4 dicembre 2016 - L`Agenzia Culturale

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Transcript 4 dicembre 2016 - L`Agenzia Culturale

263
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Milano - Basilica di Sant’Ambrogio
Rassegna
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4 dicembre 2016
A cura de: “L’Agenzia Culturale di Milano”
Con sede in Milano, via Locatelli, 4
www.agenziaculturale.it
A causa delle festività di Sant’Ambrogio e dell’Immacolata
la prossima rassegna stampa non uscirà.
Le pubblicazioni riprenderanno domenica 13 dicembre
Questa rassegna stampa è scaricabile integralmente anche dal sito www.agenziaculturale.it
Estratti da:
Ciclostilato in proprio
27/11/2016
NON È STATO ASSOLTO
DALLA STORIA
di ROMANO PRODI
È ovvio, ma tuttavia obbligatorio, scrivere che con la
morte di Fidel Castro si chiude un importantissimo
capitolo della storia contemporanea.
Diventa invece complesso dare un definitivo giudizio su
questo capitolo e ancora più complesso prevedere quale
sarà il capitolo successivo. Riflettiamo un attimo sul
passato. Fidel ha preso il potere entrando vincitore ad
Avana nel 1959 e lo ha trasferito a suo fratello Raul, di
cui è rimasto influente consigliere fino alla morte, solo
nel 2006. Un periodo di storia eterno, più lungo di
qualsiasi altra dittatura. Nel primo periodo successivo
alla rivoluzione Fidel è stato un mito per un enorme
numero di giovani idealisti di tutti i paesi del mondo.
Portava infatti con sé la speranza di un comunismo
diverso, del tutto distante dalla rivoluzione cinese e
dalla feroce e gelida dittatura dell'Urss.
Castro era nato come un democratico radicale, come
Davide contro due diversi Golia: il dittatore Batista e il
colosso americano. È diventato poi lui stesso dittatore,
reprimendo ogni dissenso e trasformandosi nel tempo
in un comunista vero, anche se protetto da temporanee
aperture e perenni sorrisi.
Una trasformazione spinta all'interno dall'obiettivo di
eliminare ogni opposizione e, all'esterno, dalla necessità
di mantenere la propria autonomia di fronte al vicino
americano, costantemente ostile nei confronti di Cuba.
Questo anche per la grande influenza politica degli esuli
cubani, determinanti nella gara elettorale della Florida e
non solo della Florida. Castro ha convissuto in perenne
conflitto con undici presidenti, da Eisenhower fino ad
Obama e le tensioni sono state costanti e continue, con
un alleggerimento soltanto nel periodo di Carter e un
primo reale colloquio fra il fratello Raul e il presidente
americano solo nel marzo di quest'anno. Un colloquio
preparato da lunghi mesi di trattative sotto l'attenta
guida della diplomazia vaticana. Alcuni osservatori,
forse con una forzatura giornalistica, hanno collegato
questa prima stretta di mano al fatto che Obama, da
giovane studente avrebbe, in consonanza con la politica
cubana, partecipato a manifestazioni in favore di
Mandela e della fine dell'Apartheid in Sud Africa.
La continua tensione con gli Stati Uniti e, soprattutto,
l'embargo americano all'importazione dello zucchero,
sono stati determinanti nell'involuzione dell'economia
cubana. In un primo tempo l'Unione Sovietica si è infatti
sostituita agli Stati Uniti come importatore ma questo
sostegno sempre più fragile e sempre più politicamente
pesante si è definitivamente annullato con la fine
dell'impero sovietico.
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 263 del 4 dicembre 2016
I limiti della politica economica cubana sono diventati
sempre più evidenti nel tempo: la collettivizzazione
dell'agricoltura ha fatto mancare il cibo in uno dei paesi
potenzialmente più fertili del mondo e la politica
sostanzialmente autarchica ha impedito ogni sviluppo
industriale. I soli punti forti sono stati nel campo
dell'istruzione e della sanità, tanto è vero che una delle
principali risorse del paese è stata generata dalle forzate
rimesse dei medici e del personale sanitario inviati dal
governo cubano a lavorare nei paesi del terzo mondo,
soprattutto nei paesi nei quali Cuba aveva sostenuto
(anche con notevoli sforzi finanziari) i processi
rivoluzionari. A questo proposito, mi viene spontaneo
ricordare che, nei nostri colloqui, Fidel Castro mi ha
soprattutto sottolineato, con l'analitica pedagogia che
era propria di un Fidel divenuto anziano, gli sforzi e i
successi ottenuti dal suo regime nel campo
dell'istruzione e della sanità.
Castro lascia quindi un Paese che, dopo cinquantasette
anni di castrismo, è ancora esausto economicamente e
vede un avanzamento solo nel settore del turismo, tanto
da essere definito, pur da non imparziali osservatori
americani, come una «Disneyland della miseria».
Non è facile prevedere a questo punto che cosa accadrà
in futuro.
Le relazioni con gli Stati Uniti sono infatti migliorate ma
la paura che un'apertura troppo rapida possa mettere il
paese nelle mano del gigante americano è ancora la
bussola della politica cubana. «L'impero non ci regala
nulla», ripete continuamente Raul ed aggiunge che
Cuba è capace di produrre da sola le cose di cui ha
bisogno e che bisogna evitare le «precipitazioni e le
improvvisazioni» che condurrebbero al fallimento. Si
annuncia quindi una politica di cambiamento
lentissimo, favorita anche dal fatto che gli eredi di Fidel
appartengono ancora alla prima generazione del
castrismo e non sono certo dei ragazzi, avendo Il fratello
Raul 84 anni e il suo vice (José Ventura) 85.
Anche se il nuovo piano per i prossimi 15 anni prevede
uno sviluppo dell'agro-industria, delle nuove tecnologie
e della ricerca, il principale problema sarà quindi quello
di trovare le risorse per mettere in atto questi obiettivi
mantenendo l'autonomia dagli Stati Uniti, soprattutto
dopo che è venuto a mancare il rifornimento di petrolio
a basso prezzo dal Venezuela, che tanto ha aiutato
l'economia cubana negli ultimi quindici anni.
Per questo motivo, anche nel caso cubano, è assai più
facile riflettere sul passato che prevedere quello che
avverrà in futuro.
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pagina 2
24/11/2016
L'orgoglio di essere cittadini europei
Siamo europei, come centinaia di milioni di nostri
compatrioti, perché pensiamo che l'Europa sia il nostro
destino, il nostro progetto e la nostra speranza. Siamo
europei perché vogliamo che i nostri Paesi esercitino
pienamente le loro sovranità di fronte a sfide quali il
cambiamento climatico, l'evasione fiscale, il terrorismo
islamico o l'aggressività russa. Crediamo che la
condivisione delle nostre sovranità nazionali sia il modo
migliore per difendere i nostri interessi comuni,
prediligendo la cooperazione e la solidarietà. Prendiamo
atto della volontà dei nostri amici britannici di preferire
un percorso solitario e di intraprendere una procedura
di divorzio e desideriamo nondimeno mantenere delle
relazioni strette con il Regno Unito, oggi e in futuro.
Chiamiamo le autorità nazionali ed europee a
concentrarsi senza indugio sulle altre numerose sfide
che l'Ue è chiamata ad affrontare con urgenza. Siamo
europei perché abbiamo in comune la democrazia, lo
Stato di diritto, la parità uomo-donna, la tutela delle
minoranze e il non ricorso alla pena di morte:
dobbiamo essere orgogliosi di questi principi, che
vediamo raramente applicati con altrettanta intensità
altrove. Consideriamo i richiedenti asilo come delle
vittime, non come delle minacce. La nostra Unione
traduce una comunanza di valori affermata nei nostri
trattati e il cui rispetto non è negoziabile; una
comunanza di valori che non può tollerare una
solidarietà selettiva. Siamo preoccupati dal rifiuto di
alcuni Stati membri di applicare le decisioni sui rifugiati
prese congiuntamente e dalle deviazioni politiche
constatate in paesi come la Polonia e l'Ungheria.
Siamo europei perché ci unisce un modello di sviluppo
capace di produrre circa un quarto della ricchezza
mondiale, sforzandosi allo stesso tempo di ridurre le
proprie emissioni di CO2. Ci rallegriamo che l'Ue abbia
fatto da capofila nel mondo per la firma dell'accordo
contro il riscaldamento climatico concluso durante la
Cop21. Teniamo alla nostra economia sociale di
mercato che si sforza di conciliare efficacia economica
e coesione sociale come nessun'altra regione al
mondo. Siamo consapevoli dei costanti sforzi di
innovazione e di competitività che è necessario
compiere per far coincidere questi due obiettivi cardinali
che restano, ai nostri occhi, indissociabili. Siamo
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europei perché la nostra lunga storia bellica ci ha
insegnato a prediligere la risoluzione pacifica delle
controversie. Non mandiamo i nostri soldati a farsi
uccidere senza uniforme nei Paesi vicini, né i nostri
giovani a farsi esplodere nei luoghi pubblici. Ma
sappiamo che il mondo non è in pace e siamo
consapevoli di quanto il nostro vicinato sia instabile in
Ucraina e in Russia, in Siria e in Iraq, in Libia e nel
Sahel. Di fronte a tali minacce dobbiamo fare fronte
comune, unirci per difenderci e sviluppare la nostra
capacità di cooperare militarmente, senza fare
esclusivamente
affidamento
al
nostro
alleato
statunitense. Siamo europei anche quando deploriamo
che le nostre interminabili «crisi tra condomini»
assorbono una parte troppo grande delle nostre
energie, su questioni che riguardano la sopravvivenza
dell'unione monetaria e la crisi dei rifugiati. Tuttavia,
constatiamo che tali crisi hanno permesso nuovi passi
avanti positivi, come il Meccanismo europeo di stabilità,
l'Unione bancaria, il Corpo europeo di guardie di
frontiera o il Corpo europeo di solidarietà. La volontà di
fare vivere una «unione nella diversità» che non ha pari
nella storia è stata nuovamente ribadita dai 27 capi di
Stato e di governo durante il recente vertice di
Bratislava, dove sono state opportunamente fissate
delle prospettive di azioni comuni, in particolare in
materia di cooperazione di polizia e giudiziaria, di
difesa e di investimenti. Spetta adesso all'insieme delle
autorità e dei cittadini promuovere una visione positiva
dell'Unione europea come fonte di opportunità e come
protezione di fronte alle minacce, e così facendo
imprimerle un nuovo slancio in vista del 60 o
anniversario del Trattato di Roma. Crediamo più che
mai che l'unione faccia la forza e che l'unione sia una
lotta che abbiamo la ferma volontà di portare avanti. Sì,
siamo europei e lo saremo ancora di più domani!
Jacques Delors, Presidente fondatore dell'Istituto
Jacques Delors, Enrico Letta, Presidente dell'Istituto
Jacques Delors e Decano dell'Ecole des affaires
internationales de Sciences Po di Parigi, Pascal Lamy,
Presidente emerito dell'Istituto Jacques Delors Yves
Bertoncini, direttore del'Istituto Jacques Delors e i
membri del Comité européen d'orientation dell'Istituto
Jacques Delors
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24/11/2016
PER RITROVARE OGNI FIGLIO PERDUTO
di MARINACORRADI
I dubbi d'un medico abortista, la via cristiana È un ginecologo 62
enne, non obiettore, vice primario in un ospedale del Vicentino.
Ha migliaia di aborti alle spalle, nella sua lunga carriera. Ateo,
simpatizzante dei Radicali, dice di averlo fatto per i diritti delle
donne, perché c'era una legge dello Stato, e qualcuno quel lavoro
lo doveva fare. Non parla come un pentito, il medico intervistato
ieri dal "Corriere della Sera". Parla come uno che ha dei dubbi,
della sofferenza, perfino della nausea davanti a quelle serie
infinita di interventi uguali. Non è il solo, e neanche il primo. Ma
ciò che colpisce è quando racconta del suo errore.
Un giorno, trent'anni fa, praticò un aborto, ma un mese più tardi si
scoprì che la gravidanza di quella donna proseguiva. Lei,
all'inizio, voleva denunciarlo. Pochi mesi dopo il dottore la
incrociò nei corridoi della nursery: aveva un bambino in braccio,
un bambino bruno attaccato al seno. La madre, ora, sorrideva.
Quell'incontro deve essere rimasto indelebile nei ricordi del
medico. «Quanti bambini mai nati potevano essere come quel
piccolo?», racconta di essersi chiesto, turbato. «Ma - prosegue mi rispondevo che sì, che era giusto. Lo era per le donne». Quelle
altre donne che peraltro quando, anni dopo un aborto, lo
incontravano in ospedale, gli dicevano: «Dottore, io questa croce
me la porterò nella tomba».
Sono spezzoni di verità quelli che emergono dall'intervista del
ginecologo veneto.
C'è la "militanza" Anni Settanta dell'uomo che ha aderito alle
ragioni del femminismo, che crede nella libertà di
autodeterminazione della donna, che - lo dice egli stesso - come
un soldato, se c'è la guerra, è pronto a partire. C'è, forse, un'ombra
ancora di lontano orgoglio, per quando era medico abortista nella
terra-cuore della ex Balena bianca democristiana. C'è il disprezzo
per chi si arricchiva con gli aborti clandestini. C'è insomma il
dirsi, da parte del dottore, che ha fatto quel che si doveva fare.
Ma poi, c'è l'"errore", e quel giorno in cui si trova faccia con il suo
"errore", un bambino in braccio a sua madre. E il sussulto nel
profondo: ma tutti quelli che non ho fatto nascere, erano come
questo qui? Che è un pensiero simile a quello di tante che, giovani
o sole o povere, non hanno voluto il figlio che attendevano; ma
poi, anni dopo, più mature, con il primo figlio in braccio, o
guardando il bambino di un'amica, sussultano alla stessa maniera:
mio Dio, ma "lui" era come questo qui? E il cuore, raccontano,
allora ha un tonfo grave, come se cadesse giù, in una profondità
infinita.
È questa la croce che tante, anche ormai anziane, confessano al
loro medico di un tempo, prendendolo magari in disparte nel
corridoio dell'ospedale, fermandolo un istante: «Questa croce,
dottore, non me la toglierò mai più».
Perché un giorno d'improvviso forte e straziante è l'evidenza: era
un bambino, esattamente come quello avuto anni dopo, come il
nipote che oggi, da vecchie, considerano la propria gioia più
grande. La medesima evidenza che ha fatto vacillare un medico
con mille aborti alle spalle, è quella che cuce segretamente il
dolore nel cuore di una moltitudine di donne.
Ma, cosa possono fare? Quel figlio è morto, e lo hanno scelto loro.
E nessun altro figlio sarà uguale. Pare un tormento cieco e senza
fine.
La sola speranza, è il perdono di Dio. Scrive il Papa nella sua
Lettera apostolica Misericordia et misera: «Non esiste alcun
peccato che la misericordia di Dio non possa raggiungere e
distruggere».
E allarga in modo permanente la possibilità di dare l'assoluzione
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per un aborto a ogni sacerdote.
Perché quelle croci in fondo al cuore sono troppe.
Il perdono non significa che è come se non fosse successo niente,
giacché è impossibile: quella morte c'è stata. Ma significa che il
figlio perduto sarà ritrovato, vivo, in Dio. E quel giorno sarà un
sentirsi come la donna cui per "errore" il figlio era stato lasciato in
grembo, nel momento in cui lo ha avuto fra le braccia, vivo. Una
felicità non dicibile; nemmeno forse umanamente immaginabile,
perché più grande è la gioia, quando si ritrova ciò che si credeva
per sempre perduto.
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26/11/2016
Contro il femminicidio
Papa Francesco: "Dio vuole
dignità e libertà per le donne”
Una ferita a tutta la società. Una piaga da
sradicare. Nella Giornata internazionale che l'Onu
ieri ha dedicato all'eliminazione della violenza
sulle donne anche in Italia un ampio coro di voci
e di appelli si è levato contro questo fenomeno
diffuso.
"La violenza contro le donne è inaccettabile.
Eliminarla è un obiettivo che ogni Paese civile
deve perseguire con decisione", ha detto il
presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Una "piaga ancora aperta, in Italia e nel mondo",
l'ha definita ancora il capo dello Stato, mentre
anche il papa ha voluto far sentire la sua voce su
questo tema: "Quante donne sopraffatte dal peso
della vita e dal dramma della violenza! Il Signore
le vuole libere e in piena dignità". La presidente
della Camera, Laura Boldrini, per porre ancora di
più l'accento sull'argomento, proprio in questi
giorni ha deciso si pubblicare i nomi di chi l'ha
offesa e insultata sui social e al proposito è stata
contattata dai vertici di Facebook per un incontro.
Il ministro dell'Interno Angelino Alfano ha fornito
dati che, pur nella drammaticità della situazione,
accendono una luce meno negativa. "I reati legati
alla violenza di genere, nell'ultimo anno, sono
calati".
pagina 4
25/11/2016
L'altolà europeo alla Turchia di Erdogan
di VITTORIO EMANUELE PARSI
Finalmente l'Unione Europea batte un colpo sullo
sconcio della sempre più approssimativa e
pericolante democrazia turca. Attraverso un
voto quasi unanime del Parlamento riunito a
Strasburgo (478 favorevoli, 37 contrari, 107
astenuti) ha chiesto alla Commissione e agli Stati
membri di congelare temporaneamente le
trattative di adesione della Turchia all'Unione. Si
tratta del primo passo ufficiale concreto da parte
di un'istituzione della Ue da quando è cominciata
(e non si è mai interrotta) l'infinita serie di
purghe messe in atto dalle autorità turche "in
risposta" al fallito e mai chiarito golpe del 15
luglio scorso. Continua pagina 33 Il presidente
Erdogan ha tuonato sulla "non validità" del voto
dell'Europarlamento - non si capisce con quale
autorità e su che base sia stato emesso il giudizio
- mentre le azioni di intimidazione e vera e
propria repressione da parte del suo regime nei
confronti di ogni forma di critica e opposizione
continua senza sosta. Alle decine di migliaia di
militari, magistrati, docenti universitari e
professori, funzionari pubblici, giornalisti,
imam, e persino imprenditori arrestati,
incriminati, licenziati, sospesi dal servizio si
sono aggiunti la chiusura di giornali, radio, tv e
siti internet, e la revoca dell'immunità
parlamentare per oltre un centinaio di
rappresentanti, in gran parte appartenenti al
partito curdo (Hdp).
In realtà, nel corso degli ultimi anni,
dall'involuzione autoritaria che il regime ha
conosciuto a partire dallo sgombero violento e
ingiustificato di Gezi Park nel giugno del 2013, la
rotta di allontanamento dall'Europa intrapresa
scientemente da Erdogan non ha mai conosciuto
vacillamenti. Da quando poi il "Reis" (dal titolo
del bel libro che Marta Ottaviani dedica al
presidente turco) è diventato presidente, la
direzione è apparsa semmai sempre più segnata.
Lo stesso accordo stretto con l'Unione per
riprendersi in cambio di denaro i profughi
illegalmente giunti in Grecia e nei Balcani
attraverso la Turchia è stato un passo che ha
sancito il cambiamento di prospettiva (peraltro
bilateralmente accettato) sulla questione
dell'adesione turca all'Unione. È chiaro che un
Paese seriamente candidato a diventare un
membro a pieno titolo della Ue non avrebbe mai
accettato un accordo in sé umiliante: «Io ti pago e
tu fai il lavoro sporco per me». Allo stesso modo,
l'Unione era ben consapevole che i termini
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dell'accordo avrebbero di fatto sancito l'ulteriore
allontanamento della Turchia dalla prospettiva
dell'Unione: in nessun fidanzamento che si
rispetti lo sposo paga la futura consorte per
qualche lavoretto sconcio e sottobanco.
Erdogan solleva polvere a uso interno, quindi,
per alimentare il nazionalismo sempre più
claustrofobico con il quale cerca di occultare i
costi proibitivi delle proprie ambizioni,
velleitarie e megalomani, a una popolazione
imbesuita dal culto della personalità e peraltro
ogni giorno sempre meno in grado di accedere a
fonti alternative e libere di informazioni.
Il rallentamento della crescita dell'economia
turca è una realtà che si associa a un
indebolimento della valuta contro la quale la
Banca Centrale ha appena deciso un
innalzamento dei tassi di interesse che ha fatto
imbufalire il presidente. Ed Erdogan sa fin
troppo bene quanto la buona performance
economica associata (e non necessariamente
ascrivibile) ai suoi primi governi sia stata
decisiva per la sua ascesa.
Nel frattempo il Paese è scosso da attentati
sempre più frequenti e numerosi (l'ultimo ieri ad
Adana, vicino al palazzo del governatore),
anch'essi frutto almeno in parte delle sue
spregiudicate e fin qui inconcludenti mosse
politiche. Dopo il repentino voltafaccia del 2013,
quando Erdogan chiuse ogni spiraglio di
apertura verso i curdi allo scopo di penalizzare
l'Hdp, "reo" di avergli sottratto il controllo totale
del Parlamento, il Kurdistan è nuovamente in
fiamme e sono ripresi gli attentati. A questi si
sommano le attività dello Stato Islamico, la cui
presenza è stata a lungo tollerata nel Paese e che
ora il Reis ha scaricato.
Da questa estate Erdogan ha infatti cambiato
cavallo, sempre nel malriuscito tentativo di
esercitare un'influenza nella regione,
riavvicinandosi alla Russia di Vladimir Putin (al
quale dovrebbe la telefonata che gli ha salvato la
vita il 15 luglio), facendo peraltro irritare
Washington, la Nato e anche l'Unione Europea. Il
nuovo sodalizio è però già messo a dura prova.
Ieri Ankara ha accusato Damasco di essere
responsabile del bombardamento aereo che ha
causato la morte di tre suoi soldati (e il ferimento
di dieci) avvenuto comunque in territorio siriano.
Vedremo le reazioni di Mosca, certo, ma vedremo
anche se Mosca alzerà un improbabile disco
verde a una rappresaglia turca.
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pagina 5
24/11/2016
IL SEGRETO DEL PICCOLO PRINCIPE
diANTONIO GIULIANO
Ci sono libri che non finiscono di stupire. E Il
piccolo principe di Antoine de SaintExupéry (1900-1944) di certo lo è. Non è un
caso se oggi - pare - sia il volume più tradotto
al mondo (257 traduzioni) dopo la Bibbia,
con oltre 140 milioni di copie vendute dal
1943, quando uscì in piena guerra mondiale.
Siamo però sicuri che i numeri da record, gli
adattamenti cinematografici e il successo
commerciale non abbiano svilito o
addirittura alterato il messaggio reale del
libro?
Possiamo dire di aver compreso lo spirito
dell'autore o ne abbiamo fatto una fiaba cult,
ecologista e all'insegna del volemose bene?
Una banalizzazione da cui ci aveva messo in
guardia lo stesso Saint-Exupéry sin
dall'incipit del suo racconto. «Tutti gli adulti
sono stati bambini. Ma pochi se ne
ricordano»: se abbiamo perso la capacità di
stupirsi dei più piccoli e non proviamo a
guardare la realtà andando al di là delle
apparenze, cercando «non con gli occhi che
sono ciechi ma con il cuore», potremmo
parlare «solo di bridge, di golf, di politica e di
cravatte». Cioè di tutte quelle cose banali o di
minor conto con le quali gli adulti hanno
perso la capacità di guardare oltre.
«L'essenziale è invisibile agli occhi», la frase
più celebre del libro, non può essere ridotta
ad aforisma da social. È l'esito di una lunga e
tormentata ricerca interiore, la spia della
profonda personalità dell'autore. Come
testimonia anche un'altra opera, a torto
scarsamente considerata, dello scrittoreaviatore francese scomparso misteriosamente in volo il 31 luglio 1944: Georges
Pélissier. Un testo quindi non di facile
lettura, frammentario, che mescola stili
diversi, dalla prosa alla poesia. Un'opera
incompiuta che il suo autore avrebbe voluto e
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dovuto rivedere e che invece uscirà postuma
nel 1948. Ma è un compendio interessante,
che offre meditazioni elevate sui temi al
centro poi de Il piccolo principe: l'amore per
la rosa distinta dai generici roseti,
l'educazione di sé attraverso l'altro
(l'addomesticamento della volpe), l'amore,
l'amicizia, la preghiera, il silenzio di Dio, il
dolore, la morte, il lavoro e la fatica, il
materialismo degli uomini Scritti e appunti
che abbondano di suggestive metafore: la
cittadella è metafora dell'uomo, il cammino
nel deserto simboleggia la vita, il padre
richiama Dio, il palazzo del padre e il tempio
evocano la Chiesa. C'è dentro tutta
l'insaziabile sete di assoluto di SaintExupéry: «Appari a me, Signore, perché
tutto è molto faticoso quando si perde il gusto
di Dio».
Lo scrittore aveva capito che la peggiore
infelicità della nostra epoca è quella di aver
svuotato la dimensione spirituale. In una
società che ha smesso di interrogarsi, in cui la
nuova ideologia è quella della superficialità e
dello zapping, il "principino", racchiuso in
fondo in ognuno di noi, è uno che invece
vuole andare a fondo, che non fugge di fronte
alle difficoltà della vita e ha a cuore il destino
e la salvezza dell'uomo. Guarda con
ammirazione e meraviglia alla forza segreta
della Creazione, alla precisione con cui ogni
cosa è disegnata, e intuisce anche la risposta
e l'approdo definitivo al problema più
grande, quello della fine dei giorni su questa
Terra: «Signore, quando un giorno riporrai
nel granaio la tua Creazione, spalancaci le
porte e facci penetrare là dove non ci verrà
più risposto perché non ci sarà più alcuna
risposta da dare, ma solo la beatitudine,
soluzione di ogni domanda e volto che
appaga».
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pagina 6
18/11/2016
Il sondaggio Demos. L'avvento della Rete ha delineato e costruito un nuovo territorio. Diffuso e senza più limiti
Allarme bullismo
Dalle aule scolastiche ai social network un adolescente su 3 vittima di violenza
di ILVO DIAMANTI
Il bullismo è un fenomeno serio e odioso. Ma solo da pochi
anni ha ottenuto un'attenzione pubblica adeguata.
Anche se ha una storia lunga. Narrata dal cinema e dalla
letteratura. Oggi, però, è oggetto di preoccupazione
diffusa. E, per questo, numerosi istituti di ricerca
conducono analisi e ricerche sistematiche, sul fenomeno.
Dall'Istat all'Istituto Toniolo dell'Università Cattolica, al
Centro di ascolto di Telefono Azzurro.
Tanta attenzione riflette l'effettiva crescita del
fenomeno, ma anche il diverso significato che ha
assunto. In passato, infatti, era "accettato" come una
sorta di rito di passaggio all'età adulta. Pochi lo definivano
come un sopruso o un abuso. A scuola, ma anche nella
vita quotidiana, nei gruppi, nei quartieri, il bullo era,
spesso, la figura dominante. Il bullismo: un metodo di
affermarsi attraverso l'umiliazione di altri giovani. Più
deboli o, comunque, meno capaci di reagire. Meno
disposti ad agire nello stesso modo. Tuttavia, per quanto
serio e grave, il fenomeno appariva "circoscritto". O
almeno localizzato, non solo nello spazio, ma ancor più
nel tempo. Passati alcuni anni, il contesto cambiava.
Tanto più e soprattutto se si cambiava, appunto,
contesto. Residenza, località. E soprattutto: scuola.
Perché la scuola ne è sempre stato l'ambiente
privilegiato.
Oggi non è più così. Perché, da un lato, la "giovinezza" si è
allungata. Come gli anni di studio. E, soprattutto, perché
le distanze territoriali non contano più come un tempo.
Anzi: non contano più. Perché l'avvento della rete, dei
social media le ha vanificate. E, anzi, ha delineato e
costruito un nuovo "territorio" nel quale il bullismo, anzi, il
cyber-bullismo, si è affermato. E diffuso. Senza più limiti.
Secondo un'indagine Doxa Kids svolta su tutto il territorio
italiano, il 35% dei ragazzi dagli 11 ai 19 anni è stato
vittima di episodi di bullismo. E il fenomeno appare in
aumento, soprattutto negli ultimi anni.
Anche se bisogna tener conto che, ormai, ogni "atto
violento" commesso da giovani ai danni di altri giovani,
presso l'opinione pubblica, tende a venir catalogato come
"bullismo". Senza ulteriore specificazione.
Le vittime coinvolte, comunque, sono principalmente
femmine (nel 56,3% dei casi), tra gli 11 e i 14 anni (nel
40,6% dei casi). Infine, il 10,2% dei bambini e adolescenti
coinvolti è di nazionalità straniera.
L'Istat traccia un profilo ancor più pesante del fenomeno.
Secondo le sue indagini, infatti, nel 2014, oltre metà dei
giovani( e giovanissimi) compresi fra 11 e 17 è stato
oggetto di episodi violenti ad opera di altri ragazzi o
ragazze. Due su dieci, inoltre si dichiarano bersaglio di
"offese" ripetute. Più volte al mese. Circa il 6% è stato
vittima di questi episodi per via digitale.
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 263 del 4 dicembre 2016
Sui social network. In questo caso si tratta, soprattutto, di
ragazze. Il bersaglio privilegiato (si fa per dire) di cyberbullismo.
Se questa è la "realtà" del fenomeno, il sondaggio di
Demos, condotto nelle scorse settimane in Italia, ne
conferma la gravità e la diffusione, nella "percezione"
sociale. Infatti, 7 persone su 10 considerano il bullismo
"inaccettabile". Rispetto al 2007 (cioè, quasi 10 anni fa) si
tratta di oltre 5 punti percentuali in più. Nello stesso
tempo, fra gli italiani, è cresciuta la convinzione che il
fenomeno sia diffuso nella maggioranza delle scuole. Lo
pensa, infatti, quasi un quarto della popolazione. Ed è
interessante osservare come questa idea non sia
concentrata in una specifica coorte d'età. Risulta, invece,
trasversale. Distribuita ed estesa in diversi settori sociali e
generazionali. Certo, la preoccupazione appare molto
elevata soprattutto fra i giovani da 15 a 24 anni. E fra gli
studenti. In entrambi i casi, la convinzione che il bullismo
sia diffuso in gran parte delle scuole è condivisa da circa il
30% degli intervistati.
Giovanissimi e studenti, d'altronde, in larga parte
coincidono. E sono, per questo, il bersaglio (ma, spesso,
anche gli autori principali) del fenomeno.
Tuttavia, la diffusione del bullismo viene denunciata dai
"giovani-adulti", fra 25 e 34 anni, in misura perfino più
ampia: 33%. Si tratta dei "fratelli maggiori", che,
presumibilmente, hanno appena concluso la loro
"carriera" di studenti. E, per questo, percepiscono
l'esperienza del bullismo in misura più intensa e diretta.
Perché l'hanno lasciata alle spalle. Ma la diffusione del
bullismo è denunciata, in misura esplicita ed estesa anche
presso le generazioni successive. Soprattutto fra le
persone fra 55 e 64 anni. Mentre fra gli "anziani" (oltre 65
anni) la percezione del fenomeno risulta decisamente
limitata (12%).
Probabilmente perché è stata metabolizzata nel tempo.
Oppure perché, come si è detto, viene ritenuta
inevitabile.
Quasi un passaggio obbligato oltre l'adolescenza.
Infine, l'influenza esercitata dalla rete e dai social network
sulla crescita degli atti di bullismo appare "data per
scontata" da una quota maggioritaria della popolazione.
Ne sembrano convinte, soprattutto, le persone più
anziane, con oltre 65 anni d'età e livello di istruzione
meno elevato. Le componenti sociali, dunque, che hanno
meno confidenza e meno pratica rispetto ai media
digitali. Così si conferma l'idea che il bullismo "spaventi"
soprattutto chi ne ha notizia solo - o soprattutto attraverso la radio e la TV.
Il "bullismo mediale", insomma, rischia di suscitare più
paura di quello "digitale".
©RIPRODUZIONE RISERVATA
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PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Roma - Piazza San Pietro
Domenica, 27 novembre 2016
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Oggi nella Chiesa inizia un nuovo anno liturgico, cioè un nuovo cammino di
fede del popolo di Dio. E come sempre incominciamo con l’Avvento. La
pagina del Vangelo (cfr Mt 24,37-44) ci introduce in uno dei temi più
suggestivi del tempo di Avvento: la visita del Signore all’umanità. La prima
visita – sappiamo tutti – è avvenuta con l’Incarnazione, la nascita di Gesù
nella grotta di Betlemme; la seconda avviene nel presente: il Signore ci visita
continuamente, ogni giorno, cammina al nostro fianco ed è una presenza di
consolazione; infine, ci sarà la terza, l’ultima visita, che professiamo ogni
volta che recitiamo il Credo: «Di nuovo verrà nella gloria per giudicare i vivi
e i morti». Il Signore oggi ci parla di quest’ultima sua visita, quella che
avverrà alla fine dei tempi, e ci dice dove approderà il nostro cammino.
La Parola di Dio fa risaltare il contrasto tra lo svolgersi normale delle cose,
la routine quotidiana, e la venuta improvvisa del Signore. Dice Gesù: «Come
nei giorni che precedettero il diluvio, mangiavano e bevevano, prendevano
moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si
accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti» (vv. 38-39): così
dice Gesù. Sempre ci colpisce pensare alle ore che precedono una grande
calamità: tutti sono tranquilli, fanno le cose solite senza rendersi conto che la
loro vita sta per essere stravolta. Il Vangelo certamente non vuole farci
paura, ma aprire il nostro orizzonte alla dimensione ulteriore, più grande,
che da una parte relativizza le cose di ogni giorno ma al tempo stesso le rende
preziose, decisive. La relazione con il Dio-che-viene-a-visitarci dà a ogni
gesto, a ogni cosa una luce diversa, uno spessore, un valore simbolico.
Da questa prospettiva viene anche un invito alla sobrietà, a non essere
dominati dalle cose di questo mondo, dalle realtà materiali, ma piuttosto a
governarle. Se, al contrario, ci lasciamo condizionare e sopraffare da esse,
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non possiamo percepire che c’è qualcosa di molto importante: il nostro
incontro finale con il Signore: e questo è l’importante. Quello,
quell’incontro. E le cose di ogni giorno devono avere questo orizzonte,
devono essere indirizzate a quell’orizzonte. Quest’incontro con il Signore
che viene per noi. In quel momento, come dice il Vangelo, «due uomini
saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato» (v. 40). È un
invito alla vigilanza, perché non sapendo quando Egli verrà, bisogna essere
sempre pronti a partire.
In questo tempo di Avvento, siamo chiamati ad allargare l’orizzonte del
nostro cuore, a farci sorprendere dalla vita che si presenta ogni giorno con le
sue novità. Per fare ciò occorre imparare a non dipendere dalle nostre
sicurezze, dai nostri schemi consolidati, perché il Signore viene nell’ora in
cui non immaginiamo. Viene per introdurci in una dimensione più bella e più
grande.
La Madonna, Vergine dell’Avvento, ci aiuti a non considerarci proprietari
della nostra vita, a non fare resistenza quando il Signore viene per cambiarla,
ma ad essere pronti a lasciarci visitare da Lui, ospite atteso e gradito anche se
sconvolge i nostri piani.
© Copyright 2016 - Libreria Editrice Vaticana
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LA COSCIENZA MORALE
E L'AMORE UMANO
Francesco Occhetta S.I.
La coscienza, che è tra i riferimenti più richiamati per interpretare i
cambiamenti culturali e storici del nostro tempo, occupa un posto
centrale nella riflessione morale cristiana moderna. Il Concilio Vaticano
II dedica al tema un testo che invita il credente a coltivarla come luogo di
ascolto, di giudizio, di scelta e di incontro con la voce dello Spirito.
L'uomo - leggiamo nella Gaudium et spes, n. 16 - ha in realtà una legge
scritta da Dio dentro al cuore; obbedirle è la dignità stessa dell'uomo (n.
17). La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è
solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità (n. 18).
Anche Umberto Eco, dialogando sulla coscienza insieme al card.
Carlo Maria Martini, l'ha definita «un ponte» attraverso il quale credenti e
non credenti possono ascoltarsi e comprendersi. È grazie a questa
grammatica comune che «nella fedeltà alla coscienza - aggiunge la
Gaudium et spes - i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la
verità e risolvere nella verità i tanti problemi morali che sorgono sia nella
vita dei singoli che nella collettività sociale» (ivi).
La categoria della coscienza viene citata 20 volte nell'Esortazione
apostolica Amoris laetitia (AL) di Papa Francesco, ed è stata spesso
evocata dai Padri sinodali per parlare di amore e di famiglia. Eppure, la
cultura contemporanea sembra avere svuotato il significato
antropologico di coscienza e «il senso di obbligazione» verso gli imperativi
della coscienza stessa, in particolare verso quelle «voci» che richiamano a
scelte più impegnative e onerose in senso morale: la voce divina che
risuona nel segreto, l'ascolto intimo, il giudizio, un «Tu» con cui
dialogare, l'obbedienza sincera al comando interiore «fa' questo, evita
quest'altro», la responsabilità verso l'altro. Invece, il Magistero della
Chiesa ribadisce il significato di coscienza morale per integrare la verità
e la libertà, la legge e la responsabilità, l'autorità e l'obbedienza, che, dal
latino ob-audire, significa ascoltare davanti all'Altro. È la coscienza
morale, infatti, a porre all'uomo alcune domande radicali e ineludibili:
come devo comportarmi? In che modo distinguere le voci di bene e quelle
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di male radicate nel cuore? Chi sono chiamato ad essere? Come amare
autenticamente?
La coscienza nel Magistero
Il card. John Newman, nella sua lettera al Duca di Norfolk,
pubblicata nel 1875, definì la coscienza come «una legge del nostro
spirito, ma che lo supera, che ci dà degli ordini, che indica responsabilità
e dovere, timore e speranza. [...] Essa è la messaggera di colui che, nel
mondo della natura come in quello della grazia, ci parla velatamente, ci
istruisce e ci guida. La coscienza è il primo di tutti i vicari di Cristo».
Tra le sue più belle e note preghiere sulla coscienza, ricordiamo Lead,
Kindly light, scritta nel 1832, i cui versi iniziali recitano: «Conducimi tu,
luce gentile, / conducimi nel buio che mi stringe, / la notte è scura, la
casa è lontana, / conducimi tu, luce gentile».
Il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) dedica alla coscienza
alcuni paragrafi e premette: «Quando ascolta la coscienza morale,
l'uomo prudente può sentire Dio che parla» (CCC 1777). Per la Chiesa, la
coscienza morale «è un giudizio della ragione mediante il quale la
persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto» (CCC
1778). Occorrono però due condizioni: la prima è quella di essere
presenti a se stessi, come invitava sant'Agostino in una sua lettera:
«Ritorna alla tua coscienza, interrogala». La seconda condizione è essere
prudenti, è il richiamo alla phronesis della cultura greca, quella capacità
di cercare il punto di equilibrio tra princìpi immutabili e le situazioni
concrete della vita: «La verità sul bene morale, dichiarata nella legge
della ragione, è praticamente e concretamente riconosciuta attraverso il
giudizio prudente della coscienza» (CCC 1780).
È la coscienza morale che permette di scoprire che cosa è giusto e
buono fare nelle circostanze concrete della vita. Il principio
fondamentale da seguire rimane quello descritto dai classici: bonum
faciendum et malum vitandum. Nella tradizione della Chiesa la coscienza
morale è dunque la capacità di mediare tra la comprensione della legge
divina e la comprensione di se stessi.
La coscienza del credente diventa la bussola per comprendere
l'amore radicale vissuto da Cristo e la qualità dell'amore che si vive: è
capire se e come il bene morale, dal punto di vista astratto e razionale,
diventa il bene modellato su quell'amore. Questa consapevolezza, in cui
la coscienza è illuminata dalla luce dell'esperienza di fede, è la radice che
sostiene l'Enciclica Lumen fidei (LF) di Papa Francesco: «È urgente perciò
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recuperare il carattere di luce proprio della fede [...] capace di illuminare
tutta l'esistenza dell'uomo. [...] La fede nasce nell'incontro con il Dio
vivente, che ci chiama e ci svela il suo amore [...]. Trasformati da questo
amore, riceviamo occhi nuovi, sperimentiamo che in esso c'è una grande
promessa di pienezza e si apre a noi lo sguardo del futuro. La fede [...]
appare come luce per la strada, luce che orienta il nostro cammino nel
tempo» (LF 4).
La coscienza va dunque educata, e questo è «il compito di tutta la vita»
(CCC 1784). Gli effetti di un'educazione prudente, sottolinea il
Catechismo, includono la guarigione dalle paure interiori, dall'egoismo,
dall'orgoglio, dai risentimenti, dai moti di compiacimento. Soprattutto,
obbedire alla coscienza garantisce la libertà del cuore e la pace interiore.
Dialogare nella coscienza è lo sforzo di interpretare i dati dell'esperienza,
i segni dei tempi che cambiano, i consigli delle persone rette e l'aiuto
dello Spirito.
Proprio a questo livello appare evidente la connessione tra amore e
coscienza: l'amore, inteso nella pienezza del suo significato biblico, è una
forza di comunione e di gratificazione che, mentre accoglie il dono,
spinge anche all'impegno di donarsi. Questa visione che la fede offre
dell'amore, grazie all'esperienza vissuta con Cristo risorto, determina il
rapporto inscindibile tra amore e coscienza nell'atto del decidere e del
decidersi del credente. È il Papa a precisarlo, quando si chiede: «Può la
fede cristiana offrire un servizio al bene comune circa il modo giusto di
intendere la verità? [...] Il cuore è il luogo dove ci apriamo alla verità e
all'amore e lasciamo che ci tocchino e ci trasformino nel profondo. La
fede trasforma la persona intera, appunto in quanto essa si apre
all'amore. È in questo intreccio della fede con l'amore che si comprende
la forma di conoscenza propria della fede, la sua forza di convinzione, la
sua capacità di illuminare i nostri passi. La fede conosce in quanto è
legata all'amore, in quanto l'amore stesso porta una luce. La
comprensione della fede è quella che nasce quando riceviamo il grande
amore di Dio che ci trasforma interiormente e ci dona occhi nuovi per
vedere la realtà» (LF 26).
Questo dato sulla coscienza credente, toccata dall'Amore e in cerca di
amore, spiega perché alcune norme valgano sempre davanti alla propria
coscienza: non è mai permesso di fare il male perché ne derivi un bene;
va sempre rispettata la regola d'oro del Vangelo: «Tutto quanto volete che
gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12); infine, la carità
passa sempre attraverso il rispetto del prossimo e della sua coscienza,
anche se questo non significa accettare come un bene ciò che è
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oggettivamente un male.
Il cammino della vita è un decidersi davanti a «casi di coscienza»,
quando ci si trova divisi tra l'obbedienza a una legge civile e la voce della
propria coscienza. Per decidere moralmente cosa fare è necessario
raccogliere più informazioni possibili, richiamarsi ai princìpi che
guidano la propria esistenza e interrogarsi sulle conseguenze della
propria scelta.
Appellarsi ai princìpi dell'etica come condizione per riemergere da
una crisi di senso richiede che il proprio io si relazioni e viva in rapporto a
un Tu; altrimenti i princìpi rimangono come un vestito vuoto senza un
corpo che li anima. È Romano Guardini a ricordare che i princìpi dettati
dalla coscienza sono entrati nella storia con Cristo e richiedono
un'adesione personale.
Per questo motivo san Giovanni Paolo II parla, nella Veritatis splendor
(VS), di un rapporto inscindibile tra coscienza e verità che definisce una
«teonomia partecipata, perché la libera obbedienza dell'uomo alla legge
di Dio implica effettivamente la partecipazione della ragione e della
volontà umane alla sapienza e alla provvidenza di Dio» (VS 41).
Benedetto XVI ha ricordato un altro criterio per comprendere la
coscienza; è il senso del peccato a infrangere quella «falsa serenità di
coscienza [...]. Chi non è più capace di percepire la colpa è
spiritualmente ammalato».
Il dialogo interiore
Nella coscienza l'uomo deve saper esercitare la sua libertà e la sua
responsabilità. Sarebbe bene non ridurre la voce della coscienza
all'immagine collodiana del Grillo parlante, facilmente assimilabile a
forme di richiamo in cui prevalgono le istanze del buon ordine sociale;
occorre piuttosto ripartire più a monte e ritrovare la capacità di cogliere
le dinamiche della vita interiore. La coscienza non si può ridurre al ruolo
di un censore interiore, di una voce sottilmente nemica che prescrive
divieti. Quando Papa Francesco, nell'Esortazione apostolica Amoris
laetitia, richiama la responsabilità dei coniugi a essere «storia di
salvezza», precisa che la Chiesa è chiamata «a formare le coscienze, non a
pretendere di sostituirle» (AL 37).
Quando il «funzionamento» della coscienza (cristiana) è concepito
come un tribunale civile, in cui il soggetto è inteso come il reo davanti
all'accusa di trasgressione, lo sforzo di autogiustificazione è teso a
sottrarsi per quanto possibile alla pena. Così concepita, la «voce divina» -
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il richiamo multiforme alla verità - non può che assumere il ruolo del
pubblico ministero. Essa non può per definizione essere dalla parte
dell'imputato. L'effetto di questa impostazione è quello di assegnare alla
«voce» un ruolo accusatorio, facendole assumere interiormente
quell'«atteggiamento costantemente sanzionatorio» che nell'Amoris
laetitia Papa Francesco addita come «nocivo» nelle relazioni educative,
proprio perché genera «scoraggiamento e irritazione», che allontanano
dai richiami che si ascoltano.
Nella tradizione cristiana il tema del giudizio e del confronto con la
«voce divina» non vengono affatto elusi, ma compresi in un'ottica più
globale, come emerge dalla Summa Theologiae di Tommaso d'Aquino. La
sezione «morale» dell'opera rimane il punto di riferimento da cui il
Magistero attinge gli elementi per spiegare il significato nel senso
moderno. Per san Tommaso l'obiettivo principale non è quello di mettere
la persona di fronte alle proprie responsabilità morali, ma quello di
accompagnarla in primo luogo nella comprensione dell'esperienza del
dialogo interiore e, da qui, alla scoperta della presenza benefica della
«voce divina», per divenirne convinta ascoltatrice. Piuttosto che un
pubblico ministero, quello che si incontra interiormente è un partner
affidabile, vicino alla persona anche nell'accusa del male che la segna o
di cui si è resa protagonista. Lo confermano i più recenti studi della
filosofia morale: la coscienza va anzitutto compresa come un luogo
spirituale, in cui l'esperienza morale può essere ripresa e reimpostata,
conducendo a una sempre più affinata capacità di ascolto interiore e di
riconoscimento del gusto tipico, quasi del timbro interiore della «voce
divina».
Anche sant'Ignazio di Loyola sottolinea che «non è il molto sapere che
sazia e soddisfa l'anima, ma il sentire e gustare le cose internamente». Il
discernimento delle «voci» della coscienza è anzitutto orientato
all'incontro con Dio e poi anche, come frutto di maturazione progressiva
di questo incontro, all'agire secondo il bene.
La prospettiva dell'«integrazione», richiamata a più riprese da
Francesco, si riflette in questo equilibrio tra lo spirituale e il morale.
In ascolto del vissuto, a partire dalle ferite
L'Esortazione apostolica di Francesco sull'amore umano considera
come l'impostazione di san Tommaso, in cui l'attività della coscienza si
metta in moto non tanto in presenza di infrazioni della legge contestate
da altri, quanto dinanzi alle fratture della vita. È dal dolore e dai
fallimenti di scelte fatte o di esperienze vissute che sorge l'esigenza di
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chiarire a se stessi come abbia potuto farsi strada quel surplus di male
che ferisce e sfigura. L'ambiente della coscienza inizia dunque a dilatarsi
lì dove sorge un'esigenza di comprensione di sé, per capire ciò che si
muove «dentro», e in particolare di ciò che ha condotto a un agire
corrosivo del bene.
È necessario il primato dell'ascolto sia per dare nome alle ferite
inferte e autoinferte, sia per comprendere quella nostalgia profonda che
la Chiesa chiama «desiderio di conversione», di una vita compiuta e
creativa. Usando una terminologia più classica, si inizia dando ascolto
alla pena più che mettendosi alla ricerca della colpa, che non viene elusa
ma capìta a partire dall'esperienza e da una rilettura accompagnata, la
quale consente di dare nome tanto al male quanto al bene. Si tratta di
quel «metodo induttivo» a cui Papa Francesco riconosce maggiore
efficacia in campo educativo, proprio perché sostenuto dalla forza della
scoperta, della presa di coscienza.
Le proprie decisioni fallimentari costituiscono l'ambito di riflessione
più promettente per chi volesse andare in profondità. Nel lessico di
Tommaso, questa discesa verso la comprensione delle dinamiche
profonde della vita interiore comincia dall'analisi degli «atti umani in se
stessi». La coscienza - sottolinea G. Grandi - si attiva a partire
dall'esperienza vissuta, iniziando a dilatarsi «sul fronte dell'ascolto di
quel che sta attorno ad un fatto dandogli la profondità di un vissuto. [...]
Il dialogo, si potrebbe dire, si coltiva anzitutto in una più acuta e
differenziale capacità di ascolto».
Si può dire che il «tempo qualitativo», di cui necessitano le relazioni e
che «consiste nell'ascoltare con pazienza e attenzione», lo si apprende e
coltiva anzitutto imparando a sostare dinanzi alle proprie stonature.
Occorre - annota ancora il Pontefice nell'Amoris laetitia - «fare silenzio
interiore per ascoltare senza rumori nel cuore e nella mente: spogliarsi di
ogni fretta, mettere da parte le proprie necessità e urgenze, fare spazio».
È l'ascolto che implica una capacità di lettura del «sentito», un
affinamento progressivo nel decifrare il messaggio delle percezioni: della
gioia, della tristezza ma anche dell'attrazione e della paura, il tutto senza
moralismi, senza togliere cittadinanza interiore ad alcuna delle
«passioni». «Provare un'emozione non è qualcosa di moralmente buono o
cattivo per se stesso», riprende testualmente Amoris laetitia dalla
Summa Theologiae. Piuttosto, occorre discernere in che modo i
sentimenti si intreccino con i pensieri, superando il dualismo pensaresentire, testa-cuore, che rappresenta una modalità troppo povera di
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comprensione delle tensioni interiori.
E partendo dall'ascolto più attento del fatto che può farsi strada
l'attesa di un fare altrimenti: attesa di un cambiamento possibile e non
utopistico.
Coscienza e discernimento
La coscienza è il luogo in cui ciascuno si misura con la tensione al
cambiamento. La lotta interiore può assumere configurazioni diverse: è
la tensione tra una novità suggestiva ma ambigua (tentazione) e una
abitudine buona (virtù) che, tra l'altro, mette in guardia dal cambiare
rotta; ma è anche la tensione tra una provocazione in se stessa buona
(legge), che incontra una resistenza nella persona e porta così
maggiormente alla luce una cattiva abitudine (vizio).
Riorganizzando il patrimonio concettuale della tradizione che lo
precede - da Aristotele a san Giovanni Damascano -, san Tommaso ha
provato a dare nome alle diverse forme del pensiero, suggerendo come
poter distinguere ciò che viene dalla propria esperienza (princìpi
interiori) e ciò che viene da altro, attirando verso nuove prospettive
(princìpi esteriori). Non ci si può affidare ciecamente all'idea che tutto il
male venga dall'esterno - in qualche modo la deriva estrema della
cultura dell'autenticità - e che quindi sia bene fare solo ciò che «si sente».
Viceversa, è sensato ritenere che in qualcuno il male prevalga anche
perché non c'è una memoria di bene - una virtù - pronta a farsi avanti, a
prendere parola interiore.
San Tommaso concepisce la coscienza come un atto della ragione
pratica dentro il continuo colloquio interiore. Per il Magistero la
coscienza è anzitutto luogo di incontro spirituale con la voce dello Spirito
di Dio, luogo costantemente visitato da parole e in cui risuona la Parola,
non esclusivamente come richiamo ai «no» (pur necessari), ma come
continuo e multiforme invito positivo al cambiamento possibile, alla
conversione desiderata, al bene praticabile, fatto di «piccoli passi che
possano essere compresi, accettati e apprezzati» (AL 271).
E stato scritto che per la Scrittura l'amore è dirsi «eccomi», più che «ti
amo». L'obbedienza a questo «eccomi» è la fedeltà alle voci benefiche che
risuonano nella coscienza.
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