Intervista al regista Pierre Audi

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Transcript Intervista al regista Pierre Audi

Intervista a Pierre Audi
di sandro cappelletto
“È il mio settimo Wagner. Lohengrin, Parsifal, i quattro titoli de
L’anello del Nibelungo e in questo 6 il Tristan, sicuramente lo
spettacolo più difficile che abbia mai messo in scena”.
Wagner diceva che il Tristan è un’opera non rappresentabile. Quasi
fosse impossibile da mostrare e da vedere. La sua opinione?
“In un certo senso è vero, perché non è una storia realistica. I tre
atti sono molto differenti tra di loro, sono tre universi distinti che
raccontano però una sola storia. Siamo all’interno del mondo psichico dei personaggi, è un mondo frammentato, come il mondo
dei sogni. Nel Tristan siamo sempre in un sogno e come nei sogni
appaiono delle ossessioni. Rappresentare tutto ciò è difficile. Però,
c’è una traiettoria principale da seguire, che ci può aiutare. Ed è la
traiettoria della protagonista di Isolde. Non quella di Tristan. È lei
il personaggio principale, perché ha una missione: morire con
l’uomo che ama, ma con il quale non può avere una storia. In tutta
l’opera è lei la vera regista, la regista di questa morte”.
È così difficile da raccontare visivamente questo desiderio di morte
di Isolde?
“Il desiderio di morte è difficile da spiegare perché, grazie a Dio, la
maggior parte di noi non ha questo istinto suicida. Ma alcune persone lo hanno: sono nate con l’idea che non possono continuare a
vivere e sono convinte di questo, come di un qualcosa di molto concreto. Noi uomini dobbiamo morire, ma non siamo noi che dobbiamo scegliere quando. Dobbiamo attraversare questa vita e poi…
non si sa. Ma anche se nel personaggio di Isolde c’è una decisione,
un desiderio, occorre che il suo amore per Tristan esista, tuttavia
non può esistere nella vita reale, ma soltanto in una meta-dimensione che si completa con la morte”.
Nei Diari della moglie Cosima leggiamo che Richard Wagner, dopo
aver inaugurato nel 1876 il nuovo teatro di Bayreuth, si dichiara
insoddisfatto della realizzazione scenica delle sue opere. E si lascia
andare a una condenza, forse un progetto: “Ho voluto che nel
mio teatro l’orchestra e il direttore siano nascosti agli occhi del
Il regista Pierre Audi
durante le prove di
Tristan und Isolde
pubblico, sistemati in una buca d’orchestra invisibile dalla platea.
Ora mi resta ancora una cosa da fare, rendere invisibile anche la
scena”.
Pensava che nessuna realizzazione visiva potesse rendere appieno
la complessità e la coerenza della sua musica. In poche parole, voleva abolire la gura del regista. Aveva ragione?
“È vero, è la musica che esprime tutto, in questa come in tutte le sue
opere. Possiamo semplicemente ascoltare la musica e trovare nella
musica l’intero percorso della storia. Inoltre, c’è molta musica senza
testo, lunghi momenti durante i quali i personaggi non cantano. Con
Wagner un regista non deve mai aggiungere, semmai sottrarre. Tristan und Isolde, in particolare, rimane tuttora un lavoro molto sperimentale. Cambia
tutte le precedenti regole dell’opera”.
foto Yasuko Kageyama
Accettare il tempo dilatato
di Wagner
Però lei è un regista,
il suo lavoro è mostrare. Quale l’idea di
partenza per questo
allestimento?
“Il maestro Gatti mi
ha chiesto di realizzare una versione intima di Tristan und
Isolde, pensando al
Théâtre des ChampsElysées di Parigi, che
è un teatro raccolto,
non certo un enorme
palcoscenico d’opera.
Intendeva esplorare
l’intimità della vicenda, ed è vero: questa storia è del tutto intima.
Anche musicalmente voleva realizzare qualcosa di molto delicato.
Partendo da questa sua indicazione musicale ho creato la concezione registica dell’opera”.
La lunghezza delle frasi musicali e delle scene contraddistingue il
teatro musicale di Wagner. Questo è un problema per un regista?
“Il solo modo di risolvere registicamente questa lunghezza è accettare che il tempo si fermi. Accettare il tempo dilatato di Wagner.
Questa sospensione del tempo può essere molto bella, può condurre
a molte scoperte, grazie ad essa possiamo cogliere altre sottigliezze
riguardo ai personaggi e alle loro relazioni, altri livelli della vicenda”.
Elemento dominante del Tristan è il mare. E con il mare, l’acqua, la
nave, la vela, la spiaggia.
“Il mare è una specie di innito che rappresenta per me il destino.
È da lì che i personaggi arrivano, sono nel mare e vanno verso la
foto Erwin Olaf
terra, oppure compiono il percorso contrario. E attendono che qualcuno arrivi. È stupenda quest’idea della relazione tra il mare e la
terra, rappresenta lo scambio tra le due realtà, viaggio e arrivo, lontananza e presenza. Il mare crea una situazione in cui è la natura
a consentire lo svolgersi di una storia senza tempo”.
La tempesta nell’Olandese volante, il mormorio della foresta, l’uccellino che dialoga con Sigfrido, il dilagare delle acque del Reno
nel nale del Crepuscolo degli dei… La natura parla spesso nella
musica di Wagner. Come interpreta questa sua centralità?
“La natura non ha epoche, possiede una dimensione atemporale in
cui collocare le vicende narrate. Ed è universale. Se ascoltiamo gli
elementi della natura, possiamo essere meno soli. La natura può
essere una nostra compagna. Però è anche nemica, possiamo
anche perderci in essa. Penso ad esempio alla folgore di Wotan che
spezza la spada di Siegmund in Valchiria. C’è violenza nella natura,
ma c’è anche la pace che sa creare, ci sono i suoi segreti, le possibilità di dialogo che crea con la nostra intimità”.
La nave che ospita Tristan e Isolde può essere vista come un’isola
che li tiene lontani dal resto del mondo?
“La nave è importante. In questo allestimento ce n’è una, ma è
creata attraverso degli elementi astratti. È piuttosto una suggestione: abbiamo preso dei pezzi di metallo, che ricordano le navi
cargo di oggi. Sono brandelli di nave che in scena si scompongono
e si ricompongono per creare dei muri, degli spazi differenti. Rappresentano lo sviluppo della vicenda nel primo atto, l’atto più narrativo dell’opera”.
Isolde è una donna in carne ed ossa, oppure un mito, un’idea?
“Wagner non la idealizza. Per questo lei è così umana, ha dei difetti,
ha un certo egoismo, non è una santa e non è una dea. È una donna
che prende la situazione nelle proprie mani e agisce. Ha una coscienza critica e Wagner mostra i diversi aspetti della sua personalità. È la sua umanità a renderla ambivalente, come tutti noi siamo”.
Tristan è sovrastato da lei?
“È del tutto sovrastato, dominato da lei. Soltanto nell’agonia del
terzo atto, quando parla a Kurwenal, nalmente si esprime, esce
da questo personaggio schiacciato da Isolde e si ricorda di cose accadute nel suo passato che ora ritornano in supercie, come la precoce perdita dei genitori. È un altro aspetto dell’opera piuttosto
difficile da rendere: Tristan è misterioso, non ha molte occasioni
per emergere come vero personaggio, per manifestarsi”.
Lo scambio dei ltri nel primo atto. Il ltro che doveva uccidere i
due amanti viene sostituto da Brangäne, l’ancella di Isolde e donna
molto esperta. Quale la loro funzione drammaturgica?
“Il ltro è meno importante di quanto normalmente si pensi. La sua
Brangäne è solo un personaggio di supporto a Isolde?
“Ha degli aspetti interessanti, tuttavia resta nell’ombra di Isolde,
come un suo doppio. È respinta perché Isolde non vuole fare quello
che l’ancella le chiede. Brangäne è sola, molto sola. Trovo che sia
molto crudele il modo in cui Wagner ha creato i personaggi attorno
a Tristan e Isolde. Alla ne dell’opera sono quasi tutti morti: muore
Kurwenal, muore Melot. Come nell’Amleto di Shakespeare”.
Il Liebestod nel terzo atto è il momento culminante dell’opera. Precisa la didascalia del libretto: “Isolde che non ha compreso niente di
quanto accaduto intorno a sé, figge lo sguardo con crescente esaltazione sul cadavere di Tristan”.
Lui è morto, ma lei lo trasgura: continua a sentirlo vivo, lo immagina ancora vivo.
“Nella mia regia quando lei arriva nel castello di Tristan, lui è già
morto. Lei lo raggiunge e muore. Poi, quando giunge il momento
del Liebestod, è come un epilogo. Loro sono già morti e noi vediamo
l’ombra scura di una donna: è Isolde che canta il Liebestod. È un
episodio separato dal resto dell’opera, simboleggia la completa
smaterializzazione dei personaggi. Lo ammetto: il Liebestod è
molto difficile da risolvere in una regia”.
Quando un regista affronta Tristan und Isolde, che cosa non deve
dimenticare?
“Anzitutto è necessario creare per il pubblico un’esperienza d’ascolto,
grazie alla quale si possa immergere in questa musica. Non bisogna
rompere questa atmosfera, ma trovare un modo di raccontare la vicenda che proceda con la musica e aiuti il pubblico ad entrare in un
universo misterioso senza dare delle spiegazioni per rendere più
semplice la storia. Quando si semplica, si banalizza. Wagner pretende e raggiunge una dimensione molto elevata e bisogna tentare
di portare il pubblico in questa atmosfera. Ognuno di noi può interpretare Tristan und Isolde in modo diverso:ci si può identicare in Tri
foto Yasuko Kageyama
vicenda è in verità piuttosto semplice: Isolde prende il ltro della
morte e lo custodisce, perché è questo che vuole. Lei non cerca
l’amore, vuole solo morire con lui. La madre di Isolde era una maga,
aveva dei poteri misteriosi e dunque nella glia permane qualcosa
di misterioso, di magico, c’è un lato rituale che ha ereditato dalla
madre. Per comprendere il personaggio, è bene che ci siano due
possibilità: la vita e la morte. Isolde non sceglie la vita e l’amore, ma
la morte e l’amore. In questa regia non ho utilizzato ltri liquidi, ma
delle pietre “magiche”. Una pietra rappresenta l’amore, un’altra pietra, nera, rappresenta la morte. Brangäne le mostra entrambe a
Isolde, e lei sceglie e trattiene con sé la pietra nera. È attorno, accanto a questa pietra nera che lei compie il rito con Tristan. Dietro
a loro Brangäne cerca di spezzare la magia della pietra nera con l’altra pietra. Non sapremo mai se è riuscita a farlo, ma non è così importante, perché in ogni modo loro vanno verso la morte”.
stan, in Kurwenal, in Re Marke, in
Isolde, in Brangäne. Ciascuno
può trovare un proprio percorso
da seguire e questo accade perché, anche se la vicenda non è
realistica, si capisce molto bene
quello che i personaggi vivono
dal punto di vista psicologico”.
Che cosa chiede ai suoi cantanti?
“Anzitutto dico loro di non rendere in modo realistico i personaggi. La musica di Wagner è
difficile da cantare, e per restituirla bisogna abbandonarsi a
lei con tutto il corpo. L’espressione dei personaggi deve realizzarsi attraverso l’intero corpo dei cantanti. È questo che mi
interessa: trovare un modo di suggerire i sentimenti, le emozioni
dell’opera lasciando la responsabilità agli interpreti non soltanto
attraverso la voce, ma anche attraverso il loro atteggiamento sico in scena. Mi rendo conto che non è facile. Amo molto l’universo di Wieland Wagner che, negli anni Cinquanta del secolo
scorso, ha trasformato la regia wagneriana, togliendo molti oggetti e lasciando in scena soltanto elementi semplici, ma signicativi. Lavorava molto con i cantanti, soprattutto sull’immobilità, in
modo che il pubblico non la vivesse come staticità. È un aspetto
che mi interessa molto. Cerco di spiegare che occorre cantare con
il corpo, ma che ci sono dei gesti, degli atteggiamenti che non si
possono riprodurre. Sono tentazioni alle quali bisogna resistere,
perché è questa resistenza, questa capacità di astrazione, che crea
la tensione. Se si mostra troppo, si rompe la magia. Bisogna suggerire, soltanto suggerire”.
(Intervista raccolta in collaborazione con Annarita Caroli)