Uomo solo del comando? I tanti vincoli del Presidente USA

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Uomo solo del comando? I tanti vincoli del Presidente USA | 1
venerdì 04 novembre 2016, 16:30
Uomo solo del comando? I tanti vincoli del Presidente
USA
Trump e Clinton dovranno fare i conti con una robusta rete di contenimento
di Gianluca Pastori
Come ogni quattro anni, con l’approssimarsi della scadenza di novembre, la comunità internazionale s’interroga con
crescente insistenza su quale sarà l’esito delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti. In questa occasione, la sfida
fra Hillary Clinton e Donald Trump appare particolarmente incerta e difficile da decifrare. L’opinione è, comunque, che –
chiunque sia alla fine il vincitore – questi riuscirà a imporre alla presidenza la sua impronta chiara e indelebile. Questa
convinzione assume talora toni quasi ‘messianici’, come accaduto, ad esempio, nel caso della prima elezione di Barack
Obama, quando la promessa del ‘change’ ha alimentato, fra i partner europei, l’illusoria convinzione di un rapido ritorno alla
solida relazione transatlantica degli anni della guerra fredda. Assunto di fondo è che il Presidente abbia poteri
abbastanza ampi da godere di mano pressoché libera nel perseguire la sua agenda politica e che il sistema di
pesi e contrappesi che la Costituzione del 1787 delinea sia stato, nel corso degli anni, profondamente alterato
a vantaggio dell’esecutivo. Questa visione legge il concetto di ‘repubblica presidenziale’ nel suo senso più esteso, alla
luce anche dei poteri effettivamente ampi che la Carta di Philadelphia attribuisce all’inquilino della Casa Bianca. Le cose,
tuttavia, non stanno proprio così. E’ vero che, nel corso degli anni, si è assistito a un considerevole
spostamento di potere a favore della Presidenza. Più che il prodotto dell’evoluzione costituzionale, questo
spostamento è stato conseguenza dall’affermarsi di una ‘presidenza carismatica’ che in Franklin Delano Roosevelt
(in carica: 1933-1945) ha trovato il primo e forse maggiore esponente. Nonostante i tentativi del Congresso per ripristinare
qualche sorta di equilibrio (per esempio, introducendo il tetto di due mandati presidenziali nel 1947, con l’approvazione del
XXII emendamento), tale spostamento ha influito in modo duraturo l’equilibrio prefigurato dai costituenti del 1787,
specialmente nel caso di Presidenti – come Roosevelt, Reagan o, per taluni aspetti, Obama – capaci di opporre alle
legittimazione ‘formale’ del Congresso, una legittimazione ‘sostanziale’ di pari forza, derivante dalla loro capacità di avere
un rapporto privilegiato con l’opinione pubblica. Il braccio di ferro fra Obama e il Congresso in occasione della
sospensione dei servizi federali dell’ottobre 2013 (shutdown) è un esempio significativo di questo nuovo
rapporto instauratosi fra Presidente e Congresso e non a caso coincide con un momento di elevata popolarità
dell’amministrazione. Il potere detenuto dal Congresso rimane, comunque, notevole. Titolare in prima istanza
della potestà legislativa, esso esercita – attraverso il Senato – un controllo vincolante su tutte le nomine ai vertici
Estratto ad uso rassegna stampa dalla pubblicazione online integrale e ufficiale, reperibile su
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dell’amministrazione oltre che su quelle dei giudici della Corte Suprema, organo che – attraverso l’esercizio del controllo di
conformità costituzionale – ha sempre svolto un ruolo centrale nell’indirizzare l’attività di produzione legislativa in un senso
più o meno gradito all’amministrazione. Non a caso, ad esempio, il New Deal rooseveltiano ha potuto decollare davvero solo
dopo il termine – alla Corte Suprema – dell’éra dei ‘quattro cavalieri’: i giudici conservatori Butler, McReynolds, Sutherland e
Van Devanter. Il Congresso detiene, inoltre, il potere formale di decidere ‘della pace e della guerra’, mentre la
ratifica congressuale rappresenta una condizione essenziale per l’assunzione da parte degli Stati Uniti degli
impegni presi dall’amministrazione a livello internazionale. Suprema autorità in materie di fiscalità e di finanza, il
Congresso detiene infine un fondamentale ‘potere di borsa’ (power of the purse); quello, cioè, di allocare le risorse del
bilancio federale in modo da dotare o privare l’amministrazione delle risorse necessarie a perseguire determinate politiche.
Anche in un’epoca di presidenza carismatica (come sostanzialmente è quella attuale), i freni all’azione della
Casa Bianca rimangono, dunque, notevoli. Come è stato osservato, più che delineare un sistema di semplice
separazione dei poteri, il modello istituzionale statunitense ne delinea uno di potere diviso; ripartito, cioè, fra
soggetti diversi, chiamati a collaborare per il conseguimento dei propri obiettivi. Questa logica di fondo è rimasta
inalterata sotto le (peraltro complesse) trasformazioni che hanno interessato la macchina politica americana nel corso degli
anni e appare quanto meno improbabile che i risultati dell’8 novembre possano portare a reali cambiamenti. Hillary Clinton
e Donald Trump sono due candidati deboli, chiamati con ogni probabilità a convivere con un Congresso ostile,
mentre la posizione della Corte Suprema appare oggi condizionata dal dibattito in merito alla successione al
conservatore Antonin Scalia. Entrambi si troveranno, quindi, con ogni probabilità, a dovere fare i conti con una
robusta rete di contenimento. Anche per questo sarà bene, nei prossimi giorni, seguire attentamente i risultati del voto
per il Congresso. Sarà, infatti, da tale voto che dipenderà in larga misura la possibilità – per il nuovo Presidente – di potare
avanti con successo la sua agenda politica.
di Gianluca Pastori
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