Introduzione - Società dei territorialisti

Download Report

Transcript Introduzione - Società dei territorialisti

Giuseppe Dematteis e Alberto Magnaghi
Relazione introduttiva1
1.
Premessa: significato e scopo del convegno
Questo è l’ultimo convegno della quadrilogia sul Ritorno al territorio che si è fino ad ora
concretizzata in quattro numeri della Rivista “Scienze del territorio”2. Il ritorno al territorio,
teorizzato e raccontato in questi numeri, si riferisce in generale al ritorno a condizioni di vita
sostenibili e durevoli della specie umana sulla terra fondate sulla patrimonializzazione
innovativa del territorio. E’ dunque un progetto di ri-territorializzazione delle attività umane in
grado di produrre processi di coevoluzione sinergica fra insediamento umano, ambiente e
storia. Il ritorno al territorio è un progetto scientifico e culturale oppositivo alle tendenze in atto
di urbanizzazione del mondo che si stanno producendo come esito dei processi di
finanziarizzazione dell’economia, e di crescente astrazione e de-territorializzazione della vita sul
pianeta, accelerando la distruzione dell’ambiente dell’uomo.
Questa esplorazione si propone, tenendo conto delle esperienze e dei dibattiti relativi ai primi
tre numeri della rivista (e un quarto in editing sulla “storia del territorio”), di indagare come le
diverse forme di “ritorno al territorio” sperimentano e sedimentano, nei differenti luoghi,
nuove forme di sviluppo locale “dal basso”, fondate su nuove appartenenze, nuove esperienze
comunitarie, nuove tipologie “sociali” di impresa, nuovi strumenti pattizi di governo del
territorio finalizzati al benessere sociale attraverso la sperimentazione di forme innovative di
autogoverno locale.
A tal scopo facciamo riferimento alle esperienze in campo, alle criticità, alle innovazioni e ai
problemi di sviluppo, per arrivare a proporre un modello generale “forte”, sostenuto da una
solida cornice scientifica in grado di delineare i caratteri costitutivi di un sistema socioeconomico locale che risponda ai seguenti quesiti:
- Come si concretizza il “ritorno al territorio” dal punto di vista di sistemi produttivi locali che
mettano in valore in forme durevoli e autosostenibili il rispettivo patrimonio territoriale?
- Quali sono i settori strategici per il dopo crisi che assumono la valorizzazione del patrimonio
territoriale come bene comune? Come cambia il rapporto col territorio e le società locali nella
gestione di questi settori?
- Quali sono le forme innovative di impresa che consentono di affrontare questa trasformazione
verso sistemi produttivi integrati, finalizzati al perseguimento del bene comune e della felicità
pubblica?
-Quali le forme di gestione della responsabilità socio-territoriale dell’impresa?
1
Della stesura di questa relazione sono stati incaricati Alberto Magnaghi e Giuseppe Dematteis, che hanno tenuto
conto della discussione sulle prime note che Magnaghi aveva presentato nella riunione della commissione
preparatoria del 16 giugno 2016 a Firenze. Ad essa erano presenti Alberto Magnaghi, Rossano Pazzagli, Valeria
Dini, Elisa Butelli, Monica Bolognesi, Daniela Poli, Giuseppe Dematteis, Massimo Quaini, Marco Giovagnoli, Sergio
De La Pierre, Ilaria Agostini, David Fanfani, Massimo Rovai, Franco Sala, Giorgio Ferraresi, Fabio Baroni, Anna
Marson, Paolo Cacciari, Lorenzo Spagnoli. Tenendo conto di questa discussione Magnaghi fece circolare una prima
bozza, invitando tutti a presentare osservazioni e integrazioni. Lo fecero, P. Cacciari, S. De La Pierre, D. Fanfani, G.
Ferraresi, D. Poli, T. Perna, M. Quaini, A. Rossi, con contributi scritti di cui si è tenuto conto nella stesura definitiva.
2
Primo e secondo: Ritorno alla terra, 2013-2014, terzo, Ricostruire la città-2015-, quarto Ritorno alla montagna,
2016
3
-Che ruoli giocano gli enti pubblici territoriali (o altre forme di autogoverno integrato del
territorio) nella gestione del sistema socioeconomico locale finalizzato alla gestione dei beni
comuni territoriali (commoning)?
2.
Perché nelle Apuane?
Abbiamo proposto che il convegno si svolga nelle Alpi Apuane, un luogo della sfida per le
sperimentazioni finalizzate a un modello socio-produttivo locale integrato, alternativo alla
monocultura industriale del marmo.
Le Alpi Apuane, sono state oggetto negli ultimi anni di una grande battaglia nazionale, in
occasione della redazione del Piano paesaggistico della Regione Toscana3, su due opposte
ipotesi di futuro socioeconomico: la prima incentrata sulla monocultura del marmo, ormai
concentrata in poche mani di multinazionali (dopo la crisi occupazionale del distretto
industriale) con tecnologie di estrazione che inducono un enorme consumo di risorse, con alti
costi umani, ambientali, socioeconomici; la seconda (promossa dal coordinamento delle
associazioni ambientaliste attraverso il Manifesto per le Alpi apuane e dall’Ecomuseo delle Alpi
Apuane (con il contributo della SdT) che, proponendo di ricondurre l'attività estrattiva agli usi
di qualità per l'artigianato artistico, consente di avviare un modello socioeconomico fondato su
una valorizzazione integrata delle risorse patrimoniali di tutto il territorio (agroforestali,
idrogeomorfologiche, paesaggistiche, escursionistiche, artigianali, artistiche, culturali,
insediative, energetiche, ecc.); un patrimonio territoriale di eccellenza mondiale reinterpretato
come bene comune da una molteplicità di soggetti sociali attivi, imprenditori e amministrazioni
locali, che nel territorio stanno già operando in questa prospettiva. Un progetto di governo
integrato dell’economia territoriale in grado anche di gestire la difficile conversione produttiva
della monocultura del marmo.
Per questo, a questo documento introduttivo del convegno, affianchiamo la nota progettuale
curata dall’Ecomuseo delle Alpi Apuane in collaborazione con la SdT, che sarà il riferimento
concreto della discussione nelle due giornate del convegno.
3.
Perché ripartire dai sistemi locali
Il ritorno ai sistemi locali in una logica “territorialista” non significa solo cercare forme e modi
di sviluppo locale più giusti, durevoli ed efficaci di quelli finora adottati nelle politiche correnti,
smentendo così chi ritiene superato un approccio socio-economico centrato sul locale. Ha
anche l’ambizione più generale di offrire un’alternativa a certe promesse non mantenute
dell’economia capitalistica di mercato che la crisi odierna ha messo in evidenza.
Per chiarire quale "ritorno" proponiamo - dopo la crisi dei distretti industriali, il trionfo e la crisi
del sistema economico-finanziario globale, i processi di centralizzazione e desertificazione dei
territori –il nostro discorso dovrà tener conto dei contributi critici offerti da paradigmi politicoeconomici più o meno alternativi a quello tuttora dominante: bioeconomia (Georgescu-Roegen
e seguaci4) , economia sociale di mercato, civile e del bene comune (Bruni, Zamagni), solidale5,
3
A. Marson (a cura di), La struttura del paesaggio. Una sperimentazione multidisciplinare per il Piano della Toscana,
Laterza Roma/Bari 2016.
4
Si veda la corposa bibliografia riportata da M. Bonaiuti in La teoria bioeconomica. La nuova “economia” di Nicolas
Georgescu Roegen, Carocci 2001, pp. 189-214
5
Si veda l’introduzione di Paolo Cacciari e la presentazione di Aldo Bonomi al libro 101 piccole rivoluzioni. Storie di
economia solidale e buone pratiche dal basso. Altraeconomia, 2016
4
fondamentale (Karel Williams)6, post-capitalistica, della decrescita (Latouche, Pallante), della
collaborazione7, della self-reliance8, “altra economia” ed “economie diverse”9 economia della
“società circolare”10.
Tutte queste variegate istanze partono dalla constatazione che il sistema di produzioneconsumo oggi dominante – quello in cui il nostro rapporto con gli altri e con l’ecosistema
planetario tende ad essere mediato solo dal mercato (dei beni, dei servizi e del lavoro) - sta
creando più malessere che benessere11. Una critica della crescita basata sul PIL viene anche
dagli indicatori alternativi di benessere proposti da economisti autorevoli come Amartya Sen,
Joseph Stiglitz e Jean-Paul Fitoussi e fatti propri da organismi ufficiali come l’ONU con lo Human
development index, l’OCSE con il better life index, e l’Istat con quello del Benessere equo e
sostenibile (Bes).
Il mito della crescita fa sempre meno presa su settori crescenti della popolazione. In molti hanno
ormai capito, anche a loro spese, che un’ «economia del criceto»12, basata sul circolo vizioso
del lavorare sempre di più per consumare sempre di più, non funziona dal momento che c’è
sempre meno lavoro e sempre meno reddito spendibile. Tuttavia prevale ancora l’idea che non
ci si possa opporre a “chi governa il mondo”13 e che quindi non ci siano soluzioni praticabili se
non quelle di adattare all’esistente le decisioni delle persone, dei partiti, dei sindacati, degli
stati, cercando di stare il meno peggio possibile o almeno meglio degli altri.
Come sostiene da tempo la Sdt con il suo Osservatorio delle buone pratiche e come dimostrano
numerose iniziative concrete documentate da studi recenti14, le alternative sono riscontrabili in
numerose pratiche dal basso che hanno in comune l’esigenza di rispondere a bisogni essenziali,
radicati nella natura umana non meno di quegli “spiriti animali” su cui fa leva il meccanismo
competitivo del mercato. Soltanto che la maggior parte di questi bisogni essenziali - come la
salute (prima di trasformarsi in business), la ricchezza di relazioni sociali, la soddisfazione nel
lavoro e la sua conciliazione con i tempi di vita, la fruizione di beni come l’ambiente, il paesaggio,
6
Parlando di beni e servizi primari definiti come “infrastruttura economica della vita quotidiana” , l’economia
fondamentale è molto vicina all’idea di un’ “economia dei beni comuni”, dove accesso e fruizione “scavalcano”
possesso e consumo (Paolo Cacciari, e-mail)
7
Le “economie collaborative” rappresentano un modello economico alternativo a quello tradizionale, in cui
vengono modificate le dimensioni proprie degli scambi economici (proprietà/condivisione,
produttore/consumatore, domanda/offerta ecc.) e a cui attengono molti degli esempi che possono sostenere la
transizione auspicata (monete locali, baratto, dono, co-produzione, co-gestione, circolarità, commoning, ecc.).(
Daniela Poli, e-mail)
8
Secondo D. Fanfani (e-mail) tratta il tema della centralità della auto-sostenibilità o self-reliance nella economie
bioregionale (Cato, 2013) vs ‘specializzazione’ estrattiva dei luoghi (Polany, Power). In altri termini consiste nel
produrre il possibile localmente, avviando processi di import-replacing (Jacobs) nel quadro di uno scambio
cooperativo con le altre bio-regioni (Thayer)
9
Secondo Lucia Bertell (Lavoro ecoautonomo. Dalla solidarietà alla praticabilità della vita, Elèuthera, 2016) la
prima tenderebbe a pensarsi parallela a quella dominante, mentre le seconde si pongono come forme diversificate,
ibridate, di transizione (v. intervista su Il Manifesto 25.08.2016)
10
La società circolare è il titolo del recente libro di Aldo Bonomi che inaugura la nuova collana “comunità concrete”
della casa editrice DeriveApprodi.
11
Come dimostra ampiamente l’economista Stefano Bartolini in Manifesto per la felicità. Come passare dalla
società del ben-avere a quella del ben-essere (Donzelli 2012 e Feltrinelli 2013)
12
Come la chiama Mauro Callegati nel saggio Acrescita (Einaudi, 2016)
13
Per chi ancora non lo sapesse, lo spiega bene l’ultimo libro di Noam Chomsky, Who rules the world (Metropolitan,
2016)
14
M. Corti, S. De La Pierre, I. Agostini, Cibo e identità locale: Sistemi agroalimentari e rigenerazione di comunità,
Centro studi Valle Imagna, 2015 e il già citato 101 piccole rivoluzioni di P. Cacciari
5
il patrimonio culturale, la qualità dei servizi ecc. - dipendono dall’ accesso a beni comuni non
competitivi. Cioè beni che, pur rispondendo a esigenze individuali, non sono offerti dal mercato,
ma possono essere prodotti e fruiti attraverso azioni comuni dettate da motivazioni intrinseche
condivise15.
In questa prospettiva l’approccio territorialista ci sembra particolarmente importante, perché
un’economia che risponda ai bisogni essenziali delle persone deve partire da condizioni,
esperienze e pratiche attinenti la vita quotidiana, quindi dai territori locali, ma con effetti
positivi importanti che riguardano anche le scale superiori, fin a quella globale.
Dunque, se vogliamo ripensare lo sviluppo in termini non solo economici, ma anche sociali,
ambientali, culturali ed esistenziali, dobbiamo partire dai sistemi locali oggetto del nostro
convegno e ridefinire in questa prospettiva concetti come sviluppo, patrimonio, impresa,
settori, mercato, valore, risorse, governo locale, ecc. per arrivare a una proposta da sottoporre
alla discussione.
4.
Rinnovare i vecchi modelli, non fidarci troppo dei nuovi
Sappiamo che nel corso della storia la proprietà e la ricchezza privata hanno progressivamente
eroso quella collettiva e pubblica16e continuano a farlo sempre di più, a dispetto del fatto che
le gestioni comunitarie locali si sono mostrate di regola più giuste ed efficaci di quelle
proprietarie, come ha ben documentato Elinor Ostrom (premio Nobel per l’economia 2009) con
le sue ricerche sul governo dei beni collettivi17.Tutte le teorie dello sviluppo locale affermatesi
negli ultimi settant’anni ricuperano in qualche modo questa prospettiva, in quanto sono
fondate più o meno esplicitamente sulla presenza attiva di un insieme localizzato di quei beni
comuni che oggi passano sotto il nome (non del tutto appropriato) di “capitale territoriale”18,
cioè valori e risorse specifiche dei luoghi, sedimentatesi nel tempo, fruibili ma non appropriabili
privatamente: patrimonio naturale e culturale, infrastrutture, patrimonio cognitivo, sociale e
istituzionale. Nel nostro progetto occorre dunque porre particolare attenzione alle prospettive
di gestione dei beni comuni territoriali19.
15
La teoria della sostituzione delle motivazioni (motivation crowding out theory), a proposito di che cosa ci spinge
a svolgere una certa attività introduce la fondamentale distinzione tra motivazioni estrinseche o strumentali al
raggiungimento di uno scopo che non riguarda l’attività in sé (come ad esempio lavorare solo per fare soldi) ed
intrinseche o non strumentali, che trovano soddisfazione nell’attività stessa, come quelle da cui derivano i beni
relazionali (S. Bartolini, op. cit. pp. 109-111). Più in generale quelle “attività che hanno come scopo la produzione
e lo scambio di beni e servizi a cui viene attribuito un valore intrinseco, condiviso tra chi li crea e chi li utilizza” (P.
Cacciari, op. cit, p. 19)
16
Massimo Quaini (e-mail) ci consiglia di ”non dimenticare le forme storiche di proprietà e gestione della terra che
non coincidono né con la proprietà privata né con quella pubblica: usi civici, comunanze, partecipanze, comunaglie,
terre comuni ecc. che già nei nomi anticipano i valori a cui oggi più tendiamo: cittadinanza, comunità,
partecipazione ecc. Esiste ormai un movimento abbastanza esteso che vede in questi beni comuni storici una delle
possibilità più concrete per progettare e costruire un diverso futuro. Sarebbe utile passarlo in rassegna in un
convegno che si tiene nelle Alpi Apuane, terra di usi civici e beni comuni in continua e veloce erosione”.
17
Raccolti in Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Cambridge University
Press, 1990. Traduzione italiana: Governare i beni collettivi, Marsilio, 2006
18
Il concetto di “capitale territoriale” è stato proposto per la prima volta dall’OCSE, nella pubblicazione "Territorial
Outlook" del 2001 e poi largamente utilizzato dagli economisti per indicare le condizioni territoriali che funzionano
da economie esterne dello sviluppo. Il capitale territoriale può anche essere visto come produttore di valori d’uso
a sostegno della coesione sociale. In ogni caso va distinto dal concetto di “patrimonio” che comprende una gamma
di valori molto più vasta, come quelli esistenziali e quelli non negoziabili.
19
A. Magnaghi, Mettere in comune il patrimonio territoriale: dalla partecipazione all’autogoverno. In “Glocale.
Rivista molisana di storia e scienze sociali”, 2015, n°9/10
6
L’esempio più noto – si potrebbe dire l’archetipo – di sviluppo locale basato sul valore aggiunto
dei beni comuni territoriali è quello dei distretti industriali. Questo modello ha dominato il
periodo storico caratterizzato dall’emergere della Terza Italia descritta da A. Bagnasco e
dall’affermarsi dei sistemi di piccola- media impresa in aree “periferiche” (modello NE-C di G.
Fuà). Elaborato inizialmente da Giacomo Becattini con riferimento ai Principles of Economics di
Alfred Marshall e in netta contrapposizione alla teoria economica dominante a cui si appoggia
il neoliberismo20,questo modello ha poi offerto una chiave di lettura del post-fordismo come
specializzazione flessibile, ripresa poi a livello internazionale dai lavori di Piore e Sabel e
dall’interpretazione di D. Harvey in termini di accumulazione flessibile. Un ritorno ai sistemi
locali non può evitare di confrontarsi con questo modello, mettendo in evidenza continuità e
discontinuità.
Sono elementi di continuità anzitutto il ruolo fondativo del locale (risorse ambientali e
relazionali, specificità e saperi del milieu locale, capacità di autogoverno degli enti pubblici
territoriali) come capitale fisso socio-territoriale del sistema produttivo; poi la complessità e i
fattori di autorganizzazione del sistema di piccole imprese (atmosfera del distretto,
cooperazione); infine la geografia dei distretti che si allontana dalle grandi concentrazioni
metropolitane e recupera i valori patrimoniali dei sistemi territoriali periferici caratterizzati da
città piccole e medie, dalle loro reti e dai territori rurali circostanti.
Nella nuova fase dello sviluppo locale che qui proponiamo, la discontinuità è data dalla più
matura consapevolezza dei percorsi della globalizzazione, dalla contrapposizione fra spazio
(misurazione di quantità, metrica, distanze, flussi ) e luogo (qualità specifiche, tempo, diversità,
identità -ambientali, territoriali, paesaggistiche, “fattori di fondo” di Becattini21); da una visione
ecosistemica delle relazioni sociali, come nel modello di bioregione urbana22. Ciò porta a un
rovesciamento del rapporto fra produzione e luoghi: nella più matura riflessione di
Becattini23sono i luoghi, nella valenza di “molle caricate nel tempo”, dense di valori patrimoniali
e comunitari, che generano fini, forme e qualità della produzione grazie all’affermarsi di una
“coscienza di luogo”. Il patrimonio gioca così un ruolo diverso e più complesso: esso comprende
il patrimonio ambientale, il patrimonio insediativo, il patrimonio paesaggistico storico (urbano
e rurale), le culture e i saperi locali; e ciò comporta l’emersione crescente dei valori patrimoniali
territoriali nei processi generatori di nuove forme di sviluppo locale. Fondamentale per la
gestione del patrimonio è poi la distinzione fra valore di esistenza e valore d’uso, per cui l’uso
delle risorse patrimoniali nel processo produttivo deve essere commisurato
all’autoriproducibilità del patrimonio stesso anzi al suo accrescimento attraverso la produzione
di “valore aggiunto territoriale”24. In tal modo la valorizzazione del patrimonio non è più vista
in chiave settoriale come semplice strumento del profitto d’impresa e del reddito locale, ma
diventa strumento integrato della realizzazione di quello che Adriano Olivetti ha chiamato “
20
Ancora nel suo recente libro La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale. (Donzelli 2015) Becattini
scriveva: “non si può dire che il neoliberismo dilagante si fondi sulla teoria economica oggi egemone. Esso si fonda
su una vulgata del pensiero neoclassico che incorpora tutta una serie di strascichi ideologici del passato (…), un
cadavere imbalsamato” (p. 144)
21
Op. cit. 2015, p. 111
22
A. Magnaghi (a cura di), La regola e il progetto. Un approccio bioregionalista alla pianificazione territoriale,
Firenze University Press, Firenze, 2014.
23
In particolare nel già citato La coscienza dei luoghi(2015)
24
G. Dematteis e F. Governa (a cura di), Territorialità, sviluppo locale, sostenibilità: il modello SLoT, Milano, Franco
Angeli, 2005, pp. 26-29
7
principio territoriale”25 e della produzione di beni comuni finalizzati al benessere sociale degli
abitanti/produttori. Ne deriva una diversa connotazione dello spettro merceologico (settori
strategici) nel contesto dell’economia globale. Sui settori manifatturieri tradizionali (tessile,
ceramiche, vetro, meccanica, scarpe, mobili, ecc.) s’innestano i nuovi settori ad alto valore
aggiunto della conoscenza e della creatività (design, moda, cultura, ricerca, innovazione, ecc.).
Rispetto ad essi assume valore generativo e integrativo la filiera agricoltura-artigianatoturismo-cultura, considerata dal Censis come emergente nelle strategie competitive del made
in Italy nel mercato globale. Questa filiera (esemplificata nelle esperienze delle “società del
cibo” indagate da De La Pierre26) segna il passaggio dalla monosettorialità alla multisettorialità
dei nuovi distretti integrati e verticali (agricoltura-terziario avanzato).In tal modo il territorio
nelle sue componenti ambientali diventa “mezzo di produzione primario”: l’auto-riproducibilità
delle risorse patrimoniali (la qualità del terroir, delle acque e delle reti ecologiche; gli equilibri
idrogeologici, le peculiarità paesaggistiche) è la condizione del funzionamento della filiera
agroalimentare postindustriale (il cibo buono, sano e giusto di Carlo Petrini) e delle altre
funzioni connesse.
Tutto ciò porta a un ulteriore ribaltamento di prospettiva: nei nuovi percorsi di sviluppo locale
le politiche di tutela e valorizzazione ambientale, territoriale e paesaggistica non sono più
limitative (ex ante) o correttive (ex post) delle attività produttive date, ma dovrebbero essere
le attività produttive stesse a contenere nel proprio gene costitutivo (l’ex “gene egoista di
impresa”, che si trasforma nell’auspicato “gene socioterritoriale d’impresa”) comportamenti
virtuosi finalizzati all’autoriproducibilità delle risorse patrimoniali e identitarie del territorio;
risorse interpretate come mezzi di produzione e riproduzione sociale dell’impresa che pratica
responsabilità socioterritoriale.
Al confronto con i modelli del passato conviene aggiungere quello con le concezioni di sviluppo
locale che guidano le odierne politiche europee, in particolare il community led local
development e, più in generale, il place-based development27. Qui le discontinuità riguardano
anzitutto una concezione di “sviluppo locale” in cui il patrimonio territoriale, in molte delle sue
applicazioni, tende ad essere interpretato in termini di collective competition goods, cioè come
un insieme di esternalità positive, generatrici di vantaggi competitivi per le imprese. Come se i
bisogni locali si riducessero alla crescita economica e non riguardassero primariamente il
benessere della popolazione, cioè la garanzia delle libertà positive28, la riduzione delle
diseguaglianze, la tutela dei diritti, le dotazioni e la fruizione di beni pubblici e comuni, le
capacità e il senso di responsabilità degli attori pubblici e privati29.Inoltre queste politiche
tendono a sottovalutare ciò che, essendo specifico di ogni contesto, non è traducibile in nessun
”equivalente generale” analogo al denaro, ma che per essere colto richiede un’”ermeneutica
25
A. Olivetti, L’ordine politico della Comunità, Edizioni di Comunità, Roma 2014 (ed. Or. 1945)
V. il già citato volume M. Corti, S. De La Pierre, I. Agostini, Cibo e identità locale.
27
Questo concetto è stato proposto da Fabrizio Barca nel rapporto “An Agenda for a Reformed Cohesion Policy”
(2009)
richiestogli
dalla
Commissione
europea:
http://ec.europa.eu/regional_policy/archive/policy/future/barca_it.htm). Lo Stesso Barca lo ha poi seguito nel
programma della Strategia nazionale Aree Interne (Metodi ed obiettivi per un uso efficace dei Fondi comunitari
2014-2020 (http://www.dps.tesoro.it/Aree_interne/doc/Metodi_ed_obiettivi_27_dic_2012). La sua applicazione
ad alcune aree-pilota rappresenta un notevole passo avanti rispetto alle politiche precedenti di sviluppo locale (p.
es. i PIT) pur con i limiti comuni ai programmi gestiti e finanziati dalle istituzioni sovra-locali.
28
A. K. Sen,Lo sviluppo è libertà. Perché non c'è crescita senza democrazia, Mondadori, Milano, 2000
29
C. Donolo, Sostenere lo sviluppo. Ragioni e speranze oltre la crescita. Bruno Mondadori, 2007, p. 20
26
8
del territorio”30 basata sull’interazione dialogica con i soggetti. Nelle politiche di sviluppo locale
europee, come in quelle nazionali e regionali derivate (PIT, PTI ecc.) ciò è ostacolato dal fatto
che tutto il processo è promosso, sostenuto e guidato dall’apporto finanziario e dalle
competenze politiche e tecniche di istituzioni sovra-locali, che dettano le regole e in larga
misura pre-definiscono linguaggi, azioni e obiettivi31. Esse sono place-based solo nel senso che
tendono a mettere in valore certe specificità locali, viste però dall’esterno e quindi ricondotte
a codici e categorie uniformi (una specie di denominatore comune a tutti sistemi locali), che
non colgono esigenze e opportunità peculiari dei diversi contesti.
5. Caratteri generali e lineamenti teorico-problematici di un nuovo modello socioeconomico e territoriale
Un nuovo modello socio-economico e territoriale presuppone oggi:
- Una nuova civilizzazione idraulica, ambientale e energetica: il funzionamento del
metabolismo dell’insediamento umano a livello di bioregione urbana (tendenziale chiusura
locale dei cicli dell’acqua, dell’energia, dei rifiuti, del cibo) è la precondizione essenziale al
funzionamento dei sistemi socio-produttivi locali.
- Una nuova civilizzazione del cibo (società del cibo): la neoagricoltura territoriale, (recupero
di cultivar locali, multifunzionalità e produzione di sevizi ecosistemici, patti città campagna,
ecc.) genera nuove identità socio-territoriali e urbane e produce luoghi di scambio di valore32.
- Una nuova civilizzazione dell’ospitalità: scambio culturale attivo fra ospitanti locali e ospiti;
ruolo attivo della immigrazione extracomunitaria nella costruzione di politiche produttive
inclusive nelle città e nelle campagne atte a produrre valore aggiunto territoriale.
-Una nuova civilizzazione urbana: ricostituzione di relazioni sinergiche fra città e campagna,
per la chiusura locale dei cicli ambientali e la capacità autoriproduttiva del metabolismo
urbano; ricostruzione degli spazi pubblici inclusivi per la gestione dei beni comuni;
valorizzazione di reti regionali di piccole e medie città in equilibrio con il proprio ambiente
verso la costruzione di bioregioni urbane;
- Una nuova civilizzazione produttiva: la gestione sociale, solidale, relazionale del sistema
produttivo bioregionale per il benessere degli abitanti richiede un’economia eticamente
orientata e gestita, fondata su sperimentazioni concrete di modelli economici alternativi al
semplice mercato capitalistico. La crescita della “coscienza di luogo” da parte di più soggetti
(pubblici, privati, abitanti e produttori, soggetti associativi), conduce a un sistema pattizio di
definizione delle finalità condivise della produzione rispetto alla valorizzazione dei beni
comuni patrimoniali. La “coralità produttiva” pensata da Becattini assume qui i fini di questi
30
C,Donolo , ibidem, p 69
Come osserva A. Pichierri (La regolazione dei sistemi locali: attori, strategie, strutture. Il Mulino, 2002, p. 80):
“certi comportamenti vengono promossi, richiesti, persino resi obbligatori da attori diversi da quelli che li mettono
in atto, che richiedono conformità ai loro valori e alle loro credenze, premiano questa conformità mettendo a
disposizione risorse, e hanno la possibilità di sanzionare negativamente comportamenti non conformi”. Si veda
anche la riflessione critica sui Patti territoriali di G. De Rita e A. Bonomi in Manifesto per lo sviluppo locale (Bollati
Boringhieri 1998): “… non abbiamo difficoltà a riconoscere che sui Patti territoriali siamo stati sconfitti, tagliati
fuori (con il CNEL) da un combinato disposto di «bulgara» programmazione dall’alto, di satrapia burocratica, di
riproposizione di vecchi intrecci «democristiani» fra potere centrale e politici locali” (p. 11)
32
G. Ferraresi (contributo e-mail) ritiene prioritario un riferimento al paradigma della neoruralità come
fondamento del nuovo modello che si sta proponendo per il "ritorno ai sistemi socioeconomici locali"; fondamento
sia in ordine alla sua natura di nuovo inizio "primario" che appunto per il suo carattere paradigmatico che implica
la complessità del valorizzazione del territorio.
31
9
patti sociali, rovesciando il rapporto fra fini e mezzi della produzione fra flussi e “fondi”, fra
locale e globale.
Le finalità dello sviluppo sono decise dal “coro” e dalle forme inclusive di gestione del territorio
e dei suoi soggetti. Il concetto di autoproduzione corale si situa all’interno di un bilancio
bioregionale comprendente tra l’altro un bilancio energetico che evidenzi le esperienze di
autoproduzione locale.
- Una nuova civilizzazione imprenditoriale. Il carattere complesso, partecipato, inclusivo e
pattizio del governo del sistema produttivo locale richiede il mutamento del sistema
decisionale dell’impresa. Dalla responsabilità sociale dell’impresa (salvaguardia
dell’occupazione, no al lavoro minorile, ecc.)
alla responsabilità socio-territoriale
33
dell’impresa : la sua funzione sociale ed etica è data dalla complessità dei soggetti che
vengono inclusi nella sua gestione e che sono espressione degli interessi variegati che formano
il patto corale di luogo: agricoltori, abitanti, artigiani, soggetti deboli, migranti, associazioni
ambientali, imprenditoriali, culturali, enti locali, attività del terzo settore, ecc. Queste nuove
funzioni dell’impresa devono trovare dunque nuove forme gestionali inclusive, che
subordinano i fini della produzione alla composizione di vasti interessi sociali rappresentativi
della comunità34.
- Costruzione di nuovi rapporti fra sistema socio-territoriale locale e mercato inteso come
“costrutto sociale”. Esso si basa su un’idea di mercato non più regolata dal globale, ma da uno
scambio cooperativo fra diversi sistemi e mercati regionali. Si creano luoghi di scambio di
valore territoriale, a partire dal valore generativo della neoruralità, dalle visioni comunitarie
che crescono nelle esperienze territoriali di autogoverno e nelle esperienze di contratti sociali
locali.
Questo cambiamento nel rapporto fra impresa, territorio e sistemi decisionali degli attori pone
una serie di problemi. Segnaliamo qui di seguito quelli che ci sembrano più rilevanti e che
potranno essere approfonditi e discussi negli atelier del convegno.
-Il ruolo delle istituzioni pubbliche nella gestione territoriale integrata dei processi economici
locali, come alternativa radicale al ruolo subordinato e di sostegno anche economico ai
potentati locali (i “cacicchi” di De Rita), ai partiti e agli attori forti;
33
Relazione di S. De La Pierre al III Focus Adriano Olivetti, Milano, maggio 2016
Sulla nuova forma sociale dell’impresa, per esempio:
- il modello della “Fondazione“ Olivettiana ( Presentazione di Zagrebelsky, pag 29 al testo: Adriano Olivetti,Le
fabbriche di bene, Edizioni di comunità, 2014): ”la Comunità possiede una parte del capitale azionario delle grandi
e medie fabbriche, ne nomina taluni dei dirigenti principali… compra e vende terreni e proprietà in relazione alle
necessità di sviluppo tecnico della Comunità;…assiste lo sviluppo dell’artigianato e del turismo…”;
-il modello bicamerale di Becattini:”potremmo pensare a, per esempio, a un sistema “bicamerale” del cluster o
distretto industriale che contempli la presenza di rappresentanti del luogo nel consiglio di amministrazione
dell’impresa e di quelli dell’impresa nel consiglio politico locale” (La coscienza dei luoghi, pag.46)
-il modello delle Fondazioni di Gaetano Giunta, (imprenditore della Fondazione Comunità Messina). Il distretto
sociale evoluto: espansione del capitale sociale come vincolo alla logica del profitto; un’esperienza olistica ispirata
alla teoria della complessità: il cluster finanziato dalla fondazione: imprese profit; imprese sociali, finanza etica,
rete di economie solidali (consorzio Sole, EcosMed); sostegno alle micro produzioni energetiche; mettere a
disposizione i tetti; housing sociale, polo sulle tecnologie ambientali (Fondazione Horcynus Orca); parco culturale
di cooperative giovanili di soggetti deboli; network su ingegneria e architettura sostenibile; ecogastronomia;
risanamento baraccopoli e campi profughi; modelli di welfare di comunità, risanamento aree di pregio
archeologico e ambientale. ( III Focus Olivetti, Milano, 2016)
34
10
- L’individuazione del soggetto collettivo che garantisca la multisettorialità e l’espressione
sociale del progetto di sviluppo locale; in particolare i nuovi compiti del governo locale, a fronte
della “densificazione” della cittadinanza attiva, che, con la crescita dei legami con il proprio
territorio, è spinta ad autorganizzarsi, in forme aggregative miste di attori pubblici, privati e di
terzo settore, utilizzando i nuovi strumenti di “pianificazione dal basso” illustrati nel paragrafo
seguente.
- I rapporti (a scala locale e globale) delle nuove economie ri-territorializzate con un mercato
dominato dai drivers del capitalismo finanziario
- L’apertura multiscalare ai valori e ai diritti degli altri, contro il localismo degli abitanti “storici”,
che esclude gli altri e considera il territorio e il patrimonio locale come di sua esclusiva
proprietà; in particolare il ruolo e il modo dell’accoglienza dei migranti nei processi di
ripopolamento e di valorizzazione delle culture nelle nuove economie integrate;
- La nuova geografia del governo locale in rapporto ai nuovi sistemi integrati di decisione per
progettare lo sviluppo futuro (consorzi di Comuni, ambiti ottimali di area vasta della riforma Del
Rio, ambiti di paesaggio dei piani paesaggistici, bioregioni urbane, ecc.) e di conseguenza la
ricerca della dimensione territoriale istituzionale più pertinente per i sistemi socio-economici
locali.
- L’individuazione dei vantaggi delle imprese nell’adottare modelli di responsabilità socioterritoriale nel processo di integrazione multisettoriale delle attività economiche: dai distretti
industriali, ai distretti produttivi integrati e alle filiere agro-terziarie
- L’individuazione delle aree più favorevoli alla sperimentazione di nuovi modi di governo dei
sistemi economici locali, ad esempio nelle aree interne e, in generale, l’adattamento del
modello alle diverse situazioni territoriali: dalla montagna marginale, al rurale periferico, alle
piccole e medie città, alle conurbazioni costiere, alle metropoli. Di conseguenza: la regolazione
dei rapporti fra queste diverse situazioni, in quanto componenti complementari (ma sovente
anche conflittuali) di una stessa bioregione.
- Il ruolo d’avanguardia del Mezzogiorno nella lotta alle mafie e nella costruzione di
un’alternativa al loro dominio sulla società35 e, più in generale, della lotta alle forme di massimo
sfruttamento del territorio e dei suoi abitanti da parte di modelli esogeni statalisti, poststatalisti e imprese “criminali”, come nel caso delle Apuane.
6. Dalle teorie alle pratiche
Il modello ideale che il nostro convegno si propone di mettere a punto deve trovare conferme
e verifiche in progetti, azioni e pratiche capaci di delineare una “contro-geografia” del territorio
italiano, opposta al processo di concentrazione e centralizzazione in atto. Occorre dimostrare
35
Tonino Perna (e-mail): “visto dal profondo Sud il tema dello “sviluppo locale” si pone su un altro piano che è
quello dello scontro di classe tra la borghesia mafiosa e una parte della società che reagisce ai diktat di questa
forma di dominio. E questo scontro passa attraverso la gestione di migliaia di imprese for profit, imprese
eticamente orientate, cooperative sociali, associazioni, che subiscono attentati, distruzione di impianti, minacce
personali. Inoltre, va considerato che la confisca del patrimonio alla borghesia mafiosa e la loro destinazione a fini
sociali è uno straordinario strumento – grazie a Pio La Torre che ci ha rimesso la vita - per introdurre elementi di
socialismo in una società capitalistica. In altre parole, quando i capitalismo degenera apre le porte al suo, sia pure
parziale, superamento. (…) Paradossalmente, oggi il Sud è un territorio che gioca un ruolo d’avanguardia, anche
nella costruzione di una alternativa economica a quello modello di inviluppo sociale. E queste esperienze di
imprese che operano su terre o fabbriche o altri beni confiscati alle mafie, riescono a sopravvivere
economicamente solo quando operano nell’ambito dell’economia solidale, quando entrano in reti nazionali
creando dei nuovi legami di solidarietà con altre comunità, soprattutto del Centro e Nord Italia”.
11
con i fatti che per rispondere alla sfida della competizione globale non è necessario né
sufficiente organizzare l’intero territorio nazionale intorno a poche città metropolitane (o
ritenute tali),pensate come nodi di reti globali, trascurando e impoverendo il tessuto connettivo
istituzionale, economico e sociale, formato da Regioni, Province, Comuni minori e loro unioni;
centralizzando uffici postali, tribunali, ospedali, università, scuole, banche del territorio, piccole
imprese e tanti altri presidi essenziali per chi vive e opera nei territori non metropolitani.
La rappresentazione territorialista si nutre, quasi specularmente, degli elementi che
scompaiono dalla scena delle narrazioni centraliste: valorizzazione di sistemi ambientali
complessi, con cui dialogano e coevolvono sistemi policentrici e non gerarchici di piccole e
medie città, connessi da reti materiali e immateriali e alimentati da sistemi produttivi locali che
valorizzano i beni comuni territoriali; sistemi insediativi sinergicamente relazionati con i loro
territori aperti e con aree interne, in un movimento centrifugo-espansivo, volto al ridisegno e
al riequilibrio dei rapporti fra città e campagna e fra pianura, collina, montagna, entroterra
costieri.36
Queste visioni geografiche che indicano il cammino spaziale del “ritorno al territorio” sono già
oggi sostanziate - a lato e in controtendenza ai processi di centralizzazione dei sistemi di
decisione pubblici e privati – dall’affermarsi di nuove forme di sviluppo locale, caratterizzate
dall’attivazione, in costante crescita, di strumenti di democrazia partecipativa e da forme
contrattuali e pattizie fra attori che affrontano il governo del territorio come bene comune,
assumendo la patrimonializzazione del territorio stesso come base per la produzione sociale di
ricchezza, fondata sulla peculiarità, unicità e autosostenibilità dei patrimoni locali.
I segni o anche solo le tracce di questo percorso, sono visibili in esperienze multiformi. Anche
quando la loro origine è top down e la loro visione rimane ancora settoriale, esse sono però
36
Una visione prospettica della contro-geografia regionale che andiamo delineando può essere sintetizzata nel
seguente “riposizionamento” dei suoi elementi costitutivi:
i sistemi metropolitani di pianura,affrontati come criticità e riorganizzati attraverso
l’implosione/ripolarizzazione dei processi espansivi (blocco del consumo di suolo, ridefinizione dei limiti e della
misura, città di villaggi, città di città); la (ri)costruzione di patti città-campagna per la rigenerazione del
metabolismo urbano; sviluppo di funzioni di servizio ai sistemi regionali policentrici;
- i sistemi vallivi (alpini, appenninici e degli entroterra costieri), riorganizzati promuovendo una nuova
civilizzazione idraulica e ambientale, incentrata sul ripopolamento e la cura delle riviere e dei bacini fluviali,
riqualificati nei loro rapporti multifunzionali con il territorio;
- i sistemi montani e alto-collinari, riprogettati integrando la nuova civilizzazione idraulica e ambientale, con
quella del cibo e dell’ospitalità; e con quella energetica; connettendo questi sistemi con quelli urbani di
fondovalle e le loro testate;
-i sistemi collinari valorizzati sulla base dell’alta qualità (funzionale, morfotipologica e paesaggistica) dei reticoli
storici delle medie e piccole città (in particolare dell’Italia di mezzo), recuperando il valore strategico della fitta
trama di relazioni coevolutive degli insediamenti;
E’ evidente che in questo paradigma bioregionale si invertono le polarità di espansione:
-da una parte si contrae dimensionalmente il polo metropolitano mettendone in cura le criticità per elevare la
qualità della vita dei suoi abitanti, e valorizzandone le potenziali funzioni di centro di sevizio del sistema policentrico
regionale; finalizzando i corridoi infrastrutturali di cui è nodo centrale (nodi di interscambio, ferrovie, reti stradali,
vie d’acqua, mobilità dolce) all’innervamento e servizio del policentrismo dei morfotipi insediativi regionali;
-dall’altra si espande la civilizzazione delle aree interne (dai disvalori ai valori patrimoniali) che si fonda sulla
patrimonializzazione del territorio per la riattivazione dei sistemi economici locali, sviluppando il ruolo delle reti di
piccole e medi città (storiche), da “non ancora” metropoli a future centralità urbane alternative (da: “Nota su
strategie e strumenti di sviluppo locale”.( dal documento presentato da A. Magnaghi al seminario di lavoro SDT
“Aree interne, nuove economie”, Firenze, 5.02.2016)
12
accomunate dall’idea di agire sul territorio per contrastare i processi omologanti e centralizzanti
della globalizzazione economico-finanziaria.
Possiamo sintetizzare queste esperienze in queste principali tipologie di strumenti di azione
locale.
- I piani paesaggistici regionali di nuova generazione (ad esempio le esperienze della Puglia e
della Toscana in particolare). Nella sperimentazione di questi piani si è sviluppato conflitto,
innovazione, si sono sperimentate forme di aggregazione di associazioni, comitati locali, che
stanno contribuendo a sviluppare cittadinanza attiva e coscienza di luogo. In essi si affronta una
visione strutturale-identitaria del paesaggio, legata ai mondi di vita delle popolazioni e
all’elevamento della loro qualità ambientale, abitativa, relazionale, culturale.
- la formazione degli Osservatori regionali del paesaggio, nelle esperienze più avanzate,
procedono dalla formazione di osservatori locali (Piemonte, Puglia, Toscana, Veneto…): si tratta
di strutture associative promosse dal basso, composte da singoli e associazioni locali, la cui
attività spazia dalla promozione culturale e della conoscenza/coscienza delle identità
paesaggistiche locali, alla promozione di azioni di valorizzazione di beni paesaggistici e di buone
pratiche di recupero urbano, di valorizzazione dei paesaggi rurali e dei loro attori innovativi.
- Le società locali del cibo (local food, slow food, DECO, ecc): i sistemi agro-alimentari locali
fondati sulla complessità e unicità dei patrimoni locali assumono notevole importanza
“generativa”. Opponendosi radicalmente ai devastanti processi di de-territorializzazione
operati dall’agroindustria, riscoprono nei profondi giacimenti patrimoniali dei luoghi i percorsi
di “retro-innovazione” che, a partire dal cibo e dalla pietra, contribuiscono a ridefinire e
ricostruire sistemi produttivi, culturali, artistici, comunicativi complessi e integrati a livello
locale. Rispetto ai tradizionali distretti industriali, costituiscono un intrinseco passo in avanti
nel rapporto fra insediamento umano e ambiente, dal momento che la cura della materia prima
“ambiente” - intesa come mezzo per produrre qualità, eccellenza e unicità del cibo locale – è
prerequisito della produzione, cosi come l’equilibrio dei rapporti città-campagna, la
ricostruzione del metabolismo urbano, delle funzioni dell’edilizia e delle infrastrutture rurali e
cosi via, sono elementi essenziali alla tipicità e alla qualità del cibo.
Gli esempi di Mezzago, Gandino, Teglio, Gerola, Corna Imagna, Val d’Ultimo, Venaus, Castel del
Giudice, Valle del Saggittario, Cerreto dell’Alpi 37… mostrano come intorno al localfood e ai suoi
sviluppi socioeconomici integrati sta avanzando una nuova società locale agro-terziaria vitale
(giovane, complessa, colta, creativa, solidale, ospitale, connessa in rete), capace di realizzare
alternative socieconomiche e culturali rilevanti, come quella di legare la produzione al
benessere della popolazione e alla riproduzione dei beni comuni territoriali.
- I patti città campagna. Intorno alle tematiche del cibo, dell’agricoltura di prossimità, della
ricostruzione di relazioni sinergiche fra città e campagna per la produzione di servizi ecosistemici, si vanno sviluppando esperienze di parchi agricoli multifunzionali e di distretti rurali.
Si rivitalizzano le aree agricole periurbane con la neoruralità e la conversione ecologica di
imprese tradizionali rivolte a nutrire le città(in primo luogo mense pubbliche, scuole, ospedali,
carceri), promuovendo mercati locali, orti urbani e periurbani, riattivando terre incolte con il
ripopolamento rurale, la cura del territorio, delle acque, del paesaggio, la riqualificazione delle
periferie e cosi via. In alcune esperienze avanzate (ad esempio parco agricolo dei Paduli nel
Salento, i parchi agricoli della piana Firenze –Prato), i processi autorganizzativi di abitanti e
37
Molti esempi si trovano nelle schede dell’Osservatorio delle buone pratiche della SdT
(www.societadeiterritorialisti.it)
13
agricoltori coinvolgono le istituzioni locali, le associazioni sociali e produttive, il volontariato in
processi di conversione produttiva. Nel caso del parco agricolo/contratto di fiume in riva sinistra
d’Arno (a Firenze, Scandicci, Lastra) il processo partecipativo interviene con una pluralità di
soggetti pubblici e privati, nei piani d’azione per il Contratto di fiume Arno, relativi all’agricoltura
sociale, alla cura idraulica e fruitiva della riviera, delle periferie del paesaggio, alla produzione
di cibo per la città e cosi via38.
-Gli ecomusei: nel convegno nazionale di Argenta (novembre 2015), che ha definito il
Manifesto nazionale degli ecomusei, si è ben delineato il percorso storico che dal
riconoscimento del patrimonio culturale, ambientale, territoriale, attraverso nuove forme di
auto-rappresentazione sociale del patrimonio (mappe di comunità) e di mobilitazione di
cittadinanza attiva, porta gli ecomusei a prendersi cura dell’identità dei luoghi, fra memoria
storica e futuro, ad attivare nuovi modelli di economie integrate, fondati sulla valorizzazione
del patrimonio culturale, ambientale, territoriale e paesaggistico. La rete nazionale Mondi
locali39 è divenuta interlocutore del Mibact per una proposta di legge di riconoscimento degli
ecomusei a livello nazionale. In alcune regioni come la Puglia e il Veneto assolvono funzioni di
osservatori locali dell’Osservatorio regionale del paesaggio.
-I contratti di fiume, di foce, di falda, lago, di paesaggio, di montagna, ecc. Il decimo Tavolo
Nazionale dei Contratti di fiume40 svoltosi a Milano nell’ottobre 2015 ha evidenziato la crescita
costante negli ultimi anni di questi strumenti pattizi partecipati, con il loro riconoscimento nel
Codice dell’Ambiente. Il Manifesto nazionale e il documento operativo mostrano la loro
evoluzione da politiche settoriali a progetti integrati e partecipati sulla riqualificazione della
fruizione delle riviere fluviali, sulle politiche di bacino e di sottobacino, sull’agricoltura
multifunzionale perifluviale. Si apre così la strada verso una nuova civilizzazione idraulica. Dal
rapporto di definizione dall’alto delle politiche settoriali di uso delle acque, si passa ad una cura
e progettazione integrata partecipata, in cui le comunità fluviali di valle intervengono su
indirizzi, politiche e finanziamenti settoriali.
-La gestione sociale di beni comuni: esperienze di occupazione/riuso di edifici o spazi rurali
dismessi per attività produttive, artistiche. sociali, culturali autogestite (Nuovo Cinema Palazzo,
Teatro Valle, Officine Zero a Roma, ex colorificio a Pisa, Mondeggi a Firenze, cohousing, autorecupero delle periferie ecc.). Sono sperimentazioni di forme collettive di gestione dei beni
comuni, a superamento della dicotomia pubblico/privato, ponendo, a partire da esempi
puntuali, prevalentemente urbani, la tematica più generale della ricerca di forme di gestione
collettiva dei beni comuni ambientali, territoriali e paesaggistici, che può valersi degli a
strumenti pattizi di governo “dal basso” sopra ricordati.
Tutte queste esperienze (alcune delle quali si riconnettono anche alle più tradizionali azioni dei
GAL e dei Progetti Leader)sono attualmente convogliate nelle forme istituzionali e settoriali di
partenza, e tendono a organizzarsi in reti nazionali e internazionali di “settore”: cosi avviene
per i Contratti di fiume (Tavolo nazionale dei contratti di fiume riferito al Ministero
dell’ambiente); per gli ecomusei (rete nazionale degli ecomusei, legge degli ecomusei riferita
al Mibact); per gli osservatori locali del paesaggio (rete degli Osservatori locali piemontesi del
paesaggio, Osservatori regionali e nazionale del paesaggio riferiti al Mibact); per i parchi agricoli
(riferimento alla Pac e ai Piani di sviluppo rurale regionali PSR), per gli edifici occupati, e cosi
38
Tra Arno e colline: agricoltura qui vicino, a cura di Daniela Poli, testi di Elisa Butelli, SdT Edizioni 2014
www.mondilocali.it
40
www.contrattidifiume.it
39
14
via; ma, dall’interno di ognuna di queste esperienze, prevalendo il principio “territoriale”
rispetto a quello “funzionale”, implicito nelle forme di partecipazione e autogoverno delle
comunità locali, emergono con forza valenze multisettoriali, multiscalari, sulla conoscenza, la
patrimonializzazione e il trattamento condiviso dei beni comuni territoriali.
Ognuna di queste esperienze tende nei suoi manifesti, nelle sue carte programmatiche, nei
processi aggregativi e nei patti che attua fra soggetti del territorio, a proporre un atteggiamento
olistico nei confronti del progetto territoriale che sottende41 un rovesciamento del sistema
decisionale attuale: dal territorio che esprime socialmente un progetto unitario di
trasformazione, al riconoscimento di questo progetti da parte dei settori regionali e nazionali
di decisione e finanziamento.
Questo percorso, a partire da punti di partenza diversificati per oggetto, settore, referenti
istituzionali, propone progetti sul territorio simili per obiettivi e proposte strategiche, forme di
conoscenza e riappropriazione dei saperi locali, forme di re-identificazione con i patrimoni e le
identità locali, metodi di azione sociale, e strategie di governo dei beni comuni.
In particolare, dai contratti emergenti dai tavoli di soggetti con finalità differenziate nel “patto”
di cura del territorio, emergono nuove forme di impresa territoriale, nelle quali si da al lavoro
e all’impresa nuova dignità sociale avvicinando i mezzi ai fini della produzione, nel contatto fra
abitanti, associazioni culturali e ambientali, produttori, artigiani, ricerca scientifica: economie
integrate di sviluppo locale.
Il principio territoriale, con la messa in atto di sistemi complessi di produzione e di forme
lavorative, finalizzati al benessere della comunità locale, è dunque alla base di tutte queste
esperienze innovative di “Pianificazione dal basso”, incidenti sugli obiettivi sociali dello sviluppo
e sulla qualità e composizione sociale del lavoro.
Riteniamo pertanto utile aprire una riflessione nella SdT su come attivare forme di relazione,
riconoscimento reciproco e cooperazione fra queste esperienze; dal momento che tutte stanno
di fatto e separatamente cooperando alla costruzione di una più avanzata generazione di forme
di sviluppo locale autosostenibile.
E’ evidente che questo sarebbe il compito di enti pubblici territoriali interessati a rappresentare
e a integrare in progetti di sviluppo locale l’innovazione socioculturale e economica che queste
multiformi esperienze stanno gestendo sul territorio. Ma, data la subalternità in questa fase
delle amministrazioni locali al sistema centralistico e la loro debolezza politico-finanziaria,
crediamo sia prioritario attivare processi di autorganizzazione, individuando e favorendo tavoli,
sperimentazioni e forme di coordinamento e integrazione volte a moltiplicare le energie delle
singole esperienze. Senza con ciò rinunciare a cercare continuamente terreni di confronto con
le amministrazioni locali per sottrarle al dominio esogeno di partiti e poteri economici e attivare
percorsi condivisi di costruzione di forme innovative di autogoverno locale. La SdT può essere
un punto di riferimento culturale per questo processo aggregativo.
7. Conclusioni
La proposta per il ritorno ai sistemi socio-territoriali locali, frutto del lavoro collettivo di
un’ampia commissione della Società dei territorialisti, intende proporsi come un contributo sia
teorico-metodologico, che operativo, di carattere multidisciplinare e multisettoriale, dal
41
Vedasi ad esempio le convergenze tematiche fra la Carta nazionale dei Contratti di fiume, la Carta di Siena Musei
e paesaggi culturali, L’Agenda ecomusei 2016, i Manifesti degli osservatori locali per il paesaggio, ecc.
15
momento che nell’attuale crisi del modello di sviluppo basato sulla crescita, tutti i fattori che
caratterizzano i modelli socioeconomici sono in discussione all’interno di un processo di
revisione critica globale, che esclude la valenza strategica di soluzioni settoriali.
Per questo la proposta del “ritorno al territorio” coinvolge per noi politiche insediative,
ambientali, sociali, amministrative, infrastrutturali, paesaggistiche, economiche, produttive e
così via. Sottoponiamo ai partecipanti la proposta, che si muove nel mare aperto delle
sperimentazioni, allo scopo di discutere e di approfondire i problemi aperti attraverso il
confronto di esperienze concrete.
16
Fabio Baroni (ecomuseo Alpi Apuane)
Monica Bolognesi (Società dei territorialisti)
Il ritorno ai sistemi economici locali nella bioregione delle Alpi Apuane:
una prospettiva concreta e in movimento
La ricchezza del patrimonio locale
Le Apuane sono una terra compresa in buona parte nella Provincia di Massa Carrara e in parte nella
Provincia di Lucca, una terra che racchiude in sé mare e montagna, più precisamente due tipi di
montagna (l’Appennino più dolce e lineare e le Apuane, che prendono i caratteri delle Alpi) e due
tipi di riviera marina (la costa scoscesa delle Cinque Terre, da Portovenere e il Corvo, e le spiagge
sabbiose dalle Marine a Forte dei Marmi e Viareggio).
Il territorio fra questi monti e il mare, nella sua grande varietà morfologica, presenta alti livelli di
biodiversità. L’unicità della composizione geologica del rilievo e le forme ad essa legate, le tracce
lasciate dalle glaciazioni (osservabili nei circhi glaciali, nelle morene, nelle marmitte dei giganti, nei
massi erratici), i fenomeni di carsismo ipogeo (Grotta del Vento, Antro del Corchia…), il sistema delle
acque con un gran numero di sorgenti, laghi seppure artificiali che sono diventati pezzi di paesaggio
(da Vagli a Gramolazzo a Isola Santa a Pontecosi ai laghi della Turrite) e fiumi che sono a volte canyon
selvaggi, orridi e altre fiumi dolci di fondovalle, gli ecosistemi forestali, prativi, rupestri: tutti questi
elementi identificano un territorio di grande pregio paesistico dato dalla compresenza di valori
naturalistici ed ecosistemici.
Grande valore storico-testimoniale hanno poi gli elementi che compongono la particolare
organizzazione territoriale legata all’economia agro-silvo-pastorale: una rete insediativa costituita
da alpeggi e insediamenti stagionali a servizio delle attività pascolive o di quelle minerarie e da
piccoli borghi rurali circondati dal bosco, con intorno piccole isole di coltivi di impronta tradizionale
corredate da sistemazioni di versante (terrazzamenti, ciglioni, canalette…) in ragione delle elevate
pendenze tipiche di questi suoli e occupate principalmente da piccoli vigneti e oliveti o da mosaici
colturali complessi.
Tutte queste (ed altre) diversità ambientali e territoriali producono un’agricoltura biodiversa, che
permette di avere, nello spazio limitato del territorio, gli slow food lardo di Colonnata, biroldo di
Garfagnana, ecc. fino ad avere il 50% per pani slow food italiani, la Marocca di Casola, il pane di
patate garfagnino, il testarolo.
Questo territorio è ricco anche di valori storico-identitari di grande importanza: nelle Apuane e nel
loro intorno vi sono terre molto forti come la Lunigiana, la Garfagnana, la Versilia, le Cinque Terre;
la Lunigiana e la Garfagnana hanno una rete di castelli e nuclei urbani storici che altrove (la Loira, il
Trentino) ha dato motivo di sviluppo; questa terra ha dato origine infine a uno dei marchi più forti
della Toscana storica, quel marmo di Carrara che è conosciuto al mondo per essere il materiale che
ha permesso alte forme di espressione del genio umano nei secoli.
Tutto questo patrimonio dimostra perché vi sia nel territorio apuano una cornice ed una rete unica
di Parchi naturali: sono sette, due nazionali (il Parco Nazionale dell’Appennino tosco emiliano e delle
17
Cinque Terre) e cinque regionali (Apuane, Montemarcello Magra, Cento Laghi, Frignano e San
Rossore) e soprattutto dimostra perché la massima istituzione culturale al Mondo, l’Unesco, mostri
qui un grande interesse: le Cinque Terre sono Patrimonio dell’Umanità Unesco, il Geoparco Apuane
è un pezzo del network dei geoparchi Unesco ed è appena nata una Unesco Mab (Man & Biosphere).
Possedere un grande patrimonio non è però sufficiente perché da questo scaturisca valore
economico, la sua fruibilità, la “coscienza di luogo” e la capacità autoimprenditiva del milieu locale
sono componenti essenziali delle strategie di uno sviluppo autosostenibile. Fortunatamente il
territorio apuano da questi punti di vista può vantare condizioni molto favorevoli:
a) la sua localizzazione e le connessioni infrastrutturali nazionali ed internazionali. Le Apuane
sono servite da due aeroporti di cui uno, Pisa, scalo internazionale con elevati volumi di traffico
raggiungibile in mezz’ora ed un altro a Genova poco più distante. La rete portuale consta di un porto
militare ma soprattutto di due scali, La Spezia e Marina di Carrara, dove sbarcano decine di migliaia
di croceristi ogni anno. La rete ferroviaria ne fa uno dei corridoi intermodali europei, il TirrenoBrennero (Ti-Bre), e collega ad ogni punto cardinale e, infine, un incrocio autostradale che si snoda
nelle quattro direzioni: nord, Milano e l’Europa, ovest, Genova la Francia e la Spagna, sud, Roma e
il Mediterraneo, est, Firenze e l’Adriatico.
La centralità del luogo e la possibilità di intercettare ed attrarre visitatori che già gravitano
nell’intorno e che possono facilmente raggiungere le Alpi Apuane, o comunque la presenza di
connessioni infrastrutturali che possono facilitare gli spostamenti a chi già vive in questo territorio
o a chi decide di stabilirvisi, sono elementi che offrono opportunità molto concrete per il rilancio
dell’economia locale attraverso la valorizzazione delle risorse patrimoniali.
b) la presenza crescente di soggetti socioeconomici locali che vanno sostanziando una valorizzazione
puntuale delle risorse patrimoniali naturalistiche, storiche, culturali, che consente di pensare a un
governo integrato dell’economia locale volto concretamente al superamento della monocultura del
marmo. Questo percorso è aiutato dall’azione congiunta delle Associazioni ambientaliste, che
hanno costituito gli Stati generali delle Apuane e promosso il Manifesto per le Alpi Apuane42.
42
Dal Manifesto, Stati generali delle Alpi Apuane, Pietrasanta,14 maggio, 2016:
1. Riconoscere i territori e i paesaggi delle Alpi Apuane come beni comuni, sulla scorta delle direttive correlate ai tre
ambiti apuani del Piano Paesaggistico della Regione Toscana, di cui condividiamo filosofia e impianto prescrittivo.
2. Promuovere in modo capillare e organizzato la conoscenza dei valori identitari del territorio apuano, anche sulla base
delle attività del nascente Ecomuseo delle Alpi Apuane, che ha anche funzioni di Osservatorio locale del paesaggio.
3. Incentivare il ritorno alla montagna, e, quindi, la promozione di tutte quelle attività agrosilvopastorali che alimentano
la filiera enogastronomica, oltre alle produzioni locali biologiche e di alta qualità.
4. Restituire centralità ad un Parco Regionale completamente “rinnovato” nella dirigenza, riaffermando limpidamente
le sue funzioni statutarie di conservazione della natura e di promozione dello sviluppo sostenibile locale.
5. Sviluppare il turismo sostenibile e la fruizione dei territori apuani, in stretta sinergia col distretto costiero,
decongestionando e destagionalizzando i flussi dalla conurbazione balneare a vantaggio dell’ospitalità diffusa in quota.
6. Porre le basi conoscitive e procedurali, di concerto con le amministrazioni locali, per favorire l’autoproduzione
energetica da fonti rinnovabili (geotermia a bassa entalpia, biomasse, microeolico, fotovoltaico, etc.).
7. Favorire la ricerca e l’innovazione, attraverso il rafforzamento delle relazioni con tutti i poli universitari della Toscana
(Università di Firenze, di Siena e di Pisa, Scuola Normale Superiore e Scuola Superiore Sant’Anna).
18
Stato dell’arte e criticità dell’attuale modello economico incentrato sulla monocoltura del
marmo
Attualmente la bioregione delle Alpi Apuane è caratterizzata, come gli altri territori classificati come
“Aree Interne” nell’omonima strategia nazionale del Ministero dell’Economia, da dinamiche di
spopolamento ed abbandono con serie conseguenze anche sull’assetto idrogeologico del territorio.
Le sue enormi potenzialità sono state soffocate da un’economia totalmente incentrata
sull’escavazione del marmo, un modello che mostra da tempo i segni della sua insostenibilità e che
oltre ad ostacolare ogni altra forma di sviluppo locale (in agricoltura, allevamento, artigianato,
turismo) genera criticità ambientali, paesaggistiche e socioeconomiche.
La coltivazione delle cave caratterizza storicamente il territorio apuano e il prestigioso marmo di
Carrara è conosciuto ed esportato in tutto il mondo, ma la quantità di materiale prelevato è
aumentata vertiginosamente nella seconda metà del secolo scorso rispetto a quanto avveniva in
precedenza fin dall’epoca romana grazie al progresso tecnologico nell’attività di escavazione e
all’evoluzione nel sistema dei trasporti su gomma, aumentando a dismisura la pressione sui già
fragili habitat apuani. Questi i numeri che raccontano l’incidenza dell’estrazione del marmo nel
territorio apuano:
“Sul comparto insiste, infatti, una cava ogni tre chilometri quadrati e questa densità cresce a sette cave per
kmq nella sola area di Carrara. Sono quasi 600 in tutto, di cui 150 attive, un centinaio delle quali nel solo
bacino carrarese. Se all’epoca dei Malaspina (1750) si cavavano circa 5 mila tonnellate/anno di materiale,
oggi le quantità annue prelevate assommano a circa 5 milioni di tonnellate.”
(da Un Manifesto per le Alpi Apuane)
E’ impressionante anche osservare che lo sventramento della montagna produce solo in minima
parte materiale lapideo, infatti dati ufficiali di Assoindustria dimostrano che soltanto il 25 per cento
del totale del materiale prelevato è costituito da blocchi, la restante parte consiste in scaglie, polveri
di marmo e terre di cava. L’attività estrattiva quindi non va a vantaggio della produzione di manufatti
in marmo (i sostenitori dell’attuale modello utilizzano spesso la memoria delle eccellenze artistiche
realizzate con il marmo di Carrara come giustificazione), il materiale cavato è impiegato
prevalentemente nell’industria dei materiali edili o nella cosmetica (per farne dentifrici), nessun
“nobile” alibi per le multinazionali che depredano il territorio apuano.
Oltre alle criticità paesaggistiche più evidenti che riguardano l’irrimediabile distruzione dei profili
dei rilievi per l’eccessivo prelievo di materiale lapideo, non sono trascurabili gli effetti sulle aree
sottostanti i fronti di cava dove si raccolgono i detriti dell’attività di escavazione nei ravaneti.
L’introduzione del filo diamantato per il taglio del marmo ha velocizzato notevolmente l’attività (e
di conseguenza l’intensità del prelievo) ma ha cambiato la natura del residuo, un tempo costituito
da scaglie di varia pezzatura che si depositavano e si stabilizzavano come pietraie e che lasciavano
infiltrare l’acqua, adesso composto essenzialmente da marmettola, una miscela di polveri finissime.
La marmettola si infiltra nei ravaneti, si compatta, impermeabilizza, inquina l’aria, penetra nel
8. Creare un tavolo di crisi con tutti gli attori del comparto estrattivo, Sindacati in testa, per condividere e ottimizzare
gli effetti sociali di una diversa e più sostenibile modalità di prelievo della risorsa lapidea.
9. Creare i presupposti giuridici e socio/economici per una economia circolare, che sappia intercettare l’enorme mole di
materiale di scarto del distretto marmifero, ai fini di un suo virtuoso riciclo nell’industria edile e del restauro.
19
sottosuolo fino alle falde e compromette l’habitat di numerose specie animali che popolano i corsi
d’acqua.
Il modello economico basato essenzialmente sull’attività estrattiva a ritmi selvaggi presenta criticità
anche dal punto di vista occupazionale (il ricatto del lavoro per gli abitanti del luogo a scapito
dell’ambiente era invece la ragione per cui molti, in passato, giustificavano tale scempio). Mentre
fino a quarant’anni fa gli addetti del settore erano oltre 10mila, nel 2014 il loro numero, compreso
l’indotto, si è ridotto a 2mila unità (fonte Camera del Lavoro provinciale di Massa Carrara) di cui non
più di 600/700 sono impiegate direttamente alla montagna, una riduzione drastica che stride
fortemente rispetto al dato della quantità di materiale prelevato che invece ha subito una brusca e
insostenibile accelerazione. I blocchi estratti vengono per la maggior parte imbarcati al porto di
Carrara su navi che li trasportano verso Paesi in cui il processo di lavorazione ha un costo minore
rispetto a quello del trattamento in loco, con conseguente perdita di posti di lavoro, di know how,
e dissoluzione del distretto industriale; problemi di cui anche il mondo sindacale si sta facendo
carico. L’esportazione della maggior parte dei blocchi cavati nelle Apuane rende inoltre difficoltoso
l’accesso alla materia prima per tutti i laboratori artigiani della produzione artistica locale che
dovrebbero invece essere valorizzati per la costruzione di un distretto del marmo di qualità.
Un nuovo modello di sviluppo locale autosostenibile
Le risorse patrimoniali e le grandi potenzialità del territorio delle Alpi Apuane possono e debbono
essere sviluppate per affrontare e superare le criticità dell’economia monosettoriale e le tendenze
all’abbandono e alla desertificazione demografica.
La proposta di un modello di sviluppo alternativo per questo territorio è una prospettiva credibile e
concreta per la presenza di molteplici fattori: un ricco patrimonio locale da riscoprire; un tessuto
sociale in cui sono attive dinamiche di “ribellione propositiva” rispetto al modello economico
incentrato sull’attività estrattiva, tessuto ben saldo nel sentimento di appartenenza e consapevole
del valore patrimoniale del territorio in cui vive; realtà associative, economiche ed amministrazioni
locali sensibili alle tematiche della salvaguardia del bene comune territorio e pronte a collaborare
per sperimentare dal basso nuove forme di economia locale con un approccio integrato e
multisettoriale, nuove esperienze di gestione sociale del patrimonio, strumenti per l’autogoverno
con un nuovo protagonismo delle comunità locali.
Proprio per la spinta del territorio all’autorganizzazione e per la necessità di trovare strumenti
idonei alla sperimentazione di una nuova visione dello sviluppo locale, è nata e sta crescendo
l’esperienza dell’Ecomuseo delle Alpi Apuane (con la funzione di Osservatorio Locale del Paesaggio)
composto da 4 Comuni (Casola in Lunigiana, Fosdinovo, Fabbriche di Vergemoli, Gallicano), da altri
comuni in via di adesione e da una serie di associazioni e comitati di altre aree della bioregione:
l’intero territorio è coinvolto, attori istituzionali e attori sociali insieme con l’obiettivo di elaborare
una proposta di sviluppo sostenibile per le Alpi Apuane e mettere in pratica progetti concreti per la
costruzione (passo dopo passo e dal basso) dell’alternativa al modello esistente. La consapevolezza
della necessità di unire le forze di associazioni, comitati e cittadini per la causa della difesa dei valori
identitari locali ha unito in un unico soggetto, il Coordinamento Apuano, le più importanti
associazioni ambientaliste nazionali come Legambiente, Italia Nostra, WWF, CAI, FAI , la Rete dei
Comitati per la difesa del territorio e la Società dei territorialisti, per dar vita ad un’esperienza di
20
ampio respiro e portare la battaglia contro la monocoltura del marmo che sta distruggendo il
territorio apuano alla ribalta nazionale.
La proposta di un modello di sviluppo alternativo per le Alpi Apuane deve affrontare il grave
problema della crisi del settore delle escavazioni e la sua insostenibilità considerando il complesso
sistema delle cave come parte integrante e coinvolgendo più attori possibili con un approccio
globale e multisettoriale.
Ricostruire un distretto marmifero di qualità limitando l’estrazione lapidea alla produzione
artigianale e artistica, puntando sul pluriuso delle cave e su una loro funzione (e fruizione)
naturalistico/paesaggistica è possibile se si affrontano le criticità generate dal sistema in maniera
integrata con altri settori economici e in prospettiva bioregionale, trovando alleati anche fra le
numerose aziende artigiane del marmo che subiscono l’eccessivo sfruttamento della risorsa da
parte degli industriali dell'escavazione e puntano alla creazione di una filiera corta di qualità. Questo
obiettivo richiede strategie e modalità di intervento differenti a seconda delle situazioni in cui si
opera: le cave che si trovano all’interno dei confini del Parco delle Alpi Apuane devono
necessariamente essere chiuse e a seguito dell’interruzione dell’attività estrattiva deve essere
previsto un ripristino ambientale e fruitivo pilotato a carico dell’impresa; per le cave al di fuori dai
confini del Parco è necessaria una riconversione del modello data l’assoluta insostenibilità degli
attuali ritmi e pratiche estrattive, con una forte riduzione della quantità di marmo escavato ed un
aumento della sua lavorazione locale.
La riqualificazione naturalistico/paesaggistica, la pulizia dei ravaneti e il loro recupero come
paesaggi integri, la valorizzazione del know how acquisito nella tradizione dell’escavazione unite alla
progettazione di un sistema turistico di visita/fruizione delle cave che organizzi le tecchie, le
bancate, l’immenso reticolo di gallerie, le piscine naturali, le stanze di marmo, gli spazi (ad esempio
per fare il più grande museo della scultura mondiale), possono produrre un gran numero di posti di
lavoro, grazie alla centralità della zona e alla presenza di connessioni infrastrutturali in grado di
veicolare importanti flussi turistici.
Nelle nuove economie locali fondate sulla valorizzazione del patrimonio culturale, ambientale,
territoriale e paesaggistico e del capitale sociale della bioregione delle Alpi Apuane si intrecciano
diversi settori economici in grado di generare ricchezza e ricollocare la manodopera che risulterà in
esubero dal ridimensionamento del sistema di coltivazione delle cave.
Il territorio delle Alpi Apuane raccoglie diverse esperienze di iniziative socioeconomiche e di soggetti
attivi che vanno nella direzione di un modello di sviluppo integrato fondato sulla valorizzazione delle
eccellenze patrimoniali. La bioregione apuana è un ambito interessante per sperimentare nuove
forme di sistemi economici locali in quanto proprio la strategia di valorizzazione delle risorse
patrimoniali può conseguire l’obiettivo della ricostruzione delle comunità locali e delle attività che
permettono loro di vivere dignitosamente, verso un nuovo equilibrio virtuoso di autosostenibilità.
Alcuni processi sono già in atto ed hanno bisogno di essere potenziati, ad esempio l’investimento
nella filiera corta. I contadini locali hanno rifiutato di limitarsi alla cultura del “prodotto tipico” per
l’esportazione che condanna l’agricoltura a produrre cibi di nicchia con scarsissimo consumo (farina
di castagne, funghi, farro, marmellate, ecc.) e producono soprattutto per la dieta quotidiana (patate,
ortofrutta, farine, formaggi, ecc.), auspicando di poter arrivare a coprire con la produzione delle
aziende locali il fabbisogno quotidiano della popolazione che vive sulle Alpi Apuane, per evitare che
21
il denaro che i locali spendono per acquistare cibo vada ad arricchire le multinazionali del food nei
supermercati (ricchezza che, tolti alcuni lavoratori locali nella grande distribuzione, esce dal
territorio).
La realizzazione di interventi integrati per lo sviluppo della filiera agricoltura-artigianato-culturaturismo, il miglioramento della fruizione del territorio apuano in sinergia con il distretto costiero per
favorire l’ospitalità diffusa in quota, la valorizzazione delle risorse energetiche locali per favorire
l’autoproduzione di energia da fonti rinnovabili, sono alcune delle linee di sviluppo da intraprendere
per rivitalizzare il territorio apuano e costruire concretamente l’alternativa al modello attuale
mettendo al centro i valori umani e le competenze, i saperi della società locale, l’identità delle Alpi
Apuane.
Quadro sinottico comparativo della monocoltura del marmo e del progetto integrato di
sviluppo locale autosostenibile
Modello di sviluppo attuale
Progetto Integrato di sviluppo locale autosostenibile
Modello
monosettoriale
incentrato
sull’estrazione del marmo, insostenibile
per ritmo, modalità e dimensioni, che
distrugge irreversibilmente il patrimonio e
ostacola altre forme di sviluppo.
Modello fondato sulla valorizzazione delle risorse
patrimoniali locali e su una strategia di sviluppo
multisettoriale che si articola su diversi assi:
Numero di cave: 600 in tutto, 150 attive.
Densità: una cava ogni 3 km2, 7 cave per
km2 nel bacino di Carrara.
Addetti: 2000 unità di cui 600/700
impiegati direttamente alla montagna.
Materiale prelevato: 5 milioni di tonnellate
all’anno di cui solo il 25% è costituito da
blocchi, il resto sono scaglie, polveri di
marmo, terre di cava.
Il sistema marmo riguarda una parte
minoritaria delle Apuane, il resto del
territorio è interessato da problemi di
abbandono
e
desertificazione
demografica, per incompatibilità fra
l’attività estrattiva ed altre forme
economiche e per scelte politiche a favore
della monocoltura del marmo.
- ricostruzione di un distretto marmifero di qualità per la
produzione artigianale e artistica;
- recupero delle cave dismesse, riqualificazione
naturalistico-paesaggistica e trasformazione in luoghi di
interesse turistico;
- valorizzazione delle peculiarità geologiche dell’area,
delle grotte carsiche, degli orridi e canyon in cui
sviluppare
itinerari
escursionistici,
alpinistici,
speleologici;
- sviluppo della sentieristica (sull’esempio del progetto
finanziato dal FAI sul Pizzo d’Uccello);
- promozione di iniziative, recupero di strutture per
l’ospitalità diffusa e riscoperta dei percorsi storici (per
es. via del Volto Santo) per un turismo sostenibile legato
alla valorizzazione dell’identità del territorio, delle sue
peculiarità culturali, storiche, ambientali;
- recupero e riqualificazione dei borghi e centri storici;
- investimenti nelle attività agricole della filiera corta
(non solo per prodotti tipici), nella pastorizia e
allevamento, potenziamento della Banca della Terra per
l’accesso alle terre incolte e creazione di un sistema di
mobilità alternativo delle merci per raggiungere le parti
di territorio più difficilmente accessibili;
22
- rivitalizzazione della filiera del bosco, rilancio della
castanicoltura e delle attività selvicolturali;
- realizzazione di attività di trasformazione dei prodotti
(birricifi, mulini, caseifici, seccatoi, frantoi…),
valorizzazione di quelle esistenti e integrazione nei
circuiti turistici;
- valorizzazione e riscoperta dell’artigianato locale legato
alla cultura e alle materie prime del territorio;
- produzione energetica da fonti rinnovabili (solare,
eolico, mini-idroelettrico, biomasse, geotermia)
secondo un modello diffuso e calibrato sulle esigenze e
sulle potenzialità del territorio;
- valorizzazione delle esperienze di cittadinanza attiva
(associazioni, gruppi, comitati, comunità) che investono
e finalizzano le loro attività alla cura del territorio e al
recupero degli spazi pubblici.
Si stima che facendo leva sul solo sistema turistico
attivabile con la visita/fruizione delle cave riqualificate si
possano creare 1000 posti di lavoro. Altrettanti se ne
potrebbero creare nel settore della produzione
alimentare se il fabbisogno fosse soddisfatto dalle
aziende locali e se il territorio intercettasse gran parte del
denaro che la popolazione locale mette in circolo nella
grande distribuzione.
23