Pace per chi è stanco e affaticato

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CORRIERE CANADESE • VENERDI 4 NOVEMBRE 2016
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Chiesa 2000
A CURA DELLA COMMISSIONE PASTORALE ITALIANA DELL’ARCIDIOCESI DI TORONTO IN COLLABORAZIONE CON IL CORRIERE CANADESE
RESPONSABILE: P. AMEDEO NARDONE O.F.M.
Il completamento delle opere di misericordia
SEPPELLIRE I MORTI
Prendersi cura del corpo dei morti non è un omaggio alla loro morte, ma piuttosto alla loro vita.
È onorarne la memoria, ricordano il bene che hanno fatto, accogliendo come una preziosa eredità
gli ideali e i valori per cui hanno vissuto e che hanno trasmesso alle nuove generazioni.
È l’ultima opera di misericordia corporale, non solo nell’enumerazione tradizionale, ma anche perché è l’ultimo atto di
servizio e di amore che si può rendere a
un essere umano. Se poi consideriamo la
tendenza difusa a rimuovere l’idea stessa
della morte, ci rendiamo conto che anche
quest’opera di misericordia ha una sua
particolare attualità, non meno delle altre.
Sembra che oggi, la morte abbia perso la
serietà e il mistero che la circondavano
nei tempi antichi, e susciti soltanto una
grande paura, tanto che si cerca in tutti i
modi di dimenticarla e ignorarla, come se
toccasse solo agli altri e non a ciascuno di
noi personalmente. Anche l’eutanasia, di
cui tanto si discute, potrebbe essere vista
come un modo di negare e rimuovere la
paura della morte. Di fatto toglie la possibilità di vivere in modo consapevole l’ultima tappa dell’esistenza terrena, che potrebbe essere il momento estremo di puriicazione, di lucidità e di riconciliazione.
Azione tipicamente umana.
Sembra un’azione ovvia e scontata, perché praticata da sempre, come testimonia
il ritrovamento di sepolture risalenti a
epoche preistoriche. La Bibbia ha conservato la testimonianza di Tobi: «facevo
spesso l’elemosina a quelli della mia
gente; davo il pane agli afamati, gli
abiti agli ignudi e, se vedevo qualcuno
dei miei connazionali morto e gettato
dietro le mura di Ninive, io lo seppellivo» (Tb 1, 16-17), mettendo a rischio la
propria vita, perché agiva contro gli ordini
del re Sannàcherib, al tempo dell’esilio degli Ebrei nella terra degli Assiri.
Un segno evidente dell’attenzione a
seppellire i morti si manifesta, ancora
oggi, nel grande dispendio di risorse economiche e di mezzi, per trovare i resti delle vittime, nel caso di grandi disgrazie o di
delitti. Sembra un dovere a cui la società
non può rinunciare. Anche se, il difondersi della pratica della cremazione e, in
particolare, la possibilità di conservare le
ceneri in luoghi privati o di disperderle
nell’ambiente sembra mettere in crisi la
pratica tradizionale della sepoltura.
A livello antropologico, la pratica di
seppellire i morti è segno di civiltà ed
esprime tre grandi valori: il rispetto della
EDITORIALE
dignità della persona umana, che include
la cura dei suoi resti mortali, per sottrarli
agli animali e al rischio di profanazione;
la convinzione che vi sia in qualche modo
una continuità della vita dopo la morte;
l’afermazione che il defunto è ancora parte della communità in cui aveva vissuto.
Prendersi cura del corpo dei morti non
è un omaggio alla loro morte, ma piuttosto alla loro vita. È onorarne la memoria,
ricordano il bene che hanno fatto, accogliendo come una preziosa eredità gli ideali e i valori per cui hanno vissuto e che
hanno trasmesso alle nuove generazioni.
Dal profondo signiicato cristiano.
A questi valori umani universali, il cristianesimo ha aggiunto una nuova luce e
nuovi signiicati. Dopo la morte in croce,
il corpo di Gesù fu sepolto con particolare cura e in un sepolcro nuovo, anche se
in fretta perché era la vigilia di una festa
solenne. Perciò, il giorno dopo la festa,
alcune pie donne intendevano ungere con
oli profumati il corpo di Gesù, per completare ciò che non era stato possibile
fare al momento della sepoltura. Ma avvenne un fatto straordinario e totalmente nuovo. Le donne trovarono il sepolcro
vuoto e incontrarono Gesù Cristo risorto,
che le mandò ad annunciare ai discepoli
la sua vittoria sulla morte, Era il mattino
di Pasqua; da allora in poi per i cristiani la
sepoltura non è più soltanto un estremo
gesto di amore e di pietà per il morto, ma
un segno di fede e di speranza nella risurrezione.
Il battesimo rappresenta una morte simbolica per vivere in Cristo la vita nuova.
«Se moriamo con lui, con lui anche
vivremo» (2 Tim 2,11). Con il battesimo
siamo stati incorporati all’evento pasquale, e siamo diventati «tempio dello Spirito Santo» (1 Cor 6,19). Ecco perché il
corpo di ogni cristiano deceduto merita
particolare rispetto e onore. I gesti che
vengono compiuti in occasione del funerale, come l’asperasione con l’acqua benedetta, l’incensazione e la processione che
accompagna il defunto in chiesa e poi al
cimitero, esprimono in modo eloquente la
fede della comunità cristiana e la speranza
che i corpi dei morti in Cristo attendono
la risurrezione.
Tutti coloro, che nel corso della storia
hanno formato e formano il corpo di Cristo, che è la Chiesa, restano sempre in comunione fra di loro, anche dopo la morte.
La comunità cristiana vive nella consapevolezza che i defunti sono ancora una sua
parte, perché nel Signore Risorto esiste
una reale comunione fra tutti i membri
della Chiesa, vivi e morti. I vivi pregano
per la salvezza e la beatitudine eterna dei
defunti, ma sanno che possono fare aida-
mento sulla preghiera e l’intercessione dei
fedeli, che hanno trasmesso loro la fede e
sono già nella casa del Padre. Nelle anafore (preghire eucaristiche, la Chiesa prega per tutti i suoi membri, vivo o morti, e
praga per i morti nella santità e per quelli
pecatori: tutti, infatti sono bisognosi della
misericordia di Dio, unica potenza di salvezza. La Chiesa mentre prega per i morti, prega anche con loro. Unica, infatti è
la liturgia della Chiesa celeste e terrestre.
Celebrare e ricordare i defunti.
Oggi l’ultima opera di misericordia corporale si compie partecipando al funerale e accompagnando il defunto dalla casa
alla chiesa e poi al cimitero. Il momento
centrale del funerale è la messa. Le celebrazione del sacriicio di Cristo in memoria di un defunto, ci fa comprendere che la
morte dei discepoli di Gesù, a imitazione
di quella del loro Maestro, va vista come
atto estremo del dono di sè e aidamento della propria vita nelle mani del Padre.
Celebrando la messa, la famiglia e tutta la
comunità aidano e riconsegnano il defunto a Dio, rendendo grazie per tutto ciò
che è stato e ha compiuto.
Oltre che con la partecipazione al funerale, la pietà verso i morti si esprime anche con i iori e le opere buone. Ofrire
iori è certamente un gesto bello e gentile,
che esprime afetto e riconoscenza, ma i
iori ben presto appassiscono. Durano invece nel tempo i frutti delle opere buone
compiute in memoria dei defunti.
In questo mese di novembre, la visita
alle tombe dei nostri parenti e amici defunti sia l’occasione per rinnovare in noi
la fede nella risurrezione e rilettere sulla
caducità della vita terrena, ringraziando il
Signore per tutti quelli che ci hanno fatto del bene, pregando per i nostri morti
e facendo aidamento sulla loro intercessione, nell’attesa di ritrovarci tutti insieme
nella casa del Padre. Dove, «Egli abiterà
con loro ed essi saranno suoi popoli ed
egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E
asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non vi sarà più la morte, né lutto né
lamento né afanno, perché le cose di
prima sono passante» (Ap 21, 3b-4).
N.R.
Pace per chi è stanco e affaticato
Lo so che in Canada il primo di Novembre non
è un giorno festivo, ma questa ricorrenza è troppo
carica di signiicato perché non ci si fermi pochi
minuti a rilettere su qualche tema importantissimo per la nostra vita. È meraviglioso che La Chiesa
universale abbia inventato questa festa, per invitare
tutti, oggi in modo particolare, a pensare che anche in questa vita terrena, così carica di problemi,
tensioni e soferenze, noi possiamo trovare la pace,
la pace vera, quella che dà inalmente serenità e sicurezza. Se osserviamo i fatti del mondo, anche in
questi giorni, è facile essere presi dallo sconforto o
addirittura dal pessimismo, perché i mass media ci
parlano solo di cose negative.
Ora, che le cose negative ci siano e siano purtroppo molte, ci vuole poco a capirlo. In particolare ne segnalo tre, che fanno davvero preoccupare:
la guerra atroce in Siria, il fenomeno inarrestabile
dei migranti che soprattutto l’Italia meridionale sta
accogliendo in modo esemplare quando non addirittura eroico, e i terremoti che continuano a far
tremare la parte centrale della mia e nostra Italia.
Ora, nonostante queste atroci calamità, che non
sono tutte dovute al destino o al caso o alle leggi
di natura, la Chiesa ha il coraggio di darci un messaggio che va contro corrente: “Venite a me voi
che siete stanchi e afaticati e io vi darò riposo”. Non sono uno slogan pubblicitario, ma parole
che ha pronunciato Cristo stesso. Allora la domanda che ci facciamo è: quale può essere il riposo che
il Signore ci può dare? Si tratta, forse, del riposo
eterno dopo la nostra morte? Beh, vi confesso che
a me non dispiace sapere che, dopo i miei giorni su
questa terra, anch’io potrò magari essere in compa-
gnia dei miei genitori, fratelli e di tutti quei milioni
di uomini e donne che mi hanno preceduto nei secoli e che chiamiamo santi. Sono fermamente convinto che c’è una continuità di vita, che durerà per
sempre nell’eternità. In questo mio convincimento
sono sostenuto non solo dalla fede cristiana, ma
oggi perino anche dalla scienza, dalla isica quantistica. Ma non voglio afrontare ora questo tema.
Quando parlo del riposo che Cristo garantisce a
quelli che si avvicinano a Lui, io penso al riposo
qui, su questa Terra, ora mentre sono vivo. È un riposo che dà serenità, perché aiuta a vedere le cose,
i fatti e i problemi in un altro modo.
Occorre, però, che noi facciamo la nostra parte.
Per meritare questo riposo, dobbiamo essere saggi, come si legge nel libro biblico della Sapienza,
cioè dobbiamo saper guardare le cose secondo il
loro giusto posto. Mi spiego. Nelle nostre giornate
spessissimo diamo importanza eccessiva a cose che
non la meritano afatto. Ad esempio, se la nostra
automobile ha un problema, siamo in ansia inché
il meccanico non ce la ripara; o se il fatturato della
nostra azienda non ha raggiunto il livello che a gennaio ci eravamo ripromessi, pensiamo subito alla
crisi; oppure se il Natale è senza neve, allora diciamo che la stagione non è bella, e così di seguito con
una ininità di altre cose. Ecco che cosa, invece, signiica essere saggi: vuol dire che dobbiamo imparare a dare alle cose il peso che meritano; dobbiamo
farci una scala di valori, e mettere al top i valori più
importanti, altrimenti ogni piccola contrarietà, che
sicuramente prima o poi capita, ci getta nella desolazione e nello sconforto e così consumiamo giornate e giornate a bruciare energie: siamo come un
motore acceso che gira in folle senza andare avanti.
Da chi dipende saper fare una scala di valori che sia
veramente giusta e adatta a vivere una vita serena?
Ancora una volta, dipende solo da noi, perché siamo noi che dobbiamo prendere in mano la nostra
vita e guidarla non secondo quello che ci dicono le
mode o le tendenze, ma secondo i valori che davvero contano. Dobbiamo fare come quando guidiamo
l’automobile, almeno in Italia. In moltissime strade
nei due lati ci sono tanti cartelli pubblicitari; ora, se
il conducente si distraesse a leggere ogni cosa che
è scritta, andrebbe sicuramente a inire male; ma se,
invece, tiene lo sguardo dritto, allora è sicuro che
arriverà a destinazione.
Lo stesso accade nella nostra vita di tutti i giorni: se ci lasciamo distrarre dalle mille cosucce che
succedono, perdiamo di vista i nostri veri obiettivi,
i grandi valori che ci devono guidare. Se, quando
sono a tavola con la mia famiglia per cenare, uso
anche il tablet o lo smartphone anziché parlare serenamente con i miei familiari (cosa che osservo
in molte circostanze), faccio male sia allo stomaco
che, soprattutto, alla mia vita di relazione familiare. Ecco che cosa può volere dire la frase di Cristo:
“venite a me voi che siete stanchi…”. Traduco
così: impariamo a dare alle cose il giusto peso; fermiamoci dalla nostra corsa frenetica e respiriamo;
guardiamo anche il cielo, i panorami, i iori e gli
animali e rendiamoci conto che apparteniamo tutti
ad una sola e stessa famiglia: la famiglia umana, la
famiglia dei igli di Dio.
Lino Sartori
ilosofo