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INU
Istituto Nazionale di Urbanistica
Sezione Friuli Venezia Giulia
FRIULI 1976: UN MODELLO O UN LABORATORIO DELLA RICOSTRUZIONE?
A ogni evento sismico che si abbatte sull’Italia, si ripercorrono, come è peraltro naturale, le vicende
dei precedenti terremoti che hanno segnato i destini di territori e popolazioni.
Quello del Friuli (6 maggio-15 settembre 1976) viene costantemente riproposto per il buon esito della
ricostruzione, tra le poche che in Italia si possano annoverare come di successo. E inevitabilmente si
parla di “Modello Friuli”. Così come, inevitabilmente, ci si chiede come mai questo modello virtuoso
sia stato a ogni occasione riproposto, ma, alla prova dei fatti, mai realmente applicato.
Andando più a fondo su questa apparentemente “strana” situazione, si scopre da una parte
quanto sia improprio (e per certi aspetti fuorviante) rifarsi alla ricostruzione del Friuli come a
un “modello”, dall’altra quali siano state le peculiarità di una vicenda effettivamente positiva,
alcune delle quali possono ancor oggi tornare utili nell’affrontare nuovi e drammatici eventi.
BUONE PRATICHE E ATTITUDINE ALL’ADATTAMENTO
Le basi della riuscita della ricostruzione del Friuli (di cui vanno giustamente orgogliosi i protagonisti:
popolazione, amministratori, tecnici) vanno ricercate innanzitutto nell’applicazione di una serie di
“buone pratiche”: sussidiarietà orizzontale e verticale, cooperazione, processi partecipativi, pianificazione, semplificazione burocratica. La particolarità del caso friulano è data dal fatto che tutte queste
“buone pratiche” sono state applicate concretamente, determinando nel loro insieme una notevole
capacità di resilienza del sistema.
Va detto però che questa lettura della ricostruzione è possibile oggi, a posteriori, ripercorrendone il
processo, mentre nel momento in cui i fatti accadevano c’era forse in pochi la consapevolezza che si
stava seguendo un percorso organico. Anche perché il terremoto stesso e tutta la fase successiva
sono stati naturalmente caratterizzati dall’imprevedibilità. Basti solo ricordare la replica delle scosse
distruttive del 15 settembre del 1976 (poco più di quattro mesi dalle precedenti del maggio) che hanno
completamente modificato la prospettiva nella quale si erano mosse fino a quel momento le forze in
campo, pretendendo un radicale e immediato adattamento alla nuova situazione.
Forse, a ben guardare, l’aspetto più significativo di quanto successo, è stato la costante capacità di
adattamento a situazioni che mutavano ed evolvevano rapidamente. Per questo motivo parlare di
modello da applicare, come solitamente viene fatto, risulta perlomeno improprio.
È utile a tal proposito ricordare alcuni aspetti (problemi via via affrontati e risolti; errori e contraddizioni; questioni contingenti improvvisamente presentatesi…) che possono meglio spiegare cosa si
voglia intendere per attitudine all’adattamento.
Infatti, la vicenda del post terremoto del Friuli, che oggi si può anche ricostruire come processo coerente, si è svolta nei fatti come successione di eventi il più delle volte imprevedibili, decisioni rapide
e non sempre condivise, conflittualità esplicite e via via superate. Alcuni di questi aspetti ancor oggi
permettono riflessioni e insegnamenti utili, altri invece sono strettamente legati alle contingenze di
quel tempo (ricordiamoci che si sta parlando di quarant’anni fa), che oggi non costituiscono più un
problema essendo stati ampiamente superati dagli sviluppi di nuove tecniche.
ASPETTI IMPORTANTI DELL’ESPERIENZA FRIULANA
Senza voler essere né sistematici, né tantomeno esaustivi, si possono isolare alcuni aspetti particolarmente “illuminanti”.
• Già il primo atto della ricostruzione del Friuli fu un incrocio tra caso, condizioni favorevoli e capacità di cogliere il momento. Di fronte a una situazione politica nazionale di transizione, a Camere
sciolte, l’allora capo del Governo Aldo Moro scelse di affidare all’autonomia della Regione Friuli
Venezia Giulia i compiti della ricostruzione. Questa decisione poggiava anche sulla fiducia
riposta nella classe politica di allora, che fu capace di fare causa comune superando le divisioni
politiche e coordinandosi nell’impegno di favorire le concordi decisioni parlamentari sulle
leggi nazionali, fondamentali per la ricostruzione. Dall’altro lato lo Statuto speciale del Friuli
Venezia Giulia, in quanto Regione autonoma, consentì di utilizzare soluzioni innovative rispetto
alla legislazione nazionale in molte materie chiave, delle quali aveva piena competenza.
RICOSTRUZIONE
AFFIDATA
A REGIONE E COMUNI
• Dopo un terremoto la situazione di assoluta emergenza che si crea, sia nelle cose che nelle persone, richiede un immediato intervento esterno. Così è stato in Friuli con l’intervento dello Stato
sia per la parte operativa (non esisteva ancora la Protezione civile, ma molto numerosa era la
presenza di militari sul territorio), sia per quella organizzativa e decisionale (il Commissario straordinario di nomina governativa). La ricostruzione invece va gestita secondo criteri e con attori
diversi: non è la prosecuzione naturale della fase dell’emergenza. In Friuli il passaggio dalla
fase emergenziale a quella riabilitativa è stata una transizione delicata, non senza qualche frizione, ma con risultati molto buoni. I ruoli sono stati rispettati: quello del potere centrale nella
consapevolezza dei limiti operativi legati alla straordinarietà, quello del potere locale (Regione e
Comuni) nella progressiva assunzione delle responsabilità (e competenze) politiche e amministrative necessarie per dare risposte alla domanda di ricostruzione.
EMERGENZA
E RICOSTRUZIONE:
DUE FASI DIVERSE
• A fianco del sostegno alla popolazione da parte dello Stato, si è assistito a una reazione vitale
delle comunità locali che hanno sviluppato importanti azioni di autogestione. Già nelle tende dei
primi insediamenti provvisori è emersa la volontà, oltre che la capacità, di autorganizzazione che
da una parte ha reso più agevole la gestione delle esigenze primarie (gestione dei beni di prima
necessità, organizzazione degli aiuti dei numerosi volontari accorsi, circolazione dell’informazione), dall’altra ha rafforzato tra i terremotati la coscienza civica e la consapevolezza di svolgere
un ruolo importante nelle scelte del dopo sisma. Non è stato un caso che alla decisione da parte
delle autorità di pubblica sicurezza di creare nelle prime fasi un “cordone sanitario” attorno alle
aree disastrate, la popolazione, che temeva l’isolamento dal resto del paese, ha reagito sfondando
letteralmente il cordone. Questa attitudine all’autorganizzazione ha prodotto varie azioni di protesta, sfociate in una importante manifestazione (luglio 1976) svoltasi a Trieste, sede della Regione
che rappresentava il diretto interlocutore istituzionale.
LA CAPACITÀ
DELLA
COMUNITÀ LOCALE
DI AUTORGANIZZARSI
• La presenza di una popolazione che voleva essere protagonista e l’impianto della legislazione per
la ricostruzione (con un ampio passaggio di competenze alla Regione e ai Comuni) ha favorito
l’attuarsi di un processo partecipativo sostanziale, che ha dato buoni risultati nell’intero percorso della ricostruzione. Con il risultato che i Sindaci e le amministrazioni comunali, trovandosi in prima linea e con notevoli responsabilità sulle spalle, hanno condiviso le scelte più
importanti con la popolazione. Ciò ha fatto sì che, in un territorio caratterizzato da Comuni per
la maggior parte di piccola dimensione e con spiccate identità, gli esiti della ricostruzione, soprattutto dal punto di vista urbanistico, siano stati diversificati perché in parte frutto del rapporto tra
cittadini e amministrazioni comunali. La diffusa percezione di essere parte di uno sforzo collettivo,
ha rafforzato in tutti la consapevolezza dell’obiettivo comune della ricostruzione. È maturata in
L’IMPORTANZA
DELLA PARTECIPAZIONE
questo clima, ad esempio, la scelta da parte dei dipendenti delle attività industriali distrutte o
gravemente danneggiate della zona, di condividere l’obiettivo di privilegiare il loro ripristino, accettando una forte pendolarità dai luoghi dove erano sfollati per garantire la ripresa produttiva.
• Immediatamente dopo la prima scossa distruttiva del 6 maggio, è iniziata una fase di ricognizione
sistematica dei danni subiti, prevalentemente con l’obiettivo di favorire gli interventi di recupero
sugli edifici lesionati in modo non grave per permettere a una quota di popolazione il rientro nelle
proprie abitazioni per la stagione invernale. La replica distruttiva del 15 settembre ha dimostrato
quanto fosse errata e superficiale questa valutazione, rendendo tutti consapevoli (in primis la popolazione) del reale significato del termine “sicurezza”. La conoscenza però del quadro dei
danni acquisita nel frattempo, perlomeno di quelli al patrimonio edilizio, è stata fondamentale
per iniziare a quantificare le necessità finanziarie per gli interventi di ricostruzione e ad
abbozzare le leggi per governarne il processo. La conoscenza dell’ammontare dei danni, delle
loro diverse tipologie e localizzazioni è un primo passaggio fondamentale alla base delle azioni
successive. È una precondizione indispensabile per avviare il processo riabilitativo.
LA RICOGNIZIONE
DEI DANNI
• Contestualmente alla fase ricognitiva (e in forza di quella) in Friuli si sono subito definiti i perimetri dei territori interessati dall’evento sismico, differenziandoli a seconda della gravità:
disastrati, gravemente danneggiati, danneggiati. Le perimetrazioni (anche in relazione al
nuovo evento sismico di settembre) sono poi cambiate senza però stravolgere l’impianto iniziale.
Anche questo rappresenta un passaggio importante, soprattutto per la tempestività con cui viene
effettuato, prima che cioè si risveglino appetiti e opportunismi che spingono altri territori a farsi
includere nelle aree che potranno in seguito usufruire di finanziamenti. L’allargamento artificioso
dei perimetri, amplificando la domanda di sostegno economico, indebolisce infatti inevitabilmente
le possibilità delle aree più colpite.
LA PERIMETRAZIONE
DELLE AREE COLPITE
• Al problema legato alla riabilitazione della parte di territorio della regione direttamente colpito
nelle sue funzioni primarie, è stato contestualmente affiancato il tema di maggior respiro del
recupero e dello sviluppo socio–economico di un ambito territoriale molto più ampio. Infatti
nella legge quadro nazionale per la ricostruzione sono state, tra le altre, previste (e finanziate)
opere infrastrutturali importanti come l’autostrada Udine–Tarvisio e il raddoppio della ferrovia
Pontebbana, come pure interventi altrettanto significativi come l’istituzione a Udine dell’Università
del Friuli. Queste scelte, rivelatesi centrali per il successo della ricostruzione, sono il frutto di un
ragionamento, se si vuole, abbastanza semplice: l’evento sismico determina una cesura fortissima con il passato e per un tempo più o meno lungo tutte le energie della comunità sono impegnate nel ripristino delle condizioni perdute. È necessario che a riabilitazione avvenuta la popolazione si venga a trovare in un contesto socio–economico che a sua volta si è evoluto
strutturalmente, offrendo condizioni che favoriscano la permanenza sul territorio, pena
l’esodo per mancanza di occasioni di occupazione. Va ricordato che l’area colpita è sempre
stata terra di emigrazione e solo negli ultimi decenni era iniziata una fase di stabilizzazione.
• Il problema delle scelte territoriali, sia per l’organizzazione della fase transitoria (prefabbricati) che
di quella definitiva della ricostruzione, si è avvalso in maniera continua degli strumenti della pianificazione territoriale e urbanistica. Ne fa fede la constatazione che gli strumenti urbanistici comunali (vigenti o adottati in tutti i Comuni terremotati) vennero utilizzati a partire dalla individuazione delle aree per i villaggi provvisori. La Regione autonoma Friuli Venezia Giulia, da pochi anni
istituita, potendo contare sulla piena competenza urbanistica, si era già dotata di una legislazione
che prevedeva un Piano urbanistico regionale (all’epoca pronto per l’approvazione, entrato in vigore nel 1978 per adattare i contenuti alle esigenze sopravvenute con il terremoto) che regola-
LO SVILUPPO
SOCIO-ECONOMICO
DELL’AREA VASTA
L’IMPORTANZA
DELL’URBANISTICA
mentava i Piani regolatori comunali e i Piani particolareggiati attuativi di questi, secondo una logica “a cascata”. Si può dire in sostanza che la ricostruzione è stata governata dal punto di
vista territoriale attraverso la strumentazione urbanistica ai vari livelli, con la particolarità
però che la sequenza prevista ex lege con al vertice il piano urbanistico regionale, cui si
sarebbero dovuto adeguare quelli comunali, per poi attuarsi con i piani particolareggiati,
si è sviluppata in maniera rovesciata, adattandosi invece alle esigenze impellenti della ricostruzione. I piani particolareggiati hanno infatti dato subito risposta agli interventi edilizi che
avrebbero permesso di risolvere i problemi abitativi più complessi. L’insieme dell’attività pianificatoria sviluppatasi nel dopo terremoto (i Piani regolatori-denominati di ricognizione, i Piani per
l’Edilizia economica e popolare, i Piani di insediamenti produttivi) si è affiancata all’intento di rendere fattibile quello che all’inizio era stato uno slogan, poi diventato un obiettivo possibile e infine
attuato nella realtà: ricostruire dov’era e com’era.
• Per mettere a punto gli strumenti di pianificazione era però necessaria una conoscenza di base
del territorio, cosa oggi facilmente superabile, ma in quel 1976 rappresentava un grosso handicap. Oltre infatti alle mappe catastali, con i loro faticosi assemblaggi per costruire le cartografie
degli strumenti urbanistici comunali, e alle tavolette IGM in scala 1:25.000, c’era solo la base
cartografica sulla quale era stato elaborato il progetto di Piano urbanistico regionale, realizzata
assemblando e portando alla scala 1:50.000 le tavolette IGM. Questa carenza cartografica costituiva un problema, come è facile intuire, non solo per la rilevazione dei danni, ma anche per la
definizione dei diversi gradi di rischio sul territorio. Si dovette correre ai ripari dotandosi da un
lato di una Carta tecnica regionale (completando le rilevazioni che erano già state avviate
dalla Regione) e dall’altro avviando la riclassificazione delle zone sismiche, aggiornandole
anche in base agli eventi. Venne deciso inoltre di verificare non solo sotto il profilo geosismico,
ma anche idrologico e di altri possibili rischi le aree ove collocare prima gli insediamenti provvisori
e poi gli interventi di ricostruzione. L’Università di Trieste venne incaricata di elaborare criteri per
la valutazione della sicurezza organizzati in un apposito documento tecnico, che venne applicato
nelle previsioni insediative degli strumenti urbanistici.
LA CONOSCENZA
DEL TERRITORIO
• La scelta di ricostruire “dov’era e com’era” ha implicato la necessità di affrontare, oltre
agli aspetti geologici ed urbanistici, il problema dei numerosi interventi di riparazione degli
edifici recuperabili (nell’intera area compromessa dal sisma questi erano in netta maggioranza
rispetto agli edifici demoliti da ricostruire). La legge nazionale di disciplina delle costruzioni in
zona sismica (emanata appena due anni prima del terremoto) poco diceva sulla riparazione degli
edifici, per i quali c’era solo la prescrizione di “tendere a conseguire un maggior grado di sicurezza
alle azioni sismiche”. Anche le successive norme tecniche nazionali contenevano solo criteri per
la riparazione degli edifici in muratura. Ma nelle zone colpite dal sisma la maggior parte delle
residenze era edificata con i materiali della cultura locale, prevalentemente il sasso (di
fiume o di cava) e la pietra in casi meno numerosi. Per queste situazioni non vi era il sostegno
disciplinare e normativo necessario e gli stessi tecnici si trovarono di fronte a un compito nuovo
e difficile. Fu la Regione ad attivarsi tempestivamente, promuovendo l’elaborazione di metodi di
calcolo con l’obiettivo di conseguire negli edifici riparati la medesima capacità di resistenza alle
azioni sismiche di quelli di nuova costruzione (disciplinati dalla normativa del 1974). I “documenti
tecnici” allora predisposti costituirono di fatto un manuale per le riparazioni, che permise un vero
e proprio aggiornamento tecnico dei professionisti impegnati nelle operazioni di progettazione e
realizzazione delle opere. Oltre ai documenti per le riparazioni altri vennero emanati, con l’intento
di agevolare tutte le operazioni connesse alla realizzazione degli interventi: si tratta di un corpo
complessivo di ben 14 DT utilizzati da tutti gli “attori” della ricostruzione (progettisti, direttori dei
lavori, amministratori, segretari comunali…).
L’IMPORTANZA
DELLA DOTAZIONE
DEGLI STRUMENTI
URBANISTICI
• Per gli interventi sul patrimonio edilizio residenziale, si poneva un notevole problema di gestione
finanziaria: le norme statali di contabilità richiedevano dei complessi iter burocratici che avrebbero
irrigidito e comunque rallentato i flussi di spesa. L’attribuzione della diretta responsabilità contabile in capo alla Regione e ai Sindaci, ha consentito di gestire le risorse economiche a disposizione (notevoli, ma comunque definite) utilizzando modalità semplificate, rese possibili da una
stretta collaborazione tra la struttura regionale deputata (Segreteria Generale Straordinaria) e gli
uffici comunali di supporto ai Sindaci in veste di Funzionari delegati. Ma questo è stato possibile
per il clima di fiducia reciproca tra pubblico e privato che si era stabilito all’epoca e che
oggi difficilmente si potrebbe riprodurre. Poggia anche su queste condizioni operative “virtuose” la rapidità con cui si è potuta attuare la ricostruzione, come pure la buona utilizzazione
delle risorse disponibili.
LA GESTIONE
FINANZIARIA
• Un aspetto che a prima vista parrebbe residuale fu invece oggetto di provvedimenti ad hoc da
parte del legislatore nazionale, anche sulla base delle esperienze sul campo sviluppate dai tecnici
locali. La forte emigrazione, talvolta definitiva, dei decenni precedenti aveva compromesso la manutenzione degli alloggi, spesso abbandonati, anche nei centri insediati, e le successioni ereditarie
avevano frazionato le proprietà. Si presentava quindi la necessità di ricomporre gli alloggi,
secondo standard abitativi conformi alle necessità delle famiglie da reinsediare. Venne perciò previsto in legge che tutti gli atti inerenti alla ricostruzione fossero esenti da imposte, tasse e
bolli e che la notifica dei residenti all’estero dei beni da espropriare, necessari alla ricostruzione,
seguisse una procedura semplificata.
IL PROBLEMA
DELLA
RICOMPOSIZIONE
FONDIARIA
• Alcune scelte sono state il frutto di intuizioni, anche personali, che hanno trovato lo spazio e la
credibilità per svilupparsi nel complesso laboratorio della ricostruzione. Due esempi interessanti,
che hanno però avuto esiti diversi.
– La presenza sul territorio, soprattutto nella parte meno danneggiata, di numerose testimonianze di edificazione minore di valore storico–culturale, legata in particolare al mondo rurale
che stava ormai evolvendo verso altri modelli insediativi, ha suggerito il recupero degli episodi
più significativi, con l’obiettivo di preservare i segni di un’identità radicata sul territorio. Lo
sforzo finanziario è stato notevole, ma il risultato è stato altrettanto importante: 1.604 sono gli
edifici recuperati e restaurati (con la totale assunzione a carico della Regione delle relative
spese) a testimonianza della volontà di affidare al futuro gli esempi più significative delle
espressioni tipologiche, costruttive e materiche del passato. Tale è stata la portata dell’operazione, che ancor oggi, a quarant’anni di distanza, ci si riferisce agli edifici interessati da questi
interventi con l’espressione “articolo 8”, con riferimento all’articolo della legge sulle riparazioni (30 del 1977) che ne prevedeva la individuazione e la tutela.
– La caratteristica dell’area più danneggiata, prevalentemente montana e interessata da una
grande diffusione di piccoli Comuni e il fatto che fosse quasi tutta compresa nei perimetri di
alcune Comunità montane e di una Comunità collinare, ha suggerito di prevedere, tra gli strumenti di pianificazione, i Piani Comprensoriali di Ricostruzione, affidando il compito della loro
formazione appunto alle Comunità montane e collinare. A corredo di questa previsione di legge
era stato elaborato un documento tecnico molto dettagliato ed evoluto disciplinarmente, che in
pratica introduceva nel sistema di pianificazione regionale i Piani territoriali di Area vasta. Questa interessante innovazione, dopo una fase abbastanza vivace di elaborazione, si è pressoché
arenata di fronte alle esigenze temporali dettate dall’urgenza di ricostruire e all’impreparazione
generale a cogliere l’importanza del nuovo strumento di governo (ancor oggi questa evoluzione
della disciplina urbanistica non è approdata a una effettiva pratica applicativa).
LE SCELTE INNOVATIVE
ALTRE CONSIDERAZIONI
Da questo tentativo di raccontare più che illustrare le vicende della ricostruzione del Friuli, si possono
trarre alcune riflessioni finali.
Certamente le comunità coinvolte (dalla regionale alla locale) non avevano in dote la capacità innata
di avere subito un quadro organico di come ci si doveva comportare. La grandezza dell’evento era
tale che solo conoscerne le reali dimensioni era difficile. Se però da un lato, come detto, la sfida è
stata costantemente quella di affrontare l’imprevisto, dall’altro non è stato tutto casuale e disorganico,
pur negli errori: la tensione costante è stata quella di dare risposte rapide al contingente, cercando di
operare in coerenza con un’idea più generale di ricostruzione che via via prendeva forma. In questo
sta la capacità di resilienza dimostrata dal sistema Friuli: concretezza e man mano visioni organiche,
quelle che erano al momento praticabili.
Un altro aspetto chiave alla base della ricostruzione riuscita è la coralità della partecipazione al processo. Pur nei ruoli giocati dai singoli corpi sociali (istituzioni, popolazione, mondo economico, Chiesa,
volontariato…), a volte caratterizzati da contrapposizioni anche forti, è stata costantemente presente
in tutti la consapevolezza della necessità di doversi in qualche modo sintonizzare gli uni con gli altri,
comunque. Richiama l’immagine di un’orchestra che prova una composizione su uno spartito in corso
d’opera. E più direttori si avvicendano sul podio.
La visualizzazione della “struttura di governo” della ricostruzione in Friuli, che si trova nel museo Tiere
Motus1 di Venzone (unico museo in Italia sulla ricostruzione post sismica), riproduce, nella sua complessità, l’insieme delle azioni messe in atto per gestire l’intero processo. La scelta di legare gli enti
e le istituzioni con degli ingranaggi nasce da questa testimonianza: “Dopo il terremoto ero segretario
di un piccolo paese della Carnia; mi sentivo come una rotellina in un ingranaggio più grande di me…
Sapevo che dovevo correre e non fermarmi perché altrimenti avrei fatto rallentare l’intera macchina
della ricostruzione”. Stato, Regione, Comuni sono i “motori” di questa macchina; accanto alla Regione
(e con un ruolo ancora più importante) c’è la Segreteria Generale Straordinaria, che ha svolto gli
importanti compiti di organizzazione del Gruppo interdisciplinare centrale (composto da architetti,
ingegneri, geologi, geometri, periti industriali) autore dei 14 Documenti Tecnici, di installazione degli
alloggi provvisori, assistenza alle persone, consulenza legale… E ci sono i Comuni (137 Comuni terremotati, di cui 45 disastrati) con il Sindaco-Funzionario delegato della Regione, inedita figura istituzionale (in pratica depositario dei mezzi finanziari assegnati dalla Regione al Comune, che preside
tutti gli adempimenti della riparazione e ricostruzione degli edifici e delle opere pubbliche, dall’approvazione dei progetti all’erogazione dei contributi, e che risponde in proprio del loro corretto impiego).
Qui di seguito alcuni dati che da soli spiegano il ruolo avuto dai Comuni nella ricostruzione del Friuli.
Lo Stato ha gestito direttamente i fondi relativi alle infrastrutture, ai beni culturali, alle sistemazioni
idrogeologiche, alla istituzione della università, per una percentuale pari al 28% delle risorse complessivamente erogate per la ricostruzione. La Regione ha gestito in proprio e attraverso gli enti locali,
il restante 72%. In termini assoluti (indicizzati al 2008), lo Stato ha erogato 15.250 milioni di euro (e
ne ha gestiti 4.400), assegnando 10.830 alla Regione (per far fronte alle emergenze, alla ristrutturazione/riparazione delle opere pubbliche, agli interventi a favore delle attività produttive) la quale, aggiungendo fondi propri, ha avuto a disposizione 11.200 milioni di euro e ne ha assegnati 5.350 ai
Sindaci-Funzionari delegati.
Appare utile infine fare un confronto dimensionale tra gli eventi sismici verificatisi in Italia tra il 1968
e il 2012: non solo per mettere in relazione gli esiti dei vari sismi, ma soprattutto per evidenziare la
portata complessiva degli esiti mortali e di danno. Ciò consente di valutare quanto importante sia il
preventivo adeguamento antisismico delle costruzioni, soprattutto quelle utili nell’emergenza, ma an-
che la messa in sicurezza idrogeologica, perchè i sismi attivano dissesti importanti sul territorio e ne
compromettono l’agibilità, infrastrutture di collegamento in primis. La tabella (i cui dati esposti non
sono omogenei perché recuperati da più fonti, anche su internet) evidenzia l’alto numero di morti del
Friuli, in relazione alla popolazione coinvolta, e il correlato elevato grado di distruzione. Accanto a
questi dati, il numero degli edifici danneggiati, e successivamente ripristinati, dà testimonianza
dell’impegno richiesto per la progettazione e la esecuzione degli interventi.
BELICE
FRIULI
data evento
magnitudo
momento
(Richter)
terremoto
IRPINIA
BASILICATA
UMBRIA
MARCHE
14-25.01.1968
06.05.1976
11-15.09.1976
23.11.1980
6.1
6.4
6.0
6.5
59
90
durata (sec.
persone:
coinvolte
morte
ferite
sfollate
senza tetto
inizio 97.000
gravemente
danneggiati
danneggiati
superficie
(kmq)
coinvolte:
province
regioni
abitazioni:
distrutte
EMILIA
26.09.1997
26.03.1998
06.04.2009
20.05.2012
6.1
5.4
6.3
5.9
20
5.000.000
900.000
296
0,4‰ 370
600
1.000
600.000
989
1,6‰ 993
0,5‰ 2.914
11
309
7
3.000
8.848
100
1.600
50
7,7% 70.000
6,6% 40.000
4,6% 280.000
6.000.000
22.600
65.000
5.000
57
519
inizio 200.000
6,2% 56.000
16,6% 100.000
5,0% 300.000
20.500
inizio 156 poi 339
comuni
coinvolti:
disastrati
L’AQUILA
52
17%
137
687
76
9
33%
45
5%
37
5%
22
21% 11
29%
40
46%
314
7%
39
62% 32
1.000
7.200
38%
52
49%
336
88%
458
TP AG PA
1
5.700
17.000
UD PN
AV PZ SA
GO
BN CA MT NA FG
1
3
18.000
20.000
75.000
50.000
PG TR
2
AQ
MO FE
PS TE
MN RE BO RO
1
3
danneggiate
Nota
1 Il Museo Tiere Motus è esposto a Palazzo Orgnani Martina di Venzone; la sua realizzazione è frutto dell’impegno appassionato dell’Associazione
dei Sindaci e dei Comuni terremotati che ha inteso testimoniare come venne organizzata la ricostruzione del Friuli dopo i terremoti del 1976. I
curatori della esposizione sono l’arch. Floriana Marino e l’ing. Alberto Moretti, mentre la direzione grafica è dell’arch. Giorgio Dri. Tiere Motus
risponde all’esigenza di ricordare i “protagonisti” della ricostruzione, ripercorrendo le tappe di quella esperienza, passando attraverso il ricordo
delle vittime e la solidarietà nazionale e internazionale. Il museo privilegia chi ha vissuto in prima persona quegli avvenimenti (nelle vesti di
amministratore, di politico, di volontario, di tecnico, di imprenditore, di semplice cittadino) per ripercorrere assieme gli avvenimenti gli avvenuti in
Friuli nei dieci-dodici anni della ricostruzione post sismica. Al piano terra di palazzo Organi Martina si può vedere la simulazione “in realtà virtuale”
del crollo del Duomo di Venzone e propone una fedelissima riproduzione dei cinematismi di crollo effettivamente verificatisi durante il terremoto
del 6 maggio. La ricostruzione virtuale del Duomo è stata realizzata ripercorrendo la struttura originale dell’edificio religioso: ogni parte architettonica coinvolta nei crolli è stata accuratamente modellata in “grafica 3D” quasi pietra su pietra, fino all’ottenimento di animazioni al computer
compatibili con le più probabili ipotesi di crollo formulate dagli esperti.