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PRIMO PIANO
Giovedì 27 Ottobre 2016
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Gli aventi diritto sono 4 milioni e si calcola che i votanti possano essere un milione
Il referendum si vince all’estero
C’è un tradizione favorevole al sì fra chi vive altrove
I
DI
CESAARE MAFFI
l primo sintomo fu il
giro propagandistico di
Maria Elena Boschi
nell’America Meridionale, redarguito dalle opposizioni perché, sotto l’usbergo
di una missione istituzionale, celava la realtà pubblicitaria per il sì. Dopo
di che, si sono risapute le
numerose presenze oltralpe
di esponenti dei due fronti,
per cercar voti fra gli elettori all’estero. In effetti, chi
guarda ai suffragi esprimibili si accorge che raccattare simpatie fuori della penisola potrebbe risultare non
solo produttivo, ma perfino
determinante, se, come non
pochi osservatori sostengono, i due schieramenti saranno infine divisi da una
piccola percentuale.
Ammettiamo che
di quattro potenziali milioni di elettori
vada stavolta a votare un milione, e
si rispettino le percentuali precedenti.
Potrebbero essere
600mila sì, 300mila
no (i rimanenti
100mila sarebbero
bianche e nulle).
Non c’è naturalmente alcuna pretesa scientifica in
questi numeri, però
è innegabile che i
comitati delle due
parti si siano posti
il problema di chiamare alle urne centinaia di migliaia di
connazionali oltreconfine.
Tradizionalmente i
partiti sono poco presenti
e scarsamente incisivi con
le proprie (scarse) strutture estere. Sovente più che
vere sezioni efficienti sono
sigle o indirizzi di sostenitori, anche perché la politica
non è più tenuta in piedi da
Vignetta di Claudio Cadei
ideologizzati contrapposti
com’era nella prima repubblica. A influire veramente,
con opportuna propaganda, sono le associazioni di
italiani all’estero (specie
nell’America Latina) e i
patronati.
Non l’aveva capito il padre politico del voto este-
ro, Mirko Tremaglia: era
convinto che i connazionali
all’estero avrebbero votato
per lui, che aveva procurato loro l’effettivo diritto di
voto, mentre preferirono votare per chi era loro indicato
da coloro che li aiutavano a
procurarsi la pensione, cioè
i funzionari dei patronati.
La sua testardaggine
nel volere «liste Tremaglia» all’estero causò
un’emorragia di seggi
nel 2006, quelle dopo le
quali il governo Prodi II
sopravvisse grazie spesso al sostegno del senador sudamericano Luigi
Pallaro.
Si sono sempre sprecati gli episodi di irregolarità, brogli, errori nel
voto all’estero, espresso
per corrispondenza.
Che qualcosa o molto
non funzioni si è visto
dalle elevate percentuali di schede nulle anche
nei referendum, ove
l’espressione del voto è
molto facile.
In ogni caso gli attuali
missionari all’estero, per il
sì o per il no, dichiareranno
tutti di essere impegnati in
giri di propaganda per far
conoscere le proprie ragioni: non certo per cumulare
pacchi di schede elettorali
da compilare e spedire.
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SEGUE DALLA PRIMA PAGINA - PIERLUIGI MAGNASCHI
potenza occupante della Germania,
quel ruolo, dicevo, è cessato con il
crollo del Muro di Berlino e quindi
con la ritrovata gestibilità della Germania che, da allora, non ha cessato
di crescere nel controllo della Ue fino
ad arrivare all’egemonia attuale.
Maria Elena Boschi
Vediamo qualche cifra. L’ultimo referendum, sulle trivellazioni, è
dell’aprile scorso. Su poco
meno di quattro milioni
di votanti fuori d’Italia, si
espressero quasi 800mila,
insomma uno su cinque.
Rilevante fu la percentuale
di nulle e bianche (quasi il
10% di chi votò).
Risultati: 511mila sì,
187mila no. Nel 2011 (servizi pubblici, acqua e altro),
su 3.300.000 elettori esteri
votarono circa 761mila. Anche in questi casi nulle e
bianche superarono il 10%
dei votanti. Esito, sull’energia nucleare: 463mila per
l’abrogazione, 227mila contro. Se risaliamo ai referendum sul sistema elettorale
nel 2009, vediamo che pure
allora votò uno su cinque
iscritti, con oltre il 10% di
nulle e bianche sui votanti
e con esiti favorevoli al sì
per il 70%.
C’è, quindi, una sorta di
tradizione largamente favorevole al sì estero nei referendum. La partecipazione
è, come logico, più marcata
nel caso di politiche: all’ultimo appuntamento, 2013,
votò mediamente, fra Camera e Senato, il 32%.
Ragioniamo a spanne.
Ciò nonostante, la Francia resta
una nazione cruciale di cui non ci
si può disinteressare, soprattutto
adesso, visto che l’anno prossimo, e
precisamente il 23 aprile prossimo,
dovrà eleggere il suo presidente della Repubblica che non ha i poteri di
quello italiano ma che, per semplificare ma restando anche aderenti ai
fatti, raggruppa, nella stessa persona, i poteri del presidente della
repubblica e del primo ministro italiani. Quindi svolge un ruolo strategico di propulsione e stimolo politico
dell’intero paese.
Il presidente attuale della Francia, François Hollande, arriva
alla fine del suo quinquennato in
condizioni politicamente ed esistenzialmente penose. Hollande è così
messo male che, non solo gode la
fiducia di solo il 14% dei francesi
(mai un presidente francese era
arrivato, alla fine del suo primo settennato, con uno score così deludente) ma ha anche perso addirittura la
fiducia del suo partito, il Pse (il partito socialista francese, appunto). Tant’è
che oggi nessuno, nel Pse, è disposto
a lanciare e a sostenere la sua candidatura. Anche se non è mai successo,
nella storia politica della Francia, che
un presidente uscente non venga
ricandidato, questo volta, può capitare un evento di questo tipo. Ad ogni
modo, è sin d’ora già tassativamente
escluso da tutti che Hollande, presentandosi, possa essere rieletto.
Hollande quindi ha, davanti a
sé, il rischio di tre umiliazioni,
una più terribile dell’altra e nessuna
delle quali esclude l’altra. Egli,
infatti, se non rinuncia puramente
e semplicemente (prima umiliazione) a presentarsi alle primarie del
Pse, egli, presentandosi, rischia di
essere sconfitto (seconda umiliazione) a favore di altri candidati socialisti, anch’essi fiacchi, ma meno di
lui. Nel caso poi, che, per miracolo
(inteso come assenza di alternative
credibili), Hollande riuscisse a vincere le primarie del suo partito e si
presentasse quindi alle elezioni presidenziali, tutti prevedono (terza
umiliazione) che in questa ultima
competizione finirebbe completamente nella polvere, in terza o addirittura quarta posizione.
Il partito socialista francese,
davanti a queste deludenti prospettive, potrebbe essere indotto a
tentare un naufragio pilotato, mettendo cioè in acqua le candidature
di Manuel Valls (attuale primo ministro), oppure di Ségolène Royal
(ministro e moglie divorziata di Hollande; sarebbe, questa, la quarta
umiliazione per il presidente della
repubblica in carica).
Chi, fra questi ultimi due, volesse
accettare la candidatura, reciterebbe comunque l’inevitabile ruolo
dello sconfitto, riservandosi di giocare
la partita (se ce la farà) alla fine del
prossimo quinquennato. La loro (qualunque sia il candidato alternativo;
ma anche Hollande, se insistesse nel
farsi sfracellare) sarebbe quindi una
candidatura di semplice testimonianza, a favore di un partito che si sta
sciogliendo nel nulla. Infatti il candidato socialista, dopo essere finito in
terza o quarta posizione nelle elezioni
presidenziali, non avrebbe altra alternativa che quella di invitare nel
secondo turno, il suo elettorato, a
votare a favore del centrodestra di
Sarkozy (o di chi dovesse vincere la
candidatura) per evitare che l’estrema destra di Marine Le Pen possa
prendere il sopravvento al palazzo
dell’Eliseo. Che sarebbe, anche psicologicamente, per la sinistra e, in
genere, per l’establishment francese,
una catastrofe.
La crisi del Ps non è certo dovuta solo alla deludente figura politica di Hollande ma viene da lontano. Il partito (che era stato portato
alla sommità da François Mitterrand) ha successivamente percorso
una fase ininterrottamente discendente. Oggi, in Francia, più che il
solo Hollande (anche se ci ha messo
molto di suo) è in crisi l’ideale socialista stesso, come dimostra anche la
crisi gravissima che ha investito un
settimanale un tempo glorioso come
il Nouvel Obs di Jean Daniel che,
pur non essendo di proprietà del Ps,
ha sempre incarnato, e al massimo
livello culturale, in quest’ultimo
mezzo secolo, gli ideali socialisti e
che poche settimane fa, dopo averne
licenziati altri, ha dovuto lasciare a
casa, in un sol colpo, ben 42 suoi
giornalisti, condannandosi così a
una fine inevitabile. Ormai non più
constatabile da nessuno.
Pierluigi Magnaschi
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