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Gen
Overwatch (Video Game)
Jesse McCree & Reaper | Gabriel Reyes
Jesse McCree, Reaper | Gabriel Reyes
Pre-Fall of Overwatch, Other Additional Tags to Be Added, Raccolta
di one-shot
Published: 2016-11-24 Chapters: 1/? Words: 2398
Mi potrai ritrovare nel giardino sul retro
by bardsknight
Summary
Raccolta di one-shot incentrate sul rapporto tra Gabriel e Jesse.
«Dal tuo comportamento, sembra che tu te ne stia per i fatti tuoi perché ti eri fatto un’idea
diversa del lavoro che facciamo. Siamo black ops, ma come diceva Indiana Jones in quei
vecchi film classici, il settanta percento del lavoro di un archeologo si fa studiando sui
libri.»
McCree rimase ancora decisamente perplesso, ma recuperò un minimo di spirito da bastian
contrario e rispose: «Non sapevo che guardasse film così vecchi, signore.»
«Ogni giorno si impara qualcosa, McCree. Ora, non vuoi sapere il motivo per cui non sei
ancora andato in missione?»
«Forse è perché non ho ancora letto dei libri che devo leggere?»
Che caratterino, questo imp che Gabe aveva deciso di porre sotto la propria ala protettiva.
Meglio fargli capire subito che c’era un motivo per cui Gabriel Reyes era il comandante di
Blackwatch.
«È perché non hai ancora giocato a scacchi contro di me.»
Notes
See the end of the work for notes
Per alcuni mesi dopo l’arrivo di Jesse McCree all’interno dell’organizzazione, a tutti gli agenti
sotto il comando di Reyes sembrava di avere un gatto che vagabondava per l’ala dell’edificio
riservata a Blackwatch. Non tanto per il fatto che il ragazzino dormiva tanto (perché quell’imp
sembrava avere sempre almeno un occhio aperto), quanto più per il fatto che era estremamente
territoriale e sospettoso, dimostrando però una disinvolta bravura al poligono di tiro – esattamente
come un gatto randagio che ha già fatto esperienza nelle proprie otto vite precedenti.
Come ogni felino che si rispetti, McCree aveva anche preso una serie di abitudini che cercava di
non far notare a nessuno: prima degli allenamenti trovava qualcuno con cui scommettere una
sigaretta e, dopo uno scontro leale sui materassini, fumava la propria conquista stando seduto sul
terrazzo della mensa comune, con la schiena contro i finestroni e il cappello calato sulla testa.
Come per tutti i gatti, chi lo guardava anche solo per un momento si chiedeva a che diavolo stesse
pensando e che cosa riuscisse a vedere oltre il mondo umano.
(Che poi non è vero che i gatti non si affezionano ai loro umani. È solo che—ci vuole tempo, ci
vuole dedizione, e ci vuole molta pazienza. Gabriel aveva imparato a sopportare i periodi difficili
durante l’addestramento nell’ambito degli esperimenti per creare dei supersoldati, e col tempo,
conoscendo persone come Jack, aveva sviluppato un sesto senso per riconoscere le persone
incrinate.)
«Lo sai che non siamo una banda di scapestrati, o sbaglio?»
Jesse, a quella domanda, era stato preso un po’ in contropiede. Non capitava tutti i giorni di essere
immersi nella propria pausa sigaretta, di essere interpellati e poi di trovarsi davanti il comandante
di Blackwatch con una minacciosissima (ed enorme) tazza di caffè in mano.
«... Che cosa, signore?»
Reyes trovò inusuale il modo in cui Jesse teneva stretta la sigaretta tra le labbra, perché sembrava
quasi che stesse fumando una pipa.
«Dal tuo comportamento, sembra che tu te ne stia per i fatti tuoi perché ti eri fatto un’idea diversa
del lavoro che facciamo. Siamo black ops, ma come diceva Indiana Jones in quei vecchi film
classici, il settanta percento del lavoro di un archeologo si fa studiando sui libri.»
McCree rimase ancora decisamente perplesso, ma recuperò un minimo di spirito da bastian
contrario e rispose: «Non sapevo che guardasse film così vecchi, signore.»
«Ogni giorno si impara qualcosa, McCree. Ora, non vuoi sapere il motivo per cui non sei ancora
andato in missione?»
«Forse è perché non ho ancora letto dei libri che devo leggere?»
Che caratterino, questo imp che Gabe aveva deciso di porre sotto la propria ala protettiva. Meglio
fargli capire subito che c’era un motivo per cui Gabriel Reyes era il comandante di Blackwatch.
«È perché non hai ancora giocato a scacchi contro di me.»
Jesse McCree ebbe il coraggio di sbuffare e distogliere lo sguardo dal proprio capo. Reyes
l’avrebbe anche spedito alla serra dell’Osservatorio per prendersi cura di una piantina di pomodori
di nome Joel, ma alla fine decise di insistere. Forse ne sarebbe venuto fuori qualcosa di buono.
«Stasera alle nove, nella saletta di fianco alla mensa. Se non ci sarai, ti rispedirò da Morrison – e
sarà il ragazzo d’oro secondo l’opinione pubblica, ma ti posso assicurare che non ama essere
disturbato quando può andare a dormire presto.»
Jesse aveva risposto con un «Sissignore» prima di alzarsi per fare un cenno d’assenso con la testa.
Reyes lo congedò e lo guardò andar via: Jesse aveva lo stesso portamento di sempre, ma in quel
momento Gabriel notò quanto piccole fossero ancora le sue spalle. Per il modo in cui McCree si
atteggiava, in quei primi mesi di convivenza a Blackwatch, tutti si dimenticavano che era ancora
un ragazzino.
Alla fine, quella sera, giocarono davvero a scacchi, e si diedero del tu. Nell’auletta vicino alla
mensa c’era un armadio pieno di giochi da tavolo di strategia: c’era perfino un vecchio Risiko,
portato – secondo la storia di Reyes – da Reinhardt, che lo aveva ricevuto in regalo, quando era
piccolo, da uno zio (un regalo riciclato, per le cronache). Reyes aveva tirato giù da uno scaffale
una scacchiera e le sue pedine, e avevano cominciato a giocare in silenzio. Ogni tanto, quando
Gabriel gli faceva scacco, Jesse imprecava in una lingua che Gabriel non conosceva (qualsiasi
lingua fosse, quelle erano delle imprecazioni per forza, visto il tono frustrato e basso con cui il
ragazzino le pronunciava); allora era inevitabile chiedersi da che razza di posto McCree venisse e
che diavolo ne avesse passate, in diciassette anni di vita. Reyes non chiedeva: gli eventi della vita
di Jesse che importavano a Overwatch erano tutti sul suo file personale, ma c’era qualcosa lasciato
fuori dai documenti che poteva essere decisivo, sul campo e nella testa del ragazzo. Soprattutto
nella sua testa – e nella sua crescita.
Alla prima partita Reyes aveva vinto dopo sei o sette mosse; Gabe pensò che fosse tutta una
tecnica di Jesse per evitare di trascorrere del tempo rinchiuso in quella stanzetta con il proprio
capo, ma non aveva parole per costringerlo a rimanere quando McCree gli aveva detto che, come
primo tentativo, poteva bastare. La sera successiva (perché avevano deciso di dedicare una serata
per una partita singola) Jesse si costrinse a perdere dopo venti minuti dall’inizio – si costrinse a
perdere perché, in realtà, era piuttosto bravo a giocare a scacchi, ma per qualche motivo decise di
dimostrarlo soltanto al loro ventiseiesimo incontro.
(Non che Gabe li contasse.)
Al termine del loro primo mese di scontri al tavolo, Jesse aveva vinto le ultime quattro partite, pur
con qualche difficoltà. Reyes aveva qualche idea in merito al cambio di comportamento davanti
alle pedine, ma avrebbe preferito di gran lunga che fosse Jesse a spiegargli che cosa fosse
cambiato nel giro di un mese.
A un certo punto della loro trentesima partita, dopo aver spostato il pedone bianco dalla casella c2
a c3, Reyes decise di porre a McCree una sola domanda.
«Chi ti ha insegnato a giocare?»
Jesse accennò a un sorriso, ma solo dopo aver spostato lo sguardo verso sinistra – guardando oltre
Gabriel. Visto che era il suo turno, Jesse prese il proprio cavallo nero e mangiò un pedone
dell’avversario, il che guadagnò uno sbuffo risentito di Reyes. «Nessuno. Ho imparato da solo.»
A Gabriel era chiaro che Jesse stava arretrando verso la difensiva. «Ah, sì? E quando? Non mi
sembra di averti visto da queste parti, nell’ultimo mese, a parte quando siamo qui a giocare. Non
avrai seguito un tutorial online, spero.»
«Non arrivo a quei livelli, signore.»
Reyes diede un’occhiata alla situazione sulla scacchiera: un pedone di McCree era terribilmente
vicino al lato bianco della scacchiera e, secondo le previsioni di Gabriel, Jesse avrebbe preso un
alfiere o una regina per fargli scacco e costringerlo a muovere il re – e, così facendo, quell’imp gli
avrebbe mangiato l’unica torre rimastagli. Era bravo nel modificare la propria tattica quando era
necessario.
«Che cosa vuoi da me, esattamente?» Chiese McCree, incrociando le braccia.
Reyes mosse il re per evitare lo scacco al turno successivo, visto che non aveva i mezzi per
mangiare una regina o un alfiere di Jesse. «Voglio capire perché per un mese mi hai fatto credere
di non essere capace di giocare.»
Jesse non rispose; invece, mosse in avanti il pedone, che raggiunse la fine della scacchiera, e così
divenne una bella regina. La partita si concluse presto con una vittoria di Reyes per il rotto della
cuffia, e solo a quel punto McCree acchiappò la propria tazza di tè per andarsene a dormire.
C’era qualcosa di doloroso ma affascinante nel modo in cui uscì dalla piccola aula dei giochi.
(Quando Gabriel divenne Reaper, riconobbe questa terribile sensazione di sublime nel dolore
altrui come un ricordo del passato che, dopo la trasformazione, l’aveva convinto ad accettare il
proprio nuovo ruolo come Mietitore.)
La sera successiva fu Jesse a parlare per primo. Si presentò all’appuntamento con qualche minuto
di ritardo, forse pensando che Reyes si fosse stufato di aspettare e se ne fosse andato – perché
Gabriel odiava i ritardatari. Cominciarono a giocare, chiusi nella loro piccola barriera di routine
quotidiana, finché Jesse scosse la testa ed esclamò: «Pensavo che, facendoti vincere
continuamente, ti saresti annoiato di queste partite e avremmo smesso di giocare.»
«Prima regola, McCree: uno che vince continuerebbe a giocare fino alla morte.»
Ah, quella gli era venuta in mente così, e così l’aveva detta. In compenso, s’era guadagnato un
sorriso da parte di Jesse.
«Vincere contro un incapace non dà soddisfazione.»
«Ma tu sei tutt’altro che un incapace.»
«Con tutto il rispetto, signore, non credo che i complimenti ti porteranno molto lontano.»
Reyes non si aspettava che le lusinghe funzionassero, perciò non le aveva sfruttate: aveva
semplicemente detto quello che aveva visto quando avevano catturato la gang Deadlock e quando
c’erano gli addestramenti al poligono e in palestra – aggiungendo poi le partite a scacchi. Era la
verità.
«Ho detto che non sei un incapace, non che non hai bisogno di addestramento. Ci vorrà molto
tempo prima che tu riesca ad arrivare al mio livello.»
«Oh. Adesso il capo si rivela per quello che è davvero. Sai una cosa? Combattiamo questa
partita.»
Quella sera vinse Reyes senza troppe difficoltà, e Jesse rientrò nella propria camera pensando che,
forse, tutto Blackwatch gli avesse tenuto nascoste le migliori carte nella manica, per svelargliele
quando lui fosse stato pronto, offrendogli una sorta di periodo di adattamento alla novità.
Si sa che i gatti impiegano molto tempo ad abituarsi ai cambiamenti – ma che, se ce n’è bisogno,
reagiscono in fretta.
Alle nove in punto Reyes entrò nella saletta dei giochi da tavolo e ci trovò Jesse, seduto sulla
seggiolina con le gambe incrociate, una coperta addosso e una tazza di tè fumante tra le mani. La
scacchiera era già aperta e le pedine disposte.
«Avevi fretta di cominciare, McCree?»
Dopo che Gabriel si sedette di fronte a Jesse, il ragazzo spinse verso Reyes un’altra tazza di tè.
«Me l’ha dato la comandante Amari. Ha detto che è una miscela di tè cinesi.»
«L’odore è quello della cenere.»
«È sembrato così anche a me, ma il sapore è buono. L’ha portato da un viaggio a Hong Kong. Mi
ha detto di tenerlo “lontano dalle grinfie di Morrison e Reinhardt”, perciò l’ho nascosto qui.»
«Saggia decisione.»
Cominciarono a giocare in silenzio, soffiando appena sul tè bollente prima di berne un sorso.
Erano ormai trascorsi otto mesi da quando McCree era entrato in Blackwatch, e l’atmosfera nella
piccola sala giochi era ormai distesa – anche se Reyes non aveva ancora ricevuto risposta riguardo
chi avesse insegnato a Jesse come giocare a scacchi. Gabriel non aveva più chiesto per non forzare
Jesse: tirare troppo la corda, in questioni personali, non era mai la soluzione migliore per ottenere
spiegazioni. Allo stesso tempo Jesse non gli aveva offerto spunti di indagine, e il problema (era un
problema, perché non mandare McCree in missione era uno spreco di talento) era rimasto irrisolto.
Ma quando i gatti trovano una loro routine quotidiana, sicura e rassicurante, riescono ad
approcciarsi più liberamente ai loro coinquilini umani.
«Si ricord—ti ricordi quando mi hai chiesto chi mi avesse insegnato a giocare?» Chiese Jesse,
senza sollevare lo sguardo dalla scacchiera.
Oh. Era arrivato il momento?
«Sì.»
«A Phoenix, d’estate, c’erano dei vecchi al parco all’ora della siesta. Mentre aspettavo che
arrivassero gli altri bambini per giocare con loro, guardavo gli anziani che si insultavano a carte o
a scacchi, e così ho imparato un po’ di cose.»
«Quindi sei bravo anche a poker?»
«Un po’» rispose McCree, con un mezzo sbuffo e mezzo sorriso. «Poi...»
Reyes lo guardò negli occhi. Jesse esitò, ma poi scrollò le spalle e mangiò la regina di Gabriel con
il cavallo. «Be’, in realtà giocavo anche con la famiglia di mia madre. Loro non conoscevano né le
carte né gli scacchi, perché nella—dove abitavano loro non si facevano giochi del genere.»
Ora molte questioni in sospeso sembravano prendere forma: gli insulti in una lingua
incomprensibile, la riservatezza sul proprio passato più lontano, quella maniera bizzarra di fumare
le sigarette... erano punti collegabili uno all’altro.
Reyes non gli pose altre domande, perché aveva un’idea più chiara del motivo per cui Jesse era
stato così restio a far parte di una famiglia grande come quella di Blackwatch (o di tutta
Overwatch): se lo stato in cui l’avevano recuperato dalla gang Deadlock poteva essere una pista,
allora Jesse era figlio di due americani considerati di seconda classe – e la gang era stata un modo
per cercare di migliorare la condizione delle minoranze del Sud-Ovest degli Stati Uniti. Forse era
nativo americano (navajo, forse?) da parte di madre, almeno a quanto Reyes aveva potuto dedurre;
forse suo padre era uno statunitense ispanofono e anglofono, se le chiacchiere che Jesse e Maria
Lourdes si scambiavano agli allenamenti erano frutto di una acquisizione dello spagnolo nel
periodo della prima infanzia.
(Piano piano, Reyes cominciò a ricostruire il puzzle con le piccole tesserine che Jesse gli offriva,
ora spontaneamente, durante le loro sessioni serali di scacchi.)
Jesse e Gabriel erano seduti al loro tavolo ed erano alla fine di una estenuante partita, durata
un’ora e un quarto. Quando Jesse spostò il cavallo al fondo della scacchiera, Reyes dovette
ammettere che quell’imp era davvero migliorato parecchio – non soltanto a giocare a scacchi, sia
chiaro: c’era anche un buon rapporto con il resto delle squadre di Blackwatch (fondato sugli
scherzi, a dire il vero, ma erano pressoché innocui) e il rispetto della disciplina che Overwatch
imponeva a tutti i propri membri. Certo, che poi quella disciplina ogni tanto venisse infranta era
inevitabile, specie con le teste calde che c’erano in Blackwatch: nessuno, però, a quel tempo si
aspettava che sarebbe stata la spia di un problema ben peggiore, che scoppiò – letteralmente –
molti anni dopo.
«Scacco matto!» Esclamò Jesse, mettendo le mani dietro la testa e sollevando i piedi sopra il
tavolo.
«Tira giù quelle gambe, non è il tavolo di casa tua» rispose Reyes, in automatico, sbuffando. Non
aveva pensato a quello che aveva detto, perché era indispettito dal risultato della partita: quando si
rese conto della propria frecciatina, era già troppo tardi. Si stava già dando dell’imbecille (del
pendejo, in realtà), quando Jesse gli sorrise amichevolmente, strizzando un pochino gli occhi.
«Non è casa mia, questa?»
(Ed era la migliore risposta di tutte, anche se era una domanda.)
End Notes
headcanon ovunque. L’idea delle origini di Jesse viene da qualche post su tumblr –
scusate, ma Jesse che ha radici navajo mi piace moltissimo. Che poi ci abbia infilato anche
lo spagnolo è perché per me lui e Gabe ogni tanto si parlano anche in spagnolo, benché la
cosa non abbia necessariamente una logica ferrea dietro. Semplicemente, mi piaceva l’idea.
Imp mi sembrava un soprannome un po’ cattivello, ma abbastanza simpatico, che il resto di
Blackwatch avrebbe potuto affibbiare a Jesse nei primi tempi. XD
persona: riprende il significato latino della parola persona. Nell’antichità la persona era la
maschera indossata durante le rappresentazioni teatrali dagli attori, in modo tale che il
pubblico capisse subito quale tipo di personaggio stesse parlando (il servo furbo, il giovane
innamorato, etc.). Mi piaceva l’idea di un significato sovrapponibile al nostro attuale, e
questo è successo.
I titoli non hanno senso, ma questo mi capita spesso. Il titolo della raccolta (non so se
riuscirò a scrivere sette storie per i sette prompt della mcreyes week, ma ci proverò) viene
dalla canzone Backyard del gruppo Of Monsters And Men.
Se ho scritto cose che sono in conflitto col canon, vi prego di scusarmi. Sono una persona
distratta e potrei aver perso eventi e situazioni per strada – senza contare che sono le due
notte e dovrei dormire già da diverse ore, lol.
Ho cercato di essere originale. Sinceramente non ho visto in giro storie simili a questa, ma
Ho cercato di essere originale. Sinceramente non ho visto in giro storie simili a questa, ma
non ho occhi ovunque: nel caso vi prego di avvisarmi, e rimuoverò subito la mia.
Nel caso di commenti, critiche o delucidazioni riguardanti boiate che ho scritto, mandatemi
un messaggio in bottiglia, io sarò su una delle mie tante ship.
Spero vi sia piaciuta: io mi son divertita a scriverla!
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