imperdibile romanzo di Paul Beatty

Download Report

Transcript imperdibile romanzo di Paul Beatty

“Lo
Schiavista”,
l’imperdibile romanzo di Paul
Beatty
Premessa:
Talvolta, come ebbe a dire Flaiano, “ la linea più breve tra
due punti è l’arabesco”. E’ questo uno di quei casi, laddove,
prima di giungere al consiglio di non lasciarsi scappare un
libro molto, molto piacevole, ho ritenuto importante aprire
una parentesi sulla letteratura afroamericana. L’esito è un
pezzo insolitamente lungo, che spero non scoraggi i lettori.
“The Sellout ”, dello statunitense Paul Beatty, ha vinto
l’edizione 2016 del prestigioso premio letterario britannico
“Man Booker Prize”. In Italia il libro, intitolato “Lo
Schiavista”, tradotto da Silvia Castoldi, è uscito il 6
Ottobre per Fazi Editore. Amanda Foreman, presidente di
giuria, a proposito dei sei candidati alla vittoria aveva
dichiarato che essi riflettono “ciò che è centrale nel romanzo
moderno – la sua capacità di difendere ciò che non è
convenzionale, di esplorare l’ignoto e di affrontare tematiche
spinose”. Ho considerato tali parole come un suggerimento
circa gli elementi di cui tenere conto, tra gli altri, durante
la lettura. Ho ritenuto, cioè, imperativo valutare se “Lo
Schiavista” rispetti i parametri della scelta per poi riferire
quanto di non convenzionale, di nuovo, di spinoso
effettivamente contenga. Inverto per comodità la terna e
comincio da quell’ultimo “spinoso”.
Paul Beatty, classe 1962 è uno scrittore di colore che
affronta – qui, come in tutta la sua precedente produzione
fatta di poetry slam (poesia orale), romanzi e racconti- il
tema razziale, ancora oggi tra i più spinosi per la
letteratura americana. L’opportunità di dare voce ai problemi
dei neri ma soprattutto la necessità di stabilire se abbiano
titolo a scriverne solo gli autori di colore o anche quelli
bianchi, sono, infatti, argomenti molto discussi.
Interessante, a tal proposito, la voce di Jonathan Franzen:“Ho pensato di farlo ma non ho molti amici neri. Non sono mai
stato innamorato di una nera. Scrivo di personaggi, e per
scriverne devo amarli. Se non hai mai amato direttamente una
categoria di persone –una persona di un’altra razza, o una
profondamente religiosa– penso sia molto difficile azzardarsi,
o inevitabilmente anche aspirare, a scrivere dal loro punto di
vista”.
L’autore de “Le correzioni” sembrerebbe in perfetta linea con
le
due posizioni
assunte a capisaldi della diatriba,
sintetizzabili con l’idea di ascrivere alla “letteratura
afroamericana” una prerogativa politica non accollata a quella
bianca, alla quale invece compete “registrare il presente per
uno spirito di esplorazione, generosità, curiosità, audacia,
compassione, ma non di dibattito, ne’ critica” (così Lionel
Shriver), e di sconsigliare “agli scrittori bianchi” certi
argomenti più consoni ai colleghi afroamericani, per evitare
-dato l’attuale popolarità dei temi razziali- l’accusa di
ricercare solo il successo.
Tentativi di “invasioni
di
campo”
di
grande
livello
letterario, tuttavia e per nostra fortuna, ci sono. Penso
all’ottima prova di Philip Roth ne “La macchia umana”, dove
Coleman Silk, il protagonista, decide di subire un’ infondata
accusa di razzismo pur di preservare l’inconfessabile segreto
sulla propria identità, o a quella che valse a J. R.
Moehringer nel 1999 il premio Pulitzer con “Oltre il fiume”,
un documento sui neri della Gee’s Bend, piccola comunità di ex
schiavi rimasta isolata nell’omonima striscia di terra a
ridosso del fiume Alabama.
Così pure non mancano gli esempi di scrittori afroamericani
che hanno rivendicato un’autonomia dai temi classici di
riferimento, attirandosi perciò il biasimo per aver rinnegato
le proprie origini. Obbligatorio citare Everett Percival il
quale ha replicato alle critiche rilevando che “essere neri
non significa scrivere solamente di segregazione e schiavitù.
Così come non scriverne non significa essere a favore della
segregazione e della schiavitù”. Gli scrittori possono
“semplicemente essere attivisti silenziosi, coscienziosi
romanzieri”.
Paul Beatty si inserisce, con “Lo schiavista”, meritatamente
tra gli scrittori del calibro di Toni Morrison (Prima
afroamericana insignita del Nobel), Alice Walker ( autrice de
“Il colore viola”), Maya Angelou , Jamaica Kincaid, che hanno
fatto grande la letteratura “afroamericana”.
Altrettanto
meritatamente si è aggiudicato il “Man Booker Prize” per aver
scritto un libro non convenzionale con riguardo alla trama, al
genere, nonché alla lingua, che gli hanno consentito di
affrontare in maniera avvincente, attraverso prospettive
inesplorate, lo spinoso
tema razziale.
Protagonista del romanzo è “Bonbon”, uomo di colore della
piccola borghesia, che vive a Dickens, sobborgo della
periferia di Los Angeles. Allevato da un padre single,
studioso di scienze sociali, che lo usa come cavia per
sperimentare le proprie teorie sociologiche sulla razza, dopo
l’omicidio del genitore per mano della polizia,
“sembra
prendere coscienza delle tribolazioni della razza nera” e si
sente pronto “a realizzare qualcosa nella vita” . Quasi che il
cadavere del padre gli dicesse:- “Lo vedi, negro, se una cosa
del genere può capitare al nero più intelligente del mondo,
immagina cosa potrebbe succedere a un deficiente come te. Solo
perché il razzismo è morto, non significa che non sparino più
ai neri a vista”.
Insieme a Hominy Jenkins, vecchio attore di colore, un tempo
tra
i
protagonisti
de
“Le
Simpatiche
Canaglie” autoproclamatosi suo schiavo, reintroduce
la
segregazione razziale nel ghetto per spronare i neri a
ricompattarsi e a rivendicare il proprio ruolo sociale. L’
avventura si concluderà davanti alla Corte Suprema, punto a
partire dal quale comincia la narrazione. La condizione dei
negri in America è simile ad un disagio cronico.
La scelta dell’autore di affrontare l’argomento affidandolo
alla satira, escogitando una soluzione paradossale che origina
situazioni di grande comicità, fa de “Lo Schiavista” un libro
che si legge spedito e con la risata, sempre a fior di labbra,
pronta a prorompere. Beatty è quello che si definisce un uomo
colto, che conosce il latino: spassosissime sono le pagine sui
motti tatuati nell’ antica lingua.
Apprezzabile che non
ricorra ne’ ad un linguaggio eccessivamente aulico, ne’ alla
finzione del gergo come capita ai negri che tra loro “parlano
in gergo, con la pronuncia del ghetto e quando” vanno “invece
in televisione sembrano Kelsey Grammer con il bastone nel
culo”. L’uso della lingua è sapiente: vi si mescolano il
parlato, il forbito, il gergale, perfino lo scurrile con un
risultato di verosimiglianza e autenticità da cui il romanzo
trae grande vantaggio . Che cosa dire poi delle metafore?
Originalissime, divertenti e contemporaneamente efficacissime.
“Lo Schiavista”
è decisamente un romanzo piacevole,
irriverente, divertente, profondo: in una parola, imperdibile.
P.S:
Scrivere
de “ Lo schiavista” all’indomani della elezione di
Donald Trump a presidente degli Stati Uniti D’America da alla
cosa un non so che di surreale. La recensione di un libro
non è certo il “luogo” adatto ad analisi politiche e
sociologiche, ne’ tantomeno per formulare auspici. Le
eccezioni sono però talvolta ammesse. La genialità di Beatty,
oltre al linguaggio e all’ironia di cui si è detto, si
concretizza nell’idea “ blasfema” di riproporre la
segregazione razziale per infondere negli afroamericani di
Dickens l’orgoglio dell’identità etnica, per istillare loro il
desiderio di partecipazione, per incoraggiarne le
rivendicazioni di equità e uguaglianza. Chissà che l’ America
non tragga dalla rappresentanza di Trump lo stimolo per
imboccare la strada verso la definitiva integrazione.
di Antonietta Molvetti (molvettina.blogspot.it)
Paul Beatty, “Lo Schiavista”, 2016, Fazi Editore, pagg.370,
Euro 18,50