Buona libertà - Liceo Gandini e Verri

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Buona libertà...
Non è mai banale assistere a partite di calcio disputate sul piccolo, dissestato campo del carcere di Via
Cagnola.
Il gioco punteggiava di vivacità il sabato mattina, lo scorso 26 novembre. Cielo dapprima imbronciato,
poi schiuso a un sole mite.
Quattro le squadre: due del Liceo Gandini, una dell’Istituto Pandini (ingentilita dalla presenza di due
ragazze, brave la loro parte), e una formata dai detenuti.
Poiché in prigione (parola antica, da minaccia ascoltata nell’infanzia: “Guarda che, se fai così, finisci in
prigione”...) è contingentato anche il tempo, oltre allo spazio, bisognava finire tutto entro le undici.
Perciò, le due semifinali e le due finali (tra le vincenti la prima, tra le perdenti la seconda) si sono
disputate sulla durata di due tempi di otto minuti ciascuna, e in coda è avanzato uno scampolo per un
incontro amichevole a formazioni miste.
Si è imposta la squadra due del Gandini, in vistosa pettorina gialla, che prima ha sconfitto il Pandini e
poi ha conteso il titolo alla compagine padrona di casa. La vittoria è giunta in virtù di una certa coriacea
disposizione a soffrire, perché in realtà le individualità migliori si son fatte notare dall’altra parte, specie
in un paio di interpreti di origine marocchina, tanto volitivi quanto puntigliosi nell’applicazione.
Molto di più, il cronista improvvisato non saprebbe dire, anche perché occhi e pensieri vagavano oltre il
mero dato statistico di goal e punteggi: troppo particolare il contesto del calcio in carcere, perché
l’attenzione si soffermasse sul calcio stesso.
C’era ben altro da guardare. Come la facilità quasi simbolica con cui i palloni si perdevano oltre il primo
muro di cinta, e talvolta anche oltre il secondo, in una sorta di insopprimibile anelito alla libertà.
Oppure, il contrasto fra le forme eleganti e nobili della cupola di San Cristoforo da una parte e l’edificio
del carcere, grigio, squadrato e cosparso di grate, dall’altra: se ne scorgevano perfino sul tetto, di
grate. A suggerire come l’ansia umanissima di evadere dalla coercizione potrebbe non escludere anche
le più strampalate e rischiose via fuga.
Non per caso, alla fine, mentre studenti e detenuti si salutavano rientrando dal campetto nelle viscere
stesse di quell’edificio, con un briciolo di amara concessione alla retorica i secondi dicevano ai primi:
“Buona libertà”.
Augurio che, se voleva essere straziante, ci è riuscito.
Non senza innescare l’ultimo e forse più disagevole pensiero della mattinata. Ai carcerati che si
congedavano con quelle parole tanto cariche di invidia e rimpianto, sarebbe stato infatti onesto
rispondere: “Sapeste come siamo per lo più inconsapevoli della nostra buona sorte; che scempio e che
scialo facciamo, là fuori, della nostra libertà; come siamo colpevolmente insoddisfatti, o infelici, o peggio - annoiati di quel privilegio!”.
Ma, per fortuna o per buon senso, a chi sperimenta magari per anni la costrizione dentro un carcere
reale, fatto di muri, chiavistelli e regole, nessuno di noi liberi ha osato ricordare la stupidità delle carceri
interiori in cui sappiamo tanto spesso e tanto scelleratamente rinchiuderci.
Stefano Corsi