Inpiù spettacoli 24.10.2016

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Anno 2 • n. 10
lunedì, 24 ottobre 2016
DRAMMAITALIANO:
GOLDONI PER IL SETTANTESIMO
INTERVISTA
CINEMA
FENOMENI
A colloquio con Gabi Novak, diva
della scena musicale croata
Il film «Sully», di Clint Eastwood,
ritratto di un eroe
Il documentario italiano attraversa
un periodo fortunato
La cantante, che grazie al figlio Matija ha riscoperto
le sue origini jazz, ricorda con commozione suo
marito Arsen Dedić
Un fatto vero, avvenuto nel 2009, ha ispirato il
grande attore e regista a creare un film di successo
e, forse, da Oscar
Negli ultimi anni, in Italia si sono affermate
importanti coppie di autori interessati alla realtà
che ci circonda
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lunedì, 24 ottobre 2016
INTERVISTA
spettacoli
di Ivana Precetti
la Voce
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A COLLOQUIO CON GABI
NOVAK, UNA VERA
E PROPRIA DIVA DELLA
SCENA MUSICALE
CROATA, COMPAGNA
DI VITA DEL COMPIANTO
CANTAUTORE
S
e si pensa a un grande amore, non
si può non citare il loro. Uno di
quelli che durano una vita intera.
Come si fa allora a metabolizzare
la perdita dell’altro, la morte che
arriva quasi improvvisa, a farsi forza
per andare avanti? “Celebrando la
sua opera, in modo che nessuno mai
lo possa dimenticare”, ci risponde
lei, la grande Gabi Novak, vedova
dell’altrettanto grande Arsen Dedić, a
poco più di un anno dalla scomparsa del
marito.
45 anni di vita insieme
La sentiamo per telefono ed è come
se ci stesse davanti. Non è difficile
immaginare il suo sguardo, la sua
tristezza, ma anche la risolutezza nel
combatterla e nel vincerla, mentre parla
di quest’uomo che per 45 anni è stato il
suo compagno di vita e con il quale ha
condiviso un matrimonio estremamente
sereno.
“Non mi piace parlarne perché mi fa
male, ma sono sicura che Arsen oggi
sarebbe orgoglioso di me. È difficile
vivere in una casa in cui per quasi
mezzo secolo hai condiviso tutto e in
cui ogni dettaglio mi ricorda lui e la
nostra vita insieme. Devo dire, però, che
dopo un’unione come la nostra, che è
stata piena di tante cose, anche di tanti
dolori, ma soprattutto di bei momenti,
sto superando con maggiore facilità il
fatto di averlo perso. Il nostro è stato
un matrimonio molto felice, senza
troppi alti e bassi, con pochissimi litigi
e tantissima meravigliosa complicità,
anche professionale”, ci racconta questa
donna sulla soglia degli ottant’anni, ma
che non sembra averli.
Il lungo e fortunato connubio
sentimentale-lavorativo di Gabi Novak
e Arsen Dedić è noto a tutti e non ha
certo bisogno di presentazioni. Hanno
fatto di tutto insieme, soprattutto dal
punto di vista artistico. Lui, più che un
cantautore, un poeta della parola, lo
chansonnier per eccellenza di queste
terre, e lei primadonna dello schlager
croato, con tendenze jazzistiche, oltre
che grande musa di lui. Insieme hanno
avuto un figlio, Matija Dedić, oggi
rinomato pianista jazz. Figlio d’arte dal
grandissimo talento, che con i genitori ha
condiviso spesso il palco.
«Mio figlio è la mia forza»
|| Gabi Novak in concerto nella sala “Vatroslav Lisinski” dedicato ad Arsen (2016)
“Mio figlio è la mia forza. È stato
lui, assieme a mia nuora e alla mia
meravigliosa nipote Lu, a darmi il
coraggio per proseguire dopo la
scomparsa di Arsen, a darmi la forza
per non crollare. Da quel giorno non mi
sono fermata un attimo e questo mi ha
aiutato molto. Dopo un primo momento
di stordimento, abbiamo iniziato con
i preparativi per una serie di concerti
in onore di mio marito e della sua
opera, di cui l’ultimo tenuto lo scorso 7
ottobre nella sala ‘Vatroslav Lisinski’ di
Zagabria”, dice Gabi, ancora visibilmente
emozionata dall’evento.
“Matija è stato il motore di tutto, il
carro trainante. Ha organizzato le cose
nei minimi dettagli, non lasciando
nulla al caso. Abbiamo iniziato nella
sala Gorgona del Museo di Arte
contemporanea di Zagabria lo scorso
3 febbraio, nell’ambito del Ciclo Jazz
della Radiotelevisione croata, per finire
appunto il 7 ottobre a Zagabria. Un
grande successo. Otto date in tutto
tra cui Lubiana, Belgrado, Podgorica e
ovviamente la sua Sebenico il 28 luglio,
giorno del compleanno di Arsen –
racconta ancora –. In ogni posto in cui ci
siamo esibiti abbiamo invitato, in qualità
di ospiti, musicisti che nel loro percorso
artistico hanno spesso eseguito canzoni
di Arsen, come ad esempio Gibonni,
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«ARSENOGGISAREBBE
ORGOGLIOSODIME»
Tedi Spalato, Zoran Predin, Lea Dekleva,
le klape, soltanto per citarne alcuni.
Essenziale è stato l’accompagnamento
musicale dell’Orchestra filarmonica di
Zagabria e di quella di Belgrado, dirette
in entrambi i casi dal grande maestro Joža
Cvitanović”.
Un matrimonio sereno
Nei suoi discorsi Gabi Novak nomina
spesso suo marito. “È una cosa naturale
per me – spiega –. Lo sento accanto anche
ora che non c’è più. La nostra è stata una
scelta seria, responsabile, matura, nel
momento in cui abbiamo deciso di stare
assieme. All’epoca uscivamo entrambi da
due matrimoni finiti, lui pure con figli
(lei è stata sposata con il compositore
Stipica Kalogjera, nda), ma il nostro
rapporto è sempre stato caratterizzato da
un grande amore, un immenso rispetto e
una meravigliosa collaborazione artistica.
Certo, nella vita non sono sempre rose
e fiori. Ci sono anche momenti difficili,
che vanno superati. Quando, però, la
base è sufficientemente solida, e la nostra
lo è stata, allora nulla è impossibile.
Quando qualcuno oggi mi chiede com’è
vivere senza di lui, rispondo che è molto
doloroso, ma comunque accettabile
proprio grazie a questa ricchezza, e non
penso a quella materiale, che abbiamo
avuto. Arsen mi ha lasciato così tanto
dentro che oggi riesco ad affrontare con
maggiore facilità questa perdita”.
Gabi parla anche di amicizia. “Nella
nostra vita siamo sempre stati circondati
da tantissimi amici, ma arrivata a questo
punto, da quando non c’è lui, io ce ne ho
pochissimi, ma buoni. Non per nulla si
dice che soltanto nei momenti di difficoltà
capisci chi ti è veramente amico. Oggi ho
accanto una ristretta cerchia di persone, a
parte ovviamente i miei familiari, che mi
coccolano e si preoccupano per me, anche
soltanto telefonandomi per chiedermi
come sto”.
Ritorno alle origini: il jazz
Quando le chiediamo di Matija, Gabi lo
definisce la sua roccia. “È una persona
speciale, ma non lo dico perché è mio
figlio. Un uomo di grandissimo talento
che mi ha trasmesso molto e che ha
saputo tirare fuori qualcosa dal mio
animo artistico anche quando pensavo
di aver detto tutto. Mi ha convinta a
esibirmi in un’altra chiave, facendomi
tornare alle mie origini, che è il jazz.
E Arsen, in tutto questo, mi ha sempre
sostenuta appoggiandomi al mille
per cento. Matija mi ha dato modo di
reinventarmi e di rendermi ancora più
forte e consapevole di me stessa. Nei
nostri discorsi degli ultimi tempi, mio
marito mi diceva spesso di potersene
andare in tranquillità perché consapevole
che nostro figlio avrà me. Parole che
nell’ultimo anno mi hanno dato grande
forza, oltre al pensiero che Arsen non
vorrebbe vedermi triste”.
L’immensa eredità di Arsen
Oltre agli impegni lavorativi, Gabi oggi
trascorre il suo tempo libero passeggiando,
andando a teatro, leggendo, stando con i
suoi cari. “Sono molto impegnata a fare
ordine nel patrimonio artistico di mio
marito – dice –. Per finire tutto mi servirà
ancora almeno un anno. Sto selezionando
le sue opere, e non è facile, perché la
sua eredità è immensa. Non so se esista
campo in cui non si sia espresso con la sua
poesia. E allora devo stare attenta e fare le
cose come si deve”.
Parlando di esibizioni, un accenno va fatto
assolutamente al connubio artistico di
Gabi Novak con Radojka Šverko e Tereza
Kesovija, che assieme hanno dato vita al
progetto Dive. Canteranno ancora insieme,
le chiediamo? “Un accordo esisteva, ma
per il momento lo abbiamo accantonato
per i rispettivi impegni. Anche qui bisogna
preparare le cose con cura. Il nostro
progetto è complesso, esige tanta energia
e costa non poco, per cui non possiamo
farlo alla leggera. Vi lavorano tantissime
persone e non è adatto alle grandi sale o
ai palazzetti. Faremo certamente qualcosa,
ma non so dire quando”, promette.
Rétro festival di Abbazia: si torna a casa
A questo punto arriviamo al motivo per
il quale l’abbiamo contattata, ovvero la
sua prossima partecipazione al Rétro
festival di Abbazia, in programma a inizio
novembre. “Non vedo l’ora – esclama –.
Sarà come tornare a casa. Si tratta di uno
dei Festival che in passato era considerato
alla pari di quello di Sanremo. Parliamo
degli anni Sessanta, Settanta, Ottanta
del secolo scorso. Un evento imperdibile,
che veniva trasmesso in diretta, seguito
da tutti e al quale ho avuto l’onore e la
fortuna di partecipare per almeno 25
volte. Era entusiasmo puro e metteva in
risalto la grande qualità della canzone
leggera dell’epoca”.
C’è un episodio di quei tempi che le è
rimasto particolarmente impresso? “Ce
ne sono tantissimi ma non dimenticherò
mai la sera in cui Dragan Stojnić e io
abbiamo vinto il Festival interpretando
il brano Vino i gitare (Vino e chitarre),
diventato poi un evergreen. Dopo aver
festeggiato fino alle ore piccole, all’alba
stavamo facendo ritorno in albergo.
Sulla splendida terrazza dell’albergo
Kvarner incontrammo, però, una
brillante violinista dell’Orchestra della
Radiotelevisione, con indosso ancora
l’abito di gala. Stojnić intonò, così
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|| Gabi Novak con la nipote Lu e Matija Dedić (2016)
spontaneamente, delle canzoni e lei
iniziò ad accompagnarlo al violino. Una
cosa bellissima, che non dimenticherò
mai. Sembrava quasi la scena di un film
di Fellini, un tavolo con sopra soltanto
un bicchiere di spumante e loro due che
cantano e suonano. Come dicevo, era
l’anno di Vino i gitare, che eseguirò anche
in quest’edizione del Festival. Mi esibirò
anche in duetto con Maja Vučić con la
quale interpreterò Za mene je sreća (Per
me è felicità), e con Marko Tolja in Sve što
znaš o meni (Tutto quello che sai di me).
Canterò inoltre il brano Još uvijek (Ancor
sempre). Non mancherà un Omaggio ad
Arsen”.
«Ormai ho detto tutto»
La vedremo in qualche nuovo progetto?
“Difficilmente. Credo ormai di aver detto
tutto. Non ha senso sfornare album
soltanto per tenere accesa la fiammella.
Potrei farlo, ma non ne vedo il senso. Mi
basta esibirmi ogni tanto in serate intime
e scelte con cura, magari con Matija e i
suoi splendidi musicisti. Spero soltanto
di rimanere in salute quanto più a lungo
e di poter trascorrere quanto più tempo
con i miei cari. Saranno, poi, le stelle a
decidere”, conclude serena.
|| Un concerto di Arsen, Gabi e Matija a Sebenico nel 2014
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ANNIVERSARI
di Sandro Damiani
|| “Il Campiello” (1996/97): Elvia Nacinovich ed Ester Vrancich
IL DRAMMA ITALIANO
CELEBRA I SETTANT’ANNI
DI ATTIVITÀ CON UN
TESTO DEL GRANDE
DRAMMATURGO
VENEZIANO. UNA PRATICA
DIVENTATA TRADIZIONE
C
ome da tradizione, il Dramma
Italiano festeggia il proprio
anniversario, oggi il settantesimo,
con un testo di Carlo Goldoni. E non
a caso. “Goldoni è stato – scrisse in
occasione del cinquantenario, Alessandro
Damiani - un punto di riferimento
culturale, un segno di riconoscimento,
un attestato di legittimità, un fattore
di coesione”. Lo è stato soprattutto nei
difficili anni Cinquanta e primissimi
Sessanta, quando era prioritario il
compito di tenere vivi, oltre che la lingua,
gli idiomi contigui al veneto/veneziano
e la compagnia non poteva contare su
una platea egemonizzata dal ceto medio
– quasi in toto, sparito dalla circolazione:
abbandoni, fughe, opzioni – ossia,
era costituita perloppiù da cantierini,
pescatori, agricoltori, operai ai quali in
altri tempi il teatro era precluso per ovvie
ragioni.
Nel suddetto travagliatissimo periodo,
insieme alle commedie del Goldoni
venivano messi in scena testi di Gallina,
Rocca, Selvatico, Boscolo, Giancapo,
Bertolini, Palmieri: i cosiddetti “veneti
minori”, nelle cui storie, dunque non solo
per una questione dialettale, la nuova
platea poteva riconoscersi.
«Il burbero benefico»
Il “primo passo” scenico del Dramma
Italiano si chiama “Il burbero benefico”.
È il novembre del 1946. La regia è di
Emilio Gatta, in scena un manipolo di
filodrammatici oltremodo volenterosi.
Due di essi – Gianna Salvioli, poi Depoli,
e Nereo Scaglia – sceglieranno il teatro
e il Dramma Italiano come ragione di
vita e ne saranno le colonne portanti,
unitamente a quanti vi si aggregheranno,
per restarci, sin dai successivi due anni:
Raniero Brumini da Pola, Ada Mascheroni
da Milano e Angelo Benettelli da Venezia.
Con costoro, o immediatamente dopo,
arrivano Olga Stancich (in seguito
Damiani) Carlo Montini, Sandro
Bianchi, Adelaide Gobbi, Flavio Della
Noce, Alessandro Damiani, ma tutt’e sei
lasceranno la compagnia verso la metà dei
Cinquanta, venendo dapprima affiancati
poi rimpiazzati da Bruno Petrali, Glauco e
(all’epoca) Lucilla Verdirosi. Tra i pionieri,
vanno ancora ricordati Rodolfo Permutti,
Bruno Tardivelli (l’unico sopravissuto tra
i sunnominati, oltre al novantaduenne
Petrali), Vincenzo Dall’Olio, Nello
Radaelli, Andreina Negretti e Gianluigi
Colombo.
L’esito del debutto è buono. Il pubblico
è scarso, sebbene la città non sia stata
|| “Il burbero benefico” (1966/67): Raniero Brumini, Glauco Verdirosi e Angelo Benettelli
GOLDONI COME UN PUNTO
ancora abbandonata (quasi) del tutto
dal ceto medio e da chi nell’anteguerra
frequentava il Teatro comunale “Giuseppe
Verdi”, ora ribattezzato Narodno Kazalište
– Teatro del Popolo. La guerra è terminata
da un anno, i cambiamenti sono repentini,
le classifica delle priorità non vede il
teatro e la cultura in generale, in cima
alle classifiche familiari.
Esordio di Osvaldo Ramous
Ma già con il secondo Goldoni – che arriva
nel giugno dell’anno appresso e dopo altri
due spettacoli – le cose cambiano. È la
volta de “Le baruffe chiozzotte”, che vede
l’esordio in qualità di regista, il poeta e
vicesovrintendente del Teatro, Osvaldo
Ramous. Ai protagonisti del “Burbero” si
affiancano, tra gli altri, Gianna Intravaia,
Liliana e Umberto Salvioli, Aldo Grattoni,
Vincenzo Dall’Olio, il romano Bianchi,
Nino Bortolotti, Tullio Fonda. Questa
volta, non due sono le recite, ma ben
dodici, con circa diecimila spettatori, di
cui (mi raccontava mia madre che allora
fece il suo ingresso come suggeritrice)
almeno un migliaio tornava a rivedere la
commedia.
Nella stagione successiva, tra gli otto titoli
in cartellone, ci sono “I rusteghi” (regista,
il Ramous). Per Brumini è il primo
incontro con Goldoni: Raniero in seguito
ne perderà solo uno. Il critico de La Voce
parla di “miglioramento”, di “crescita”
dell’ensamble e di una regia “fresca”,
che “mai scende nella banalità”. Quasi
ottomila gli spettatori, per addirittura
ventidue recite e tutte all’ex Verdi (la
pratica delle tourneés arriverà qualche
anno più tardi: i mezzi sono pochi, e
comunque in Istria ci sono complessi,
specie quello capodistriano diretto da De
Simone, con Anton Mari, Fulvio Tomizza,
Aldo Bressan, Peter Kolosimo, che
agiscono con continuità e profitto).
Nel 1948/49 niente Goldoni; si va sul
difficile: si replica Ibsen e si allestiscono
Pirandello, Moliere, Gogol’ ed Erenburg.
Lo scrittore russo proprio in quel
periodo passa da Fiume e cita il Dramma
Italiano in un libriccino sui suoi viaggi
nell’”Europa socialista”.
Novembre, 1949. Ramous ripropone il
Veneziano: “Il bugiardo”, avvalendosi
dello scenografo “principe” della casa
madre, il pittore Antun Žunić. Tre sono i
debuttanti alle prese con Goldoni: Maria
Piro, attrice per la quale si diceva che non
si capiva se fosse più bella o più brava;
dopo alcuni anni di militanza nel Dramma
passerà alla compagnia croata e ne sposerà
uno degli attori principali, Miodrag Lončar.
Quindi Angelo Benettelli e Alessandro
Damiani.
Angelo Benettelli
Benettelli merita un minimo di discorso
a parte. Anche perché, al di là delle sue
capacità attorali equamente distribuite in
tutti i cento e passa personaggi interpretati
in carriera, a lui si deve l’approfondimento
dell’approccio con Carlo Goldoni, la sua
lingua, il suo linguaggio. Angelo (scusate
il familismo... è stato il mio santolo, e sua
moglie Ada Mascheroni, la santola) non solo
è veneziano-veneziano, ma ha lavorato con
alcuni dei maestri del teatro goldoniano:
Emilio Zago e Cesco Baseggio, facendo
propria la loro lezione espurgandola tuttavia
di buona parte delle leziosità dovute ad una
tradizione che i... tradizionalisti ritenevano
intoccabile. Benettelli – encomiabile
l’attaccamento alla professione della
compagnia, attenta ai suoi insegnamenti –
terrà quel che oggi definiamo “laboratori”
sulle maschere veneziane e sul Teatro
dell’Arte. Nella commedia in questione, egli
sarà Arlecchino, il primo Arlecchino del
Dramma Italiano, affascinando spettatori
(cinquemila in undici recite) e critici.
Quando, nel 1950, il Dramma Italiano viene
invitato per la prima volta a Zagabria, al
Teatro Nazionale Croato, lo farà con “Il
Bugiardo” e con “I Rusteghi” (e con “Piccole
volpi” della Hellman, diretto da Piero
Rismondo). Il successo sarà semplicemente
enorme. Un critico scrisse trattarsi di “un
evento teatrale e culturale importantissimo
per la capitale croata”.
In platea un pubblico diverso
Nella stagione 1950/51 è la volta de
“Gli innamorati”. Ramous in cabina di
regia e il russo Sergej Kučinski per le
scene e i costumi. Sul palcoscenico tre
“neogoldonisti”: Francesco Vittori, Ermanno
Svara e Vjeko Bonifačić. Sergio Turconi
scrive di una straordinaria Gianna Salvioli-
Depoli. Solo due repliche, settecento
spettatori: la componente italiana di Fiume
va scemando, in platea si vede arrivare un
pubblico diverso, potremmo dire “alle prime
armi” in tema di teatro... E infatti, prima
della commedia in parola, come scrivevo
più su, il direttore Piero Rismondo mette
in cartellone “Ostrega che sbrego” e la
stagione successiva,”Nina no far la stupida”
di Giancapo e “La bozeta de l’ogio” di
Selvatico.
Nella 1952/53 riecco Goldoni: “Sior Todaro
brontolon”. Per le sole due serate si contano
quasi millecinquecento spettatori. Ennesimo
debuttante, il pittore e scenografo, ma nelle
veci di attore, Ermanno Stell. La scena
è monopolizzata da Angelo Benettelli.
Leggiamo: “La sua interpretazione è
stata ottima, nei tre atti Benettelli ha
cessato di essere sè stesso per dar posto
esclusivamente al personaggio goldoniano”.
La stagione che segue è tra le più povere
nella storia del Dramma. Nessuno degli otto
titoli supererà le due serate.La diminuzione
degli spettatori, ossia degli italiani di
Fiume, comporta una iper produzione: non
potendo contare su una platea agguerrita,
almeno a chi c’è si dia di più, in modo da
farli ulteriormente attaccare al complesso
e dimostrar loro attenzione e rispetto... Il
sipario del Dramma, che ha in cartellone
otto titoli, si apre su “La finta ammalata”.
Per la prima volta, manca Gianna Depoli. In
compenso c’è Nidia Sfiligoi; è l’ottobre del
1953.
«La locandiera»
Siamo al 1954/55. I primi due spettacoli...
come sopra: due recite per uno. Col
successivo, l’impennata: Ramous propone
“La locandiera”: ventinquattro repliche e
oltre tremila spettatori. Benettelli, Montini
e Scaglia danno vita ai tre pretendenti con
maestria e Gianna Depoli è al tempo stesso
la torta e la ciliegina.
1955/56, niente Goldoni, né “veneti
minori”. Il direttore Ramous, d’accordo con
la compagnia, sonda il terreno, si vuole
capire se c’è e quanto “appetito” per il teatro
in lingua, classico e contemporaneo, tra la
“nostra gente”. Oltre tutto, tra il pubblico
da qualche tempo si va registrando la
presenza di habitueès teatrali del Dramma
Croato (“Il defunto” di Branislav Nušić,
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|| “Le baruffe chiozzotte” (1946/47)
|| “La finta ammalata” (1988/89): Ester Vrancich, Rossana Grdadolnik e Maria Braico
DI RIFERIMENTO CULTURALE
l’anno prima aveva fatto registrare oltre
duemila spettatori in sei recite): è dunque
importante proporre cose diverse. Il clou
della stagione saranno, a sorpresa, le due
apparizioni di una delle Signore della scena
italiana, Diana Torrieri, la quale in un libro
autobiografico premiato negli anni Novanta
al “Viareggio” rammenterà i giorni passati
a Fiume “con Osvaldo, Olga, Raniero,
Gianna...”.
Ritorno di fiamma
Il 1956/57 si caratterizza per un “ritorno di
fiamma”. I fiumani – e non pochi “riječani”
- non hanno digerito l’ipotesi di chiusura
del Dramma Italiano, con licenziamento
in tronco della compagnia a seguito della
decisione del sovrintendente Drago Gervais
in ciò caldeggiato dai vertici del Circolo(?!).
Oseremmo dire che ci troviamo di fronte
a un ritorno in massa. E poi, il complesso
(e il Teatro, che ora si chiama “Ivan de
Zajc”) festeggia il decimo anniversario,
con un opuscolo in bianco e nero, con i
ritratti di tutti i membri della compagnia
e foto di scene di alcuni spettacoli. Non
c’è spettacolo, ad esclusione di uno dei sei
proposti, che conti meno di dieci repliche;
tra questi la ripresa de “La locandiera”,
mentre il nuovo Goldoni è “Il ventaglio”
(quattromila spettatori, 12 serate). Mi si
conceda di aprire una parentesi personale:
è il primo Goldoni visto a teatro di cui ho
memoria. Ero, come quasi sempre agli
spettacoli del Dramma, con mia madre nella
“buca” del suggeritore e quando entra in
scena Damiani mi scappa un urlatissimo
“papà!” (come se lo vedessi per la prima
volta), che fa scoppiare dalle risate attori
e pubblico. Probabilmente la mia reazione
era dovuta al fatto che riuscìi a malapena
a riconoscerlo, rivestendo egli il ruolo di
un vecchio (lo speziale Timoteo). Per la
cronaca, lo spettacolo segnò il debutto
(goldoniano) del più bell’attore che il
Dramma Italiano abbia mai avuto, il
cantante – famosissimo allora – Bruno
Petrali.
1957/58: molti atti unici, spesso accorpati,
e “La famiglia dell’antiquario”.
Come dicevo innanzi, da questa stagione
mancano all’appello Carlo Montini - che,
Goldoni a parte, quasi sempre ha rivestito il
ruolo del protagonista negli altri spettacoli
– e il Damiani. In compenso fanno la loro
apparizione Lucilla e Glauco Verdirosi. Sulla
scena avremo, dunque, il nucleo di quel
Dramma Italiano che ci accompagnerà fino
alla fine degli anni Settanta, primi Ottanta:
Depoli, Mascheroni, Scaglia, Brumini,
Benettelli, Petrali, i Verdirosi appunto.
Prima regia goldoniana di Nereo Scaglia
Tornando alla “Famiglia”, è la prima
regia goldoniana di Nereo Scaglia, che vi
apporta pizzichi di novità nel linguaggio e
nell’impostazione.
Goldoni minore, nella 1958/59: “Un curioso
accidente”, regista il Ramous. Purtroppo, lo
“scatto di reni” dei fiumani delle due stagioni
precedenti si affievolisce. Poche repliche,
non molti spettatori. Ma la commedia
piace. Scrive Lucifero Martini: “Il pubblico
ha palesato semplicemente entusiasmo,
sia per la piece in sé che per la bella
interpretazione”.
L’anno dopo, Ramous e Scaglia, da registi e
responsabili della compagnia, decidono di
tenere Goldoni nel cassetto. E non sbagliano,
perché quando il 7 giugno del 1961 si apre
il sipario su “Le smanie della villeggiatura”,
le chiusure dello stesso saranno ben dieci
(alcune, in Istria), per oltre duemila
spettatori (mentre la componente italiana
in città toccherà i minimi storici – a quel
momento, perché in futuro ci sarà anche di
peggio). A fare la parte del leone, pardon,
delle leonesse sono Depoli (Vittoria) e
Verdirosi (Giacinta).
Altra pausa nella 1961/62 e grande ritorno
con la “Bottega del caffé” la stagione
seguente (ottobre, 1962: otto recite, duemila
e passa spettatori). La regia è di Benettelli.
Due i debutti: il liceale Renzo Chiepolo, ma
la sua è una apparizione estemporanea, e
l’affascinante rovignese Femy Benussi, che
pochi anni dopo troveremo accanto a Totò e
Ninetto Davoli in “Uccellacci e uccellini” di
Pier Paolo Pasolini).
Il liceale Giulio Marini
Niente Goldoni nella 1963/64 e nuova
edizione delle “Baruffe chiozzotte” la
stagione successiva (regia di Benettelli) che
segna l’esordio del liceale, caro a Scaglia che
lo dirige nella filodrammatica del Circolo,
Giulio Marini. Ci metterà un bel po’ di anni,
il “nostro Giulio”, prima di decidersi di
5
entrare definitivamente al Dramma. Con
Marini ci sono altri due liceali provenienti
dal gruppo del sodalizio fiumano: Ivana
Latini ed Euro Paolettich. Nove le recite,
poco più di duemila gli spettatori, tournée
compresa.
La 1965/66 trascorre senza Goldoni (c’è
pero Giacinto Gallina a tenere alta la
bandiera della venezianità).
Rieccolo, l’Avvocato, per il Ventennale,
con la seconda edizione de “Il burbero
benefico”: ricordo la prima, per un
particolare curiosissimo. Pur se navigato, il
regista e protagonista, Angelo Benettelli si
presenta in scena a tal punto emozionato,
da avere lasciato in camerino la parrucca
ed ha dimenticato di togliersi gli occhiali.
Lo Zajc è pieno come non mai da almeno
dieci anni a questa parte. Un successo
senza precedenti. Scrisse il Martini: “Due
chiamate alla fine del primo atto, quattro
dopo il secondo, otto alla fine del terzo
e ultimo”. Le “chiamate” a fine atto sono
prassi prettamente operistica. (Non mi si
chieda il perché: non lo so).
Il Dramma ha un proprio pubblico
Fino al marzo del 1970, Carlo Goldoni
è un illustre assente. Forse anche
giustamente. Il Dramma ha stabilito un
buon rapporto con il proprio pubblico,
anzi, “ha” un proprio pubblico, che sa
fare a meno del teatro dialettale, alto
o basso che sia. Esso, pubblico, è ora
composto anche da giovani intellettuali,
universitari e non; la televisione, specie
la RAI di quel decennio, ha molto
contribuito a far conoscere e amare la
scena drammatica. Gli attori del Dramma,
che da qualche anno ha istituito la pratica
dei matinèe per le scuole ed è, dopo anni
di incomprensioni reciproche, a stretto
contatto con i Circoli in Istria, a Cherso e
nei Lussini, ha il polso della situazione;
avverte che gli appetiti sono cambiati.
Gli stessi spettatori “naif” del decennio
precedente non disdegnano il teatro
dei grandi nomi della classicità e della
contemporaneità. Inoltre – picchia e mena
– la triestina Università Popolare è riuscita
a fare breccia sul governo italiano affinché
contribuisca a tenere in piedi oltre che
la Compagnia, la CNI e le sue istituzioni,
che vivono, come vivono – ma vivono –
del solo sostegno delle istanze comunali,
repubblicane e federali jugoslave. I
primi segnali concreti in tal senso per il
Dramma sono la possibilità di ingaggiare,
a progetti, attori, scenotecnici e registi
dall’Italia. La novità comporta anche
novità nel repertorio. Dunque, spazio ad
una visione più ampia. Non per questo
il Grande Veneziano se ne resterà per
sempre nei cassetti. E infatti, nel marzo
del 1970 – lo Zajc intanto è chiuso per
restauro, si recita al Neboder – il Dramma
debutta al Circolo di Pola con una nuova
edizione de “La vedova scaltra”, per la
regia del triestino Spiro Dalla Porta Xidias.
L’approccio registico piace, sebbene lasci
interdetti una lettura che Ezio Mestrovich
su Panorama reputa “scolastica”. Due
sono i “nuovi” nello spettacolo, Ezio
Biondi, con un funambolico Arlecchino,
e Bruno Pischiutta, oggi cineasta con
passaporto canadese, patron di un
festival cinematografico internazionale in
Romania.
Nel totale, sei repliche e poco meno di
duemila spettatori.
Spiro Dalla Porta Xidias
Ma con lo Xidias, bisogna ricordarlo (tra
l’altro, quest’anno il mio ex professore
compie un secolo!), si aprono anche
altre forme di impegno. Egli è il direttore
artistico e insegnante di recitazione ed
elementi di regia, dell’IDAD - Istituto
D’Arte Drammatica, di Trieste, dove non
solo si formerà l’attrice che da trent’anni è
l’”anima” del Dramma (Elvia Nacinovich),
ma anche interpreti e registi che in
seguito vi collaboreranno: Franco Però,
Luisa Crismani, il compianto Mauro Likar,
Ugo Vicic, Alessandra Scaramuzza, una
collega docente dello Xidias, l’attrice
Omera Lazzeri.
Dal 1973 al 1982, il Dramma allestisce
solo tre testi del Goldoni: “Il feudatario”,
la terza edizione de “La Locandiera” e
la seconda de “I Rusteghi”. Ne è regista
l’autore e attore padovano Giuseppe
Maffioli.
“Il Feudatario” va in scena in prima a
Buie nel gennaio del 1974. Il Dramma è
al completo; ci sono pure Olga Novak,
Maria Braico-Štifanić e Giulio Bontempo,
che di tanto in tanto presta la propria
verve, inoltre, è amatissimo dai fiumani:
i suoi sketch, le sue commediole musicali
al Circolo sono un grande spasso. C’è il
menzionato, Mauro Likar. Lo spettacolo
piace o quantomeno attira: undici
repliche, più di duemila spettatori.
(Segue a pagina 8)
6
lunedì, 24 ottobre 2016
CINEMA
spettacoli
la Voce
del popolo
a cura di Fabio Sfiligoi
|| Un’immagine del film di Clint Eastwood
«SULLY», COME «AMERICAN SNIPER», È IL RITRATTO
DI UN EROE I CUI PROBLEMI A CONTI FATTI NASCONO
PROPRIO DAL RAPPORTO INTERNO CON LA SUA NAZIONE
Q
uando un produttore decide di
mettere insieme un binomio di
mostri sacri del cinema ha tre
obiettivi principali: fare cassetta, cioè
guadagnare, soddisfare magari la critica
e vincere l’Oscar possibilmente. Con
Clint Eastwood alla regia e Tom Hanks
nel ruolo di attore principale, “Sully”
ha tutte le preogative per raggiungerli
e gli indizi di un successo stratosferico
ci sono:”Sully” viene già acclamato
come film meraviglioso. Capace, in
un’epoca che tutto ha visto e tutto
ha sentito, di portare all’attenzione
dello spettatore una storia di eroismo
e altruismo. In America, dove è già
nelle sale, domina il box office da
svariate settimane, infischiandosene di
“Bridget Jones e compagni”. Il movie
racconta, infatti, la storia di Chesley
Sullenberger, pilota salito agli onori della
cronaca per aver salvato 150 persone
con un atterraggio di emergenza. Era
il 2009 quando, appena decollato
dall’aeroporto La Guardia di New York,
il volo US Airways 1549 sparì dai radar.
Un impatto con uno stormo di uccelli
danneggiò entrambi i motori dell’Airbus,
costringendo Sully(soprannome del
primo pilota, Hanks nel film) a prendere
una decisione repentina. Il pilota scelse
la via dell’ammaraggio, facendo planare
il velivolo sul fiume Hudson, non tanto
lontano da terra in modo da velocizzare
i soccorsi vista la temperatura gelida
dell’Hudson. Passeggeri e personale di
bordo uscirono illesi dall’atterraggio di
fortuna che, finito sui giornali di tutto il
mondo, già allora stuzzicò l’estro di Clint
Eastwood.
Il regista, ben lungi dal voler replicare
i meccanismi di “Flight”, ha deciso di
raccontare il fatto per quel che è. Facendo
leva sulla bravura di Tom Hanks e la
potenza di una storia che, a fronte di
un costo di 60 milioni di dollari, ne ha
raccolti nel mondo quasi 94. Per ora.
Ancora una questione americana per Clint
Eastwood dopo il discusso “American
Sniper”. Il regista, 87 anni il prossimo
31 maggio, racconta l’eroe dietro al
“miracolo dell’Hudson”; firma con “Sully”
uno dei suoi film più concisi. E forse
anche il suo risultato più “popolare” per il
pubblico americano.
Una questione tipicamente yankee, un po’
come quella del “cecchino”.
L’uomo, prima di tutto, dietro l’eroe,
l’uomo dietro la notizia, l’uomo dietro
l’inchiesta.
Ma, come quella di Chris Kyle (American
Sniper), quella del capitano Sullenberger
è una faccenda che riguarda innanzitutto
un Paese.
“Sully” si inserisce nel filone del cinema
di Eastwood in cui l’autore di “Invictus” e
“J. Edgar” guarda alla storia passata o più
o meno recente per raccontare la morale
di una Nazione. Patriottico, a modo suo,
Eastwood lo è sempre stato.
CLINT+TOM
Finale: troppa retorica
E anche se le sue posizioni politiche sono
chiare, Eastwood spesso le ha quasi del
tutto sovvertite e anche rese commoventi
sul grande schermo (in questo il suo film,
uno dei più belli e incisivi, “Gran Torino”
è un manifesto e un punto di non ritorno).
“Sully”, come American Sniper, è il ritratto
di un eroe i cui problemi a conti fatti
nascono proprio dal rapporto interno con
la sua Nazione. Al contrario del cecchino,
quella di Sully è una vicenda che sin da
subito fa evitare Eastwood di bruciarsi col
fuoco o esporsi troppo. Peccato per il finale
che gronda di retorica, recitano i critici
d’oltreoceano, con i dialoghi tra Sully e
la moglie (Laura Linney, perennemente
al telefono) che sanno di deja vu. Però
appunto il problema sta nel manico, ovvero
nell’ennesimo ritratto d’eroe a rischio
patriottismo.
Fattore umano
“Sully” rischia davvero di essere il film più
crowd-pleasing per il pubblico americano
della sua carriera: i risultati al box office
alimentano questa “scontata” previsione. Gli
ingredienti stanno tutti lì, dalla decisione
di casting del sempreverde Tom Hanks
(ottimo, senza dubbio), fino ai titoli di coda
che sono fatti con lo stesso stampo di quelli
del film precedente. Quello che convince
di più in “Sully” è il modo in cui alla fine
Eastwood trova davvero il “fattore umano”
Tom Hanks: dal soldato Ryan a Sully
Figlio e papà degli Usa
Figlio dell’America in guerra con “Salvate
il soldato Ryan”, di quella alla ricerca di sé
stessa di “Forrest Gump” e di un Paese che
esplora sempre nuove frontiere con “Apollo
13”, qualche decennio dopo, a 60 anni
appena compiuti, Tom Hanks diventa il papà
d’America con “Sully”, già campione d’incassi
negli Usa. L’attore due volte premio Oscar
vive una stagione intensissima di lavoro
con vari film in uscita. Per i ruoli che ha
interpretato può essere considerato il volto
cinematografico dell’americano medio.
Quella scatola di cioccolatini
|| Tom Hanks con l’Oscar per Philadelphia
Prima, l’intenso e sofferto Andrew Beckett
di “Philadelphia”; poi, il saggio e naïf
Forrest Gump. Non è da tutti riuscire a
interpretare personaggi capaci di uscire
dallo schermo cinematografico ed entrare
prepotentemente nell’immaginario
collettivo. Tom Hanks l’ha fatto. E anche se
sembra ormai il racconto di un mondo forse
tramontato, quello dell’avvocato malato
di Aids in quegli Anni Novanta, quando
l’essere omosessuale dichiarato era una
condizione inaccettabile, il Beckett di Hanks
è considerato ormai un classico del cinema.
Grazie a quel ruolo, Hanks mise le mani
sul suo primo Oscar. Successo poi bissato
l’anno seguente con “Forrest Gump”: altra
statuetta e una frase celebre consegnata
alla storia:”Mamma diceva sempre: la vita è
uguale a una scatola di cioccolatini, non sai
mai quello che ti capita”. Lo stesso Hanks
nel 1980 forse non l’avrebbe immaginato
tutto questo successo, quando debuttava in
tv nella sitcom “Henry e Kip”.
Solitudine
Nato a Concord, in California, il 9 luglio
1956, Tom Hanks è discendente collaterale
del 16esimo presidente degli Stati Uniti
da parte del padre, Amos Mefford Hanks
(la madre di Lincoln si chiamava Nancy
Hanks. Da una sorella di quest’ultima
discende invece George Clooney). L’attore
ha invece sangue portoghese da parte di
madre. Non ha avuto un’infanzia facile e
agiata in quanto figlio di genitori separati:
una volta affidato al padre dovette seguirlo
insieme ai suoi fratelli maggiori nelle sue
peregrinazioni in giro per il mondo (di
professione faceva il cuoco), conducendo
così un’esistenza priva di radici salde e di
amicizie durature. L’inevitabile conclusione
è un gran senso di solitudine che Tom si
è portato dietro per lungo tempo e che a
ben osservare si può notare in alcune sue
interpretazioni. Fortunatamente questo
genere di cose cambia quando si trova
spettacoli
la Voce
del popolo
lunedì, 24 ottobre 2016
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Il fatto vero
Un solo grido: «Birds!»
= OSCAR
(come il titolo di lavorazione di “Invictus”,
tra l’altro, in cui raccontò la storia di
Mandela, tramite la nazionale di rugby
degli Springboks). Con una costruzione
per niente classica, ma fatta di giochi
cronologici, ripetizioni, salti temporali e
costruzione dell’attesa, il regista regala
l’ennesima lezione di cinema della sua
carriera. Perché anche se gioca con l’ordine
degli eventi e con il tempo, Eastwood non
forza mai il suo stile e, anzi, lo sfrutta per
raccontare il capitano coraggioso “Sully” e
il “miracolo dell’Hudson”: un incidente (e
salvataggio) durato solo tra i 3 e 4 minuti.
Sullenberger, agendo d’istinto salvò tutti
i 155 passeggeri che il suo aereo stava
trasportando, rappresenta l’uomo retto,
a frequentare l’Università, dove ha
modo non solo di stringere numerose
amicizie ma anche di dar vita a quella
che era una sua passione per troppo
tempo sopita: il teatro. Passione non solo
praticata ma anche approfondita con lo
studio, tant’è vero che riesce a laurearsi
in drammaturgia alla California State
University di Sacramento. Riesce ad
approdare nel cast della sitcom “Henry
e Kip”, è nel 1982 che l’attore fa un
incontro interessante, quando conosce sul
set della serie “Happy Days”, dove recita
per un solo episodio, l’attore Ron Howard,
ovvero il rosso Ricky Cunningham. Due
anni dopo, Howard – nei panni di regista
– chiama Hanks per farlo debuttare al
cinema. La pellicola è leggera quanto
divertente, e diventa un cult degli
anni Ottanta: “Splash – Una sirena a
Manhattan” è il trampolino di lancio verso
la celebrità non solo per Tom Hanks, ma
anche per Daryl Hannah e il compianto
John Candy.
Gli Anni Novanta iniziano male: “Il falò
delle vanità”, di Brian De Palma, che lo
vede protagonista insieme a Bruce Willis
e Melanie Griffith, è un flop sia a livello
commerciale che di critica. Ma già nel
1993 Tom si rialza: arriva la doppietta
di Oscar, prima con “Philadelphia” e
poi con “Forrest Gump”, eguagliando il
record di Spencer Tracy. A questo punto
Tom è pronto per il grande passo e
debutta dietro la macchina da presa con
la commedia musicale “Music Graffiti”.
Successo moderato e l’attore decide
di prendersi una pausa. Sarà Steven
Spielberg nel 1998 a convincerlo a
giusto, che anche facendo leva sull’istinto
sa che la manovra assurda che sta per
fare è quella che va fatta. E nonostante
questo la National Transportation Safety
Board lo mette a dura prova e vuole fare
chiarezza sul caso: perché non è tornato a
La Guardia anche se avrebbe potuto? Qui
entra in gioco, appunto, il fattore umano...
In poco più di 90 minuti, Eastwood firma il
suo film più secco, addirittura il più nitido
nelle intenzioni. Forse questa mancanza di
sfumature non lo eleva a livelli di “Million
Dollar Baby” o “Mystic River”. Ma resta una
solida lezione di cinema, ferma e sicura:
e tutte le scene che descrivono l’incidente
da diversi punti di vista valgono da sole il
prezzo del biglietto.
tornare a recitare in “Salvate il soldato
Ryan”. La pellicola, incentrata sullo sbarco
in Normandia del 6 giugno 1944, ottiene
buoni consensi di critica e ottimi incassi.
Hanks ha la nomination all’Oscar ma
viene battuto da Roberto Benigni per “La
vita è bella”.
Preparazione leggendaria
Un altro il momento di recitazione
impegnata è ne “Il miglio verde”, tratto
dal romanzo di Stephen King e candidato
a cinque premi Oscar, tra cui quello di
miglior film. Il seguito della carriera
di Hanks è un susseguirsi di pellicole
importanti e di successo, tutti copioni
scelti con oculatezza e senza cadere nel
banale o nel cattivo gusto. D’altronde,
anche la sua preparazione è diventata
leggendaria, al pari di quella di altri
mostri sacri come Robert De Niro. Per
girare la storia del naufrago Chuck
Noland, ad esempio, ha dovuto perdere
ben 22 chili in 16 mesi, in modo da
rendere più veritiera la condizione di
disagio vissuta dal personaggio. Il film
è “Cast Away”, e gli è valsa l’ennesima
candidatura agli Oscar 2001 come miglior
attore protagonista (la statuetta gli venne
soffiata per poco da Russell Crowe con “Il
gladiatore”).
Nel 2006 Tom Hanks viene diretto ancora
una volta da Ron Howard: interpreta
Robert Langdon, popolare protagonista de
“Il Codice da Vinci” di Dan Brown; il film,
attesissimo, è uscito in contemporanea
mondiale. Per molti, meglio il libro del
film, ma in questo caso Hanks è esente da
colpe...
“Birds!”. Sono le 15,27 del 15 gennaio 2009. Un secondo dopo, una serie di colpi e
tonfi e vibrazioni viene registrata dal CVR (cockpit voice recorder) dell’A 320 della
US Airways, volo 1549. La voce è quella del comandante Chesley Sullenberger.
L’Airbus è decollato due minuti prima dall’aeroporto La Guardia di New York. Ha
per destino Charlotte, North Carolina, e trasporta 150 passeggeri e cinque membri
d’equipaggio. Si trova ad appena 2.818 piedi di altezza (circa 850 metri) e sta
sorvolando il Bronx quando si scontra con un denso stormo di uccelli. La velocità è
di soli 214 nodi (400 km/h), bassa perché l’aereo è ancora in salita e appena partito.
Il sibilo di entrambi i motori decresce immediatamente, fino a quasi spegnersi.
Entrambi sono danneggiati. Ed entrambi cessano di produrre la spinta necessaria al
volo.
Dodici secondi dopo l’impatto, Sullenberger, che al decollo agiva come secondo
ufficiale, riprende i comandi: “My aircraft”. Ordina al suo copilota di consultare il
QRH (quick reference handbook) per la procedura da seguire in caso di perdita di
spinta in entrambi i motori. Poi lancia il suo mayday: “mayday mayday mayday…
this is…Cactus fifteen thirty nine hit birds, we’ve lost thrust in both engines, we’re
turning back towards LaGuardia”. Il CTA ordina una virata a sinistra e una prua di
220° per il ritorno verso l’aeroporto. Sullenberger accende l’APU, il sistema ausiliario
di generazione di energia elettrica di bordo. Una scelta fondamentale, potrà disporre
dell’energia che muove le superfici di comando dell’aereo. Mentre iniziano la virata,
il copilota incomincia a leggere la procedura prevista per quest’emergenza: ““if fuel
remaining, engine mode selector, ignition,” Sullenberger ordina: “ignition”. Non
accade nulla. Il copilota: “Idle (inattivo)”. Sullenberger conferma: “Idle”. Il copilota:
“velocità ottima per riaccensione, trecento nodi. Non li abbiamo”. Risposta: “No”.
La procedura prevede 30 secondi d’attesa prima di un nuovo tentativo. Ma i motori
non ripartono. L’Airbus è nelle peggiori condizioni immaginabili: lento, basso,
con i motori praticamente spenti.Teoricamente può planare per una quindicina di
chilometri. Ma è su un’area densamente popolata, e tutta costruita, con edifici molto
alti. In più, ha a bordo ancora tutto il combustibile imbarcato per il volo.
Poi è lo scontro tra il guizzo di genio professionale e la burocrazia, tra la scelta
individuale di un uomo e la macchina – un tema ricorrente della filmografia
eastwoodiana, fitta com’è di indocili, schivi e solitari. Se, tra di loro, Sully
è sicuramente uno dei meno fiammeggianti, e dei più amabili, l’eccezione
racchiusa nella sua normalità è la chiave del film – magnificamente ancorata
all’interpretazione di Hanks, in un’ennesima variante del suo americano tranquillo.
“Siamo seri”, dice Sully al grigio panel di esperti di aviazione dopo che due diverse
simulazioni al computer provano che ce l’avrebbe fatta a rientrare incolume in
entrambi gli aeroporti. “Non avete nemmeno preso in considerazione il fattore
umano. La sorpresa, il fatto che non ci eravamo mai trovati di fronte a una cosa del
genere”. È un’obiezione che gli giova soltanto 38 secondi. In cui stanno, però, le vite
di 155 persone. Sono persone “normali” che quasi non conosce, appena tratteggiate,
ammassate nell’aereo, e poi in bilico sulle sue ali, galleggianti sull’acqua grigiastra.
Nella brutta luce di un inverno freddo. Mentre, dalla riva e dall’aria arrivano i
soccorsi – newyorkesi che non si scompongono di fronte a nulla, gente che sta
facendo il suo lavoro. Come Sully. “Il merito di quello che è successo è di tutti, non
solo mio”, dirà il vero Sully nei titoli di coda.
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lunedì, 24 ottobre 2016
(Dalla pagina 5)
«Dolce, spigliata, graziosa Ester Vrancich»
Nel novembre del 1979, dunque cinque
anni dopo, torna Goldoni: “La locandiera”.
Ed è un successo personalissimo di Ester
Vrancich (Fantov, al tempo). Il critico
parla di “freschezza interpretativa”; Ester,
scrive, è stata “dolce, spigliata, graziosa”.
Primo Goldoni, oltre che per lei, per Elvia
Malusà e il suo futuro compagno di vita e
di scena, Bruno Nacinovich.
Dopo altri quattro anni ”a-goldoniani”
il Maffioli propone la propria idea de “I
Rusteghi” (scene e costumi sono di un
Maestro; Misha Scandella, già stretto
collaboratore di grandi registi di prosa e
lirica, nonché di Lovro Von Matačić).
Scrive Anita Peresson: “Giuseppe Maffioli
è stato il grande concertatore del
formidabile lavoro... Elvia Nacinovich
è stata la trionfatrice della serata”. Dei
rusteghi vengono sottolineate le prove
dell’inossidabile Nereo Scaglia e di
Galliano Pahor.
Nella stagione 1986/87 tornano in
scena “Le baruffe chiozzotte”. La regia
è di Gabris Ferrari. Dei “vecchi” del
Dramma, sul palcoscenico c’è il solo
Glauco Verdirosi. C’è anche la BraicoŠtifanić, ma è tutt’altro che “vecchia”. Di
“voci nuove” abbiamo Sandro Vrancich,
Rossana Grdadolnik, Alida Delcaro, Dario
Saftich, Lucio Slama. E, fiore all’occhiello,
Dario Penne, notissimo doppiatore
di divi americani. Sedici repliche,
duemilacinquecento spettatori. Goldoni
continua a piacere.
«La finta ammalata»
Due stagioni più tardi, nel marzo del
1989, a vent’anni dal suo esordio alla
guida artistica del Dramma, si ripresenta
Francesco Macedonio, con “La finta
ammalata”. Contrariamente a quanto
da qualche anno va portando in scena
spettacoli
secolo di vita, il Dramma chiama
Francesco Macedonio e gli affida
“Il Campiello”. Scriverà Damiani:
“Macedonio si è attenuto a un affettuoso
ricalco della scrittura goldoniana... con
una recitazione graduata nei toni”. Il
complesso, ridotto a sei elementi, conta
sull’apporto di Elke Burul, Paolo De
Paolis, Christian Carlo.
la Voce
del popolo
FENOMENI
IL DOCUMENTARIO
ITALIANO STA
ATTRAVERSANDO
UN PERIODO DI
GRANDE FORTUNA
Una visione diversa della compagnia
Passeranno ben sette anni – mai pausa
fu così lunga – prima di vedere un
ulteriore testo di Carlo Goldoni. (De)
merito mio: sono gli anni in cui dirigo il
Dramma, ed ho una visione diversa sia
del ruolo della compagnia che di cosa e
quando e perché un autore o un titolo
vadano messi in scena. Soprattutto non
mi accontento (e lo reputo immeritato
e fuori luogo per il complesso e per
l’istituzione) di produrre spettacoli col
solo intento di accarezzare il pubblico
per il verso giusto. Cerco, e spesso trovo,
il “valore aggiunto”, specie se mi devo
rifare ai classici: Goldoni (e Pirandello
e Fo, per restare alla drammaturgia
italiana del Novecento) in primo luogo.
Devo essere sincero: le pressioni,
amichevoli beninteso, non mancarono.
Fino a che non trovai la porta giusta
a cui bussare. La porta si chiama(va)
Walter Mramor e la sua compagnia
Attori Associati di Gorizia e il regista, il
chioggiotto Pier Luca Donin. Insieme,
poi si trovarono altre... porte, a Verona
e a Treviso. Nacquero così le ennesime
“Baruffe”, una coproduzione che per
due stagioni (ma non sarebbe mancato
un altro anno se... lasciamo perdere)
ha tenuto banco. Qualcosa come oltre
160 repliche in giro per l’Italia, Roma
compresa, e soprattutto una settimana
al Teatro Goldoni di Venezia, altrettanto
a Verona e la presenza a Mittelfest. Un
successo strepitoso. Tutto, e non lo dico
|| Mister Universo (2016)
ILFILMÈUNPEZZODIVITA
“L
a realtà diventa finzione”, dice uno
dei non-attori nell’eccellente docudrama Communion diretto dalla
regista polacca Anna Zamecka, proiettato nel
programma “Semaine de la Critique” nell’ambito dell’ultima edizione del Locarno Film
Festival, il quale tratta la follia e i pericoli del
fondamentalismo cattolico polacco attraverso
i preparativi per la prima comunione di un
ragazzino autistico. Vale lo stesso anche per
le scene introduttive del film Bangkok Nights,
di Katsuya Tomita, che rievocano il segmento
thailandese del trittico Whore’s Glory, di
Michael Glawogger. Tomita non ha soltanto
usato i medesimi volti delle prostitute thailandesi nella vetrina di Thaniya Road, ma ha pure
decostruito la scena nella quale esse visitano il
tempio rionale al ritorno dal turno notturno.
Perché, come disse Godard, “ogni grande finzione fa affidamento al documentarismo, allo
stesso modo in cui ogni grande documentario
si basa sulla finzione, e colui che sceglie una di
queste due opzioni si imbatterà prima o poi in
quell’altra alla fine del suo viaggio”.
«Mister Universo»
|| “I Rusteghi”: Nereo Scaglia e Giulio Marini
in collaborazione con Sergio D’Osmo,
ovvero una rilettura di Goldoni, spogliato
di orpelli, in una Venezia tutt’altro che
frizzi e lazzi, il regista goriziano propende
per una lettura “onirica”, ma che viene
interpretata come “vicina” alla tradizione
dei Baseggio. D’altronde, anche se così
fosse, il Goldoni che la platea di casa
nostra conosce e ama è quello coniugato
da Benettelli e da Scaglia. Chi li ha mai
visti i Goldoni di Strehler e di Visconti e
dello stesso binomio Macedonio-D’Osmo?
Plausi, comunque, per la giovane Rossana
Grdadolnik.
1992/93: dopo quarantanni, riecco
“Sior Todaro brontolon”, nella messa in
scena di Gabris Ferrari. Giulio Marini ed
Elvia Nacinovich fanno il pieno quanto
a simpatie del pubblico e consensi della
critica. Lo spettacolo compie una delle
tourneès istriane più corpose della sua
storia: 24 recite.
Nel dicembre del 1996, per il mezzo
la Voce
del popolo
Anno 2 / n. 10 / lunedì, 24 ottobre 2016
IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina
[email protected]
Edizione
Caporedattore responsabile f.f.
Roberto Palisca
SPETTACOLI
Redattore esecutivo
Helena Labus Bačić
Impaginazione
Denis Host-Silvani
Collaboratori
Sandro Damiani, Ivana Precetti, Dragan Rubeša, Fabio Sfiligoi
Foto
Pixsell e Creative Commons
con falsa modestia, da attribuire, prima
che all’intelligente regia del Donin, ai
quattordici attori, sette “nostri” e sette
veneto-friulani, con uno straordinario
Bruno Nacinovich (a destra nella
foto di copertina, ndr): nella ventina
di recite viste, in una sola occasione
Bruno, negli stracci marinareschi del
“farfuglioso” Sior Fortunato, ha ricevuto
meno di otto, dico otto, applausi a scena
aperta. (Ed Elvia – Madonna Libera - ha
ottenuto la “nomination” come migliore
attrice non protagonista dell’anno
dall’associazione di categoria degli
artisti teatrali della Croazia).
«La locandiera» di Paolo Magelli
Settant’anni e venticinque allestimenti,
tra debutti e “remake”. Ed ora arriva
“La locandiera” di Paolo Magelli. Il
regista pratese al suo attivo ha già
“qualche” Goldoni. Anzi, il primo
che fece – prima metà dei Settanta a
Belgrado: “Le Baruffe chiozzotte”, pensa
te... – unitamente a “La Mandragola”,
gli spalancarono le porte della scena
belgradese ed (ex)jugoslava, quindi
di quella europea. Non ho motivo di
dubitare che si tratterà di un vero e
proprio evento. Merda!
P.S. Per chi non lo sapesse, è l’augurio
nel mondo treatrale italiano e spagnolo.
Risale ai tempi di quando i signori si
recavano a teatro in carrozza. Se la cacca
di cavallo era tanta davanti al teatro
in cui nobili e borghesi si erano recati,
voleva dire che lo spettacolo piaceva. Se
ce n’era poca allora significava che se
n’erano andati prima della fine...
di Dragan Rubeša
Il nuovo docu-drama della coppia artistica
Tizza Covi & Rainer Fimmel, Mister Universo,
sta in bilico sulla linea che divide un film documentario (non-attori, località reali) e le
costruzioni narrative, ma non cerca di trovare un equilibrio effettivo e ideale. Com’è il
caso con i due film precedenti, Babooshka e
La pivellina, le cui storie sono ambientate in
un piccolo circo nella periferia di Roma, così
anche la storia di Mister Universo si svolge nel
medesimo ambiente, con gli stessi personaggi,
quasi fosse un sequel. Tomita (Bangkok Nights)
riprende la stessa località di Glawogger come
idea iniziale per la storia in cui delle prostitute autentiche incontrano la non-attrice
thailandese Subenja Pongkorn, mentre Covi &
Fimmel usano l’ambiente reale di un circo in
declino, ma con elementi che richiamano la
finzione, il che non vuol dire che ogni film sul
circo debba automaticamente essere un film
“felliniano”. Inoltre, il nostro amato protagonista incontra lo scimpanzé morente apparso nel
film di Fellini e partner di Adriano Celentano
nella commedia Bingo Bongo, nonché ingaggiato da Dario Argento in Suspiria.
«La pivellina»
Il protagonista si chiama Tairo e i suoi capelli
sono intrisi di quantità massicce di brillantina.
Ne La pivellina era pressapoco un adolescente.
Ora lo rivediamo, sette anni dopo, mentre prosegue sulle orme del padre, un domatore di
leoni. Ma i leoni di Tairo sono vecchi e si rifiutano di mangiare. Ne La pivellina aveva fatto
amicizia con una coppia di artisti del circo,
Patti dai capelli rossi e suo marito Walter, che
avevano trovato una bambina abbandonata
in un campo giochi e l’avevano chiamata Asia
(è questa “la pivellina” del titolo). Nella tasca
di Asia c’era un biglietto sul quale sua madre
aveva scritto che tornerà presto. Ma non è mai
più tornata. Ora Tairo parte alla ricerca dell’artista del circo Arthur Robin, più noto come
Mister Universo, l’uomo più forte del mondo,
che durante la sua performance aveva piegato
un pezzo di metallo nella forma di ferro di
cavallo, diventato poi l’amuleto di Tairo. Ma
quando il ferro di cavallo gli viene rubato, egli
parte per un lungo viaggio verso Milano per
trovare Mister Universo e pregarlo a piegare
un nuovo ferro di cavallo che dovrebbe portare
nuovamente l’equilibrio nella sua vita. Com’è
il caso con La pivellina, il cui ritmo è lento e
riflessivo, con dialoghi improvvisati e lunghi
silenzi nello stile del film diretto, ma senza
elementi manieristici, così è pure l’odissea di
Tairo in Mister Universo, durante il quale incontrerà, in un breve episodio, Patti e Walter.
In quell’occasione veniamo a sapere che Asia è
ancora con loro. Ma adesso ha otto anni.
Un morente microcosmo circense
Anche se la loro cinepresa è quasi invisibile,
Covi e Frimmel non vogliono nascondere
i meccanismi narrativi della storia, che è
estremamente compatta e lineare. In questo
morente microcosmo circense, al contempo
triste e affascinante, si muovono in maniera
discreta e non invadente. Perché questo film è
come un pezzo di vita. Ma è anche un film che
sottolinea in maniera determinante la rinascita
della scuola italiana del documentario, segnata
da grandi nomi come Pietro Marcello (Bella e
perduta), Pippo Delbono (Sangue, Vangelo),
Federica Di Giacomo (Liberami), Francesco
Rosi (Fuocoammare) e Marina Parenti &
Massimo D’Anolfi come un’altra incredibile
coppia di autori, il cui film quasi sperimentale,
L’infinita fabbrica del Duomo, è stato proiettato
l’anno scorso a Locarno nel programma collaterale “Signs od Life”, mentre il loro ultimo
documentario, Spira Mirabilis, ha avuto la sua
première mondiale quest’anno alla Mostra di
Venezia. A queste coppie si aggiungono Thanos
Anastopoulos e Davide Del Degan che nel documentario L’ultima spiaggia parlano di confini
diversi, ovvero di quelli che separano la parte
femminile da quella maschile della spiaggia
triestina, con due bagnini serbi sulla linea di
separazione, ma anche di confini politici, di
zone e linee di demarcazione.
Ispirati dalle cose semplici
Tutti questi autori trovano ispirazione nelle
cose semplici, come quel pezzo di ferro nelle
mani di Arthur Robin, l’uomo più forte del
mondo, che oggi vive in un luna park fatiscente nella periferia di Milano con la sua
ex assistente, troppo debole per piegare ferri
di cavallo con le mani, ma ancora sempre in
buona forma fisica.
Oppure quella fionda con la quale il ragazzino
di Rosi in Fuocoammare colpisce i cactus e gli
uccelli. Rosi, come Covi & Frimmel, utilizza
tutti gli strumenti del documentario per aprire
fughe immaginarie imprevedibili. In tal modo,
il film di Rosi non è soltanto un documentario
sulla tragedia dei profughi, la quale contrappone il “nostro mondo” a “quello lì”, con un
talento visivo eccellente e una particolare
precisione nella drammaturgia, bensì è un racconto di formazione di un ragazzo, simpatico
ma non troppo, con l’occhio bendato, figlio
del Corsaro Nero. Infatti, quando il suo protagonista confida al medico i suoi problemi con
la respirazione, il medesimo effetto di mancanza di aria assale anche lo spettatore già
nella scena seguente nella quale egli osserva
i profughi infreddoliti e disidratati, i cui corpi
tremano di freddo, dopo esser stati evacuati
dalla guardia costiera.
Cinquant’anni fa, i profughi dall’isola di
Lampedusa affollavano la Ellis Island newyorkese. Lampedusa è un’odierna Ellis Island,
mentre gli isolani si sono trovati per puro caso
dall’altra parte del confine. Ma Rosi osserva
il mondo degli isolani e il mondo dei profughi come due entità separate. Per questo
motivo, la scena in cui la nonna di Samuel in
Fuocoammare prepara un delizioso brodetto
richiama una scena simile nel film A Bigger
Splash, di Luca Guadagnini, nel quale una
vecchietta dalla Pantelleria sta preparando
una saporita ricotta senza prestare attenzione
alla notizia dell’ennesima tragedia dei profughi che giunge dal televisore in cucina. Ancora
una volta è in gioco quella linea delicata che
separa la realtà dalla finzione.