Il Mistero buffo del giullare del jazz

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Transcript Il Mistero buffo del giullare del jazz

Il Mistero buffo del giullare del
jazz-Incontro con Filomena Campus
Filomena Campus- sarda di nascita e dal 2001 inglese d’adozione, vocalist,
compositrice e regista teatrale- è iperbolica ed eversiva come il suo
grammelot musicale. Irriverente e indignato al tempo stesso, questo moderno
joglar del jazz sfida il cliché maudit con la sua carica utopica e
l’attitudine critica e affabulatoria. Vocalmente e spiritualmente vicina ai
“Tumulti” rumoristici e sovversivi di Maria Pia De vito, innesta su un
tessuto improjazz avanguardia brasiliana, afroamericana ed europea,
coniugando rigore filologico e vertiginosa sperimentazione. Quella di
Filomena Campus è un’estetica del calembour e della polisemia; l’innata
teatralità e il polistilismo, la ricchissima gestualità vocale e gli accenti
ludici che improntano il suo dissonante universo artistico sembrano rivelare
una parentela archetipica con Cathy Berberian, consacrandola nuova “first
lady of far-out song”.
“Scaramouche” (Incipit, 2015), sospeso com’è tra impianto jazz, celebrazione
folk dell’insularità, latin, classica e suggestioni carioca, sembra essere il
manifesto della contaminazione. Un genere filogeneticamente sincretico come
il jazz è necessariamente incompiuto?
La contaminazione è un evento naturale quando si vive e lavora con artisti
che provengono da diverse parti del mondo. Londra, nonostante Brexit,
rappresenta ancora un crogiolo di culture di tutto il mondo, e la musica non
può che beneficiarne. Ognuno di noi parla e suona con il proprio ‘accento’,
con il proprio background, per cui l’incontro di diversi ritmi e generi si
rispecchia nella musica che creiamo insieme, spesso in maniera del tutto
spontanea. Non definirei il jazz un genere incompiuto, una volta suonato un
brano è quello che è stato, e come diceva Monk,’we have to live with it’.
Nel 2013 ha ideato il Theatralia Jazz Festival, crocevia di musica, teatro e
poesia in cui il jazz italiano incontra quello britannico, nell’ambito del
quale ha riproposto “All Stars Misterioso Monk”, un adattamento jazz dello
spettacolo “Misterioso” di Stefano Benni dedicato alla leggenda del jazz
Thelonious Monk. Sulla suitas del Theatralia può aver influito un’opera
fondamentale del teatro contemporaneo quale The connection di Gelber,
ovviamente non per la tematica ma con riguardo al rapporto tra schema e
improvvisazione? Lo stesso De Berardìnis ha sottolineato l’analogia tra
l’improvvisazione teatrale e quella jazzistica…
Da anni lavoro sul confine tra improvvisazione jazz e teatrale, essendo
jazzista e regista teatrale è l’elemento che mi affascina di più e che mi
consente di trovare un punto di incontro tra due arti apparentemente molto
diverse. Per improvvisare bisogna essere consapevoli della forma, della
struttura dei brani per poi poterci volare sopra creando nuove melodie, ritmi
e armonie. Nello spettacolo Misterioso, che rimetteremo in scena con un nuovo
adattamento nel 2017, ho provato a unire i due elementi musicali e teatrali,
e i musicisti si sono rivelati ottimi improvvisatori anche con il testo, non
solo con le note. L’influenza di Judith Malina e Julian Beck nel mio lavoro è
indubbia, non tanto con the Connection perché il tema della droga è un cliché
che non riflette il jazz contemporaneo, ma ad esempio con Mysteries and
smaller pieces, con la continua sfida artaudiana al ruolo dello spettatore.
Come per la musica anche per il teatro i miei maestri sono tanti, a iniziare
da Eugenio Barba, Augusto Boal, Franca Rame e Dario Fo, Complicite, Pina
Bausch e molti altri. Franca Rame è stata una grandissima maestra
dell’improvvisazione, una tradizione che risale alla Commedia dell’arte in
cui recitando si improvvisava seguendo un canovaccio preciso.
Anche lo spettacolo Not In My Name (Londra 2005) sembra rifarsi alla
tradizione del Living Theatre e mettere pienamente in atto gli insegnamenti
di Artaud e il suo “teatro della crudeltà”…
Not in my name è un adattamento del testo di Judith Malina dei Living
Theatre, che abbiamo interpretato, integrato con altri testi e adattato a un
contesto molto diverso da Time Square dove la compagnia presentava lo
spettacolo contro la pena di morte. Londra è una situazione diversa in cui
urlare slogans non ha un grande effetto, mentre si può avere un risultato più
efficace con un tono di voce normale e ragionando insieme allo spettatore,
offrendo informazioni, storie e dati reali. Mi ha sempre affascinato il
concetto della ‘peste’ di Artaud, di come contagiare gli spettatori e
integrarli nella performance anche fisicamente, coinvolgendoli dal punto di
vista sensoriale, non solo emotivo e razionale.
Lei ama definirsi “giullare del jazz”. (Jester Of Jazz è anche il titolo di
un suo lavoro discografico, N.d.R.). Quanto il “Mistero Buffo” del giullare
per eccellenza, Dario Fo, ha influito sulla sua estetica teatrale e, più in
generale, artistica?
Tutto il teatro di Franca Rame e Dario Fo ha influito, insieme a molti altri
registi e ‘theatre practitioners’, termine intraducibile che però rende
esattamente l’idea di chi lavora quotidianamente e minuziosamente non solo
sulle tecniche ma sul significato più profondo del teatro e della sua
importanza nella società. E non parlo del teatro di cartellone con i soliti
autori e attori, ma di chi del teatro ha fatto uno stile di vita, di chi ha
osato sfidare le regole per creare un teatro nuovo e vitale, come insegna
Peter Brook. Sicuramente mi considero una giullare del jazz, proprio per
l’impronta forte dell’improvvisazione, ma anche per il senso di
responsabilità di chi sta su un palco, senza mai prendersi troppo sul serio.
I giullari erano la voce del popolo e degli oppressi, facendo ridere
riuscivano a dire la verità, come il fool di Shakespeare.
Sicuramente il
grammelot di Dario in Mistero Buffo ha arricchito il mio vocabolario
nell’improvvisazione vocale e nello scat, incoraggiandomi a esplorare suoni
diversi. Il titolo dell’album Jester of Jazz mi fu suggerito dalla
motivazione del premio Nobel a Fo: “Perché, seguendo la tradizione dei
giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi”.
E’ un omaggio verso due grandi maestri. .
Più volte ha dichiarato di amare l’improvvisazione free. Il padre
dell’improvvisazione libera, Derek Bailey, ha notato come l’improvvisazione
non idiomatica finisca col configurare un genere riconoscibile e uno stile
musicale a sé. Per una sorta di eterogenesi dei fini l’improvvisazione che si
vuole emancipare da ogni cliché diventa vera e propria composizione
autoriale?
E’ un tema attuale e ultimamente molti musicisti stanno cercando il modo di
far riconoscere i diritti di autore per i brani improvvisati. E’ musica
creata al momento, questo non significa che valga di meno della composizione
scritta e poi suonata. A Londra esiste una cultura molto forte di
improvvisazione free, a iniziare dalla leggendaria London Improvisers
Orchestra. Tra le pubblicazioni più interessanti nella scena free, ci sono i
Black Top, Orphy Robinson e Pat Thomas, che insieme a Steve Williamson nel
primo album ed Evan Parker nel secondo, promuovono da anni l’improvvisazione
in alcuni dei club di avanguardia musicale come il Vortex, Cafe Oto, The
Crypt che da qualche anno propongono anche jam sessions di improvvisazione
free attirando un numero sempre più ampio di giovani musicisti.
Il 22 dicembre Filomena Campus
terrà un concerto di beneficenza
per Emergency al Teatro delle
Saline a Cagliari, con Antonello
Salis e Gavino Murgia.
Claudia Erba