21/11/2016 - studio ducoli

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Lunedì, 21 novembre 2016
IL CASO DEL GIORNO
FISCO
Costi per il car sharing
a deducibilità limitata
per l’impresa
Chiusura d’ufficio delle partite IVA dopo tre
anni di inattività
/ Pamela ALBERTI
Oltre alle tradizionali forme di acquisto in proprietà, leasing o noleggio
delle auto, tra le imprese è sempre
più diffuso l’utilizzo del servizio di
car sharing aziendale.
Il car sharing (letteralmente, “auto
condivisa”) è un servizio che permette di utilizzare un’automobile su prenotazione, prelevandola dall’area di
parcheggio prescelta e pagando in
ragione dell’effettivo utilizzo del veicolo.
Sul trattamento, ai fini della determinazione del reddito, dei costi sostenuti dall’impresa per il servizio di car
sharing non sono stati forniti, a
quanto ci consta, chiarimenti ufficiali.
In linea di massima, poiché il servizio fornito sarebbe simile al noleggio, dovrebbero essere applicabili le
limitazioni previste per tale fattispecie dall’art. 164 del TUIR. Nello specifico, per le auto aziendali è prevista
la deducibilità in misura pari al 20%
dei canoni di noleggio, nel limite di
3.615,20 euro.
Secondo parte della [...]
L’Agenzia delle Entrate prevederà specifiche forme di comunicazione preventiva
al contribuente
/ Emanuele GRECO e Paola RIVETTI
Nell’ambito del “pacchetto semplificazioni” inserito nel Ddl. di conversione del DL 193/2016, ritorna la
chiusura d’ufficio delle partite IVA
da parte dell’Agenzia delle Entrate
nei confronti dei soggetti che, nei
tre anni precedenti, risultano non
aver esercitato attività d’impresa,
arte o professione.
Le modifiche che il legislatore intenderebbe apportare all’art. 35 comma 15-quinquies del DPR 633/72 portano a riprodurre, in buona parte, la
disposizione originariamente introdotta con il DL 98/2011 (manovra
correttiva), rimuovendo le successive modifiche apportate alla norma
dal DL 16/2012 (c.d. “decreto semplificazioni”).
Il “nuovo” testo dell’art. 35 comma
15- quinquies del DPR 633/72 consentirebbe, dunque, all’Agenzia delle Entrate di chiudere ex officio le
partite IVA dei soggetti che, sulla base dei dati e degli elementi in suo
possesso, risultino non aver esercitato nelle tre annualità precedenti
attività d’impresa ovvero attività artistiche o professionali. A tal fine, sono
fatti salvi i poteri di controllo e accertamento in capo all’Amministrazione
finanziaria.
La disposizione non prevede ulteriori
specificazioni, a differenza della versione originariamente introdotta con
il DL 98/2011 che, quale indice di inattività, faceva riferimento anche
all’omessa presentazione della dichiarazione IVA, ove dovuta, per tre
annualità consecutive. Sarà un apposito provvedimento del direttore
dell’Agenzia delle Entrate a definire i
criteri e le modalità attuative della
chiusura delle partite IVA risultanti
“inattive”.
Un criterio potrebbe essere rappresentato dall’assenza di operazioni attive e passive nel triennio considerato (elemento che potrebbe risultare, in
maniera immediata, anche dall’assenza di comunicazioni trimestrali
delle fatture emesse e ricevute e delle
liquidazioni periodiche).
Va, d’altro canto, rilevato [...]
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IN EVIDENZA
FISCO
Cessione d’azienda senza immobili con registro al 3% anche sui
crediti
Perdite fiscali delle neocostituite trasferite al socio “qualificato”
Valori dell’area fabbricabile per ICI/IMU e registro non per forza
uguali
ALTRE NOTIZIE
/ DA PAGINA 8
Opzioni dimenticate con
remissione in bonis dal
2017
/ Alfio CISSELLO e Massimo NEGRO
Determinate opzioni per l’accesso a
particolari regimi fiscali vanno esercitate, a seguito del DLgs. 175/2014, nel
modello UNICO o IRAP e non più tramite apposita [...]
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ancora
IL CASO DEL GIORNO
STUDIO DUCOLI
Costi per il car sharing a deducibilità limitata per
l’impresa
Dovrebbero applicarsi le disposizioni previste dall’art. 164 del TUIR per il noleggio
/ Pamela ALBERTI
Oltre alle tradizionali forme di acquisto in proprietà,
leasing o noleggio delle auto, tra le imprese è sempre
più diffuso l’utilizzo del servizio di car sharing aziendale.
Il car sharing (letteralmente, “auto condivisa”) è un servizio che permette di utilizzare un’automobile su prenotazione, prelevandola dall’area di parcheggio prescelta e pagando in ragione dell’effettivo utilizzo del
veicolo.
Sul trattamento, ai fini della determinazione del reddito, dei costi sostenuti dall’impresa per il servizio di car
sharing non sono stati forniti, a quanto ci consta, chiarimenti ufficiali.
In linea di massima, poiché il servizio fornito sarebbe
simile al noleggio, dovrebbero essere applicabili le limitazioni previste per tale fattispecie dall’art. 164 del
TUIR. Nello specifico, per le auto aziendali è prevista la
deducibilità in misura pari al 20% dei canoni di noleggio, nel limite di 3.615,20 euro.
Secondo parte della dottrina, l’abbonamento annuale e
le fatture mensili delle corse fruite dovrebbero considerarsi entrambi quale controprestazione per il noleggio dell’auto e, poiché il servizio ha comunque durata
di dodici mesi indipendentemente dai giorni di effettivo utilizzo del mezzo, il limite previsto dalla normativa fiscale non dovrebbe essere ragguagliato ad anno.
Un diverso orientamento dottrinale considera, invece,
due distinte prestazioni: una connessa ad una controprestazione in denaro determinata all’atto di iscrizione al car sharing (quota fissa); una derivante dall’effettivo utilizzo del mezzo (quota variabile).
Solo quest’ultima prestazione sarebbe simile al noleggio, per cui la stessa dovrebbe essere sottoposta alle limitazioni previste per tale fattispecie dall’art. 164 del
TUIR; per la quota fissa, invece, sarebbe ipotizzabile un
diverso trattamento meno restrittivo, non essendo tecnicamente inquadrabile in nessuna delle tipologie disciplinate dal citato art. 164.
Tale distinzione appare tuttavia opinabile, considerando che anche le spese relative alla quota fissa sono relative al servizio di “noleggio” dell’auto.
Con particolare riferimento all’utilizzo del servizio di
car sharing da parte dei dipendenti dell’impresa, si evi-
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denzia che la ris. n. 83/2016, relativa al trattamento dei
rimborsi delle spese sostenute per tale servizio, non affronta la questione dal punto di vista della deducibilità
in capo all’impresa.
In linea generale, i costi relativi alle auto concesse in
uso promiscuo ai dipendenti per la maggior parte del
periodo d’imposta sono deducibili nel limite del 70% ai
sensi dell’art. 164, comma 1, lett. b-bis) del TUIR.
Tuttavia, nel caso in cui il dipendente o il collaboratore sia stato autorizzato ad utilizzare, per una specifica
trasferta, un proprio automezzo o un veicolo a noleggio, le relative spese di trasporto sono deducibili, dal
reddito d’impresa, per un importo massimo pari, ai
sensi dell’art. 95 comma 3 del TUIR, al costo della percorrenza (tariffe ACI) o alle tariffe di noleggio relativi
ad automezzi di potenza non superiore a 17 cavalli fiscali, in caso di motore a benzina, o a 20 cavalli fiscali,
se con motore diesel.
Car sharing dipendenti deducibile come trasferta
Qualora il dipendente abbia utilizzato per una specifica trasferta un’auto del car sharing, le relative spese
sarebbero quindi deducibili dal reddito d’impresa ai
sensi del citato art. 95 comma 3 del TUIR.
Ciò in quanto il servizio di car sharing è assimilabile
ad un noleggio e le informazioni fornite nel documento rilasciato dalla società che fornisce il servizio attestano l’effettivo spostamento dalla sede di lavoro e
l’utilizzo del servizio da parte del dipendente.
Si evidenzia, inoltre, che la citata ris. n. 83/2016 riconduce tra i rimborsi spese esenti ex art. 51 comma 5 del
TUIR anche l’ipotesi in cui la società/datore di lavoro
sia intestataria della fattura emessa dalla società di
car sharing e al lavoratore sia rimborsata la spesa sostenuta per l’utilizzo del veicolo (c.d. “utilizzo incrociato”).
Pertanto, lato impresa, anche l’ipotesi di “utilizzo incrociato” rientra nella previsione di cui all’art. 95 comma 3 del TUIR, laddove la fattura della società di car
sharing fornisca le informazioni in merito allo spostamento del dipendente e all’effettivo utilizzo da parte
dello stesso per la trasferta.
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FISCO
STUDIO DUCOLI
Chiusura d’ufficio delle partite IVA dopo tre anni di
inattività
L’Agenzia delle Entrate prevederà specifiche forme di comunicazione preventiva al contribuente
/ Emanuele GRECO e Paola RIVETTI
Nell’ambito del “pacchetto semplificazioni” inserito nel
Ddl. di conversione del DL 193/2016, ritorna la chiusura d’ufficio delle partite IVA da parte dell’Agenzia delle Entrate nei confronti dei soggetti che, nei tre anni
precedenti, risultano non aver esercitato attività d’impresa, arte o professione.
Le modifiche che il legislatore intenderebbe apportare
all’art. 35 comma 15-quinquies del DPR 633/72 portano
a riprodurre, in buona parte, la disposizione originariamente introdotta con il DL 98/2011 (manovra correttiva), rimuovendo le successive modifiche apportate alla norma dal DL 16/2012 (c.d. “decreto semplificazioni”).
Il “nuovo” testo dell’art. 35 comma 15- quinquies del
DPR 633/72 consentirebbe, dunque, all’Agenzia delle
Entrate di chiudere ex officio le partite IVA dei soggetti che, sulla base dei dati e degli elementi in suo possesso, risultino non aver esercitato nelle tre annualità
precedenti attività d’impresa ovvero attività artistiche
o professionali. A tal fine, sono fatti salvi i poteri di
controllo e accertamento in capo all’Amministrazione
finanziaria.
La disposizione non prevede ulteriori specificazioni, a
differenza della versione originariamente introdotta
con il DL 98/2011 che, quale indice di inattività, faceva
riferimento anche all’omessa presentazione della dichiarazione IVA, ove dovuta, per tre annualità consecutive. Sarà un apposito provvedimento del direttore
dell’Agenzia delle Entrate a definire i criteri e le modalità attuative della chiusura delle partite IVA risultanti
“inattive”.
Un criterio potrebbe essere rappresentato dall’assenza
di operazioni attive e passive nel triennio considerato
(elemento che potrebbe risultare, in maniera immediata, anche dall’assenza di comunicazioni trimestrali
delle fatture emesse e ricevute e delle liquidazioni periodiche).
Va, d’altro canto, rilevato che la semplice interruzione
delle operazioni attive e passive non determina di per
sé la perdita della soggettività passiva ai fini IVA. Per
cui, come accaduto nel caso della sentenza SS.UU. n.
8059 del 21 aprile 2016, non può ritenersi venuto meno
l’esercizio dell’attività di un professionista per il semplice fatto che la partita IVA è stata chiusa (con conseguente assoggettamento ad imposta dei compensi per-
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cepiti dopo la cessazione dell’attività stessa).
Un caso simile è quello dell’imprenditore individuale
che affitta l’unica azienda posseduta: in tale contesto,
l’attività esercitata dall’imprenditore si considera solamente “sospesa”, per la durata del contratto di affitto di
azienda, con la conseguenza che viene mantenuto il
numero di partita IVA già attribuito (cfr. C.M. 4 novembre 86 n. 72).
In questo senso si giustifica la previsione di un termine, per il contribuente, per fornire i chiarimenti necessari all’Agenzia delle Entrate.
Attualmente è riconosciuto un termine di 30 giorni dal
ricevimento della comunicazione di chiusura della
partita IVA. Al riguardo, invece, la norma inserita nel
DL 193/2016 si limita ad affermare che, nel provvedimento attuativo, saranno previste “forme di comunicazione preventiva al contribuente”.
Novità in tema di sanzioni per la cessazione
dell’attività
Novità importanti si presentano sul piano sanzionatorio in quanto:
- da un lato, non viene riproposta l’attuale parte del
comma 15-quinquies che dispone l’automatica iscrizione a ruolo della sanzione per omessa presentazione della dichiarazione di fine attività;
- dall’altro, con un’altra specifica disposizione del “pacchetto semplificazioni”, viene prevista l’abolizione della sanzione, da 500 a 2.000 euro, per l’omessa presentazione della comunicazione di cessazione dell’attività
(a tal fine, verrebbero espunte le parole “cessazione di
attività” dal disposto dell’art. 5 comma 6 primo periodo
del DLgs. 471/97).
Pertanto, se le modifiche sopra indicate saranno approvate in via definitiva, l’eventuale chiusura d’ufficio
della partita IVA inattiva da parte dell’Agenzia, al pari
dell’omessa comunicazione di cessazione attività ad
opera del contribuente, non sarebbero più sanzionate
(almeno in base all’art. 5 del DLgs. citato), ferme restando le sanzioni conseguenti all’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi e IVA, ove dovute,
durante il periodo d’inattività.
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FISCO
STUDIO DUCOLI
Opzioni dimenticate con remissione in bonis dal 2017
Per effetto di un emendamento al DL 193/2016, entro la dichiarazione dell’anno successivo occorre
esercitare l’opzione e pagare 250 euro
/ Alfio CISSELLO e Massimo NEGRO
Determinate opzioni per l’accesso a particolari regimi
fiscali vanno esercitate, a seguito del DLgs. 175/2014,
nel modello UNICO o IRAP e non più tramite apposita
comunicazione separata (si veda “Per il consolidato fiscale, resta il dubbio tra remissione in bonis e integrativa” del 20 ottobre 2016).
L’esempio tipico è quello del consolidato fiscale, ove,
per effetto dell’art. 119 comma 1 lett. d) del TUIR, “l’avvenuto esercizio congiunto dell’opzione deve essere comunicato all’Agenzia delle entrate con la dichiarazione presentata nel periodo d’imposta a decorrere dal
quale si intende esercitare l’opzione”.
In sostanza, lo stesso avviene per la trasparenza in
merito alle società di capitali, per la c.d. tonnage tax o
per l’IRAP determinata sulla base del bilancio per i soggetti IRPEF.
Qualora l’opzione non sia stata esercitata tempestivamente, alcuni ritengono che la fattispecie debba seguire la disciplina delle dichiarazioni integrative (art. 2
del DPR 322/98), e non più la c.d. remissione in bonis
(art. 2 co. 1 del DL 16/2012), valorizzando la circostanza
che l’opzione, esercitandosi in dichiarazione, finisce
con il far parte di essa.
Per altri, invece, rimane intatta la disciplina della remissione in bonis.
Sul versante operativo, gli effetti dell’accoglimento
dell’una piuttosto che dell’altra teoria sono rilevanti.
Pensiamo all’opzione per il consolidato fiscale relativa
al triennio 2016-2018 non esercitata in UNICO 2016.
Ove si opti per la remissione in bonis, sarebbe necessario, entro il 2 ottobre 2017 (in quanto il 30 settembre
cade di sabato), ripresentare la dichiarazione con l’opzione e pagare 250 euro.
Invece, se si opta per la disciplina delle integrative, la
condotta da seguire non sarebbe neanche così chiara,
in quanto non è pacifico se si tratti di una omissione
rilevante ai sensi dell’art. 8 del DLgs. 471/97, dunque di
un’integrativa a favore del Fisco (fatto che, a seconda
di quando avviene il ravvedimento operoso, comporterebbe la necessità di versare la sanzione di 250 euro ridotta da 1/9 a 1/6), o di una dichiarazione a favore del
contribuente, che, di per sé, non postula alcuna sanzione da ravvedere.
Ora, per il futuro il problema sembra risolto dal c.d.
“pacchetto semplificazioni”, espressione dell’emendamento governativo al DL 193/2016, il cui Ddl. di conversione, dopo il via libera della Camera, deve essere esaminato dal Senato.
Il legislatore sancisce: “anche per l’esercizio delle op-
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zioni che devono essere comunicate con la dichiarazione dei redditi da presentare nel corso del primo periodo di valenza del regime opzionale resta fermo
quanto stabilito [dall’art. 2 comma 1 del DL 16/2012]”.
Però, si prevede altresì che dette disposizioni “si applicano a decorrere dal periodo d’imposta successivo a
quello in corso al 31 dicembre 2016”.
Per come è formulata la norma, sembra che l’applicabilità della remissione in bonis decorra dalle opzioni che
devono esercitarsi nell’anno 2017, pensiamo all’opzione per il consolidato fiscale relativa al triennio 20172019.
Se nel modello UNICO 2017 ci si dimentica di esercitare l’opzione, ci sarebbe tempo sino al 1° ottobre 2018 (il
30 settembre cade di domenica) per la remissione in
bonis.
Interpretando a contrario il sistema, ne potrebbe derivare che, per il pregresso, vige la disciplina delle integrative, avendo il legislatore sentito la necessità di
specificare che la remissione in bonis, per questi tipi di
opzioni, opera dal 2017.
Tuttavia, per esigenze di cautela, è bene optare per la
remissione in bonis altresì per il passato, in quanto, in
sostanza, se si rispetta l’art. 2 comma 1 del DL 16/2012
finisce con l’essere osservata anche la disciplina delle
dichiarazioni integrative.
Per il passato meglio optare per la remissione in bonis
La remissione in bonis presuppone infatti sia la presentazione della dichiarazione integrativa contenente
l’opzione, sia il pagamento della sanzione di 250 euro.
Allora, se il contribuente non ha esercitato l’opzione in
UNICO 2016, lo può fare sino al termine per UNICO
2017, versando i 250 euro.
Se optasse per l’integrativa, da un lato, essa potrebbe
essere presentata successivamente al termine per
UNICO 2017 (inquadrando l’errore come omissione,
dunque l’integrativa come a favore del Fisco), dall’altro,
occorrerebbe pagare i 250 euro non nella misura intera ma ridotta a seconda di quando ci si ravvede (non in
ragione dell’art. 2 del DL 16/2012 ma del combinato disposto degli artt. 8 del DLgs. 471/97 e 13 del DLgs.
472/97).
Ma, in tal caso, se l’Ufficio, a torto o a ragione, obiettasse che occorreva sanare l’omissione entro il termine di
UNICO 2017, potrebbe prospettarsi un lungo contenzioso, evitabile se, da subito, si opta per la remissione in
bonis.
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FISCO
STUDIO DUCOLI
Cessione d’azienda senza immobili con registro al 3%
anche sui crediti
La Provinciale di Firenze avalla la tesi dell’Agenzia delle Entrate
/ Giovambattista PALUMBO
La C.T. Prov. di Firenze, con la sentenza n. 1482/1/16
dell’8 novembre scorso ha accolto la tesi dell’Agenzia
delle Entrate sul tema dell’aliquota unitaria del 3% da
applicare alle cessioni di azienda senza immobili, in linea con quanto affermato dalla circolare 29 maggio
2013 n. 18 della stessa Agenzia.
Secondo la dottrina maggioritaria e parte della giurisprudenza (si veda Cass. n. 7196/2000), tuttavia, la tassazione della cessione d’azienda dovrebbe essere ricondotta all’art. 23 del DPR 131/86, che riguarda gli atti
“relativi a beni soggetti ad aliquote diverse”, distinguendo la tassazione applicabile a seconda che nell’atto sia, o meno, indicato il corrispettivo per ogni bene
aziendale oggetto di cessione.
Nel caso di specie, una banca aveva ceduto ad altro
istituto finanziario il ramo di azienda dell’attività bancaria e finanziaria. L’atto veniva registrato con l’applicazione, in sede di autoliquidazione, di due aliquote:
0,50% per i crediti e 3% per l’avviamento e le altre attività.
Con avviso di liquidazione di imposta suppletiva
l’Agenzia delle Entrate applicava, invece, l’aliquota unica del 3%, scomputando dal totale quanto già versato
in sede di registrazione.
I ricorrenti impugnavano l’avviso di accertamento innanzi alla C.T. Prov., affermando la correttezza della
tassazione operata in via principale, sulla base dell’applicazione del citato art. 23, commi 1 e 4, del DPR n.
131/86, ai sensi del quale, in presenza di beni o diritti di
corrispettivo singolarmente determinato per i quali
sono previste aliquote diverse, deve essere applicata
quella stabilita per ciascuno di essi.
I ricorrenti richiamavano, inoltre, gli artt. 3 e 19 dell’atto di cessione del ramo di azienda, dove si evidenziavano espressamente i beni e i diritti singolarmente determinati e quindi “scorporati” dalla massa aziendale.
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Secondo la C.T. Prov., tuttavia, il ricorso non poteva essere accolto, dato che, ai sensi dell’art. 51 del DPR
131/86, comma 4, “per gli atti che hanno ad oggetto
aziende o diritti reali su di esse il valore di cui al comma 1 è controllato dall’Ufficio con riferimento al valore
complessivo dei beni che compongono l’azienda compreso l’avviamento”.
Richiamata anche la circolare n. 18/2013
I giudici di merito richiamavano, inoltre, anche la citata circolare n. 18/2013, secondo la quale, come visto,
l’operazione è soggetta, nell’ipotesi in cui nel compendio aziendale non figurino immobili, all’imposta di registro secondo quanto previsto dall’art. 2 della Tariffa,
Parte Prima, allegata al TUR, ovvero all’imposta del 3%.
Tale aliquota, secondo la C.T. Prov., riguarda, infatti, i
corrispettivi per le attività aventi ad oggetto denaro,
crediti, magazzino, impianti, macchinari e altre immobilizzazioni materiali, marchi brevetti, ed altre immobilizzazioni immateriali.
Tali conclusioni, ad avviso dei giudici, erano infine
confermate anche dallo stesso contratto di cessione
del ramo d’azienda, dove le le parti espressamente
convenivano che il ramo compravenduto veniva ceduto nella sua organicità, stabilendo quindi un prezzo
globale dei beni che componevano l’azienda.
Non è chiaro, quindi, se la negazione dell’applicabilità
dell’aliquota dello 0,50% ai crediti derivi, secondo la
Commissione, dalla mancata precisa indicazione del
corrispettivo previsto per la loro cessione, come richiesto dall’art. 23, oppure dal fatto che la C.T. Prov. escluda l’applicabilità dell’art. 23 in caso di cessione di
azienda senza immobili (si veda “Nelle cessioni
d’azienda, registro dubbio sui crediti” dell’11 novembre
2013).
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FISCO
STUDIO DUCOLI
Perdite fiscali delle neocostituite trasferite al socio
“qualificato”
Opzione riservata ai gruppi nei quali la società cessionaria, o la sua controllante, sono quotate nei
mercati regolamentati
/ Gianluca ODETTO
L’art. 16 del disegno di legge di bilancio 2017, attualmente all’esame del Parlamento, contiene una misura
del tutto nuova nel panorama nazionale, che si sostanzia nella possibilità di cedere infragruppo le perdite fiscali anche al di fuori delle ipotesi di consolidato fiscale.
I vincoli posti dalla nuova norma sono essenzialmente quattro, e riguardano le perdite trasferibili, i rapporti
partecipativi e la natura della società cedente e della
società cessionaria.
L’agevolazione riguarda, in primo luogo, le sole perdite
prodotte nei primi tre esercizi, oggetto di riporto senza
il limite dell’80% che caratterizza le perdite prodotte
successivamente; dal testo della norma sembra emergere la possibilità di cedere le perdite prodotte in ciascun periodo d’imposta (ad esempio, quelle del primo e
del terzo periodo, ma non quelle del secondo), ma in
ogni caso la cessione deve avere ad oggetto la totalità
delle perdite relative al singolo periodo d’imposta e
non può, quindi, essere parziale.
Per quanto riguarda, invece, i rapporti di partecipazione, è previsto che tra la società neocostituita che cede
le perdite e la società cessionaria esista un rapporto
minimo del 20%, determinato attraverso i parametri
dei diritti di voto e della partecipazione agli utili. Trattasi, in questo senso, di una impostazione più “liberale”
rispetto a quella del consolidato, nel quale è prevista
una partecipazione minima superiore al 50%.
Dal tenore della nuova disposizione la cessione dovrebbe avvenire tra società partecipante e società partecipata, e non tra società “sorelle”: ad esempio, in un
piccolo gruppo in cui una capogruppo X detiene il 50%
delle azioni in una newco A e il 35% delle azioni in
un’altra partecipata B, A potrebbe cedere le perdite a X,
ma non a B.
È inoltre disposto che la cessione non possa essere effettuata dalle società che svolgono in via prevalente
attività immobiliare. Stando alla definizione contenuta nell’art. 4 comma 4 del DLgs. 147/2015, che assume
quali parametri il valore degli “immobili destinati alla
locazione” e i ricavi derivanti dall’attività di locazione,
la preclusione dovrebbe riguardare le perdite fiscali
delle immobiliari di gestione, ma non quelle delle immobiliari di costruzione e di rivendita.
Ma la limitazione più severa riguarda la natura della
società cessionaria, la quale deve avere azioni quotate
Eutekne.Info / Lunedì, 21 novembre 2016
nei mercati italiani o europei. È, però, previsto che il requisito della quotazione possa caratterizzare non solo
la società cessionaria, ma anche la sua controllante diretta o indiretta. Così, se una società quotata Z controlla una società non quotata Y, la quale a sua volta partecipa per il 25% nella società non quotata M, M può cedere le perdite a Y anche se quest’ultima non è quotata,
ma solo controllata da una quotata.
Cessione con notifica all’Agenzia delle Entrate
Venendo agli aspetti procedurali della cessione, è previsto che essa debba avvenire con le modalità dell’art.
43-bis del DPR 602/73 (quindi, con notifica dell’atto di
cessione all’Agenzia delle Entrate, al pari di quanto avviene per i crediti d’imposta). Non è invece stata prevista la più agevole modalità prevista nel successivo art.
43-ter, che si sostanzia nella cessione attraverso la
compilazione di un apposito quadro della dichiarazione dei redditi (trattasi, per i crediti d’imposta, del quadro RK): probabilmente si è tenuto conto che la cessione infragruppo con queste modalità semplificate presuppone, sempre con riferimento ai crediti, un rapporto partecipativo più elevato (oltre il 50%), oltre a un periodo minimo di possesso della partecipazione, circostanze che potrebbero avere fatto propendere per la
strada più “tortuosa” e formale della notifica.
Per quanto riguarda la posizione della società cessionaria, questa scomputa le perdite cedute secondo le
ordinarie regole, essendo però obbligata a remunerare
il vantaggio fiscale ricevuto. Su questo aspetto la norma non consente di rifarsi all’autonomia privata, prevedendo invece che la remunerazione debba in ogni
caso avvenire mediante applicazione dell’aliquota
IRES (e fissando anche il termine di pagamento nel 30°
giorno successivo a quello previsto per il saldo IRES):
in pratica, considerando la nuova aliquota del 24%, fatto in 500.000 euro l’ammontare delle perdite cedute da
A ad X, X dovrà versare ad A 120.000 euro (somma per
la quale è espressamente prevista l’irrilevanza fiscale
per entrambi i soggetti).
Da ultimo, la società cedente non può optare, per i periodi d’imposta in cui cede le perdite, per i regimi di
consolidato o di trasparenza, con l’obiettivo di evitare
surrettizi trasferimenti alla società cessionaria di perdite maturate in capo ad altri soggetti.
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STUDIO DUCOLI
Valori dell’area fabbricabile per ICI/IMU e registro
non per forza uguali
Quantificazione distinta e autonoma perché i soggetti attivi e la struttura dei due tributi sono diversi
/ Antonio PICCOLO
La Cassazione, con la sentenza n. 21830/2016, è tornata sul tema dei criteri per la determinazione dei valori
relativi alle aree fabbricabili e segnatamente sulla correlazione o meno dei valori ai fini dell’ICI e dell’imposta di registro.
I giudici di legittimità, dando continuità ai precedenti
propri pronunciamenti, hanno riaffermato in sostanza
che agli effetti dell’ICI e dell’imposta di registro (nonché delle imposte ipotecaria e catastale) la quantificazione dei relativi valori è distinta e autonoma perché
differenti sono sia i soggetti attivi che la struttura dei
due tributi, come specificamente delineati dall’art. 5,
comma 5 del DLgs. n. 504/1992 e dall’art. 51 del DPR n.
131/1986 (TUR).
Ne discende che per tali aree il valore accertato ai fini
dell’ICI – valevole dal 1° gennaio 2012 anche per l’IMU,
per esplicito richiamo dell’art. 13, comma 3 del DL n.
201/2011 (conv. L. n. 214/2011) – non può essere utilizzato per la quantificazione dell’imposta di registro e
viceversa, cioè che il valore accertato per la determinazione dell’imposta di registro non può essere utilizzato ai fini dell’ICI/IMU.
In passato, come si ricorderà, si è discusso molto
dell’operato dei Comuni che, ai fini della determinazione della base imponibile ICI, utilizzavano per le aree
fabbricabili, come unico parametro, il corrispettivo
pattuito tra venditore e acquirente per la compravendita della medesima area fabbricabile, così come indicato nel rogito notarile agli effetti dell’imposta di registro.
Ancora oggi molti Comuni prendono in considerazione solamente detto corrispettivo, nel caso in cui
quest’ultimo valore risulti superiore sia a quello dichiarato dal contribuente, presumibilmente ottenuto in ossequio ai (tassativi) criteri stabiliti dall’art. 5, comma 5
del DLgs. n. 504/1992, sia a quello predeterminato dallo
stesso ente locale ai sensi dell’art. 59, comma 1, lett. g)
del DLgs. n. 446/1997.
Nel caso oggetto della sentenza, La Commissione tributaria regionale di Torino ha confermato la decisione
dei primi giudici che, in accoglimento del ricorso cumulativo, ha annullato l’avviso di accertamento con il
quale l’ufficio aveva rettificato il valore di un terreno
edificabile dichiarato nell’atto pubblico di trasferimento stipulato nel corso del 2002. Nello specifico, i giudici
d’appello hanno disatteso gli esiti della Consulente
tecnica d’ufficio (Ctu) espletata, la quale, nel determinare comunque un maggior valore dell’immobile, aveva fatto riferimento ai criteri utilizzati dal Comune ai
fini dell’applicazione dell’ICI, il cui richiamo è previsto
dall’art. 51, comma 3, ultima parte del TUR.
Eutekne.Info / Lunedì, 21 novembre 2016
L’Agenzia si è rivolta alla suprema Corte deducendo
nell’unico motivo la violazione e la falsa applicazione
dell’art. 51 del TUR e dell’art. 5 del DLgs. n. 504/1992. Secondo la ricorrente, le “indicazioni eventualmente fornite dai comuni”, di cui al citato comma 3 dell’art. 51
del TUR, non possono ricomprendere il valore attribuito dai Comuni ai fini dell’ICI, in ragione del fatto che le
due imposte (ICI e registro) sono differenti per presupposti oggettivi e soggettivi, con la conseguenza che il
valore accertato per l’una non può essere utilizzato per
la quantificazione dell’altra, in mancanza di ulteriore
valutazione o specificazione.
I giudici di legittimità hanno accolto il ricorso perché
fondato. Essi infatti, nel solco del proprio consolidato
orientamento, hanno ribadito che i due tributi sono
differenti sotto il profilo sia strutturale che della soggettività attiva (Comuni da una parte e Agenzia delle
Entrate dall’altra). In particolare, all’occasionalità e
unicità dell’imposta di registro si contrappone la periodicità annuale dell’ICI.
Dal punto di vista oggettivo, poi, i criteri da usare per
l’ICI sono più numerosi di quelli per l’imposta di registro e comunque diversi e specificamente e tassativamente indicati nel citato comma 5 dell’art. 5 del DLgs.
n. 504/1992 (valore costituito da quello venale in comune commercio al 1° gennaio dell’anno di imposizione
avendo riguardo: alla zona territoriale di ubicazione;
all’indice di edificabilità; alla destinazione d’uso consentita; agli oneri per eventuali lavori di adattamento
del terreno necessari per la costruzione; ai prezzi medi rilevati sul mercato dalla vendita di aree aventi analoghe caratteristiche).
Sicché, come affermato nei precedenti pronunciamenti, appare nota la diversità dei criteri ordinariamente
adottati per le valutazioni ai fini dell’imposta di registro da quelli agli effetti dell’ICI/IMU (per tutte, Cass.
nn. 15078/2004, 10547/2011, 7903/2016 e 3173/2012).
In conclusione, il valore di un’area fabbricabile definito ai fini dell’imposta di registro, per la sua diversa natura e le diverse modalità di gestione della stessa, può
non coincidere con il valore venale in comune commercio determinato agli effetti dell’ICI/IMU. I criteri per
la determinazione della base imponibile di questi ultimi tributi, come dettati dal comma 5 dell’art. 5 del
DLgs. n. 504/1992, sono solo parzialmente coincidenti
con quelli adottati per l’imposta di registro. Il valore
ICI/IMU di un’area fabbricabile va quindi determinato
esclusivamente alla data del 1° gennaio dell’anno di
tassazione e con i criteri indicati nel predetto comma 5
dell’art. 5 del DLgs. n. 504/1992 (Cass. n. 9829/2016).
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LAVORO & PREVIDENZA
STUDIO DUCOLI
Libero accesso agli armadietti per le visite personali
di controllo
Per il Ministero del Lavoro sono ritenuti spazi di proprietà dell’azienda, sebbene dati in uso esclusivo
ai lavoratori
/ Mario PAGANO
Gli armadietti siti negli spogliatoi aziendali possono
essere liberamente ispezionati da parte del responsabile del negozio.
È questo l’aspetto più saliente che emerge dal parere n.
20542/2016 della Direzione generale per l’attività ispettiva del Ministero del Lavoro, fornito a riscontro di un
quesito di un ufficio territoriale, in merito alle visite
personali di controllo sui lavoratori.
La materia è disciplinata dall’art. 6 della L. 300/70, secondo il quale le visite personali di controllo sul lavoratore sono vietate fuorché nei casi in cui siano indispensabili ai fini della tutela del patrimonio aziendale,
in relazione alla qualità degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti.
Ove si versi in tale ultima ipotesi, le visite personali
potranno essere effettuate soltanto a condizione che
siano eseguite all’uscita dei luoghi di lavoro, salvaguardando la dignità e la riservatezza del lavoratore, e che
avvengano con l’applicazione di sistemi di selezione
automatica, riferiti alla collettività o a gruppi di lavoratori.
Il comma 3 del medesimo art. 6 precisa che le ipotesi
nelle quali possono essere disposte le visite personali,
nonché le relative modalità debbono essere concordate dal datore di lavoro con le rappresentanze sindacali
aziendali oppure, in mancanza di queste, con la commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del
datore di lavoro, provvede l’Ispettorato del lavoro.
Proprio in relazione al rilascio di apposita autorizzazione in merito, una nota azienda commerciale, operante nel campo della moda, ha posto l’attenzione su
due casistiche, volte a implementare la policy aziendale sulle visite personali di controllo.
La prima attiene alla possibilità di eseguire controlli a
campione sul contenuto delle borse di dipendenti e visitatori dei negozi, attraverso sistemi di selezione imparziale che rendano casuale l’individuazione del soggetto da controllare. In tal senso il Ministero ricorda
come oggi la giurisprudenza, in ragione della progressiva estensione dell’area dei diritti della personalità,
abbia ampliato il concetto di visite personali, di cui
all’art. 6, anche alle ispezioni che riguardino oggetti di
proprietà del lavoratore, quali borse, zaini e accessori
similari.
Chiarito quanto sopra e sottolineato come la problematica prospettata sia soggetta alla disciplina dell’art. 6,
unicamente in relazione al personale dipendente e
non certo alla clientela, il parere passa ad esaminare la
compatibilità del tipo di controllo proposto con la nor-
mativa di riferimento.
Dette ispezioni, per essere ammissibili, devono essere
ritenute indispensabili e ciò attraverso una doppia valutazione, che prenda in considerazione sia l’intrinseca qualità degli strumenti di lavoro o delle materie prime o dei prodotti, sia, soprattutto, la natura di extrema
ratio di detti sistemi di controllo. In altre parole, la valutazione, che deve essere effettuata in fase di autorizzazione, si fonda su due momenti.
Innanzitutto, il valore del patrimonio, oggetto di tutela,
deve essere posto in rapporto al diritto alla riservatezza e alla dignità del lavoratore, in una sorta di bilanciamento degli interessi.
Peraltro, nel caso di specie, il Ministero sembra formulare una valutazione positiva, in ragione evidentemente del valore elevato dei beni di marca dell’azienda
istante.
Tuttavia, nello stesso tempo, superato tale step, non
può mancare un esame in concreto circa la possibilità
che le esigenze di tutela patrimoniale dell’azienda possano essere garantite attraverso altri sistemi, alternativi e meno invasivi, quali, nel settore del commercio, è
possibile annoverare il divieto di introduzione di borse
nei reparti di lavoro, la sorveglianza dell’uscita dei lavoratori dai reparti, i sistemi sonori di antitaccheggio.
Ove uno di questi espedienti fosse da solo sufficiente a
garantire la tutela del patrimonio aziendale, il sistema
di controllo proposto dall’azienda non sarebbe legittimo e, quindi, neppure autorizzabile.
Di grande interesse, poi, la seconda ipotesi di controllo
posta all’attenzione del Ministero. L’azienda, infatti, si
interroga circa la possibilità da parte del responsabile
del negozio di ispezionare gli armadietti siti negli spogliatoi aziendali che, per tale ragione, ad ogni fine turno dovranno essere lasciati aperti.
In quest’ultimo caso, la scelta della Direzione generale
per l’attività ispettiva è netta, nella misura in cui la fattispecie viene ritenuta fuori dal campo di applicazione dello stesso art. 6 della L. 300/70.
La motivazione è quanto mai logica e difficilmente
contestabile, ove viene sottolineato come gli armadietti, a parere del Ministero, siano ritenuti spazi di proprietà della stessa azienda, sebbene dati in uso esclusivo ai lavoratori. In tal senso, pertanto, non potrà parlarsi di visita personale, posto che l’armadietto, anche
aderendo ai richiamati orientamenti giurisprudenziali
ampliativi, non potrà rientrare tra gli oggetti di proprietà del lavoratore, tutelati ai sensi e per gli effetti
dall’art. 6 dello Statuto dei lavoratori.
Direttore Editoriale: Michela DAMASCO
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