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Con la diffusione dei dispositivi di interconnessione telematica personali, oggi la quasi
totalità della popolazione ha un profilo social. In Italia sono circa 20 milioni di persone, nel
mondo quasi 2 miliardi. Il cittadino 2.0 vive immerso stabilmente nello spazio dei flussi
cibernetici. Ciò comporta la prepotente emersione del fenomeno della disintermediazione.
Occorre intercettarne la dinamica con particolare urgenza, in relazione al susseguirsi di
eventi di disinformazione e alla diffusione di isterie pandemiche. Fenomenicità che si legano
alla mancanza di un principio dialettico e di mediazione nella costruzione della conoscenza.
Nel momento in cui il vero e il reale vengono sovrascritti in maniera indistinguibile dal
virtuale, occorre una nuova gerarchia, o meglio un diverso posizionamento di autorevolezza
delle fonti di informazione. La domanda è se l’infosfera possa rappresentare un luogo di
saggezza, piuttosto che di caos o entropia informazionale.
Abbiamo di conseguenza vari problemi da affrontare: come riuscire a verificare la qualità
delle informazioni; in che misura è possibile verificare una notizia?
Inoltre, come validare la fonte: autorevole o no, ammesso sia essa presente?
Nell’era digitale, dove ogni singolo contenuto è immediatamente modificabile dagli utenti,
come ci si può difendere dalle informazioni distorte?
Infine, qual’è la proporzione di realtà tra il mondo percepito attraverso i media e quello al di
fuori dello schermo?
Il pubblico, definito come l’insieme degli utenti informati dal sistema dei mass-media,
tradizionali e digitali, è oggi sottoposto al costante flusso connettivo nell’Infosfera. In Italia
una larga fetta di opinione pubblica subisce ancora una forte influenza dei mass-media
tradizionali, ma nel giro di pochi anni è ipotizzabile che i media digitali prendano il
sopravvento.
La convergenza dei dispositivi mediatici consente di essere on-line ogni singolo istante della
propria esistenza, saturando il tempo di attenzione e automatizzando la selezione delle fonti
delle news. In tal modo si rischia una visione distorta del mondo, o meglio la distorsione del
principio ordinativo di realtà, che finisce armonizzato forzatamente alla propria visione, o
meglio al comune sentire che definisce l’identità, in senso individuale e collettivo.
La narrazione personalizzata sulla base dell’immensa offerta del sistema dei media digitali,
che integrano e riconfigurano ogni forma ed espressione estetico-mediale precedente, è un
fenomeno che descrive al meglio la società post-fattuale. Dopo la dissoluzione delle grandi
narrazioni novecentesche, nel flusso dell’infosfera i singoli frammenti tendono a riannodarsi
casualmente: la realtà si riordina e si ricombina su più e più piani ermeneutici, grazie
all’operato dei prosumer.
Personalizzazione e disintermediazione si esprimono nella progressiva perdita di rapporto
con i tradizionali ambienti di comunicazione. Il distacco sempre maggiore che si registra tra
vaste parti di popolazione, rispetto agli istituti che per decenni hanno governato i processi
di socializzazione – culturalizzazione e partecipazione – deforma la percezione degli
argomenti di pubblico dibattito. Ciò può essere visto come parte integrante di una
mutazione più ampia, che investe l’intera società dell’informazione, e dovrebbe far suonare
un campanello d’allarme.
L’interscambio dialettico alla base della costruzione di verità e sapere, un risultato arbitrato
da un criterio logico-razionale, tende a divenire così un processo arbitrario in cui la ricerca
di ciò che meglio ci definisce, che in definitiva ci piace e ci soddisfa in quanto individui
socialmente relazionati, implode in una costante conferma e riconferma. Il rispecchiamento
solipsistico negli schermi interattivi e nei servizi web che gestiscono il sé digitale prende il
sopravvento su tutto. Come testimoniano le patologie di information overload e internet
addiction.
Con il crollo della fiducia verso i tradizionali ambiti di potere – scuola/istruzione, politica,
scienza, religione, ecc – il cittadino iperconnesso – il netizen (da citizen + network) – è alla
continua ricerca di nuovi strati di intermediazione linguistica, culturale e valoriale.
Trovandoli in ambienti gamificati o ludicizzati, gestiti dalle Big Corporation di Silicon Valley.
Questo rapporto si lega a una nuova logica di intermediazione in cui lo scambio si regge su
una presunta gratuità del servizio erogato. Del resto, in pochi chi oggi sono disposti a
rinunciare allo smartphone, che riunisce in un singolo device tutti i precedenti dispositivi di
comunicazione.
La gamificazione tende a rendere la fruizione dell’ambiente un gioco continuo, attraverso
meccanismi di accumulo e premialità che inducono a produrre e consumare in maniera
reiterativa, utilizzando strumenti e servizi che allo stesso tempo estraggono dati e valore dai
processi comunicativi umani. Esempi di facile rilievo sono il tanto familiare “clicca mi piace
e condividi”, oppure “mi sento fortunato”, elementi che sintetizzano al meglio il trend
ludicizzato.
Quantificando la propria conoscenza e costruendo la propria rete di saperi e relazioni
attraverso un dispositivo di accumulo che non contempla parametri di veridicità,
autorevolezza e fiducia, i prosumer alimentano il circolo dell’informazione nel web 2.0.
Tante piccole narrazioni ritagliate sulla base dei propri gusti, chiuse in vere e proprie
camere dell’eco, dove riverberano storie e costruzioni egotiche, narcisistiche, volte all’auto
affermazione di una propria verità e alla contemporanea negazione dell’altrui dissentire.
Le istituzioni politiche e culturali dell’occidente hanno in un certo senso sempre guardato al
modello greco, un insieme di ambienti separati tra loro – oikòs, ecclesìa, agorà – ma
osmotici per il passaggio di informazione. Ambienti che distinguevano la sfera pubblica da
quella privata, aggregandosi poi nella partecipazione sociale come momento di costruzione
simbolica, che presupponeva un passaggio fisico, una transizione.
Il cittadino in tal modo poteva mediare il proprio arbitrio con quello altrui, passando quindi
dalla sfera privata a quella pubblica e modificando la propria postura comunicativa
attraverso un processo dialettico, necessario per la costruzione di un’identità politica, che si
rivelava nella partecipazione alla cosa pubblica. In quest’ottica la strada e la pubblica piazza
prima, la città e la metropoli poi, costituivano uno spazio dei flussi di vitale importanza, per
il passaggio di corpi, menti e pensieri. Una fenomenicità compresa al meglio dai situazionisti
e dalle avanguardie, culminato negli anni 90-2000 con l’uso dei media tattici e l’attivismo
hacker.
Lo spazio mediale concentrato nella pubblica agorà, poi la modernità coi suoi caffè e salotti
borghesi, fino alle piazze e nelle adunate poi. Con la dematerializzazione degli spazi di
flusso, dovuta all’inclusione dei processi comunicativi nell’infosfera, questo modello è
crollato, come del resto lo stesso Habermas ha sottolineato in recenti passaggi.
I più recenti sviluppi, che del resto comprendono tanto il popolo dei fax degli anni ’90, tanto
i gruppi di Usenet, fino ai forum tematici degli anni ‘2000 e all’esplosione della blogosfera e
dei social media degli ultimi anni, impongono di abbracciare nuovi paradigmi, per
comprendere le mutazioni e le rotture epistemologiche. Non c’è più tempo, o forse manca
proprio lo spirito del tempo.
In tal senso, non è possibile insistere con vecchi strumenti e polverose teorie. Ottiche
patinate, romanticamente segnate dal logorio novecentesco, destinate a offrire immagini
sfocate e poco realistiche della network society.
Il rapporto tra disinformazione digitale di massa, fenomeno dirompente che mette a nudo le
dinamiche di interazione umana nel cyberspazio, è passato sinora parzialmente sottotraccia,
almeno finché non si sono verificate delle vere e proprie catastrofi per l’ecologia del sistema
dei media.
L’informazione sensazionalistica nel mondo digitale è un fenomeno legato all’economia del
clic: in rete il numero di condivisioni genera introiti e influenza, quindi l’interesse a
garantire un’informazione credibile e accurata, è tendente a zero. Anche testate autorevoli
diffondono notizie palesemente false, cedendo alla viralità del male.
Fin quando il flusso mediatico si è tendenzialmente auto-regolato in base a criteri di
attendibilità, credibilità e affidabilità, una testata giornalistica autorevole non avrebbe
diffuso in maniera indiscriminata notizie non verificate o completamente inventate. Per
quello c’era la stampa scandalistica, il gossip, ecc. Oggi questa distinzione è crollata quasi
del tutto.
Vittime di questo sistema lo siamo un po’ tutti, scientisti vs. antiscientisti, vaccinisti vs.
anti-vax, ecc. Una limitata percezione del mondo e dei fenomeni sociali, dai quali si cerca di
difendersi: fuori dalle caverne e dentro le metropoli, fin nel cyberspazio, questo risulta
ancora essere un problema fondamentale del genere umano.
Come sostiene Luciano Floridi, scienziato al quale dobbiamo il concetto di infosfera –
dobbiamo smettere di ostinarci a spiegare Facebook con McLuhan o Internet con
Gutenberg, continuando a non capire la rivoluzione che stiamo vivendo.
Dopo eventi come Brexit e Trump non si può continuare ad ignorare, perseverando nella
ricerca del rapporto tra verità e società che è inesorabilmente imploso nel mondo postfattuale, tra le macerie dello storytelling, tra marketing politico permanente e
l’inscenamento di realtà a colpi di clic. Uno scenario rispetto al quale il nostro paese è forse
avanti, come testimonia l’esperienza politica di un certo tipo di movimento.
L’apparente smaterializzarsi del discorso nel flusso mediale ci porta però anche delle
opportunità e con questi spunti chiuderò il mio intervento. In rete magari è difficile trovare
la verità, ma ugualmente è quasi impossibile l’oblio: i metadati ci consentono di
scandagliare in profondità le strutture e i dispositivi che sono alla base della
disintermediazione dal vecchio, a favore della reintermediazione col nuovo.
La verità non è sempre rivoluzionaria, anzi in certi casi pensare che il principio di purezza
ad essa associato possa essere il bene assoluto, è uno dei principali motivi di caduta nel
fanatismo. La disintegrazione dei rapporti sociali così come li conoscevamo, la separazione
di poteri e saperi e il dissolvimento della capacità critica rispetto al nuovo assetto della
network society, può essere l’opportunità da cogliere per reinventare il lavoro cognitivo.
Ingegneri e poeti possono andare a braccetto, lavorando per il bene comune, creando
immaginario e reinventando il futuro, a partire da un presente mediato da tecno-cultura,
conoscenza e saggezza. Un nuovo modello di accademia aperta, che superi i tradizionali
confini dei saperi tradizionali, coniugando diversi approcci scientifici è auspicabile.
Scienziati sociali, umanisti col pallino dell’informatica, etnografi del mondo digitale, diversi
profili potrebbero trarre giovamento da questa sinergia. Occorrono strumenti per misurare
l’influenza, la cognizione, le rotte che on-line prendono discorsi, persone, aziende, idee e
pensieri. I più smaliziati potrebbero forse rispondermi che qualcosa del genere già c’è.
Eppure, ammesso che tutto ciò sia realtà acclarata, nel mondo accademico pare che i nuovi
paradigmi siano oggetto di resilienza, piuttosto che di accoglimento. Potremmo lasciare
l’incombenza all’imprenditoria, ai servizi e alle agenzie, in tal caso perdendo un’opportunità.
Rinaldo Mattera, 23 novembre 2016, Web2Society, Roma.