo
adesso che si intravede la totalità di un’opera in
tre tempi. Quest’anno è un anno chiave, si
esaurisce un discorso, si arriva alle estreme
conseguenze di una scelta fatta ormai più di
quattro anni fa. Che cosa rende quest’ultima
edizione il tassello più maturo della trilogia? «
Un elemento di novità sarà la presenza di un
gruppo di artisti storici della performance art
che si presenteranno al pubblico non solo e non
sempre proponendo azioni vere e proprie, ma
piuttosto creando situazioni di condivisione del
loro lavoro, un modo per permettere quel
passaggio di consegne tra vecchie e nuove
generazioni che è fondamentale e può avvenire
solo in presenza. In particolare ci interessano i
manifesti che sono stati scritti, come quello
della Carnal Art di Orlan, o la possibilità di
rendere omaggio a coloro che hanno reso
storico questo linguaggio. Non ci interessava
chiedere a questi artisti di mettere di nuovo il
loro corpo in gioco, non è solo questo
l’essenziale, ma la possibilità di stare in loro
presenza e di ascoltare. Persone come Franko
B, Stelarc, Marilyn Arsem fanno parte del
gruppo di Artists of Honour di questa edizione.
Un’altra novità sarà l’attenzione dedicata alla
voce, espressione della fragilità del corpo. Sarà
un uso primitivo della voce, qualcosa che va in
risonanza con la difficoltà di comunicare che
c’è oggi. Poi si focalizzerà l’attenzione sulla
fragilità psico-fisica del corpo, supportata
spesso da un’enorme forza interiore». Con che
occhi suggerisci ad uno spettatore esterno di
guardare la Performance Art Week? «Durante
la settimana osserviamo se si crea quel magico
e quell’irripetibile che nasce dal fare per l’altro.
Manteniamo l’idea di ingresso libero, vogliamo
creare orizzontalità, non gerarchia. Si dice che
l’arte faccia fatica ad incontrare il sociale, si
creano della piattaforme/cimitero per affrontare
questo tema in cui ogni artista è solo un granello
in una macina; cerchiamo di creare una sorta di
antidoto a tutto questo tramite la performance,
nel nostro piccolo. Dobbiamo sforzarci di
trovare delle nuove forme del fare. Essendo la
vita l’arte dell’incontro, la performance va a
incontrare direttamente le persone, ci si mescola
in un dialogo paritetico. Nel teatro c’è una
barriera che nella performance manca
completamente, ti trovi a dover fare qualcosa
per l’altro. Ti consegni nelle mani dell’altro».
Cosa accadrà dal prossimo anno? «Dopo esserci
presi del tempo per fare il punto della situazione
vorremmo puntare con decisione sui giovani,
sulla formazione, sulla possibilità di creare
workshop tenuti dai big e destinati a loro.
Abbiamo trovato grande talento nei nostri corsi,
ma le nuove generazioni vanno guidate e
coltivate. Per noi è prezioso il lavoro fatto qui
a Venezia da Live Art Cultures al C32 di Forte
Marghera, un luogo dove poter produrre e che
avrebbe ancora più potenzialità se sostenuto.
Vorremo un maggior legame con la città. Creare
un riferimento». (Penzo+Fiore)
In home page: Stelarc, Ear on Arm Suspension
(2012) Photo: Claudio Oyarce Sopra: Andy
Warhol-Jørgen Leth, "Still da "Andy Warhol
eating a Hamburger" dal film "66 Scenes from
America" (1982) di Jørgen Leth. Courtesy
l'artista e Louisiana Musem of Modern Art
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