Il Foglio - 20 Ottobre 2016

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Transcript Il Foglio - 20 Ottobre 2016

IL FOGLIO
Redazione e Amministrazione: Via Vittor Pisani 19 – 20124 Milano. Tel 06 589090.1
ANNO XXI NUMERO 248
quotidiano
Sped. in Abb. Postale - DL 353/2003 Conv. L.46/2004 Art. 1, c. 1, DBC MILANO
GIOVEDÌ 20 OTTOBRE 2016 - € 1,80
DIRETTORE CLAUDIO CERASA
I due piani dello Stato islamico a Mosul, tra armi chimiche e la strategia “underground”, già vincente in passato
Erbil, dal nostro inviato. Se Mosul è la capitale di fatto dello Stato islamico, Erbil in questo momento è l’anti capitale, il centro degli
sforzi nemici, un bar di “Guerre Stellari” in versione curdo-araba
dove il prezzo di una camera di hotel è salito da 30 a 50 dollari nel
DI
DANIELE RAINERI
giro di tre notti causa arrivo dei media internazionali e dove persino i comandanti delle milizie sciite – detestatissimi dai curdi – hanno diritto di ospitalità e ricevono ospiti nelle hall piene di fiori. Qadimun ya Nineveh, “stiamo arrivando Ninive” (Ninive è la regione
di Mosul), è il motto della campagna per sradicare lo Stato islamico
da Mosul, e sotto questo motto gli iracheni – che a fine aprile si sono
sparati addosso, milizie sciite contro curdi, pure con qualche morto,
a un’ora di auto da qui – fanno sfoggio, per ora, di fraternità in chia-
Idee buone per un talk-show
ve anti Isis. Filoiraniani, filoamericani, nazionalisti, separatisti curdi: ormai l’operazione è cominciata, vige una sospensione dell’inimicizia e conta l’efficienza contro il nemico. Lo Stato islamico ha in serbo due piani per reagire all’assalto contro Mosul. A breve termine, dicono ufficiali americani alla Reuters, potrebbe usare armi chimiche.
E’ un’opzione di cui si parla da tempo: il gruppo ha già usato armi chimiche in poche, sporadiche occasioni nei mesi passati. Non è il sarin usato con effetti letali dall’esercito siriano alla periferia di Damasco nel 2013, ma è il cosiddetto “gas mostarda”, un agente vescicante molto meno pericoloso e assai più maneggiabile e stabile del
sarin – che è impossibile da conservare. Lo Stato islamico ha sparato un colpo di mortaio caricato con il gas mostarda nell’agosto 2015
contro i ribelli siriani nella regione di Aleppo e ha sparato razzi con
la stessa sostanza contro i curdi che difendono Sinjar, nel nord del-
l’Iraq. E’ possibile che conservi il grosso delle scorte come minaccia
contro l’approssimarsi dei nemici. Non si è capito bene dove lo abbia preso, ma le armi chimiche erano l’atomica povera del partito
Baath e sia Saddam Hussein in Iraq sia Bashar el Assad in Siria ne
conservavano scorte in depositi militari che poi sono stati razziati.
Il secondo piano dello Stato islamico è a lungo termine. Andare
“underground”, tramutarsi di nuovo in quell’entità sfuggente a metà
tra l’infestazione mafiosa e il gruppo militare che controllava di fatto Mosul anche prima di conquistarla nel giugno 2014. Questa battaglia per riprendere la città non è che la replica di una battaglia vittoriosa per cacciare lo Stato islamico da Mosul del 2008, perché il
loro network è così forte in quella zona che la città è diventata la piattaforma da cui il gruppo estremista risorge dopo un periodo di crisi. Fu così anche nel 2010, quando lo Stato islamico era quasi al col-
lasso. Sarebbe stato il momento per dare il colpo di grazia, dice Michael Knights, un analista americano specializzato in Iraq e molto attento, ma non si fece nulla e 30 mesi dopo il gruppo era di nuovo fortissimo. Tanto che quando nel marzo 2014 il Foglio fece domanda per
andare a visitare Mosul e raccontare se la zona era riuscita a vincere lo strapotere dei baghdadisti si sentì rispondere: “Assolutamente impossibile lavorare in città. E’ una no-go area, le forze di sicurezza sono presenti ma le strade sono fuori dal loro controllo”. Lo
Stato islamico uccideva in pieno giorno i vigili urbani agli incroci e
i soldati ai checkpoint, arruolava informatori, cavava una tassa da imprese e negozianti. Tre mesi dopo i suoi uomini presero la città. Questa seconda battaglia per Mosul dovrebbe avere l’obiettivo di impedire la sopravvivenza anche underground dello Stato islamico, ma
del futuro oltre le poche settimane nessuno parla.
IL SILENZIO ITALIANO SULLA SHOAH CULTURALE
Il dibattito oltre il dibattito
Bersani & Co. riciclano
Trump e Hillary sono i
la solfa del precariato L’astensione dell’Italia all’Unesco su Israele è l’ultimo atto di una sospetta e pericolosa sottomissione paradossi della libertà,
diffuso, con slogan cool eri pomeriggio lo abbiamo fatto: siamo an- e Lia Quartapelle, si sono avvicinati a noi e personalmente e attraverso la sua maggio- per non prendere definitivamente posizione dice al Foglio Hauerwas
“La Repubblica dei voucher” si porta
molto per smontare il Jobs Act, ma
è l’ennesimo allarmismo infondato
“Mantenuti tutti e subito!”
Roma. “Non si può andare avanti sempre a voucher… Io li abolirei”. Eccolo qua
Pier Luigi Bersani, rinsaldare il fronte con
Susanna Camusso e Beppe Grillo (mancano ancora Salvini & Meloni, ma non disperiamo), fronte che coincide con quello del
No al referendum. Il tutto nella solita lettura un po’ partigiana dei dati sul lavoro
diffusi dall’Inps. Dai quali risulta che le
nuove assunzioni tra gennaio e agosto 2016
sono state 3,78 milioni, a fronte dei 4,13 degli stessi mesi 2015 e dei 3,73 del 2014.
Quelle a tempo indeterminato, con Jobs Act e incentivi, 805 mila nel 2016, 1,19
milioni nel 2015, 866 mila
nel 2014. Quanto alla stabilizzazione dei contratti a
termine in fissi, nei primi
nove mesi dell’anno riguarda oltre 254 mila casi,
meno che nel 2015, ma pur
sempre con un segno posi- P. L. BERSANI
tivo. Ovvio che la disoccupazione resta alta, 11,4 per cento ad agosto,
specchio di una crescita che tutti, governo
in testa (figuriamoci le imprese) giudicano
insoddisfacente; nonché dalla riduzione
degli sgravi fiscali e contributivi, passati
da 24 a 9 mila euro. Questo in attesa di altri dati a cominciare dall’Inps. Dov’è allora l’allarme, se non appunto nel fatto che
la disoccupazione scende lentamente, e
però le assunzioni aumentano se pure a
ritmo meno intenso? In due dettagli: crescono i licenziamenti per giusta causa previsti dal Jobs Act, a 46 mila, e su questo titoloni. Ma quanto incidono? Sulle nuove
assunzioni a tempo indeterminato previste
dalla riforma, si tratta del 5,7 per cento. Ricordate l’allarme di due anni fa, quando la
Cgil profetizzava che con il ridursi dei contributi avremmo avuto più licenziamenti
che assunzioni e le aziende si sarebbero
messe i soldi in tasca? Bene. Non è avvenuto, e di molto. (Rosati segue a pagina quattro)
Austerità sinistra
Doveva “voltare pagina”, ma
il portoghese Costa si converte
al rigore. Proprio come Tsipras
Roma. Solo un anno fa sembrava che il
Portogallo avesse deciso di abbandonare
l’austerity, superare i vincoli di bilancio
e abbattere i paletti di Bruxelles. Nonostante fosse arrivato alle elezioni dietro
al premier conservatore uscente Pedro
Passos Coelho, il socialista António Costa
era riuscito faticosamente a formare un
governo di minoranza con l’appoggio di
due blocchi di estrema sinistra proprio
per “voltare pagina con l’austerità”: riduzione degli orari di lavoro, aumento di salari e pensioni, cancellazione dei tagli alla spesa pubblica, rilancio degli investimenti pubblici e manovre espansive. Per
un po’ il governo socialista ha deviato dal
percorso tracciato da Bruxelles, ma dopo
che la Commissione ha aperto una procedura per disavanzo eccessivo e i mercati
sono entrati in fibrillazione, il Portogallo è tornato sui binari della disciplina fiscale. Insomma, con la legge di Bilancio
per il 2017, il governo social-comunista di
Costa ha voltato di nuovo pagina per tornare a leggere il libro dell’austerity: il
piano prevede un deficit all’1,6 per cento
del pil per il 2017, quasi un punto in meno del 2,4 per cento previsto per quest’anno e in forte calo rispetto al 4,4 per cento
del 2015. Anche il debito pubblico che
sfiora il 130 per cento del pil è dato in discesa di un punto. Prosegue il percorso di
aggiustamento fiscale impostato dalla
Troika con il piano di assistenza da 80 miliardi, chiuso nel 2014 con il governo di
centrodestra: Lisbona si tiene sotto il tetto del 3 per cento di deficit e si avvia verso il pareggio di bilancio. E’ lo stesso film
visto ad Atene dove anche Alexis Tsipras,
dopo aver promesso di voltare pagina, sta
ripetendo la lezione dell’austerity da studente modello. (Capone segue a pagina quattro)
I
dati in piazza, di fronte alla sede dell’Unesco, a Roma, per trasformare il muro dell’Unesco in un Muro del Pianto, per fare un po’
di chiasso pacifico contro la decisione folle
dell’organizzazione delle Nazioni Unite di
cancellare con una mozione e con un tratto
di penna la vita millenaria della Gerusalemme ebraica e lo abbiamo fatto con centinaia
di lettori e amici appassionati che con noi
hanno deciso di rompere il muro dell’indifferenza inviando un messaggio chiaro: la negazione della storia di Israele coincide con
la negazione della legittimità dell’esistenza
di Israele, e tutto questo altro non è che una
forma di Shoah culturale, di rimozione della memoria. In questa ennesima storia di
violenza inaudita che riguarda il popolo
ebraico, e non solo, c’è una storia nella storia che è quella dell’Italia. La questione la
conoscete: la mozione maledetta che è stata
votata all’Unesco e con la quale è stato negato ogni rapporto fra l’ebraismo e il Monte
del Tempio e il Muro del Pianto, il primo
luogo santo degli ebrei, che da qualche giorno non va più chiamato con l’ebraico “Kotel” ma con l’arabo “al Buraq”, ha ricevuto
pochi voti contrari e tra questi non c’è stato
il voto dell’Italia, che ha scelto di astenersi.
Al termine della giornata di ieri, quando la
nostra manifestazione si è spostata dalla sede dell’Unesco a Palazzo Chigi, due deputati del Partito democratico, Emanuele Fiano
ci hanno detto di essere in difficoltà: nessuno sa spiegare perché il governo ha dato
mandato al suo ambasciatore all’Unesco di
astenersi e non, come hanno fatto Germania,
Olanda, Stati Uniti e Gran Bretagna, di votare contro una risoluzione scellerata. La storia nella storia non riguarda però soltanto la vicenda
dell’Unesco ma
riguarda un rapporto più generale che il governo
italiano ha scelto
di avere con alcuni paesi arabi. La
mozione contro
Israele è stata depositata dal regime islamico del Sudan, il cui presidente Bashir è ricercato all’Aia, ed è stata sostenuta da alcuni paesi islamici (Algeria, Egitto, Marocco,
Oman, Qatar) di fronte ai quali evidentemente il nostro governo ha scelto di non volersi schierare contro. Ci possono essere
mille motivazioni politiche e geopolitiche
che suggeriscono a un governo di non inimicarsi, diciamo così, i paesi islamici ma negli
ultimi due anni ci sono stati alcuni fatti eclatanti, gravi, di fronte ai quali il presidente
del Consiglio ha sempre scelto di glissare,
ranza. Non si può dire, perché non è così,
che Renzi non sia amico di Israele, anzi. Si
può dire però che alcuni episodi fanno dubitare di una capacità italiana: non essere
sottomessi all’islamicamente corretto. Episodio
numero
uno, ottobre 2015,
un anno fa: a Palazzo Vecchio, a
Firenze un nudo
dell’artista Jeff
Koons venne coperto con un paravento per non
urtare la sensibilità dello sceicco
Mohammed bin
Zayed al Nahyan.
Episodio numero
due, gennaio 2016: il governo riceve il presidente iraniano Rohani e per non urtare la
sensibilità dell’ospite sceglie di utilizzare
pannelli bianchi per coprire i nudi di marmo durante la visita a Roma del presidente,
che non a caso subito dopo la visita ha ringraziato di cuore il presidente del Consiglio
per il grande senso di ospitalità mostrato
dall’Italia. Episodio numero tre: la scelta, rispetto al riconoscimento della Palestina, di
non seguire la linea di Inghilterra e Olanda,
che hanno votato contro il riconoscimento,
ma di approvare due mozioni pasticciate
e dire sì ma anche nì. A tutto questo va poi
aggiunto qualche dettaglio che non è soltanto un dettaglio. La scelta del ministro qatariota Hamad bin Abdulaziz al Kawari di
aprire proprio in Italia la sua campagna per
l’elezione a direttore generale dell’organizzazione Onu per la cultura. La decisione o
forse solo la tentazione di lavorare per un
massiccio ingresso di fondi di investimento
del Qatar – i cui rapporti con l’estremismo
islamico sono più che ambigui, per usare un
eufemismo – all’interno del capitale del
Monte dei Paschi di Siena. La scelta dello
stesso Rohani di puntare sull’Italia come
primo paese europeo da visitare da presidente della Repubblica islamica. Sono tutti
episodi diversi, molti dei quali legati alla
realpolitik, ma sono tutti episodi in cui il governo non fa altro che alimentare la sua ambiguità culturale: come si può, a parole, stare dalla parte di Israele, fare buoni discorsi alla Knesset, dirsi amico del popolo ebraico e poi coltivare ambiguità tipiche da sottomissione con tutti coloro che sognano la cancellazione della memoria, passata e futura,
del popolo ebraico? L’astensione dell’Italia
all’Unesco non è solo un semplice incidente ma è la spia di un problema più grande
che riguarda l’identità di un paese, e
che riguarda un tema che chi ha a cuore le sorti d’Israele non può che augurarsi che sia risolto in fretta. Grazie.
Il voto all’Unesco è parte di uno tsunami contro Israele che arriva dall’Europa
Roma. Nel 2010, il Reut Institute di Tel
Aviv pubblicò un rapporto che recitava:
“Israele andrà incontro a un’ondata di
delegittimazione globale”. Sei anni dopo,
DI
GIULIO MEOTTI
l’ondata è diventato uno tsunami. E per
fermarlo, Israele non può schierare la
fanteria, i checkpoint, gli F-35, le batterie antimissile. E’ una specie di ipnosi:
cancellare Israele, costi quel che costi.
Non solo col sangue, ma anche con l’inchiostro. E’ questo il significato della risoluzione dell’Unesco, con sede a Parigi,
che ha reso “Jüdenrein” (libera da ebrei)
Gerusalemme. Lo vedi, per citare una serie di episodi nell’ultimo anno, quando
l’Unione europea toglie Hamas dalla “lista nera” dei terroristi. Lo vedi quando
alla Knesset il governo israeliano presenta la lista dei paesi nemici e, oltre all’Iran, scopri che è entrata in lista anche la
Svezia. Lo vedi quando il Consiglio dei diritti umani di Ginevra fa un’altra “lista
nera” con le aziende che fanno affari nei
Territori amministrati da Israele. Lo vedi
quando Daniel Goldhagen, nel libro “The
devil that never dies”, annuncia che “oggi duecento milioni di europei vedono
Israele come simil nazista”. Lo vedi
quando Leila Zerrougui, commissaria
Onu per i bambini nei conflitti armati, in-
clude Israele in una lista assieme a Isis,
Boko Haram e talebani. Lo vedi quando il
Consiglio di sicurezza dell’Onu quest’anno condanna gli attentati in Francia, Sinai, Libano, Mali, Tunisia,
Turchia, Iraq, Siria, Nigeria, Burkina Faso, Somalia e Sudan, ma mai in
Israele. Lo vedi
quando, da Napoli a Palermo
alla banlieue parigina, i sindaci
di tante città danno la cittadinanza
onoraria
a
Marwan Barghouti, stragista e stratega dell’Intifada
(no, non ci sono
strade intitolate a
Totò Riina o ai fratelli Abdeslam a
Gerusalemme). Lo
vedi dal fiume di denaro che le ong ricevono dai paesi europei
per far confessare a
Israele i suoi “crimini di guerra” (hanno
testimoniato questa settimana al Consiglio di sicurezza dell’Onu). Lo vedi quan-
do politici israeliani, come Tzipi Livni,
non possono mettere piede a Londra senza il timore di essere arrestati (è successo a luglio, quando Livni è stata “convocata” dalla magistratura inglese). Lo vedi dal numero di docenti in Europa che aderiscono al boicottaggio dei colleghi
israeliani. Lo vedi
quando i musei in Danimarca e in Francia
allestiscono mostre
sui “martiri” palestinesi. Lo vedi quando i titoli di giornale di tutto il mondo,
dal New York Times alla Cnn, nascondono i coltelli della Terza Intifada. Lo vedi
quando il Journal
du
Dimanche
pubblica un sondaggio da cui
emerge che il sessanta per cento dei
francesi
addossa
agli ebrei parte della responsabilità per l’antisemitismo. Lo vedi
quando Abu Mazen parla al Parlamento
europeo, dichiara che Israele avvelena i
pozzi palestinesi e raccoglie una standing
ovation. Lo vedi quando i fondi pensioni
in Norvegia escono dal mercato israeliano per ragioni “etiche”. Lo vedi quando
le chiese di Londra riproducono il checkpoint di Betlemme ai piedi dei loro altari. Lo vedi quando le donne israeliane sono uccise nelle loro case e il presidente
Hollande si rifiuta di inserirle nell’elenco delle vittime globali del terrorismo. Lo
vedi quando un giudice in Austria stabilisce che gridare “morte agli ebrei” è un
legittimo slogan politico. Lo vedi quando
un ministro olandese dell’Economia suggerisce di spostare lo stato ebraico in Galizia. Lo vedi quando Israele scompare
dai libri di testo della Harper Collins. Lo
vedi quando il laburista Jeremy Corbyn
sostiene che “i nostri amici ebrei non sono responsabili delle azioni di Israele come i nostri amici musulmani per l’Isis”.
Lo vedi quando il quotidiano più venduto in Svezia accusa i soldati israeliani di
prelevare organi ai palestinesi. Contro
Israele non occorre portare accuse fondate, basta attribuirgli, ricorrendo alla
superstizione, di essere la fonte di ogni
male, un anacronismo storico, e non la
patria dell’umanità. E’ così che Israele,
per usare le parole del regista danese
Lars von Trier, è diventato “il dito nel culo del mondo”.
La risoluzione ricorda a Israele il suo rischio esistenziale (e geopolitico)
Roma. Ieri il quotidiano della sinistra
israeliana, Haaretz, ha pubblicato un intervento di Michael Laitman, professore di
Ontologia e uno dei più noti cabalisti del
DI MARCO VALERIO LO PRETE
pianeta, così intitolato: “La decisione dell’Unesco, cioè l’inizio della fine dello stato di Israele”. La decisione dell’organizzazione delle Nazioni Unite di riconoscere il
Monte del Tempio, a Gerusalemme, come
luogo di culto esclusivo dell’islam, non
avrà effetti pratici nel breve termine, scrive Laitman, ma “la negazione della connessione tra l’ebraismo e il Monte del Tempio, incluso il Muro occidentale (o Muro
del Pianto, ndr), indica che il mondo ritiene che noi non apparteniamo a questa terra. L’implementazione pratica di questo
punto di vista non è troppo di là da venire”. Uno scenario angoscioso e apparentemente estremo, visto che Israele oggi è all’apice del suo riconoscimento internazionale come potenza militare e con un’economia vitale. Tuttavia uno scenario giudicato non irrilevante nemmeno da laicissimi analisti delle cose geopolitiche. Su questa linea, per esempio, si attesta un saggio
appena pubblicato da George Friedman –
fondatore del pensatoio Geopolitical Futures e presidente fino al 2015 di Stratfor,
una delle più note società private di analisi d’intelligence – che prende le mosse
proprio dal voto dell’Unesco.
Friedman inizia spiegando perché oggi
lo stato ebraico non è al centro dell’attenzione nell’area mediorientale. Perché
“Israele è la prima potenza militare nella
regione” e perché “sempre nella regione
sono in corso intensi conflitti bellici di altro tipo”, ergo “perfino i paesi islamici
hanno molte più cose di cui preoccuparsi
che non di Israele”. Se “la posizione strategica di Gerusalemme non è mai stata così solida”, ciò si deve nello specifico al
trattato di pace con l’Egitto (la cui leadership comunque è impegnata di suo nella
lotta all’islamismo politico), alla relativa
debolezza della Giordania la cui sicurezza
dipende anche dal ruolo “cuscinetto” di
Israele, al fatto che la Siria è impegnata in
una guerra civile che dura da anni e infine si deve alla relativa stabilità del Libano all’interno del quale Hezbollah è presa piuttosto dal suo sostegno militare ad
Assad. Questo almeno per ciò che riguarda i paesi confinanti. Quanto alle altre tre
potenze regionali, Arabia Saudita, Turchia e Iran, “l’ideale strategico per Israele è che una di loro si assuma la responsabilità non solo per la Siria, ma anche
per quanto accade in Iraq ed Egitto. O che
gli Stati Uniti facciano la stessa cosa”. Se
ciascuna delle tre potenze regionali al momento ha le proprie difficoltà interne (anche se Riad è la candidata più papabile
per un’intesa), gli Stati Uniti da anni hanno scelto la strada del “leading from
behind”, cioè del relativo disimpegno. Come aggiunge Laitman su Haaretz, “se la
Clinton fosse eletta accelererebbe questo
processo di disimpegno di Washington con
Israele che Obama ha avviato. Se Trump
fosse eletto, accadrebbe lo stesso, seppure
a una velocità inferiore”.
“Israele dunque è impegnato in un complesso gioco di diplomazia regionale, dove
nessuno è davvero certo della propria posizione, figurarsi di quella altrui – scrive
Friedman – Israele sta sfruttando tale gioco diplomatico per tenere a distanza di sicurezza i pericoli regionali. E’ un gioco puramente tattico, ma a volte l’unica strategia
è la tattica”. Il problema è che “prima o poi
lo stato ebraico tornerà al centro dell’atten-
Uno riflette a mente
fredda sull’Unesco e
non può non pensare a
quanti tormenti ci saremmo evitati, se l’Amor nostro avesse confessato da subito che Ruby era la nipote di Netanyahu.
Questo numero è stato chiuso in redazione alle 20.30
zione”. Ecco perché la spia del voto dell’Unesco diventa allarmante. Ormai da decenni Gerusalemme è tutt’altro che popolare
nelle Nazioni Unite, ma il fatto che così
tanti paesi abbiano scelto di votare una mozione contro lo stato ebraico, o al massimo
di astenersi, dimostra “fino a che punto
Israele sia diventato impopolare”. A impressionare Friedman, in particolare, è la
scelta del governo francese che prima ha
addirittura sostenuto la mozione, salvo poi
limitarsi all’astensione. Non solo: anche
nei sei paesi che hanno votato contro la mozione, basterebbero lievi cambiamenti politici per dare lo sfogo a “un sentimento anti israeliano che ha raggiunto livelli straordinari”, vedi per esempio in Olanda o nel
Regno Unito. Se la situazione in medio
oriente si dovesse deteriorare, “Israele
avrà bisogno di aiuto e questo aiuto dipenderà dal mood politico dei possibili alleati”. Se per la maggior parte degli stati del
mondo non esiste “un pericolo esistenziale”, di vita o di morte, per Israele invece tale pericolo esiste, conclude Friedman. L’attuale posizione di forza di Gerusalemme
può essere garantita in futuro soltanto da
“una strategia perfetta, che è per definizione improbabile da attuare”, il tutto per di
più con gli Stati Uniti in ritirata dal medio
oriente e l’Europa venata di antisemitismo.
Per questa ragione la risoluzione dell’Unesco non va sottovalutata.
Il teologo spiega l’alienazione identitaria
che sta dietro allo spettacolo elettorale.
Il ruolo “terapeutico” di Donald
Un’identità senza storia
New York. Come tutti quelli che hanno
contemplato il progetto americano fin nei
suoi abissi esistenziali, Stanley Hauerwas
non è particolarmente sorpreso dalla degenerazione del dibattito politico in corso.
Il grande teologo americano è preoccupato dall’ascesa di Donald Trump e disgustato dal divario che si è creato fra l’élite liberal e il popolo sofferente, ma non è stupito: “Sono le conseguenze inevitabili di
una società costruita su un’idea angusta di
libertà, dove il denaro tende a coincidere
con la virtù e le identità,
che cementano il senso di
appartenenza e formano le
comunità, non si tramandano di generazione in generazione. Che tutto questo abbia generato un popolo di alienati non è così
strano”, dice Hauerwas al
Foglio dal suo ufficio della
Duke University, dove inLIBERTÀ
segna da una vita.
Hauerwas è un rappresentante della cosiddetta “sinistra evangelica”, ma lui preferisce collocarsi, all’interno dell’ampio
spettro cristiano, nella “sponda cattolica
del protestantesimo”. Significa non credere che la storia cristiana sia iniziata con
la riforma.
Scrittore prolifico e mente poliedrica,
Hauerwas è stato acclamato dal Time nel
2001 come “miglior teologo americano” e
la sua capacità di misurarsi con diversi
registri e linguaggi gli permette di essere
a suo agio tanto nei consessi eruditi della teologia quanto nel salotto di Oprah.
L’intellettuale si è occupato pressoché di
qualunque ambito della teologia, concentrandosi in particolare sul rapporto fra
cristianesimo e politica, e ricavandone l’idea controintuitiva che l’America, a dispetto delle sue origini puritane e del
sentimento religioso apertamente esibito
in ogni contesto, non è nella sua essenza
un paese cristiano. Al contrario, è “il progetto della modernità”, l’innalzamento
dell’uomo su pilastri puramente umani.
Cosa c’entra tutto questo con Trump e Hillary? Moltissimo: le origini dell’alienazione del popolo americano, che favorisce il
successo dei candidati più odiati di sempre, vanno ricercate, secondo Hauerwas,
in una versione moderna e ultrasecolarizzata della libertà, dove questa tende a
coincidere con la pura capacità di sce(Ferraresi segue a pagina quattro)
gliere.
Bartleby al referendum
A
pprofitto della prosa eccellente di Salvatore Merlo – che ieri ha smascherato “il rifugio e la
trappola” nascosti nella “irresisti-
CONTRO MASTRO CILIEGIA - DI MAURIZIO CRIPPA
bile purezza del no” – e della sua intelligenza indolente e acuta, per provare a calarmi, per qualche riga, nelle ragioni cocciute e metafisiche dello scrivano Bartleby, che preferisce di no. Non c’è dubbio che la negazione sia la preferenza dei
professori da tribuna e dei pifferai da salotto, quelli che con estenuato sforzo
càmpano la vita preferendo il cachemire
e le giacche morbide alle maniche rimboccate di chi prende il cambiamento come una missione. E’ ben vero che Croce
preferì lottare, e ieri sicuramente avrebbe appiccicato il suo post-it al muro dell’Unesco. Però alle leggi razziali disse no.
(Potremo ancora essere cristiani senza
dirci crociani, o no?). Che votare no faccia fino l’ha detto Confalonieri, dunque è
per forza vero. Ma trovarsi in compagnia
di Pomicino vale, sulla bilancia dell’indegnità politica, quanto trovarsi con Matteo
Orfini, l’uomo che consegnò Roma alla
Raggi. O no? C’è chi dice sempre no perché è più semplice, solenne, “autoevidente”. Però hai visto mai che qualcuno, superata la trappola dell’autoevidenza, si
sia preso la briga di leggere l’articolato, e
ne abbia cavato l’impressione di pastrocchio, e richiesto di un sì, il 4 dicembre,
come Bartleby, preferisca di no?
ANNO XXI NUMERO 248 - PAG 2
Millennial
Qual è il fuoco della campagna
elettorale americana? La sensazione
di avere sbagliato occhiali
New York. Per chi segue
la campagna elettorale
americana la sensazione è
di avere sbagliato gli
DI
MATTIA FERRARESI
occhiali. Rendendosi conto che la messa a
fuoco aveva qualche problema, si è scelto
un altro paio di occhiali, salvo notare
l’imperfezione anche di queste nuove
lenti. Così se n’è scelto un altro, e poi un
altro ancora, senza mai trovare il fuoco
giusto per distinguere l’oggetto al centro
della scena. Sembrava a un certo punto
che ogni cosa si giocasse sull’economia
che cresce a un ritmo troppo lento, che
fosse tutta una questione di stagnazione e
depressione. Poi Donald Trump ha preso
a martellare con assiduità sul muro, sui
messicani stupratori, ha toccato i tasti
dell’identità etnica e della xenofobia, ha
agitato la chiusura delle frontiere per i
musulmani e pure Papa Francesco nel
mezzo del Giubileo della misericordia lo
ha censurato. La questione della purezza
identitaria sembrava dominare. Nel
tempo anche questa è passata in
cavalleria, si è approdati all’idea
dell’operaio bianco arrabbiato, il
troglodita “white trash” che con la sua
invincibile ignoranza produce qualche
latrato dopo decenni di apatia. E’ passata
pure quella fase. Il momento più terribile
per Trump, quello che ha dato un colpo —
forse decisivo – ai numeri e alle speranze
del candidato repubblicano è stato un
video dove rivolge inaudite volgarità nei
confronti delle donne. L’elemento
misogino era già sotto la luce dei
riflettori, ma non appariva come il centro
della corsa elettorale, non era su quello
che l’avversario aveva scommesso tutto il
suo bottino. Per paradosso, Trump ha
reintrodotto nel plot l’elemento
femminile che Hillary Clinton non aveva
saputo sfruttare. Ora sembra un ricordo
lontanissimo e forse addirittura un sogno,
ma c’è stato un tempo in cui si pensava
che Hillary avrebbe vinto innanzitutto
grazie al suo essere donna. Questo, si
diceva, avrebbe naturalmente suscitato
innanzitutto le elettrici, e in seconda
battuta i giovani, ansiosi di dare il loro
contributo a questo passaggio storico, in
grandiosa continuità con l’epica del
primo presidente afroamericano. Anche
questa linea narrativa è scomparsa, un
altro paio di occhiali da buttare, finché
grazie all’esagerazione imperdonabile di
Trump la condizione femminile è tornata
al centro. Si è anche pensato a lungo che i
millennial, il gruppo elettorale più
numeroso, sarebbero stati gli obiettivi
primari della campagna, ma alla fine
nessuno tranne Bernie Sanders ha deciso
di farne davvero un target. Ora
preferiscono Hillary a Trump con un
rapporto di tre a uno, ma tutti i sondaggi
manifestano la profonda disaffezione che
provano per questa politica. Così alla fine
non abbiamo capito molto nemmeno di
questa fetta demografica, che pure
secondo la sondaggista millennial per
eccellenza, Kristen Soltis Anderson,
doveva essere l’unica costante dei
candidati in questa tornata. Ma l’unica
costante è stata la difficoltà quasi
disperata nell’individuare i problemi.
Qual è il cuore del dibattito? La “issue”
più importante? La faccenda che domina?
L’aspetto che tocca di più la sensibilità
dell’americano contemporaneo? Si
procede incerti con un paio di occhiali
che non mettono a fuoco.
PREGHIERA
di Camillo Langone
Oggi è l’unico autore
che leggo e rileggo anche
quando gli argomenti sono di mio assoluto disinteresse. Perché oggi è lui,
Giampiero Mughini, il miglior fabbro.
Mi interessano i cataloghi delle librerie
antiquarie? Certo che no, odio la polvere. E i volantini originali delle Br? Dio
me ne scampi e liberi. Le litolatte dei
futuristi? D’Annunzio considerava Marinetti un cretino, io ne penso pure peggio. L’ultimo titolo dell’inarrivabile
maestro di stile, “La stanza dei libri”
(Bompiani), è centrato sulla bibliofilia,
tema appena più avvincente della filatelia, mentre l’epilogo, chissà perché, è
dedicato alla ginnastica artistica. Di più
noioso della ginnastica artistica mi risulta esserci solo il salto triplo eppure
ho letto anche il capitolo su Cassina,
campione della sbarra. Un tempo leggevo Brera non per il calcio ma per gustare dialettismi e neologismi, adesso mi
inoltro in Mughini non per il collezionismo librario ma per godere di gustosi
arcaismi, francesismi come il superlativo con doppio articolo (“la vulgata antifascista la più puerile”), locuzioni personalissime, strani passati remoti, ipnotici giri di frase, accezioni incredibili. Si
prenda una qualsiasi pagina di Mughini e la si ficchi nelle antologie per mostrare alle nuove generazioni come l’italiano si possa scaldare, martellare, curvare, e strappare alla ruggine.
IL FOGLIO QUOTIDIANO
GIOVEDÌ 20 OTTOBRE 2016
IL COR TOCIRCUITO MEDIATICO-GIUDIZIARIO RACCONTATO DA NETFLIX
La giustizia italiana fatta a pezzi da un film capolavoro su Amanda Knox
E
il reciproco amore tra i giornalisti e i magistrati diventa un labirinto senza uscita,
una via senza meta, il solito di quasi tutte le
tresche clandestine e adultere, che hanno il
nulla come ultimo scopo: abissi senza sfogo.
“La gente adora i mostri. Quando ne ha la possibilità, vuole vederli”, dice a un certo punto
Amanda Knox, imperscrutabile e inintelligibile, vittima o carnefice, in questo documentario
kolossal americano in onda su Netflix, questo
romanzo sospeso tra Kafka e Dostoevskij, girato con una sapienza narrativa tanto prodigiosa quanto elusiva, un racconto in cui tutto,
dai protagonisti ai comprimari, sembra giocare per rendere ogni parola, e persino la verità
giudiziaria, ammesso che esista, ancora meglio revocabile, ritrattabile, smentibile, a suscitare dunque altri ingarbugliamenti, più fiere sospettosità, vaste nubi di nuovo gas che
quasi offuscano lei, Amanda, lei che dà il titolo a questo film stilisticamente perfetto dei registi Brian McGinn e Rod Blackhurst, girato
lungo cinque anni di lavoro, e che alla fine ha
in realtà per protagonisti la giustizia italiana,
machiavellica e grossolana, e un giornalismo
corrivo alle più ardue dissennatezze della
morbosità, pronto a maneggiare il fango e la
monnezza proveniente dai corridoi delle procure, a distribuirli a piene mani sulle colonne dei quotidiani.
Magistrati e giornalisti, dunque, selvaggiamente avvinghiati come figure del valzer, il
pubblico ministero di Perugia Giuliano Mignini – la probità affettata, le preghiere inginocchiato in chiesa, le citazioni evangeliche,
l’accademismo letterario, e una vena di narcisistico bigottismo – inscalfibile nel perseguire sin dai primi giorni successivi all’omicidio
di Meredith Kercher, la tesi dell’assassina
sessuomane, a suggerirla ai media, sempre
col gelato sorriso di chi ha dalla sua parte una
logica inoppugnabile, se non addirittura la verità. E poi il cronista del Daily Mail, Nick Pisa, capelli al gel, cravattone, abito blu iridato, cui non interessa la complessità, ma il gioco a spese della complessità: si abbeverava di
dettagli morbosetti, e talvolta persino fasulli,
provenienti dagli ambienti giudiziari, tutto
quel genere di informazioni pseudo erotiche,
utili a rafforzare la tesi dell’accusa, che in
quei mesi crescevano, s’ingigantivano, scavalcavano il senso delle proporzioni: “Certo, diverse notizie non si sono rivelate vere”, confessa a un certo punto, “ma siamo giornalisti
e riportiamo quel che ci viene detto. Se avessi perso tempo a verificare avrei dato un vantaggio alla concorrenza”.
BORDIN LINE
di Massimo Bordin
La cronaca delle ultime udienze
del processo “Mafia Capitale” sta
ponendo un problema al Pd in tutte le sue
componenti. Può apparire politicamente discutibile la scelta di avvalersi della facoltà
di non rispondere da parte del presidente
della giunta regionale Nicola Zingaretti, che
ieri era convocato come teste. Dal punto di
vista tecnico Zingaretti non è ancora uscito
formalmente dal processo e, anche se la
procura ha richiesto l’archiviazione della
sua posizione, aveva naturalmente tutto il
diritto di comportarsi come ha fatto. E’ logico però calcolare una probabile ricaduta
negativa sui giornali di oggi dopo due giorni di articoli dedicati alla non certo brillante deposizione della deputata, e componente della segreteria nazionale, Micaela Cam-
Ecco dunque i due “anti eroi” di questo
film, secondo un classico schema da sceneggiatura cinematografica, ecco Pisa e Mignini,
il cronista britannico e il magistrato italiano,
che raccontando l’omicidio e le sue implicazioni, e raccontando diffusamente anche se
stessi (“il mio modello è Sherlock Holmes”, si
abbandona a dire a un certo punto il pm mentre tiene in bocca una pipa spenta), fanno pian
piano emergere uno strapotente cortocircuito,
quell’imprendibile intreccio di vanità, sensazionalismo, pressione pubblica, rapporti contorti tra media e pm, quel velenoso pasticcio
che in Italia ben conosciamo e che il giornalista anglosassone, con singolare compiacimento racconta così: “Il nome in prima pagina su
uno scoop mondiale è come fare sesso”.
pana. E’ paradossale il fatto che anche la on.
Campana aveva la possibilità di non deporre, nel suo caso perché ancora formalmente moglie, sia pure separata, con un altro imputato del processo, Daniele Ozzimo, già
condannato in primo grado col rito abbreviato. Campana invece ha deciso di rispondere, malgrado un tentativo in extremis dell’avvocato Luca Petrucci che però non poteva rappresentare la deputata, convocata come teste e dunque senza diritto a un difensore. Certo i testimoni di un processo, anche
se dirigenti dello stesso partito, non possono concordare una strategia processuale comune. Ma nel Pd non potranno non pensare che se, per autonomo convincimento,
Campana si fosse avvalsa della facoltà di
non rispondere e Zingaretti invece no, probabilmente, almeno dal punto di vista politico, l’immagine sarebbe stata migliore.
E fu lui, infatti, a pubblicare sul tabloid per
il quale allora lavorava il diario intimo che
Amanda aveva scritto in prigione, in uno stato di fragilità e di prostrazione, quando a un
certo punto, al solo scopo di destabilizzarla
psicologicamente e spingerla a confessare, le
fu raccontato dalle autorità italiane – sembra
incredibile – che era ammalata di Aids. Ebbene, in quel diario Amanda si confessava, elencava nel dettaglio tutte le persone con le quali aveva avuto rapporti sessuali nel corso della sua giovane vita, le persone dalle quali
dunque avrebbe potuto aver contratto la malattia. Quell’elenco fu pubblicato dal Daily
Mail, qualcuno lo aveva passato al giornalista
– “Chi mi ha dato il diario che Amanda scrive in carcere? Un giornalista non rivela mai
le propri fonti” – e una volta reso pubblico,
ebbe l’effetto di confermare e rafforzare in
maniera determinante la tesi della procura
(confermata in Appello ma poi smontata in
Cassazione), dunque la tesi di Mignini, che descriveva Amanda come una malata di sesso,
una figura dominante, una mangiatrice di uomini capace di manipolare il suo ragazzo, e
coimputato, Raffele Sollecito.
Scrisse il Guardian dopo l’assoluzione definitiva: “Gli inquirenti si sono resi colpevoli di
grottesca incompetenza, panico da pressione
mediatica e misoginia”. Col risultato che di
tutta la vicenda, alla fine, non si è capito nulla, se non il fatto che, forse, giustizia non è stata fatta. In carcere resta solo Rudy Guede per
“concorso in omicidio”. Concorso con chi? E
anche nel film, Brian McGinn e Rod Blackhurst lasciano che i dubbi, i retropensieri, le favole torbide formino un insieme stordente, capace d’incarnare ogni suppurazione e insensatezza d’una giustizia degradata a spettacolo.
Salvatore Merlo
C A T T I V I D I V E R T E N T I , B U L L I A L L’ O P E R A E C A N I C A R D I O P A T I C I
Magnifiche rapine del dopo pranzo e matrimoni combinati via Skype
HELL OR HIGH WATER di David McKenzie
Pranzo, ricca mancia alla cameriera, e
via a rapinare la banca dirimpetto. Lo fanno due fratelli, un dilettante e un professioFESTA DEL CINEMA DI ROMA 2016
nista, per salvare il ranch di famiglia (la
mamma ha fatto testamento a favore dei nipoti, per dire quanto poco si fida dei rampolli). Dalla parte della legge stanno il quasi pensionato Jeff Bridges e un messicanopellerossa. Magnifico, divertentissimo, volendo anche politico: i cattivi si nascondono dietro gli sportelli delle banche.
MARIA PER ROMA di Karen Di Porto
Piccolo, indipendente, fatto per gli amici. Il titolo lo capiscono solo i romani, noi
ce lo siamo fatti spiegare: vale per “impresa difficile, con un sospetto di inutilità”. La
protagonista – generazione airbnb, gestisce
chiavi e check in per un’agenzia che affitta appartamenti – vede gente e fa cose. Morettianamente, mentre cerca di lavorare come attrice. Con il cane cardiopatico Bea.
Molto più a fuoco della protagonista, che rimane un mistero. O una figurina di carta,
fate voi.
NOCES di Stephan Streker
Pachistani emigrati in Belgio. La figlia
vorrebbe vivere come le ragazze della sua
età. Il fratello sembra civile e complice
(ma ha una sua agenda segreta). La madre
combina matrimoni. I promessi sposi fanno conoscenza via Skype – “dobbiamo
adattarci ai tempi moderni”, sostiene. Il
padre gestisce il negoziato, e non vuol
perdere la faccia: accadrebbe se la figlia
rifiutasse il matrimonio. Il lieto fine è
escluso.
SING STREET di John Carney
Film musicale che vince non si cambia.
L’irlandese ripropone la stessa formula da
“Once”, il film indipendente che lo lanciò.
Il ragazzino maltrattato dai bulli vuole far
colpo su una ragazza, scrive canzoni e mette su un gruppo (siamo negli anni 80, tra
Spandau Ballet e Duran Duran, girano anche i video in stile Mtv). Qualche difficoltà
di percorso, ma mai troppe. Qui la musica
salva la vita – e vendica la scuola dei preti. Mica siamo in “Whiplash” di Damien
Chapelle dove ai batteristi sanguinano le
mani.
Mariarosa Mancuso
* * *
E’ di classe una Festa anche per la sola
presenza di David Mamet, artista supremo:
commediografo, sceneggiatore, regista, produttore. All’Incontro con Antonio Monda,
l’autore di 15 film e numerosissime commedie e copioni (tra cui “Glengarry Glen Ross”
e “Le cose cambiano”) è entrato sul palco
con un cappello in testa. “Passeggiavo per
Roma sotto la pioggia e ho comprato un borsalino, come quello che portava il grande Al
Capone. Lo porto con la tesa alzata davanti
proprio come lui”. “A Chicago amiamo i nostri gangster. I miei nonni ebrei croati dicevano di aver conosciuto Al Capone. Spero
sia vero”. Parte una clip da “Phil Spector”
con Al Pacino nel ruolo dell’immenso discografico (suo “The Wall of Sound”, l’approccio wagneriano che ha rivoluzionato il rock
& roll) finito in galera per omicidio. In un
monologo, Spector-Pacino elenca i casi in
cui una celebrità resta tale a vita, tra cui:
“…oppure come Gesù Cristo perché ti sei
montato la testa, ed è per questo che l’hanno ucciso”. Dissacrante e indimenticabile.
Monda gli chiede come crea i suoi personaggi. “Aristotele scrive che il personaggio
sono le sue azioni: ‘Character is action’. Tu
scrivi quello che fa, e crei il personaggio;
poi l’attore fa il resto”. I suoi copioni per
“Gli intoccabili” di Brian De Palma, e “Il
verdetto” di Sidney Lumet sono considerati sceneggiature perfette. “Scrissi ‘Il verdetto’ per i produttori di Robert Redford cui
non è piaciuta la sceneggiatura. Lo fanno riscrivere da un’altra, poi Redford si ritira e
subentra Lumet. Gli mando la versione mia
e s’innamora; ma non avevo scritto il verdetto finale perché mi pareva fin troppo ovvio
con quel titolo. Lumet mi dice ‘Cresci ragazzo: scrivi il verdetto, cazzo!’”. “Hitchcock diceva ‘Se giri un film a Parigi, per l’amor di
Dio fai vedere la Tour Eiffel!’”. Monda gli
chiede se Harold Pinter è stato un modello. “Io scrivo in modo molto diverso; però ha
inventato un modo tutto nuovo di scrivere i
dialoghi delle interazioni umane; era un’ispirazione, non una guida”. Su Hollywood:
“Faccio un provino a Kristin Bell per il thriller politico ‘Spartan’. Le assegno la parte e dopo la accompagno alla sua auto. Noto che l’attrice ha un’espressione tristissima; mi rendo conto con orrore che lei pensa di dovermi scopare in cambio del ruolo”.
P R E N D E I L V I A L A S T A G I O N E D E L L’ A C C A D E M I A D I S A N T A C E C I L I A
L’uomo e la lotta tra bene e male nell’indovinato Fidelio di Pappano
L
a Stagione dell’Accademia nazionale di
Santa Cecilia prende il via ancora nel segno di Ludwig van Beethoven. Terminato il
percorso tra le nove sinfonie, quest’anno il
sipario si apre su Fidelio, l’unica opera della produzione beethoveniana (il compositore
durante la sua vita proverà a scriverne altre
ma desisterà sempre) “che mi è costata i più
aspri dolori e per questo è anche la più cara”. Il Maestro di Bonn ne aveva quasi fatto
una ragione di vita. Ben tre versioni differenti. Quattro dell’Ouverture iniziale. E’ il 1804.
Appena due anni prima, il Testamento di
Heilingenstadt aveva consegnato ai contemporanei un uomo in lotta con la sua sordità e,
all’eternità, il titano in lotta contro un destino avverso. Sarà il Léonore ou l’amour conjugal di Jean-Nicolas Bouilly a ispirare il musicista. Dopo varie riscritture vedrà la luce
un Singspiel in due atti che ahimé non riscosse l’unanime successo del pubblico.
L’Accademia di Santa Cecilia e il suo direttore musicale Sir Pappano optano per
una prima operistica in forma di concerto.
Scelta indovinata perché l’opera si presta
molto bene a questo tipo di esecuzione e ci
preserva dall’invadenza di alcuni registi che
con “regie moderne” stravolgono il senso
dell’opera. L’aspetto oratoriale, le lunghe
parti recitate che spezzano il normale flusso
della storia, alcuni momenti di stasi alternati alle esplosioni delle pulsioni dei protagonisti, sono congeniali alla “forma di concerto”. Fidelio, inoltre, è un lavoro permeato
dall’aspirazione sinfonica: l’orchestra è protagonista e le voci sono alle prese con ardue
problematicità tecniche. Il virtuosismo vocale rappresenta una novità assoluta nel repertorio e indica una nuova via: quella di
trattare le voci sinfonicamente. Un lavoro
sperimentale straripante di inventiva. Fidelio rappresenta il primo germe di
quell’“opera totale” che anni dopo folgorerà
Richard Wagner, il quale riconoscerà a
Beethoven il tentativo di crearsi un nuovo e
potente linguaggio per ottenere sonorità
espressive. Anche Wiliam Furtwängler sosteneva la doverosa necessità di eseguire
l’opera almeno due volte in ogni stagione
musicale.
Antonio Pappano fa ripartire la stagione
italiana della “sua” orchestra (che quando
non suona a Santa Cecilia gira il mondo, invitata nelle più importanti sale) proprio dall’opera. Il suo grande amore. Propone un
viaggio arduo nei meandri di una vicenda
dominata dalla lotta fra bene e male e dal
potere che tiranneggia fuori e soprattutto
dentro le persone. Non è semplicisticamente la storia d’amore coronata da un lieto fine né l’esaltazione fine a se stessa di un’eroina, seppur unica nel suo furore. Se si
ascolta Fidelio fuori da partigianerie e ridu-
zioni strumentali, ci si ritrova di fronte a un
lavoro sul male di cui l’uomo è capace. Siamo messi di fronte a noi stessi. La musica accompagna, commenta, prelude e allude. E’
la musica di un Beethoven nel pieno delle
domande sulla vita. Il finale della storia non
è rappresentato soltanto dalla liberazione
di Florestan e dal ricongiungimento con
Leonore. Quando Leonore scioglie le catene, tutti i prigionieri cantano in coro “O Gott,
Welch ein Augenblick” (Oh Dio, un tale momento), mentre l’oboe ripete celestiale la
melodia da poco intonata, “Tu ci hai messo
alla prova, tu non ci abbandoni. Giusto è il
tuo giudizio”. Così il finale ricorda nello
slancio, nella veemenza fonica l’ultimo movimento della Quinta sinfonia e nel dialogo
tra solisti e coro, quell’Inno alla gioia che
circa dieci anni dopo commuoverà Vienna
e ancora oggi, a ogni esecuzione, noi tutti.
Mario Leone
LE FEMMINISTE DELUSE E SETTIS CHE NON C’E’ QUANDO SERVE
A passeggio per Roma con Eisenman, maestro itinerante d’architettura
P
asseggiare stimola il pensiero, come sa
chi ha letto Robert Walser. Figurarsi
quanto può essere utile per la conoscenza
dell’architettura e della città. Mentre però i
nostri docenti di architettura sono indaffarati fra le valutazioni Anvur, peer review e l’eterna riforma universitaria, non c’è mai molto tempo per i classici. Non così Peter Eisenman, docente a Yale che da sempre porta i
suoi studenti ogni anno in una regione italiana diversa a conoscere de visu le origini moderne di questa disciplina costituita dalle
prime personalità autoriali – fino al Medioevo infatti l’architettura era una pratica di
cantiere collettiva. Dopo essere stato nelle
ville venete – il suo ultimo libro è infatti
“Palladio Virtuel” (Yale University, Press
2015) -, in Emilia Romagna, ad Arezzo e Urbino per Piero della Francesca, eccolo di
nuovo a Roma accompagnato da sua moglie
Cynthia Davidson, quest’anno curatrice del
padiglione statunitense alla Biennale di architettura in corso a Venezia, e da Pier Vittorio Aureli, suo collega a Yale e pupillo perché fra i pochi architetti che ama tornare ai
classici come lui. Già, i classici: qualche tempo fa le femministe di Yale attaccarono Eisenman perché nei suoi corsi non affrontava mai il ruolo delle donne in architettura,
e lui provocatoriamente rispose “Architettura? Io conosco solo Alberti, Brunelleschi,
Bramante, Sansovino, Sangallo, Vignola, Rainaldi, Palladio, Piranesi”. Sono seguite po-
lemiche, senza tener conto che il nostro è nato a Newark nel 1932, nello stesso quartiere
di Philip Roth che non è esattamente un
eroe femminista – ma resta un maestro. In
realtà Eisenman è da sempre alla ricerca
delle basi formali e concettuali dell’architet-
PICCOLA POSTA
di Adriano Sofri
A proposito di discussioni sul
contante, oggi vi mando la fotografia (al telefonino) di uno degli sportelli della Banca centrale curda di Erbil, altrimenti detta qui Borsa del Dollaro. Nessuno mai imbroglia nessuna.
tura, geometrie e proporzioni non importa se
prodotte da uomini o donne perché qualità
astratte e assolute. Ecco allora che il drappello di studenti americani si muove a piedi dalla Farnesina che il senese Baldassarre Peruzzi progettò nel 1506 per il suo concittadino Agostino Chigi, banchiere del Papa,
in forma di villa suburbana vale a dire spartana e sobria fuori, riccamente affrescata (da
Raffaello e soci) all’interno. Quindi verso i
palazzi Gaddi del Sansovino e Baldassini del
Sangallo, allestiti con meno mezzi e un’architettura ineloquente all’esterno, ma eloquente nella corte interna che era lo spazio della rappresentazione dei nuoveau riches alla
corte papale: i notari, avvocati e dottori vari
che si fanno una reputazione attraverso l’architettura. Non può mancare un pellegrinaggio al chiostro di Santa Maria della Pace, prima opera romana di Donato Bramante, il
maestro urbinate cresciuto a Milano ma che
solo nella Roma dell’ambiziosissimo papa
guerriero Giulio II trovò la sua dimensione
umanista per cui il futuro era nel passato,
cioè nelle vestigia dell’antica Roma e nella
prospettiva che guidarono sia la maestosa via
Giulia sia la mastodontica fabbrica di San
Pietro. L’orrore del gazebo che occlude oggi
la vista del chiostro della Pace (moquette blu
e installazioni pseudoartistiche comprese:
Settis e Montanari non ci sono mai quando
servono) è pari solo alla gioia di Eisenman di
fronte al suo piatto di tonnarelli cacio e pe-
pe (“mi piacciono perché sono a sezione quadrata, so you can taste the squareness”) e alla Gazzetta dello Sport: piaceri popolari di un
intellettuale newyorchese un po’ snob che
dal 1961 viaggia in Italia facendosene ambasciatore nella propria disciplina – e sarebbe
ora che la nostra ambasciata a Washington se
ne accorgesse. Eisenman oltre che per le sue
opere come il Memoriale degli ebrei uccisi
d’Europa a Berlino o la Città della Cultura a
Santiago de Compostela, è noto per aver sdoganato l’opera di Giuseppe Terragni, grande
architetto rimosso dalla storia dell’architettura del dopoguerra per la sua adesione al fascismo – la sua opera principale è infatti la
casa del fascio di Como – e forse solo un architetto di estrazione liberal come Eisenman,
che debuttò come progettista di una sinagoga, poteva farlo. Un’antologia dei suoi disegni
più celebri, molti dei quali a mano libera,
possono essere ammirati fino al 27 novembre
nel veneziano Palazzo Bembo. Il catalogo,
“By Other Means. Notes, Projects and Ephemera From the Miscellany of Peter Eisenman” (GAA Foundation, 30 euro), raccoglie
disegni e altri documenti interessantissimi
per la formazione del nostro: fotografie di
uno scanzonato giovane Peter che indossava
un cappello alla Frank Sinatra (nato nel New
Jersey pure lui), lettere e dediche dei suoi
amici e maestri Colin Rowe, Manfredo Tafuri o Aldo Rossi.
Manuel Orazi
Stand up, start up
Fase per fase, ecco quanto costa
sviluppare un impresa di
successo. Il rischio è ammesso
Q
uanto costa sviluppare
una start up? L’esperienza
degli operatori suggerisce una
prima legge che stima fino a
25 mila euro per la fase detta
DI
MAURIZIO STEFANINI
seed, riguardante appunto il processo di
“semina” dell’idea. Poi ci vogliono tra i
500 mila e i 3 milioni di euro per l’early
stage, la seconda fase. E dai 3 milioni fino
a 5-10 per il development, la terza. Una
seconda legge delle start up derivata
dall’esperienza indica però che almeno il
50 per cento del capitale che si investe
andrà perduto, e per un altro 30 per cento
si riuscirà appena a coprire le spese. Sarà
il 20 per cento restante a permettere di
recuperare tutto, con in più un forte
profitto.
Qual è il tipo di investitore che accetta
un rischio del genere? O un angelo, o un
avventuriero. Infatti, i singoli privati che
accettano di correrlo vengono chiamati
Business Angels. Magari è “Angelo” un
sessantenne che nella start up decide di
metterci un Tfr, o il frutto di anni di
investimenti azionari. Ma quando la cosa
è più strutturata, si parla di “Venture
Capital”: un tipo particolare di fondi che
investe in imprese ad alto rischio ma
anche ad alte possibilità di rendimento
perché ad alto contenuto di innovazione
tecnologica. E qui interviene un’ulteriore
legge: parafrasando le Tre Leggi della
Robotica di Isaac Asimov, potremmo
chiamarle le “Tre Leggi della
Startuppica”, se questo neologismo
esistesse. Come in questa rubrica si è già
peraltro accennato in passato, bisogna
che in questo “Capitale di Ventura” ci
siano di mezzo sia soldi pubblici, sia soldi
privati assieme.
E’ questo lo stesso modello
statunitense, fin da quel Bayh-Dole Act
che fu approvato il 12 dicembre del 1980 e
che consente il trasferimento del
controllo esclusivo di molte invenzioni
finanziate dal governo alle università e
alle imprese che operano con contratti
federali ai fini di un ulteriore sviluppo e
della commercializzazione. Università e
imprese contraenti sono quindi
autorizzate a concedere in licenza
esclusiva le invenzioni ad altri soggetti,
anche se il governo federale conserva la
march-in rights di licenza per l’invenzione
a terzi, senza il consenso del titolare del
brevetto o del licenziatario originale. 28
mila brevetti si erano accumulati negli
Stati Uniti tra 1945 e 1980: solo uno su
venti di questi sono stati utilizzati su
licenza commerciale. Ben 20 mila brevetti
con il Bayh-Dole-Act a regime furono
invece emessi dalle università americane
solo tra il 1993 e il 2000, consentendo la
nascita di tremila start up e portando alle
stesse università importanti ricavi. Il
mercato selezionò subito fondi che si
buttarono sul business, ma il governo
federale già nel 1991 creò l’Advanced
technology program (Atp), proprio per
stimolare “quegli sviluppi di tecnologia
avanzata che altrimenti non potrebbero
essere finanziati”: ovviamente guardando
anche ai possibili interessi della
Sicurezza nazionale. Per chi volesse
approfondire senza annoiarsi il tema
delle interrelazioni tra università
americane, ricercatori, industria e
militari, potrebbe seguire la nona
stagione della nota sitcom “The Big Bang
Theory”: quando i protagonisti provano a
brevettare un giroscopio, devono fare i
conti con l’Aeronautica militare. Lo si
vede nella decima stagione, ancora
inedita in Italia.
Nel nostro paese, la riforma dei
brevetti risale al 2006, ma già nel 2002 su
iniziativa dell’Istituto nazionale di fisica
nucleare, del Cnr e del governo, nacque
“Quantica”: vale a dire il tentativo di
creare il primo gruppo di venture capital
italiano in un paese dove il livello di
ricerca di qualità è alto, ma si traduce poi
in articoli piuttosto che in brevetti, come
dimostra il terzo posto mondiale per
Impact Index cui lo stesso Cnr è riuscito
ad arrivare.
Basta un’idea per mettere in moto il sistema
Dopo un periodo di rodaggio, quando si
inizia a capire che l’Italia nel biotech ha
forse più possibilità che nel digital, in
Cina il guru della chimica Silvano
Spinelli trova quel che manca per far
funzionare Eos, azienda biofarmaceutica
che nel 2014 è stata rivenduta
all’americana Clovis Technology per 400
milioni di euro. Un’unica idea di successo
ha permesso di recuperare i soldi perduti
in altri progetti che non hanno
funzionato: un po’ come in quel libro di
Gianni Brera sul “Mestiere del
calciatore”, dove si spiegava che spesso
nelle formazioni Primavera le grandi
squadre erano pronte a impegnare dieci
ragazzi che non erano destinati ad avere
alcun futuro sportivo, pur di far maturare
l’unico campione che sarebbe alla gloria
pallonara.
C’è molto
di più
delle dieci
pagine
che stai
sfogliando
www.ilfoglio.it
ANNO XXI NUMERO 248 - PAG 3
EDITORIALI
IL FOGLIO QUOTIDIANO
GIOVEDÌ 20 OTTOBRE 2016
Ricerca e soldi pubblici, le risposte che servirebbero La Giornata
ALCUNE UTILI DOMANDE CHE DA OGGI IL PARLAMENTO PUÒ FARE SULL’AFFAIRE HUMAN TECHNOPOLE
Mediatrade e la giustizia squilibrata
L’accusa non dovrebbe poter appellare una sentenza d’assoluzione
L
a Corte di cassazione ha annullato
senza rinvio, perché il fatto non costituisce reato, la condanna subita in Appello da Fedele Confalonieri e Pier Silvio
Berlusconi per l’accusa di frode fiscale
connessa all’acquisto di prodotti cinematografici nell’inchiesta Mediatrade.
Com’è noto, Confalonieri e Berlusconi jr.
erano stati assolti in primo grado dopo un
procedimento assai analitico durato tre
anni. La procura ha voluto ricorrere
egualmente in Appello e ha trovato un
giudice di merito compiacente, che ha
emesso una condanna basata su un’evidente contraddizione. Gli imputati sono
stati condannati per aver commesso un
fatto, e insieme per aver omesso di compiere quello stesso atto, come osserva con
sarcasmo la sentenza di annullamento
della Cassazione, richiesta peraltro dallo
stesso procuratore. Il fatto che si sia deciso di annullare senza rinvio fa capire
che il giudizio della Corte d’appello è apparso completamente infondato.
Perché in Italia è consentito all’accusa appellare le sentenze di assoluzione?
In paesi dove vige il processo accusatorio
– quelli anglosassoni in primo luogo – non
si può essere processati due volte per lo
stesso reato. Chi è assolto in primo grado
non può più essere perseguito ulteriormente. Il fatto stesso che un tribunale abbia già giudicato non colpevoli gli imputati costituisce un ragionevole dubbio, il
che inibisce la ripetizione del procedi-
mento. Questa norma impone all’accusa
di procedere solo quando è convinta di
essere in grado di provare che il reato è
stato effettivamente commesso, perché se
si presenta al giudizio con prove inconsistenti o carenti sa che non potrà riprovarci in un grado successivo. Il sistema italiano, che ha adottato il meccanismo accusatorio senza però introdurre il divieto di
appellare le sentenze assolutorie, consente all’accusa di tentarle tutte finché trova
una corte che le dia ragione (salvo poi essere severamente censurata dalla Cassazione, com’è avvenuto in questo caso). La
procedura penale è in questo modo gravemente squilibrata a vantaggio dell’accusa il che, sommato alla mancata separazione dei ruoli professionali della magistratura inquirente e di quella giudicante, crea un potere sproporzionato delle
procure, che se poi si collega a prevenzioni politiche dà corpo a quello che viene
chiamato il “partito delle procure”. Se
anche persone in grado di avvalersi di tutti gli strumenti più professionali della difesa – come gli imputati in questa vicenda
– rischiano di finire stritolate nella roulette russa del sistema giudiziario italiano, è facile immaginarsi che altri, che non
dispongono di quelle risorse, si trovano
privati di un effettivo diritto alla difesa.
Anche per questo sarebbe il caso di correggere i meccanismi che determinano la
sproporzione tra accusa e difesa che affligge il sistema italiano.
La legge che non ferma il caporalato
Le nuove norme sul lavoro non risolvono le troppe questioni aperte
E
nnesima occasione sprecata da parte del Parlamento italiano per fare
davvero i conti col mercato del lavoro e
col fenomeno del caporalato. La legge
appena approvata è stata salutata da più
parti come la manifestazione della ferma volontà dello stato di arrestare un fenomeno unanimemente rappresentato
con enfasi come riprovevole e lesivo della dignità umana. In verità si tratta di
un’altra legge-manifesto per mezzo della
quale il nostro legislatore non ha fatto
altro che girare lo sguardo dall’altra parte rispetto alla reale natura dei problemi da affrontare. Ancora una volta, per
cominciare, l’unico strumento di contrasto che il legislatore ha ritenuto di potere utilizzare è stato quello dell’aumento
delle sanzioni penali per i trasgressori
del divieto imposto dalla legge sulla lotta al caporalato. Uno strumento che si è
già rivelato inefficace in questa come in
altre numerosissime circostanze e che
non aggiunge alcunché sul piano della
deterrenza e della prevenzione del fenomeno che si vorrebbe arginare. La nuova legge non aiuta a sciogliere l’interrogativo di fondo sulle ragioni per le quali interi settori dell’agricoltura (soprattutto nel sud Italia) sono dominati da
piccole imprese che non riescono a stare sul mercato rispettando i parametri
dei contratti collettivi di lavoro (Ccnl),
ma agevola ipocritamente l’identificazione fra chi paga tariffe orarie o giornaliere inferiori al Ccnl (lo si ripete, senza usare violenza, minaccia o intimidazione) e lo sfruttatore della dignità del
povero lavoratore. Lo stato, infine, non
perde occasione per ingerirsi nella gestione dell’economia privata e per creare nuove figure di funzionari pubblici
addetti alla continuazione dell’attività
imprenditoriale sequestrata sul cui patrimonio peserà naturalmente il compenso dei novelli “commissari del popolo”, nominati tutti con criteri evidentemente di fedeltà politica da una qualche
autorità pubblica. Perché non introdurre invece una regola semplice e di facile applicazione? Il lavoratore e l’imprenditore sottoscrivano il contratto di
lavoro davanti a un’autorità che garantisca l’effettiva libertà del lavoratore
nell’accettare condizioni peggiorative
del contratto collettivo, cosicché qualsiasi pattuizione difforme non potrà dare luogo a controversie giudiziarie vessatorie né incoraggiare l’applauso per
le manette facili.
La laicità liberale di Macron
L’ex ministro francese parla (bene) di islam e di princìpi non negoziabili
U
na “laicità liberale”, ma ferma, e una
“benevolenza esigente” nei confronti dell’islam, che come le altre religioni
deve capire che in Francia “ci sono dei
princìpi non negoziabili”. Era il meeting
più atteso dei tre dedicati alla “diagnosi
della Francia”, quello tenutosi martedì
sera a Montpellier, perché Emmanuel Macron, ex ministro dell’Economia francese
e fondatore di En Marche!, doveva esprimersi sui due temi che suscitano le reazioni più forti nel dibattito politico-culturale francese e che saranno al centro della campagna presidenziale da qui alle
elezioni della prossima primavera: la laicità e l’islam. Il quasi-candidato all’Eliseo
per il 2017 ha esposto davanti ai suoi sostenitori riuniti allo Zenith di Montpellier
la sua visione di “laicità liberale”, in opposizione a chi come il premier Valls si fa
portabandiera di una “laicità revanscista” nei confronti delle religioni. “Nessuna religione è un problema”, ha dichiarato Macron, precisando però che esiste una
“questione islam” che va affrontata con
fermezza. “Nel nostro paese, ognuno è libero di credere o di non credere. Ognuno
è libero di praticare o no la sua religio-
ne”, perché la laicità è “una libertà prima
di essere un divieto”, ha spiegato il leader
di En Marche!, ma “se la libertà di coscienza è totale, l’intransigenza quanto al
rispetto delle leggi della République deve essere assoluta”.
Nel pomeriggio, prima del suo discorso allo Zenith, Macron si è recato nel
quartiere popolare della Paillade, nella
banlieue di Montpellier, dove la maggioranza della popolazione è di cultura arabo-musulmana e dove ha avuto un dibattito acceso attorno al salafismo con uno
degli abitanti. “Ci sono delle associazioni che non rispettano le leggi della République in nome della religione. Queste,
voglio smantellarle”, ha detto Macron al
suo interlocutore. “Quando un’associazione dichiara che i valori che difende
sono superiori a quelli della République, bisogna smantellarla”, ha aggiunto
il presidente di En Marche!. “Per l’islam
politico non c’è spazio in Francia”, l’uguaglianza tra uomo e donna, la libertà
e la laicità sono “princìpi non negoziabili”. Tutti i musulmani devono capire che
le leggi della République vengono prima
di quelle di Allah, ha concluso.
L
e commissioni Sanità e Istruzione del
Senato hanno un’occasione che non si
dava da tempo. Attraverso le audizioni sull’affaire Human Technopole (HT), che iniDI
ENRICO BUCCI E GILBERTO CORBELLINI
ziano oggi, non solo potranno fare chiarezza su una vicenda dai contorni opachi, ma
anche illuminare il Parlamento e il governo
sulle buone pratiche internazionali di politica della ricerca e dell’innovazione.
1) La prima questione sulla quale servirebbe chiarezza è come mai il progetto per
una grande infrastruttura destinata alla ricerca e all’innovazione
nel campo delle scienze della vita sia stato
gestito dal ministro
delle Politiche agricole che ha reclutato il direttore di un ente di
ricerca, l’Istituto italiano di tecnologia, IIT,
senza procedura concorsuale nota, e ignorato le linee guida del ministero dell’Università e della ricerca. Il Miur ha da tempo predisposto una “roadmap” per la progettazione e realizzazione di “large scale facilities”,
del tipo di HT. Queste linee guida e altre simili sono state adottate per creare centinaia
di infrastrutture di ricerca nel mondo. Perché si è deciso di ignorarle?
2) E perché si sia proceduto all’affidamento diretto del progetto esecutivo a un
ente di scelta governativa, trasferendo ingenti fondi pubblici? Il tutto senza alcun
bando di gara, cioè senza competizione? Nel
mondo sviluppato i governi che varano “top
down” queste iniziative, decidono il tema o
l’area, dove vogliono stimolare della “big
science”, ma non chi scriverà il progetto, chi
lo realizzerà, chi guiderà i laboratori, a chi
arriveranno i fondi pubblici, eccetera. Questi aspetti sono lasciati a bandi competitivi
internazionali. Perché si è deciso di affidare a IIT tutto quanto? Si è fatto un mezzo
passo indietro, con un decreto che sembra
avere quale unico scopo far partire l’operazione in mano a IIT, ma senza garanzie sulla continuità del progetto, né un piano con
previsioni dettagliate e strutture di controllo, sopra ogni sospetto.
3) Le audizioni delle commissioni parlamentari dovranno cancellare il timore che
l’operazione HT sia stata inventata per sanare i bilanci di Expo 2015. Uno stato europeo non può aiutare direttamente le imprese private o le partecipate pubbliche, quali
ad esempio Arexpo Spa o qualche impresa
creditrice di Expo2015, a saldare debiti. Vi è
un’eccezione: il finanziamento delle attività
delle infrastrutture di ricerca. Queste ultime non devono però servire da paravento
per aggirare il divieto, facendo arrivare fondi ai destinatari finali desiderati, per il tramite di un soggetto – “fondazione privata” –
controllato direttamente dal ministero dell’Economia. Se questo fosse il gioco, HT si rivelerebbe quella che la senatrice e scienziata Elena Cattaneo ha chiamato “toppa gla-
vrebbero finanziare la ricerca, per presentare IIT come un ente che “merita” i privilegi che gli sono accordati.
7) Si tratterà anche di capire se gli oltre
500 milioni di euro di IIT, depositati in conti e titoli, sono frutto di oculata gestione dei
primi anni (quanti poi?), senza che anche in
anni recentissimi si sia assistito a una crescita del patrimonio depositato per esempio
in Banca d’Italia. Smentendo quanto messo
per iscritto da IIT, il suo direttore scientifico ha detto in un’intervista televisiva che i
soldi “targati IIT” in
Banca d’Italia possono
essere spesi solo dallo
stato per ogni scopo che
ritenga utile. E’ vero?
Se sono in capo al governo, perché non destinarli alla ricerca
pubblica, visto che tale
era l’utilizzo previsto?
8) IIT sostiene che il suo sistema di reclutamento è migliore di quello delle università e del Cnr, tanto da essere questo uno dei
motivi che avrebbero portato alla scelta di
realizzare HT e assumere 1.500 ricercatori.
In realtà, sono molti gli enti pubblici (e non
solo) italiani che reclutano dal mondo. Erogando con i fondi pubblici stipendi dignitosi potrebbero fare anche meglio. IIT eroga,
anche alla dirigenza, gli stipendi che liberamente decide – rispettando la legge ma
senza preoccuparsi di giustificarne l’entità.
9) La dirigenza di IIT sostiene che l’ente
equivale al Max Planck o al Fraunhofer. Ma
questi sono indipendenti dal governo e dalla politica, e amministrati attraverso un sistema elettivo di rappresentanza.
10) Le commissioni potranno accertare se
sia vero che IIT si avvale dei soldi pubblici,
che ri-eroga a ricercatori italiani denutriti
(nelle università pubbliche, al Cnr e altro),
per “acquisire” le loro scoperte, cioè sfruttando il vantaggio della cassa di cui dispone e la sperequazione; se sia vero che il robottino iCub è una storia di successo, o se
mettendo a bando tutti i soldi che IIT ha
speso in robotica si poteva fare meglio, come hanno scritto alcuni specialisti italiani;
e, infine, quanto denaro pubblico, oltre a
quello fin qui documentato, è entrato nelle
casse di IIT.
Altro ancora si potrebbe chiedere. Sempre che alle commissioni e al governo interessi conoscere e rendere conto ai cittadini
di come si spendono i loro soldi sotto la voce “ricerca scientifica”.
Iniziano le audizioni in Parlamento su una storica commessa pubblica
per la ricerca scientifica. Ecco perché è sacrosanto fare chiarezza sui
veri meriti (o demeriti) dell’IIT di Genova, sul metodo di attribuzione
dei fondi, sulla meritocrazia e sugli sprechi. Consigli da due esperti
mour”, per coprire il buco di Expo 2015.
4) Una volta capito perché HT è nato così male, si tratterà di affrontare la questione
IIT. Si potrà fare un bilancio dei tredici (o
anche dieci) anni di attività di IIT, che hanno visto questa fondazione di diritto privato drenare ogni anno, dal 2004, circa 100 milioni di finanziamenti pubblici destinati a
ricerca e trasferimento tecnologico, senza
contare il patrimonio assorbito dall’ex Iri
(quasi 130 milioni che dovevano andare alla ricerca). L’investimento-fiume dello stato
ha generato un ente in grado di produrre
meglio di altri per ogni euro speso? Il “modello IIT” e il privilegio che i suoi ricercatori hanno nel non competere con i loro colleghi per meritare il denaro pubblico, è davvero un modo più efficiente per generare ricerca e innovazione?
5) Le commissioni potrebbero chiedersi
se all’Italia non convenisse investire nell’apporto competitivo di idee che emergono liberamente (anche quelle che IIT potrebbe
mettere in campo), invece che in un piccolo
ente pressoché sconosciuto nel settore, prima di HT. Una valutazione indipendente, di
tecnici non cooptati da IIT e liberi dal vincolo di “negoziazione” di ogni loro parola
con IIT, a oggi manca.
6) Le commissioni dovranno stabilire se
davvero IIT sia l’unico soggetto in Italia in
grado di realizzare grandi infrastrutture di
ricerca. Si controlli quanto sia veritiera la
propaganda che IIT alimenta battendo a
tappeto ogni spazio mediatico e ogni possibile luogo pubblico pagandosi una campagna pubblicitaria con gli stessi soldi che do-
L’impossibilità di valutare i magistrati italiani
IL CSM HA DETTO NO ANCHE A ORLANDO: BOCCIATE LE PROPOSTE DI MODIFICA AL SISTEMA
Roma. Non sembra proprio esserci spazio per una valutazione dell’operato dei
magistrati in Italia. Dal 2008 le toghe italiane sono tenute a sottoporsi ogni quattro
anni a valutazioni formali sulla loro professionalità, necessarie a permettere gli
scatti di anzianità e dunque di stipendio.
Formali perché, nella sostanza, i giudizi
forniti prima dai consigli giudiziari e poi
dal Consiglio superiore della magistratura finiscono per consistere nella quasi totalità dei casi in una
mera celebrazione
copia-incolla
dei
meriti di giudici e
pm, spesso palesemente slegata dai
risultati effettivamente ottenuti da
quest’ultimi.
Due anni fa, Luigi
Ferrarella calcolò
sul Corriere della
Sera che dal 2008 al
2013 sono state effettuate dal Csm
9.535 valutazioni e
che solo in 145 casi
il giudizio dell’organo di autogoverno
dei magistrati è stato “non positivo” o
“negativo”. Un’evenienza quindi rarissima, che peraltro comporta soltanto un
rinvio, rispettivamente di uno e due anni,
della valutazione del magistrato (e del suo
scatto stipendiale). Così, nonostante il periodico emergere di episodi di malagiustizia, errori e leggerezze da parte delle toghe, le valutazioni nei confronti dei magistrati continuano a essere quasi tutte appiattite su giudizi entusiasticamente positivi, risultando inutili per le loro stesse finalità: chi promuovere se sono tutti “eccellenti”? Ci pensano le correnti togate…
Che le valutazioni di professionalità
rappresentino ormai vuoti formalismi pri-
U
rania nasce nell’autunno del 1952: il
curatore e fondatore della rivista è
Giorgio Monicelli, probabile inventore
del termine “fantascienza”, fratello minore del regista Mario e nipote dell’editore Arnoldo Mondadori. Giuseppe Lippi, curatore di Urania da oltre un quarto di secolo, racconta la storia degli ormai oltre cinquant’anni della rivista
mondadoriana che ha portato nelle edicole italiane centinaia di grandi romanzi di fantascienza, come “Il giallo Mondadori” ha fatto con quelli che gli anglofoni chiamano mystery.
Monicelli lascia nel 1962: ha pubblicato maestri come Asimov, Clarke, Heinlein, ma è un personaggio difficile, litiga con la direzione Mondadori e viene
sostituito da Carlo Fruttero, poi affiancato dall’amico Franco Lucentini. I famosi F & L, che rimangono alla guida fino a metà anni Ottanta, creano il mito di
Urania, grazie anche alle copertine, raffinate e misteriose, dell’olandese Karel
Thole, a una straordinaria fioritura di
vi di qualsiasi utilità sostanziale lo dimostra il caso, paradossale, delle valutazioni effettuate dal Csm nei riguardi dei magistrati posti fuori ruolo, come quelli impegnati in politica. L’ex toga Anna Finocchiaro, ad esempio, ha ottenuto nel corso
dei suoi ventotto anni di carriera in Parlamento ben sette valutazioni di professionalità positive, il massimo previsto in termini di progressione di carriera per i magistrati. In tutte queste verifiche, il Csm
ne ha certificato “l’indipendenza, imparzialità ed equilibrio, ma anche capacità,
laboriosità, diligenza e impegno dimostrati nell’esercizio delle funzioni espletate”
(anche se non si comprende di quali funzioni si stia parlando, dato che quelle giudiziarie non sono esercitate da Finocchiaro da più di un quarto di secolo).
Il meccanismo di valutazione è talmente ridicolo che persino il ministro della
Giustizia, Andrea Orlando, non ha potuto
fare a meno di profilare negli ultimi tempi un intervento legislativo in materia. A
margine di un convegno organizzato dal
LIBRI
Giuseppe Lippi
IL FUTURO ALLA GOLA
Profondo Rosso, 304 pp., 29 euro
autori (ai classici si affiancano i nuovi
maestri come Ballard, Dick, Leiber,
Brown) e a un periodo di eccezionale
sviluppo tecnico ed economico. La fantascienza, però, è profetica, non anticipatrice o indovina, poco importa che non
abbia davvero previsto internet o gli
smartphone.
“L’arte del profeta”, scrive Lippi,
“consiste nel prevenire e non nel prevedere, avvertendo chi ha orecchie per intendere che sta per arrivare qualcosa di
enorme e inatteso e provando a immagi-
Consiglio nazionale forense lo scorso 13
settembre, il ministro ha aperto alla possibilità di “introdurre una presenza con
voto dell’avvocatura nei consigli giudiziari”, riconoscendo che la verifica delle capacità dei magistrati “non può prescindere dal giudizio di tutti coloro che sono
chiamati alla valutazione della funzionalità in concreto degli uffici”. In altre parole: dato che i magistrati hanno dimostrato di non essere capaci di valutare la
professionalità dei loro colleghi in modo
obiettivo, preferendo
rinchiudersi in un’esaltazione
acritica
del loro operato, si
consenta anche agli
avvocati, protagonisti
in prima linea della
vita nella aule di giustizia, di esprimere la
propria opinione sulla condotta professionale dei magistrati.
“Si tratta di aprire
una dialettica nella
quale non vedo alcun
pericolo per l’autonomia e l’indipendenza
della magistratura”,
ha aggiunto Orlando
in maniera molto fiduciosa.
Niente da fare: quattro ore dopo, in serata, il plenum Csm aveva già bocciato gli
emendamenti con cui si proponevano aperture sul diritto di voto agli avvocati, inclusa la proposta avanzata dal primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, il quale aveva evidenziato – invano – che “il tavolo della giustizia non può essere sbilenco”
e che “la ricchezza dei contributi non può
che migliorarne la qualità”. Una speciale
categoria di funzionari pubblici, in Italia,
ha deciso di proseguire con il suo corporativo – e irresponsabile – quieto vivere.
Ermes Antonucci
narlo”. La science fiction non ha nulla a
che vedere con quella che Fruttero &
Lucentini chiamavano “Miriam la chiromante”. Il primo libro curato da Lippi
esce nel febbraio 1990: si tratta di
“Scontro finale” di Ted Reynolds, con il
conflitto fra l’uomo e Dio (“nel passato
il nemico aveva un nome e quel nome
era Dio Onnipotente”). Tramontata l’èra
spaziale, e finite le attrattive di un progresso che sembrava illimitato, la fantascienza più affascinante resta quella
speculativa che spinge a interrogarsi su
– come dice il titolo di un romanzo di
Douglas Adams uscito su Urania nel
1984 – “la vita, l’universo e tutto quanto”.
Il titolo del saggio è una citazione: così si intitolava una antologia pubblicata sul numero 468 di Urania, del giugno
1966 e sulla quarta Fruttero & Lucentini (famosi per le loro quarte sempre
brillanti) scrivevano: “Verrà forse il
giorno in cui a scuola si studierà, insieme al trapassato remoto e al congiuntivo
presente, anche il futuro alla gola”.
* * *
In Italia
MATTEO RENZI DIFENDE LA MANOVRA: “RISPETTA TUTTE LE REGOLE”. Il
presidente del Consiglio ha liquidato le critiche ai provvedimenti del governo affermando che sono come “le foglie che cadono”. In vista del Consiglio europeo di oggi
e domani, Renzi ha affermato che su immigrazione e austerità “l’Italia non lotta da
sola come Don Chisciotte”, ribadendo il desiderio di trovare soluzioni condivise.
* * *
Berlusconi incontra Salvini e Meloni per
parlare del No al referendum e per lanciare una costituente per nuove riforme. Il segretario della Lega, Matteo Salvini, ha rivendicato per sé un ruolo di guida del centrodestra, in virtù dei sondaggi che pongono la Lega avanti a Forza Italia.
“Bisogna pensare alle alleanze e non alle cose troppo personali”. Così l’ex leader
della Lega, Umberto Bossi, ha commentato le parole di Matteo Salvini.
* * *
Polemica sulla giustizia. Il Senato ha approvato la fiducia chiesta dal governo sul
decreto in materia di uffici giudiziari, convertendolo in legge. “Il settore giustizia,
per effetto di questa legge di dubbia costituzionalità, oggi ha compiuto un grande
passo indietro” ha commentato l’Associazione nazionale magistrati.
* * *
Rossi e Ruby rinviate a giudizio nel cosiddetto Ruby-ter. Assieme alla senatrice di
Forza Italia, Maria Rosaria Rossi, e a Karima al Marough, altri 22 imputati andranno
a processo.
* * *
Indagine alla Bonatti per i due italiani
uccisi in Libia a marzo. Un manager della
società è stato iscritto nel registro degli indagati per “omicidio colposo e violazione
delle norme che disciplinano la tutela della condizioni di lavoro”.
* * *
Escluso aumento di capitale per Alitalia
dal presidente Luca Cordero di Montezemolo. Riferendosi alla possibilità di integrazione con un altro vettore, Montezemolo
ha detto: “Lufthansa non esiste. Non ne
parliamo nemmeno”.
* * *
Borsa di Milano. FtseMib +0,46 per cento. Differenziale tra Btp e Bund a 141 punti. L’euro chiude in ribasso a 1,09 sul dollar
Nel mondo
GLI IRACHENI HANNO LIBERATO 350
CHILOMETRI QUADRATI DALL’ISIS. L’offensiva contro Mosul ha costretto i jihadisti
a cedere 18 villaggi conquistati nel 2014. Le
forze armate irachene, con il supporto della coalizione, hanno continuato a combattere ieri a sud della città tenuta dall’Isis. Al
suo interno sarebbero asserragliati “tra i 5
e i 6 mila jihadisti, secondo le indicazioni
dell’intelligence”, ha dichiarato il generale Talib Shaghati, capo delle forze speciali
irachene.
* * *
Tre ore in più di tregua ad Aleppo. Il generale dello stato maggiore russo, Sergei
Roudskoi, ha annunciato che il cessate il
fuoco “per motivi umanitari” sarà in vigore oggi dalle 8 alle 19 locali, concedendo
più tempo ai civili per lasciare la città.
Dopo l’incontro a Berlino sull’Ucraina,
il presidente russo, Vladimir Putin, la cancelliera tedesca, Angela Merkel, e il presidente francese, François Hollande, hanno
discusso della crisi siriana.
* * *
Netanyahu ammonisce su Obama. “E’ un
pericolo esistenziale per gli insediamenti”,
ha spiegato il Primo ministro israeliano.
* * *
Duterte accusa gli Stati Uniti di mancare
di rispetto verso il popolo filippino, riferendosi alle critiche espresse sulla campagna contro la droga di Manila. “Mai più ingerenze americane. Mai più esercitazioni
americane”, ha detto il presidente filippino, in vista ufficiale in Cina. Duterte ha anche suggerito a Pechino esplorazioni petrolifere congiunte.
* * *
L’Akp preme sul presidenzialismo. Il portavoce del partito di maggioranza turco,
Hayati Yazici, ha annunciato che prevede
di introdurre la riforma a gennaio.
* * *
Il lander Schiaparelli su Marte. L’Esa attende il segnale di ritorno per confermare
il successo della missione.
* * *
L’Arabia Saudita raccoglie 17,5 miliardi di
dollari nella sua prima offerta di titoli di
debito sovrano, secondo quanto scrive il Financial Times. Un ammontare superiore
alle previsioni di 15 miliardi.
IL FOGLIO
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Arretrati Euro 3,00+ Sped. Post.
ISSN 1128 - 6164
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ANNO XXI NUMERO 248 - PAG 4
Idee da talk-show
Tocca ai voucher: un altro falso
allarmismo della sinistra-dem.
Incidono poco ma danno reddito
(segue dalla prima pagina)
Secondo allarme: i voucher appunto, i
buoni per lavori temporanei: nel 2016 ne
sono stati venduti dall’Inps alle aziende
96,6 milioni, in forte aumento.
Secondo Camusso questo “smaschera il
fallimento del Jobs Act”. Mentre l’ex segretario dem Bersani nota che “se fai l’oste seriamente non puoi dar da bere agli
ubriachi”, per Grillo siamo pari pari “la
Repubblica dei voucher”. Ma ha senso
questo suonare di sirene che molto si presta all’uso mediatico (famiglie in diretta
che campano a voucher, telecamere nascoste in uffici del personale)?
Roberto Cicciomessere, già deputato Radicale e parlamentare europeo, studioso di
welfare, dice al Foglio: “Non c’è nessuna
emergenza. Il fenomeno va certo monitorato, ma la sua incidenza sul numero degli occupati è dell’1,3 per cento; e per più di tre
quarti di chi li usa costituisce un reddito
aggiuntivo”. Su Strade, la rivista su cui Cicciomessere si ripromette di sconfessare “i
luoghi comuni intorno ai fenomeni sociali
e del lavoro”, l’autore paragona i voucher
ai minijob tedeschi, introdotti con la riforma del cancelliere socialdemocratico
Gerhard Schröder e che nessun esponente
della sinistra in Germania si sognerebbe di
abolire. I minijob costituiscono l’eterno paragone negativo fisso della Cgil, e di una
certa destra antitedesca. Ma, scrive sempre
su Strade l’esperto di Germania Giovanni
Boggero, “i dati dicono che i minijobber lavorano tra 10 e 20 ore settimanali a un massimo di 450 euro al mese. Spesso sono impieghi aggiuntivi o svolti da casa, soprattutto da donne, che arrotondano il reddito e
riducono la disoccupazione. E parliamo di
due milioni di tedeschi su 80 milioni”.
Certo, meglio per i bersaniani, i grillini,
e anche per la Lega in felpa, che sia il pubblico a elargire direttamente lavoro, magari a vita – sono un po’ dei “choosy” di stato, per parafrasare l’ex ministro Fornero:
il governo rottamatore ci mette del suo con
le 10 mila assunzioni pubbliche della legge di Bilancio, la giunta Raggi con le 976
assunzioni – 485 “già quest’anno” – promesse dal comune di Roma per dare man
forte ai suoi oltre 24 mila dipendenti, come se ce ne fosse bisogno. Senza contare le
imbarcate di precari, in barba a ogni progetto che meriti l’hashtag #labuonascuola.
La realtà? Tutti sanno che ciò che realmente non funziona è il collocamento, semimonopolio pubblico-sindacale. Ma volete mettere come suona bene nei talk-show
lo slogan “Repubblica dei voucher”? Il
motto più adatto a loro sarebbe “Mantenuti tutti, mantenuti subito”, mutuato dai
black bloc.
Renzo Rosati
Austerità sinistra
La sinistra radicale prometteva:
“un altro mondo è possibile”. Ora
scopre che “non c’è alternativa”
(segue dalla prima pagina)
Costa e Tsipras non hanno “tradito” gli
elettori, hanno cercato in tutti i modi di attuare i propri programmi, ma semplicemente si sono scontrati con i vincoli della realtà.
Il premier greco, prima di sottoscrivere un
nuovo memorandum in cui ha accettato di
andare avanti con la revisione della spesa,
la riforma delle pensioni, le privatizzazioni
e le liberalizzazioni, ha chiesto i danni di
guerra alla Germania, ha portato il popolo
in piazza, ha cercato appoggi in Russia e Cina, ha celebrato in fretta e furia un referendum minacciando di lanciarsi nel vuoto, fuori dall’euro. Dopo aver bruciato la piccola
ripresa del pil, bloccato i conti correnti e
fatto scappare i capitali, Tsipras ha capito
che non c’erano alternative al piano di disciplina fiscale e riforme strutturali, che le
schede elettorali non servono se non hai soldi e neppure qualcuno che te li presti. Anche in Portogallo Costa aveva iniziato il suo
mandato con alcuni provvedimenti antiausterity, che però hanno allarmato la Commissione, il Fondo monetario internazionale e soprattutto i mercati, preoccupati per
le sorti di un paese con una crescita bassa,
un settore bancario fragile, un sistema politico instabile e un debito elevato (ricorda
qualche altro paese?). Di fronte al pressing
europeo e soprattutto alla concreta possibilità di un taglio del rating che escluderebbe Lisbona dal programma di acquisto di
bond della Banca centrale europea e porterebbe il paese a un nuovo bailout, il governo portoghese ha cercato di rassicurare i
mercati e gli investitori con una legge di Stabilità austera. Tra i provvedimenti presentati da Costa non mancano misure di redistribuzione a favore di pensionati e redditi bassi, ma sempre in un quadro di rigore fiscale, cioè coperte da aumenti di tasse e non
da deficit.
I casi di Grecia e Portogallo indicano il
paradosso della sinistra europea. I tradizionali partiti socialdemocratici sono in grande difficoltà di fronte alle necessità di fare
riforme strutturali e avere conti in ordine, la
Spd in Germania è ancillare alla Merkel, il
Ps in Francia è ai minimi storici, il Pd è in
netto calo rispetto alle europee di due anni
fa. Dall’altro lato i partiti di sinistra estrema, nati dalle proteste contro le politiche
“neoliberiste”, come Syriza in Grecia, Podemos in Spagna e la sinistra portoghese, sono costretti ad attuare politiche di austerità
una volta al governo. E’ la resa della sinistra
cresciuta con lo slogan “un altro mondo è
possibile” al realismo thatcheriano che diceva “There is no alternative” (“Non c’è alternativa”). In realtà la Thatcher esagerava,
le alternative esistono, solo che sono tutte
peggiori. E ora se ne sono accorti anche i
compagni Costa e Tsipras.
Luciano Capone
IL FOGLIO QUOTIDIANO
GIOVEDÌ 20 OTTOBRE 2016
Il giustizialismo del 5 stelle spiegato con un’amnesia di Dibba
Al direttore - Monti dice no, ma potrebbe aiutare il sì. Obama dice sì, ma potrebbe essere un
boomerang. Quanto a me, cito a memoria: “Il
vostro linguaggio sia sì, sì. Il resto è del demonio”
Franco Debenedetti
Al direttore - Caro Cerasa, ho visto bene martedì sera a “Politics”, su Rai3? Lei ha chiesto all’onorevole Alessandro Di Battista, ovvero l’uomo scelto dal Movimento 5 stelle per portare in
giro per l’Italia le ragioni della difesa della Costituzione, se ricordava l’articolo 27 della Costituzione e l’onorevole grillino ha detto candidamente che no, quell’articolo non lo conosceva.
Mi dica che ho visto male, la prego.
Luca Marinei
Ha visto bene. Ma non mi stupirei più di
tanto. L’articolo 27 della Costituzione più bella del mondo dice una cosa che il Movimento 5 stelle ha scelto deliberatamente di cancellare dalla cultura politica del paese. Glielo ricordiamo noi, e se serve glielo volantiniamo anche con gli elicotteri. “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in
trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condan-
nato”. Sarebbe forse troppo cattivo dire che
il movimento cinque gogne difende la Costituzione senza conoscere la Costituzione. O no?
Al direttore - In occasione della Festa Internazionale della Storia ho avuto occasione di partecipare a una conferenza del professor Massimo
Campanini, quotato storico dell’islam, dal titolo
“Il sunnismo oggi”. Con spirito laico ho assistito
a un’ora e mezza di esposizione di storia islamica, centrata per lo più sulla nascita dello scisma
sciita e sulle successive dispute teologiche e politiche che quell’avvenimento ha comportato rispetto a ciò che verrà poi definito sunnismo. Al
di là di passaggi semplicistici e azzardati come “il
sunnismo è un po’ come il protestantesimo” (per
evidenziarne la mancanza di gerarchia ecclesiale), di un metaforico assordante rumore di unghie spezzate a forza di arrampicarsi sugli specchi per tentare di mitigare, a fatica, con evidente sforzo pindarico, l’assenza di esegesi coranica
Alta Società
A proposito di mense aziendali:
davvero ottima quella di Esselunga a
Pioltello (Mi). E’ la migliore
d’Europa.
del sunnismo (“ci sono state però tantissime discussioni interpretative da riempire biblioteche
ma i media non ne parlano mai”) e di un tristissimo internazionalismo cheap (“i libri di testo
delle superiori sono troppo eurocentrici e non
parlano abbastanza del resto del mondo”) pregno di banale senso di colpa occidentale, di “sunnismo oggi” non se ne è parlato fino a quando alla prima domanda da parte del pubblico, una arguta – ma ingenua – signora ha chiesto “come
collocherebbe lei oggi l’Isis rispetto al sunnismo?”. E la risposta del professor Campanini è
andata oltre ogni mia aspettativa: “Non mi piace parlare di questo perché l’Isis non ha niente
a che vedere con l’islam”. Io mi sono alzato e me
ne sono andato, non senza pensare che una affermazione simile, specie di fronte a una moltitudine di studenti, non fosse semplicemente pavida o beota, ma pericolosa, estremamente pericolosa. La scuola italiana, dalle elementari all’università, è piena di docenti così: il suicidio assistito di una nazione.
Emanuele Ulisse
Il manuale di conversazione del negazionista presenta due passaggi. Il primo: l’Isis non
ha niente a che vedere con l’islam. Il secondo: i terroristi islamici non sono islamici veri ma sono solo depressi. Direbbe Nanni Moretti: continuiamo così, facciamoci del male.
Al direttore - Giusta e sacrosanta la vibrante
protesta dei compagni Bersani e D’Alema contro la brutale ingerenza, nella politica interna del
Bel Paese, del Presidente degli Stati Uniti, Obama, che ha osato esaltare le riforme, del tutto
inutili, invitando a votare sì al referendum.
Com’è a tutti noto, da giovani “pionieri” del Pci
di Togliatti e Longo, Pigi e Massimo si spellarono le mani per applaudire la conclamata, assoluta autonomia del “partitone rosso” nei confronti delle scelte, in politica estera, dei leader del
Pcus, sempre buonisti e fraternamente tolleranti con loro. Come avevano fatto i venerati compagni, Ingrao e Napolitano, che condannarono,
con articolesse indignate, sull’Unità, nel 1956,
l’invasione, infame e sanguinosa, dell’Ungheria
da parte dei carri armati sovietici. E quando, il
24 marzo 1999, i bombardieri Nato colpirono i
primi obiettivi serbi a Pristina, Pogdorica e alla
periferia di Belgrado, dando inizio alla guerra
del Kosovo, il primo premier postcomunista, il
coraggioso compagno D’Alema, che guidava un
governo di centrosinistra, decise – con fermezza
e senza il cappello in mano al cospetto degli alleati dei paesi occidentali – di non far partecipare l’Italia, con propri mezzi e truppe, all’operazione militare, avviata per fermare la pulizia
etnica, praticata dal regime del compagno
Milosevic. O no?
Pietro Mancini
Persino l’intoccabile Trudeau luccica di meno quando è liberale in economia
SCONTRO TRA CANADA ED EUROPA SUL TRATTATO DI LIBERO SCAMBIO. LA SINISTRA METTE IN DISCUSSIONE IL SUO MITO GLAM
Milano. La popolarità di Justin Trudeau è
“incredibile”, scrive il Washington Post, la luna di miele del premier canadese con il suo
popolo e con il mondo “è ancora luminosa”,
commenta la Bbc celebrandolo, come hanno
fatto tutti i media internazionali che hanno
festeggiato il primo anno al governo della
star canadese, con le immagini in bianco e
nero di una famiglia da sempre affascinante
e le gallery dei selfie, compreso quello a torso nudo con un ragazzino riccioluto in un parco del Quebec. Nell’immaginario collettivo,
Trudeau è destinato a prendere il posto di
Barack Obama (pur senza poter eguagliare la
coolness del presidente americano), le foto
con lui vanno a ruba, e lui si presta, benevolo, facendo yoga sui tavoli dei vertici internazionali, accogliendo rifugiati siriani presentandosi di persona all’aeroporto, ammiccando al pacifismo e all’ambientalismo e sorridendo indefesso a chiunque gli chieda attenzioni. E’ la sinistra glam, questa, che nessuno ce la tocchi, vogliamo le storie familiari in
stile kennediano, le madri bellissime, le mo-
gli devotissime, i padri “un po’ Marlon Brando e un po’ Napoleone” (il copyright è di Barbra Streisand), vogliamo provare nostalgia
per Obama anche se è ancora alla Casa Bianca, vogliamo lasciarci affascinare dai tatuaggi sui bicipiti (Trudeau ne ha uno grosso e colorato) e dalle promesse di “sunny ways” ripetute nei giorni di pioggia.
Poi succede però che questa sinistra glam
sia anche al governo e che debba sporcarsi le
mani con le faccende pratiche della gestione
del potere, delle alleanze, della geopolitica.
Di Obama sappiamo già tutto: avendo preso
un Nobel per Pace prima ancora di cominciare era facile immaginare che le attese sarebbero state disilluse (pur se si pensava un pochino meno). Con Trudeau siamo soltanto all’inizio, le crepe si iniziano a vedere, i commentatori canadesi già dicono: ti è andata bene per un anno ma non sarà sempre così. La
storia del premier canadese è costellata di
cortocircuiti politicamente corretti – è stato
attaccato da sinistra perché è andato in una
moschea in cui le donne non sono ammesse
– e politicamente scorretti – è stato attaccato
da destra per le sue politiche sull’indifferenziazione del gender – così come di piccoli
scandaletti per le spese di alcuni ministri e
di una grande polemica per le armi vendute
all’Arabia saudita. Ma come spesso accade in
questi ultimi tempi, l’ombra più grande sulla tenuta della popolarità di Trudeau gliela
getta la sinistra, in particolare la sinistra europea, che ha già perduto da parecchio molti slanci liberali (non tutta, non ovunque). Ora
Trudeau brilla di meno perché sta facendo il
duro sul trattato di libero scambio tra l’Unione europea e il Canada (Ceta), che dovrebbe
essere formalizzato in questi giorni dopo otto anni di negoziati e invece continua a subire colpetti e rimandi, tanto che a Trudeau è
passata la voglia di venire in Europa a fare
selfie festanti con i colleghi. Ieri Libération,
giornale della sinistra meno liberale sintetizzava perfettamente il contrasto tra la necessità di celebrare il leader canadese e allo
stesso tempo di sottolineare che il suo liberismo non è affatto gradito. “La ricetta Tru-
deau” è immortalata con il premier con cappello che lancia in alto un pancake e con l’elogio della politica “libéral sur le moeurs”,
sui costumi, ma diventa invece “allarmante”
quando questo liberalismo riguarda l’economia. I sindacati europei sono contrari alla firma del Ceta, gli stessi palloncini rossi a forma di Ttip che corredano le proteste contro
l’accordo con gli Stati Uniti ora sono a forma
di Ceta, i documenti interni al negoziato segnalano uno scetticismo crescente in molti
paesi europei, mentre la Vallonia si è già dichiarata apertamente contraria. La sinistra
in Germania, Austria e Belgio vuole il voto
parlamentare e François Hollande fa l’improbabile mediatore tra liberali e antiliberali. Così, mentre il tocco magico di Trudeau
piace fintanto che non si parla di libero
scambio, il premier canadese smette i panni
concilianti: l’Europa dimostri la sua utilità,
ha detto. Trudeau ribadisce che il liberismo
è di sinistra, ma molta sinistra per questo ora
lo considera un po’ troppo bullo.
Paola Peduzzi
Roma ha la grande chance di diventare il partner privilegiato di Washington
COME LEGGERE L’ENDORSEMENT ESPLICITO DI OBAMA A RENZI. LA BREXIT HA COSTRETTO GLI USA A RIVEDERE LE STRATEGIE
M
atteo Renzi vola negli Stati Uniti e torna a Roma dopo avere incassato l’aiuto
più grande in cui potesse sperare: l’invito di
Barack Obama a votare Sì al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre. Sarebbe superficiale e riduttivo derubricare il sostegno del presidente americano uscente ad
assist mediatico per l’alleato europeo: a meno di tre settimane dalle elezioni per la Casa Bianca, Obama non era infatti tenuto a rivolgere un endorsement così esplicito e diretto al leader italiano. Eppure, a ben vedere, siamo proprio sicuri che il presidente degli Stati Uniti abbia invitato il presidente del
Consiglio come ospite d’onore alla sua ultima
State dinner solo per comunicargli il suo appoggio alla riforma costituzionale? Farebbe
quasi sorridere immaginarsi Barack Obama
intento a leggere con attenzione la riforma e
studiarne il testo nella sua estrema dovizia di
particolari. A Washington nessun pranzo è
gratuito. Agli Stati Uniti – così come agli altri principali partner stranieri – del contenuto della nostra riforma importa relativamente poco. L’unica ragione che ha spinto prima
l’ambasciatore statunitense in Italia, John
Phillips, e poi il presidente Obama a pronunciarsi con tale nettezza in favore del Sì, non
è che l’esigenza di tutelare la stabilità politica italiana e, di riflesso, quella dell’Unione
europea e dell’Eurozona. La realtà è abbastanza diversa da come viene dipinta in questi giorni da molti media mainstream: i nostri principali partner internazionali ci ritengono ancora complessivamente inaffidabili, e
per questo preferiscono un governo che non
è ancora riuscito a rilanciare la crescita, ma
che ha saputo garantire stabilità ed evitare
una nuova crisi, a un pericoloso salto nel
buio che la vittoria del No al referendum potrebbe generare, aprendo la strada a un possibile approdo a Palazzo Chigi del Movimento cinque stelle.
Agli occhi degli Stati Uniti, la sopravvivenza del governo Renzi è in questo momento
ancora più importante poiché l’imminente
uscita del Regno Unito dall’Unione europea
priverà la Casa Bianca di uno dei suoi principali alleati nell’ambito delle istituzioni comunitarie. La storica special relationship, che
ha visto per molti decenni Londra e Washington uniti da un genuino senso di comunione
atlantico, si è trovata di fatto azzoppata all’alba del 24 giugno scorso. Dopo la Brexit, cosa
se ne farà l’America di una Gran Bretagna
isolata e ridimensionata, dato che rischierà
di perdere persino la Scozia la quale, come
pare sempre più probabile dalle dichiarazioni della leader dello Snp Nicola Sturgeon,
chiederà la convocazione di un nuovo referendum per rimanere nell’Ue e abbandonare quindi Londra una volta per tutte? Ecco
dunque come l’Italia rientra strategicamente in gioco in questa geometria variabile di
alleanze. Roma è per gli Stati Uniti il secondo partner più importante e ideologicamente affine in ambito europeo dopo il Regno
Unito, oltre a essere strumentalmente fondamentale per il suo ruolo di “portaerei” del
Mediterraneo in ambito Nato. Non la Francia, che è la principale responsabile dell’affossamento del Ttip, il trattato transatlantico di libero scambio ormai finito su un binario morto. E nemmeno la Germania, fautrice di un rigore di bilancio incomprensibile
per gli Stati Uniti e anche meno allineata in
tema di politica estera, essendo un po’ troppo ambigua nei confronti della Russia di Putin, contro la quale Obama si è speso in maniera abbastanza decisa pretendendo l’imposizione delle sanzioni in seguito all’annessione illegittima della Crimea.
Le carte che il governo può giocare
L’Italia può dunque diventare un partner
fondamentale per portare avanti l’agenda
della futura Amministrazione americana a livello europeo, ovviamente a patto che vinca
Hillary Clinton (circostanza che si dovrebbe
verificare, a meno di sconquassi alla vigilia
del voto che al momento sembrano improbabili). L’uscita di Londra costituisce in questo
senso una ghiotta occasione da sfruttare per
il governo italiano ma, per poterne approfittare in maniera efficace, bisognerà pensare a
una strategia.
Tale piano d’azione non può prescindere
in primo luogo anche dal mantenimento di
buoni rapporti con il Regno Unito. C’è da
scommettere che Washington cercherà di fare lobbying sui suoi principali alleati europei
per fare in modo che durante le trattative per
negoziare l’uscita dall’Ue si trovi un accordo
il meno doloroso possibile per conservare
l’accesso della Gran Bretagna al mercato unico. L’Italia, quinto partner commerciale del
Regno Unito, non ha un vero interesse a chiudere la porta in faccia a Londra, nonostante
alcune dichiarazioni “muscolari” rilasciate
nelle scorse settimane dal ministro dello Sviluppo economico (con delega al commercio
estero) Carlo Calenda, che si potrebbero sostanzialmente parafrasare con un “chi è causa del suo mal, pianga se stesso”.
Il primo passo per implementare questa
strategia può essere compiuto già domani: a
Roma è infatti in visita l’Home Secretary britannica Amber Rudd, ovvero il corrispettivo
del nostro ministro dell’Interno. Nel bilaterale previsto con Angelino Alfano, sempre più
coinvolto su temi internazionali, saranno toccati alcuni punti delicati, come la possibilità
per i nostri cittadini residenti nel Regno Unito di mantenere piena libertà di lavorare, vivere e spostarsi dentro e fuori il paese. E’ vero, Downing Street ha collezionato nelle scorse settimane delle gaffe piuttosto maldestre:
basti pensare all’ipotesi, ventilata dalla stessa Rudd, di elaborare delle liste di “proscrizione” dei lavoratori stranieri, o alla “schedatura” degli studenti italiani in base a una
loro presunta appartenenza linguistica a ceppi minori dell’italiano, quali il napoletano e
il siciliano. L’incontro tra i due ministri che
rappresentano i pilastri dei rispettivi governi nel settore della sicurezza offre però l’opportunità di un chiarimento e di andare oltre, gettando le basi per una trattativa aperta e disponibile nel momento in cui verrà finalmente premuto il grilletto dell’art. 50.
Che la Brexit possa essere un’opportunità
da sfruttare per l’Italia attraverso un rilancio del nostro ruolo europeo come “alfiere”
degli Stati Uniti? Le premesse ci sono, ma è
ancora presto per dirlo. Prima di tutto, bisognerà aspettare l’8 novembre, sperando in
una scelta ragionevole dei cittadini americani, e il 4 dicembre, quando dietro al quesito
sulla nuova Costituzione vi sarà anche un giudizio sul governo Renzi e una forte ipoteca
sul suo futuro.
Gianni Castellaneta
E poi tutti (anche gli ecuadoregni) hanno scoperto il vero gioco di Assange
Roma. Lo scandaluccio della connessione internet di Julian Assange, fondatore di
Wikileaks rinchiuso da quattro anni nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, mostra meglio di ogni proclama, di ogni mail
trafugata e di ogni hackeraggio indebito lo
stato dell’organizzazione un tempo paladina della trasparenza e della giustizia internazionale e oggi agente per niente imparziale di interessi particolari. Nel 2012, Assange ha chiesto asilo nell’ambasciata
ecuadoregna per sfuggire alla giustizia internazionale che lo accusa, a suo dire ingiustamente, di vari reati. Da lì, in maniera più o meno agevole, ha continuato a gestire la sua organizzazione, rilasciare interviste, intervenire sull’agenda mondiale. Ha
goduto della luce riflessa dell’affaire Snowden, poi, negli ultimi mesi, è tornato alla ribalta con la pubblicazione delle mail riservate del Partito democratico americano, in
parte prelevate dai server della Democratic National Committee e in parte provenienti dall’account personale di posta di
John Podesta, capo della campagna elettorale di Hillary Clinton. In entrambi i casi,
la pubblicazione delle email finora ha fatto più scalpore per la loro provenienza
(Wikileaks, ha accusato il governo di Washington, le avrebbe ricevute da hacker al
soldo del governo russo) che per il loro contenuto (molto gossip, qualche malevolenza
e poco materiale davvero compromettente
oltre al solito manovrare della politica), ma
ha consentito ad Assange di mantenere una
presenza stabile sulle prime pagine dei
media occidentali.
La cattività di Assange non ha rallentato il flusso degli scandali e delle rivelazioni, ma da lunedì le comunicazioni del fondatore di Wikileaks hanno iniziato a rarefarsi. La connessione internet dell’ambasciata ha subìto delle limitazioni, e Assange è stato parzialmente tagliato fuori dal
INNAMORATO FISSO
di Maurizio Milani
Ieri ho dato le dimissioni da
ispettore Unesco per il Lombardo-Veneto.
1) Per le note vicende di questi giorni che boicottano
Israele.
2) Perché è vent’anni che propongo di
far diventare patrimonio Unesco i seguenti fiumi:
- Adda
- Po
- Trebbia
- Naviglio Martesana
- Lago Fratelli Testagrossa
Mi hanno sempre detto “noooo!”. Forse
perché le popolazioni che abitano sulle
rive di tali fiumi non sono comuniste?
mondo, anche se è plausibile immaginare
che continui a comunicare tramite cellulari e smartphone. Dopo qualche ora in cui
si sono susseguite le ipotesi più svariate
(un malfunzionamento? un attacco dei nemici della libertà?), il governo ecuadoregno ha ammesso: siamo stati noi. In un comunicato ufficiale, Quito ha annunciato di
aver “esercitato il suo diritto sovrano di restringere l’accesso a parte della sua rete di
comunicazioni private” perché in base al
“principio di non intervento negli affari interni di altri stati”, l’Ecuador non vuole che
le sue strutture siano usate per “interferire nei processi elettorali di altri paesi o intervenire in favore di un particolare candidato”. In pratica, l’Ecuador non vuole essere considerato la base di un’operazione
volta a influenzare le elezioni americane
gettando discredito su uno dei candidati
(Clinton) per favorirne un altro (Trump) su
ispirazione di uno stato terzo (la Russia).
Immediatamente, contro l’Ecuador e il
suo presidente, Rafael Correa, sono arrivate accuse di viltà e di sottomissione all’odiato potere americano. Wikileaks ha condannato l’avvenuto, e ha ribadito di essere
niente più che un tramite: noi ci limitiamo
a pubblicare informazioni di rilievo generale, non intendiamo influenzare nessuna
elezione. Ma la decisione di un paese non
esattamente allineato come l’Ecuador, guidato da un presidente populista e sociali-
sta che fa della retorica antiamericana una
parte importante del suo repertorio, segna
un punto di svolta per Wikileaks e il suo
fondatore. L’Ecuador ha deciso di tagliare
internet ad Assange (cosa che comunque,
come è facile immaginare, non limiterà
l’attività di pubblicazione di segreti trafugati) perché perfino a quelle latitudini si è
capito ormai che Wikileaks non è più l’organizzazione equanime che castiga i potenti della terra in difesa della trasparenza e
del diritto dei cittadini a sapere, osannata
come paladina delle libertà contro le angherie dei governi (occidentali) e delle
multinazionali (occidentali anch’esse). Si
potrebbe andare oltre, e dire che Wikileaks
non è mai stato niente di tutto questo, ma
che piuttosto solo adesso ha iniziato a mostrare i suoi veri colori anche agli osservatori più disattenti. Quella di Assange è
un’organizzazione politica, con un’agenda
ben precisa e tendenzialmente canagliesca, e con sponsor equivoci, come mostrato in decine di inchieste giornalistiche e
confermato dai fatti. La retorica della trasparenza è sempre stata un alibi ideologico più che un obiettivo, e gli hackeraggi in
America lo dimostrano in maniera evidente. Assange non è mai stato il giudice super
partes che mette in mostra i panni sporchi
degli altri, è parte del gioco. E’ ora che inizi a essere considerato come tale.
Eugenio Cau
Schiavi della libertà
I bianchi americani non hanno
un’identità condivisa ma non
averla è parte dell’idea di libertà
(segue dalla prima pagina)
Hauerwas parte da un’osservazione
empirica e personale: “Ho chiesto a tutti
quelli che conosco qui in università se votano Trump, e non sono riuscito a trovare una sola persona che voti per lui. Non
solo, ma tutti dicono anche che a loro volta non conoscono nessuno che vota per
Trump. L’élite accademica non conosce il
popolo che vota Trump, non condivide
nulla con queste persone, non sa dove
abitano, cosa pensano, come vivono, sono
due insiemi senza un’area di intersezione. Queste elezioni, io credo, hanno molto a che fare con questa condizione di
alienazione, estraneità e confusione che
ha radici profonde. Di questo popolo invisibile sappiamo una cosa con certezza:
che è arrabbiato. Ma con chi siano arrabbiati non lo sanno nemmeno loro, e così
Trump ha assunto un ruolo ‘terapeutico’,
nel senso che offre a questi malati di alienazione un nemico da combattere, l’establishment politicamente corretto rappresentato da Hillary”. Terapeutico è un aggettivo ricorrente nelle indagini sociologiche sulle tendenze del popolo americano. Christian Smith, sociologo delle religioni della Notre Dame University, usa
l’espressione “deismo moralistico-terapeutico” per descrivere l’esperienza religiosa dei millennial e dei loro fratelli
ancora più giovani: cercano la cura per
una malattia esistenziale che è difficilissima da diagnosticare. L’analogia con lo
scenario politico si costruisce da sé.
Hauerwas sostiene che il disagio della
civiltà americana agitato da Trump non si
misura con il metro socioeconomico. Non
è la povertà della classe operaia bianca
che gli ha permesso di mandare gambe
all’aria il partito di Abraham Lincoln, ma
la sua perdita di identità, dove il fattore
economico è una specie di acceleratore
della reazione. “I bianchi in America si
sono sostenuti seguendo, coscientemente
o meno, il mito della riuscita economica.
E’ quello il collante della loro identità.
Quando si sono trovati impoveriti hanno
perso tutto: non hanno una storia condivisa con cui si identificano, e quindi non
possono avere il senso del futuro. Non si
può tramandare alle nuove generazioni
ciò che non si ha. Per gli afroamericani è
diverso. Hanno subìto tragedie immani e
sono ancora vittime di pregiudizi, ma
hanno attraversato insieme, come popolo, la schiavitù, la segregazione, hanno
sofferto e si sono battuti per qualcosa. I
bianchi, invece, non hanno storia”. E qui
sta la pietra d’inciampo. Perché il non
avere una storia, il taglio con il passato,
è parte integrante del progetto del Nuovo
Mondo. Il non avere un’identità, ma poterla scegliere con un atto della volontà,
è esso stesso un tratto dell’identità.
Thomas Paine era elettrizzato di fronte all’occasione unica di “rifare il mondo
daccapo” e in questa fibrillazione nuovista si è cementata l’idea che Hauerwas
riassume così: gli americani “pensano
che non debbano avere una storia se non
la storia che hanno scelto quando ancora non avevano una storia”. “Questo è ciò
che gli americani chiamano libertà: una
scelta, una recisione totale determinata
con la volontà”, dice il teologo, osservando che con Trump e Hillary la logica della pura scelta mostra la sue conseguenze
impreviste: “Siamo talmente liberi che
oggi possiamo scegliere fra l’irrazionalità
di Trump e l’élite cinica di Clinton: non
mi pare una grande libertà”. Hauerwas
non crede però che questa elezione avrà
l’effetto di scalfire la fiducia che gli americani hanno nella politica – cosa che li
distingue dagli europei, che a seconda
dei punti di vista sono cinici e realisti –
per il semplice fatto che “gli americani
non sanno bene di cosa parlano quando
dicono ‘democrazia’. Questo è evidentemente il sistema più elitario e classista
d’occidente, le istituzioni democratiche
dipendono direttamente dall’élite che
dominano l’ambito accademico, tecnologico, politico e dell’informazione. Ma noi
eravamo così impegnati a costruire il benessere economico e a ripetere quanto
eravamo fortunati a vivere nel paese della libertà che non siamo mai riusciti ad
ammetterlo”.
Mattia Ferraresi
IL RIEMPITIVO
di Pietrangelo Buttafuoco
Obama vota Sì. L’ultima nota
della fanfara spenta appena ieri del
viaggio di Matteo Renzi negli Stati
Uniti è stata appunto questa, e cioè
che il Capo dell’Amministrazione americana vota a favore delle Riforme alla Carta costituzionale promosse dall’attuale governo. Tutti i giornali, tutti
i tiggì e anche gli amici da Broccolino
hanno fatto rimbalzare questa notizia
in forma di spot. Poco importa che
Obama non abbia la cittadinanza italiana, requisito minimo per votare, ancora più importante è la sua scelta di
campo: al fianco del giovane premier e
sempre dalla parte delle conquiste
progressive del fronte progressista.
Resta il fatto che l’America è sempre
più vicina e che con Renzi l’Italia è
sempre più in America. Se non fosse
inopportuno citare il bandito Giuliano
a tal proposito potrebbe dirsi che col
governo delle riforme l’Italia può ben
sperare di essere la stella mancante
tra le tante sotto le strisce della bandiera americana. Obama dunque vota
sì ma una macchina nella cena di stato alla Casa Bianca c’è, possibile che ci
sono andati tutti e non l’unica che doveva esserci, e cioè Maria Elena Boschi?
ANNO XXI NUMERO 248 - PAG I
IL FOGLIO QUOTIDIANO
GIOVEDÌ 20 OTTOBRE 2016
PERCHE’ SIAMO SCESI IN PIAZZA
I lettori del Foglio contro il negazionismo culturale dell’Unesco e al fianco di Israele
Un momento della manifestazione del Foglio, ieri a Roma sotto la sede dell’Unesco (foto di Giovanni Battistuzzi)
Al direttore - Il documento dell’Unesco è
inaccettabile per due ragioni di fondo. In
primo luogo per una ragione politica perché in esso c’è una faziosa ricostruzione di
tutta la vicenda che riguarda i rapporti fra
Israele e i palestinesi. Già questo è molto
grave per un’organizzazione dell’Onu che
casomai dovrebbe lavorare per la mediazione, per costruire un filo di ragionamento, di analisi e di relazioni fra le due comunità. Dove però il documento dell’Unesco
supera la decenza è quando pretende di riscrivere la storia, eliminando ogni riferimento all’identità ebraica per luoghi segnati storicamente dai drammi, dalle convinzioni religiose profondamente vissute
da due popoli, quello ebreo e quello musulmano, mentre in altre località con queste
due confessioni si intreccia la presenza di
quella cristiana. Ora l’abrogazione con un
tratto di penna di un pezzo della storia dell’ebraismo non è solo il massimo della faziosità, ma anche il massimo della stupidità. In questo quadro devo confessare la
mia stupefazione per la duplice astensione
da parte dell’Italia: errare è umano ma perseverare è diabolico. Finora il governo italiano ha sempre tenuto un atteggiamento
assai equilibrato sulla vicenda israelianopalestinese, difendendo le ragioni dell’esistenza e dello sviluppo di Israele, sostenendo la tesi dei due popoli e due stati e avendo rapporti seri e articolati con i vari paesi del mondo arabo. Comunque il fondamento della linea del governo è stato sempre il più netto rifiuto di ogni forma di antisionismo, di antisemitismo e di ogni azione contro Israele. Queste scelte positive sono state contraddette da un voto di astensione che ha il senso non di un’abile operazione diplomatica ma, ci si consenta la figura retorica, di un gesto alla Ponzio Pilato. Se è questa la diplomazia allora è meglio l’attività agricola svolta con il massimo
di manualità e il minimo di impegno cerebrale.
on. Fabrizio Cicchitto (Ncd)
Al direttore - Nemmeno il coraggio di
metterci la faccia. Questa è stata la reazione del direttore della sede romana dell’Unesco, il quale non ha mostrato la benché
minima sensibilità nell’aprire la porta per
un confronto pacato ad una delegazione
della Comunità ebraica e del vostro giornale, al quale colgo l’occasione per mostrare
il mio sentito ringraziamento per l’iniziativa. Forse l’imbarazzo per una mozione totalmente scollegata dalla storia che vede
privare il popolo ebraico delle radici più
profonde con la città considerata da sempre sacra? Lo spero vivamente. Oppure la
connivenza con un sistema di votazione che
permette alla maggioranza dei paesi arabi
di esercitare sfacciatamente una sorta di
jihad culturale nei confronti dell’occidente? Resta il fatto che rimangono ancora
molte le domande senza alcuna risposta.
Al di là dell’irrilevanza di certi rappresentati, il vero nodo della questione rimane il silenzio assordante proveniente dalle
istituzioni e associazioni del mondo cristiano. Quel che infatti si ignora, è la pericolosità – non certo per il popolo ebraico e per
lo stato d’Israele che da sempre sono abituati all’ipocrisia delle organizzazioni internazionali sedicenti paladine di valori
universali – della mozione nei confronti
della pluralità e della libertà di professare la propria religione a Gerusalemme,
sbandierata capitale e culla delle tre religioni monoteiste. Per quanto Papa Francesco si ostini a negare, erroneamente, la natura religiosa della guerra in corso tra l’islam e il mondo occidentale, condivido la
definizione proposta dal direttore Cerasa
che considera questo ennesimo oltraggio
nei confronti del popolo ebraico come un
ulteriore tassello del negazionismo culturale. Nel corso degli altalenanti rapporti
diplomatici tra l’Italia e lo stato ebraico,
per anni nel corso dei ricevimenti ufficiali
è stato a più riprese sottolineato l’indissolubile rapporto tra Roma e Gerusalemme.
Pertanto, in quanto italiano ed ebreo mi
sento profondamente frustrato e tradito
nell’assistere all’ennesima occasione persa
dalle istituzioni del mio paese nel prendere posizione su una tematica, tanto importante e lineare nella sua definizione.
Gianluca Pontecorvo
Al direttore - L’Italia si è astenuta davanti a questa bruttura. Mi domando: che cosa
vuol dire l’Italia? Io non l’ho mai vista a
passeggio l’Italia. Avrà un nome, un mandante chi si è astenuto in nome dell’Italia!
Lo dobbiamo a Renzi, al ministro della Cultura (si fa per dire) Franceschini, al ministro degli Esteri (si fa di nuovo per dire)
Gentiloni? Sono pienamente con voi a protestare davanti alla sede Unesco di Roma,
ma vorrei che si manifestasse anche davanti alla sede del nostro governo. Gli orrori, i
revisionismi vanno stigmatizzati sempre,
altrimenti si diventa complici e si dicono
dei silenziosi sì di toppo.
Assunta Cioci
Al direttore - Ho aderito e partecipato alla manifestazione organizzata dal Foglio
sotto la sede dell’Unesco per protestare
contro la mozione che pretende di cancellare dalla storia di Gerusalemme la millenaria presenza ebraica. Una decisione che
propone una rilettura identitaria a senso
unico della storia e che i rappresentanti
dei diversi schieramenti politici israeliani
hanno condannato all’unanimità definendola giustamente “vergognosa e antisemita”. Quella di Gerusalemme resta una incancellabile storia plurale. La decisione di
riscrivere la storia per espungere la tradizione ebraica è pertanto una decisione grave e grottesca. E gravi sono le responsabilità dell’Italia.
sen. Alessandro Maran (Pd)
Al direttore - Ho aderito convintamente
al sit in promosso dal Foglio. La decisione
dell’Unesco è grave ed insensata, per nulla all’altezza dei doveri di responsabilità
che competono a tutti – ed in modo particolare ad un organismo delle Nazioni Unite – a fronte della delicatissima situazione
di Gerusalemme, città epicentro di un complesso sistema di simboli e di valenze religiose, culturali e politiche. L’Unesco ha dato così un contributo non secondario all’inimicizia e allo scontro. Ha operato contro
i valori della pace tra i popoli e contro la
possibile convivenza tra le religioni che ve-
dono in Gerusalemme un segno importante delle proprie radici e della propria storia. E come tale si pone contro i principi
stessi delle Nazioni Unite.
Stupisce non poco e preoccupa il voto di
astensione dell’Italia, che non posso pensare sia frutto di istruzioni governative. Con
questo voto abbiamo deragliato dal binario
della tradizionale politica estera italiana
nella regione. Un conto infatti è la giusta
attenzione all’equilibrio e al dialogo con
tutte le parti in causa, per favorire compromessi di pace, oltre ogni faziosità. Un conto ben diverso è invece non opporsi con forza (come sarebbe stato e sarebbe ancora
doveroso) a una risoluzione che disconosce
volutamente i fatti della storia; produce un
attacco politico improprio allo stato di
Israele, ben oltre le critiche che si possono legittimamente rivolgere alle decisioni
delle sue autorità di governo; non nasconde infine, ed è la cosa più grave, venature
inquietanti di antisemitismo.
Nelle difficili vicende che vedono contrapposti i popoli, i simboli della storia sono importanti. Disconoscerli e forzarli per
logiche faziose ha lo stesso effetto di brandirli come armi improprie. Nell’un caso e
nell’altro si lavora contro la pace possibile.
on. Lorenzo Dellai
Presidente del Gruppo parlamentare
Democrazia SolidaleCentro Democratico alla Camera
Al direttore - Vorrei essere inserito nella lista realizzata dal Foglio contro la decisione dell’Unesco circa il Muro del Pianto.
Andrea Ungari
Al direttore - E’ più facile spingere Israele verso il mare piuttosto che riconoscerne
i confini (possibilmente in acque internazionali)!
Anania Fortunato
Al direttore - Vergogna, vergogna per l’Onu sottomessa al volere e ai soldi dei principi sauditi, vergogna per la pavidità dell’Europa, del nostro povero paese e della
sua indecente classe politica. Vicinanza,
sostegno e stima per i nostri fratelli ebrei
e per la loro eroica resistenza contro il
mondo che li odia.
Giovanni Battista Guizzetti
Al direttore - Non si può accettare sempre in silenzio tutto.
Maria Luisa Battistioli
Al direttore - La furia iconoclastica dell’Unesco è paragonabile solo al rogo dei libri nella Germania nazista del 1933. Il primo
passo per cancellare e lasciare nell’oblio un
popolo e una nazione è cancellare la sua storia, la sua cultura e i suoi simboli: lo fanno
i fondamentalisti islamici in Africa e in medio oriente, bruciando chiese, bibbie ed esseri umani. Oggi ci prova l’Unesco, che tenta di cancellare 4.000 anni di storia con una
mozione presentata da Algeria, Egitto, Libano, Marocco, Oman, Qatar e Sudan, paesi dove notoriamente vige lo stato di diritto, l’emancipazione della donna, dei bambini e
dei diritti umani. I paesi occidentali troppo
spesso dimenticano o fanno finta di dimenticare che Israele è l’ultimo baluardo della
libertà e dei valori occidentali, compresi gli
ebrei europei che scappano dall’Europa per
la recrudescenza dell’antisemitismo. Che
vogliamo fare? Riportare l’orologio indietro
di settant’anni solo per citare l’ultimo tentato sterminio del popolo ebraico? O vogliamo evolverci e affermare una volta per sempre che si è dalla parte di Israele e che Gerusalemme è la sua capitale, isolando ed
emarginando i paesi e quelle istituzioni palesemente ostili sia ad Israele che all’occidente. In una situazione del mondo così
complessa se si vuole sopravvivere senza
perdere la propria identità e la propria libertà bisogna fare delle scelte e non si può
vivacchiare tenendo i piedi in due scarpe o
facendo i Pilato sperando che la tempesta
passi e non ci colpisca. Un Paese serio dovrebbe congelare i fondi destinati a organizzazioni dubbie e di dubbia moralità come
l’Onu e le sue controllate, fino a quando non
verrà ristabilità la verità e la giustizia sul
Monte del Tempio, e sul Muro occidentale
altrimenti chiamato Kotel, che di certo non
è islamico, visto che l’islam è nato 700 anni
dopo Cristo e 2.700 anni dopo l’ebraismo.
Am Israel Chai, Viva Israele e Viva il popolo ebraico.
Giovanni Spata
me e cognome del nostro rappresentante
astensionista e chiedere a questo signore
quali sono le ragioni dell’astensione indegna. Perché nessun giornalista dei tanti
quotidiani che circolano nel nostro paese
si è ancora preso la briga di intervistarlo?
Franco Taddio
Al direttore - All’Unesco e al governo italiano. Vergogna, vergogna, vergogna. Cancellate la storia per concellare l’umanità.
Mario Erminio Locatelli
Al direttore - Abbiamo scritto a Renzi,
Gentiloni e all’ambasciatrice Lo Monaco,
che rappresenta l’Italia all’Unesco. In attesa di risposte e di un rovesciamento di questo umiliante voto antistorico, sottoscriviamo l’appello del Foglio per stigmatizzare
l’indecente voto italiano di ASTENSIONE
sulla mozione in Commissione Unesco, che
nega il legame storico fra l’ebraismo e il
Muro del Pianto a Gerusalemme.
Mauro Ramoni e Adriana Mazzocchi
Al direttore - Che l’antisemitismo e l’estremismo fazioso “politicamente corretto”
siano ben presenti alle Nazioni Unite, e soprattutto nelle varie sue agenzie, non è certo una scoperta di oggi. E’ quindi importante oggi stigmatizzare l’ennesimo pilatismo
della nostra diplomazia, e non permettere
che insieme alla storia d’Israele (e direi
dell’umanità) venga calpestata anche una
parte certo non secondaria delle nostre radici. Sono con voi. Cancelliamo l’Unesco.
Marino Cervellini
Al direttore - Invio la mia adesione per
la manifestazione contro il messaggio antisemita, anticulturale, antistorico dell’Unesco ormai preda del più idiota conformismo islamista e contro l’ignavia e il suicidio
culturale di un’Europa (Italia compresa)
ormai in via di perdizione.
Renato A. Ricci
Al direttore - Provo profonda vergogna
per la pusillanime decisione della nostra
rappresentanza in sede unesco (doverosamente scritta a lettere minuscole). E il nostro governo che fa? Fischietta?
Raffaello Uccelli
Al direttore - Contro il negazionismo dell’Unesco a fianco dell’amico Israele pacificamente ma senza paura.
Giorgio Del Piero
Al direttore - Unesco, meno male che c’è
Tsahal.
Fabio Ferrari
Al direttore - Sono semplicemente atterrita da quello che sta succedendo, falsare la
storia, negare la storia può portare solo all’imbarbarimento. Io non sono ebrea ma mi
vergogno dell’astensione dello stato italiano nelle votazioni. Sono vicina senza se e
senza ma al popolo ebraico e condivido con
loro lo sdegno per quanto fatto dall’Unesco.
Roberta De Bernardi
Al direttore - Suggerisco la distribuzione gratuita ai membri dell’Unesco del libro
di Giuseppe Flavio “Guerra giudaica”, affinché si facciano un’idea di Gerusalemme
e dell’etnia lì insediata da almeno un paio
di millenni. Penso sia disponibile anche in
versione elettronica e tradotto nelle principali lingue. Con una piccola spesa un grande risultato.
Marcello Gasco
Al direttore - Vorrei almeno sapere no-
Al direttore - Non ci faremo sottomettere, spero. Ma sopravvivranno con molta più
probabilità gli ebrei, abituati a combattere per difendersi (il contrappasso per i loro nemici: più li attaccano, più Israele si
rafforza). Noi invece prestiamo il fianco.
Dario Mazzocchi
Al direttore - Siamo sempre stati un popolo di vigliacchi e voltagabbana. Io sto con
Israele
Fulvio Alfieri
Al direttore - Voglio esprimere la mia
protesta per una risoluzione che definire
vergognosa è troppo poco. E’ un insulto alla cultura oltre che a un popolo intero che
ho sempre ammirato e stimato. Mi vergogno
inoltre della posizione italiana, spero ci sia
una presa di posizione opposta che ristabilisca la verità storica; in mancanza di questo, tutto ciò che la politica italiana ha fatto e sta facendo contro l’antisemitismo verrebbe completamente cancellato.
Giorgio Boato
Al direttore - Non c’è molto da aggiungere . Renzi tace a Washington, come previsto.
Roberto Baquis
Al direttore - Aderisco alla vostra campagna.
Francesco De Mori
Al direttore - Aderisco volentieri all’iniziativa del Foglio. La storia non è un’opinione e la Terra Santa, nel bene e nel male, appartiene alle viscere del popolo di
Israele e, attraverso la nascita, la morte e,
per i credenti, la Resurrezione di Gesù Cristo, al patrimonio spirituale di tutte le genti. L’Unesco ha perso l’occasione per tacere
e per non essere complice della “banalità
del Male”.
Giulio Battioni
Al direttore - Sono pienamente solidale
con il popolo ebraico, vessato e beffato due
volte in questa occasione. Soprattutto a
causa dell’atteggiamento servile delle democrazie occidentali. Tristemente constato la conferma della paralisi identitaria
dell’Europa e del nostro paese. Il mio voto simbolico è a favore dell’identità ebraica del Muro del Pianto.
Antonello De Lucia
Al direttore - Scrivo per esprimere il mio sdegno nei confronti di un’ente assolutamente pericoloso e filo-islamico come Unesco. Non sono
ebreo, dunque neutro, ed esprimo con forza il
diritto degli ebrei ad aver riconosciuti i loro simboli storici e religiosi. Scrivo anche per chiedere a gran voce le dimissioni del membro italiano che si è astenuto. Costui (o costei) se ne deve
andare, non può rappresentare l’Italia, considerando anche il discorso che Matteo Renzi, presidente del Consiglio, ha tenuto alla Knesset un
anno fa. La posizione dell’Italia è chiaramente
espressa da Renzi in quel discorso, dunque il
membro italiano dell’Unesco deve dimettersi o,
in caso non lo faccia, essere sostituito immediatamente. Saluti alla redazione del vostro ottimo
giornale, ultimo baluardo di intelligenza in un
paese dove i media sono vergognosi.
Pierfrancesco Palego
Al direttore - Sostegno e solidarietà agli
ebrei, nostri fratelli maggiori.
Nicola Clericetti
Al direttore - L’Unesco ha assegnato ai
musulmani Gerusalemme, una città il cui
nome NON compare mai neppure una volta nel Corano. Gli esimi studiosi dell’agenzia dell’Onu dovrebbero allora sapere che
il profeta Maometto non è nato alla Mecca
ma a Forlì. Chi l’ha detto? Beppe Grillo in
uno dei suoi show. Attendo allora che anche Forlì sia proclamata città santa per l’islam, tanto Renzi si asterrebbe.
Andrea Masieri
Al direttore - Ho letto parole pacate e
dotte in molte lettere inviate al Foglio. Io
non sono dotta e neppure pacata, l’indignazione per questa mozione scellerata mi impedisce di dire altro. Resto idealmente davanti al Muro del Pianto, in silenzio.
Luciana Senna
Al direttore - L’antisemitismo dell’Unesco, dettato dall’asservimento all’islam, è
anche anti-cristianesimo. Non sottovalutiamolo!
Cesare Scuderi
Al direttore - Vergogna a chi in rappresentanza dell’Italia si è astenuto all’Unesco. Aderiamo alla vostra iniziativa. Forza
Israele!
Roberto Graziano
e Clara Collesan Spilimbergo
Al direttore - Aderisco, congratulandomi
fortemente, all’iniziativa, pur non potendo
per la distanza partecipare sul posto. Gli
sforzi continui di delegittimare Israele e la
contraffazione del passato non fanno che
nuocere alla ricerca di una pacifica soluzione negoziata tra le parti interessate. Denunciamo i consensi e le incertezze di rappresentanze di stati democratici al blocco precostituito di paesi ostili a Israele, così come
i silenzi al riguardo. Chiediamo, in particolare, l’onorevole “no” dell’Italia, affiancato al
“no” di altri stati amici, verso questa del tutto sbilanciata proposta di risoluzione, nel voto definitivo all’Unesco, anche per la stima
che vorremmo ricuperare alle finalità di tale istituzione.
Bruno Di Porto (segue nell’inserto IV)
ANNO XXI NUMERO 248 - PAG II
IL FOGLIO QUOTIDIANO
GIOVEDÌ 20 OTTOBRE 2016
ANNO XXI NUMERO 248 - PAG III
IL FOGLIO QUOTIDIANO
GIOVEDÌ 20 OTTOBRE 2016
#ilFoglioperIsraele - 19 ottobre 2016
ANNO XXI NUMERO 248 - PAG IV
IL FOGLIO QUOTIDIANO
GIOVEDÌ 20 OTTOBRE 2016
IL NEGAZIONISMO DELL’UNESCO
Sul Muro del Pianto una terribile bugia, una nuova Shoah culturale. L’occidente rinsavisca
la vostra iniziativa.
(segue dall’inserto I)
Al direttore - Aderisco, ma purtroppo
non potrò essere fisicamente con voi di
fronte alla sede dell’Unesco.
Gianfranco Spadaccia
Gianni Pillon
Al direttore - Un gesto grave e soprattutto antistorico! Propaganda asservita agli interessi economici dei paesi del Golfo.
Alessandro Ricci
Al direttore - Continua la persecuzione,
anche all’interno del loro paese. In settant’anni i supravvissuti della Shoah hanno
cambiato la natura di una terra piena di paludi, di serpenti, di scorpioni, dove islamisti che vivevano di contrabbando, di rapine,
di ostaggi e riscatti, e anche di comercio di
schiavi, in vero verde paradiso, piantando
ogni anno 700.000 alberi. Ma a noi puzza che
adesso hanno uno stato, e possono difendersi. Era meglio quando vivevano dispersi
sensa paese senza possibilità di diffendersi, e potevamo calunniarli, accusarli per
ogni male che succede, gli ebrei. Gli ebrei
sono ricchi, sono ricchi, fanno male a tutti.
Adesso a Israele facciamogli male come
possiamo, facciamo dei tunnel da Gaza, per
entrare e uccidere, uccidere la gente mentre dorme. Cosa cercano? Muro del Pianto?
E’ cristiano… è musulmano… è quello che
volete! Ma non ebraico. Che schifo di Unesco.
Isaac Amon
Al direttore - Finalmente la cultura che
sta conducendo l’occidente al suicidio culturale si è manifestata. E’ la cultura onusiana, oggi espressa dall’Unesco, che odiando
le radici profonde della nostra cultura, della nostra storia e delle ragioni stesse della
nostra esistenza, cancella la verità e la vita.
Il nostro governo e il nostro ministero degli Esteri dovranno dare una spiegazione,
per non perire nell’irrilevanza e nell’ignavia, oltre che in un disprezzo assolutamente meritato. Una volta chi voleva distruggere un popolo e una cultura lo combatteva
con la forza. Oggi chi vuole distruggerci non
deve fare altro che attendere che il nostro
suicidio si completi. La cultura occidentale, che è nata in quel luogo con Davide e Salomone, è stata oggi svenduta e distrutta anche nel ricordo, da una inutile quando costosa e corrotta organizzazione internazionale che copre le dittature e ogni violenza
antioccidentale. Vergogna.
Angelo D’Addesio
Al direttore - L’islam avanza anche in
medio oriente purtroppo, come in occidente. Dovrebbero vergognarsi i cosiddetti
paesi cristiani, tra cui l’Italia, la Francia, il
Portogallo ecc. che si sono astenuti, ma vanno in chiesa a leggere i passi della Bibbia
e del Vangelo! Il presidente Renzi predica
bene e razzola male. Mi auguro che qualche moschea italiana, tra anni a venire, non
diventi la moschea lontana come lo è diventata la moschea di al Aqsa. L’islam non è
una religione perchè è privo di spiritualità,
di profondità interiore per cui credo che
prima o poi scomparirà dalla faccia della
terra e speriamo che i tempi non siano molto lontani. Israele forza, avanti, verranno
tempi migliori e tutto tornerà come prima,
la Tua terra è la terra che ha calpestato Gesù che, certamente, non lascerà cadere nelle mani di musulmani i suoi figli e i suoi
luoghi e quelli dei suoi antenati.
Lia Rossi
Al direttore - Cancellare l’Unesco!
Marina Deserti
Al direttore - Caro ministro Gentiloni,
vorrei esprimere tutto il mio sconcerto per
la decisione assunta dai nostri rappresentanti presso l’Unesco di astenersi in relazione all’assurda risoluzione in oggetto.
Questa, ancora una volta, mira a isolare il
solo stato democtratico del medioriente.
Il futuro certamente chiederà conto di
questo ennesimo comportamento codardo
da parte di molte nazioni libere e democratiche, e tra queste la nostra da lei oggi rappresentata. Abbiamo credo letto la stessa
storia del Novecento? O non si vuole trarre nessuna lezione dal passato? Grazie per
l’attenzione,
Roberto Fezzi
Al direttore - E’ un’infamia, una viltà, l’Italia doveva votare contro! E’ proprio vero
che “Quos Deus perdere vult dementat
prius”. Grazie Direttore per aver sollevato
la questione. Tanti cordiali saluti,
Elisa Novarese
Al direttore - Sono un’insegnante romana molto attiva nel campo della Memoria
(che si traduce in formazione in Italia e all’estero, in viaggi ad Auschwitz e Mauthausen con gli studenti, incontri in istituto e
fuori con sopravvissuti, giornalisti e scrittori e qualche collaborazione col Fnism prima e col Progetto Memoria della Cer ora),
ma amo anche Israele e quindi mi dedico
(ove possibile, perché non sempre mi è permesso!) a far conoscere ai miei studenti cultura, tradizioni e realtà ebraiche soprattutto del territorio… Faccio anche parte del-
Al direttore - Questa risoluzione rappresenta un atto di prepotenza e arroganza, un
intollerabile abuso di potere che arriva a
negare l’evidenza storico-culturale con il
tacito consenso dell’establishment politico
occidentale, europeo di quei paesi come
Italia, Francia, Grecia e Spagna che per codardia si sono astenuti, consapevoli che
stavano avallando il falso.
Beatrice Sellinger
Al direttore - E l’Unesco dovrebbe essere un’istituzione a presidio della cultura?
Tutti a casa a non far danni!
Pietro Cortesi
Il simbolico Muro del pianto fatto con le lettere dei nostri lettori ed esposto ieri sotto la sede dell’Unesco a Roma (foto di Ariel Nacamulli)
l’associazione Bnei Efraim-Amici di Israele, fondata da mia sorella Nazzarena a Caltanissetta, che si occupa tra le altre cose
della riscoperta delle radici ebraiche siciliane e di organizzare viaggi in Israele per
diffonderne la cultura e le sue ragioni. Infine cerchiamo di aiutare associazioni come il KkL e il Keren Hayesod e Tsad Kadima per dimostrare concreta solidarietà a
Israele.
Noi siamo con Israele anche in questa
battaglia contro l’Unesco che, per compiacere le nazioni che circondano l’unica democrazia del medioriente e che nei loro
proclami auspicano la distruzione di Israele a cominciare dalla sua storia, non ha esitato ad andare contro ogni verità storica e
per i credenti contro ogni verità di fede.
Sarò con voi in piazza di Firenze per sostenere le ragioni di Israele, senza se e senza
ma, in verità anche per sostenere le mie come cristiana!
Claudia Condemi
Al direttore - La vergognosa risoluzione
dell’Unesco colpisce in primo luogo perché
approvata da un organismo che dovrebbe
promuovere la cultura e i beni storici del
mondo. Con questo atto, l’Unesco nega se
stessa, offende, ancora prima che la religione e la cultura del popolo ebraico, l’intelligenza delle persone per bene, quelle per
intenderci, consapevoli della complessità
del conflitto nell’area, e che si sorprendono ancora che la città santa di Gerusalemme possa essere strumentalizzata.
L’odio nei confronti di Israele, l’unica
democrazia del medio oriente, arriva al
punto di voler cancellare la storia del mondo e tutto questo non può esser sottovalutato, perché è chiaro il tentativo di utilizzare le organizzazioni internazionali per
sfregiare i monumenti e i luoghi sacri dei
popoli che si vuole rimuovere dalla memoria; è avvenuto per mano dell’Isis che ha
distrutto preziosi siti archeologici, avviene
ora in altra modalità con la risoluzione
dell’Unesco. Mi auguro che il governo Renzi, che ha scelto la strada incomprensibile
dell’astensione, chiarisca e ripari a questa
vergogna. Per quanto mi riguarda la mia
solidarietà e vicinanza sono a totale disposizione del popolo ebraico e dello stato di
Israele.
Aurelio Mancuso
Presidente Equality Italia
P. S. Naturalmente aderisco alla vostra
manifestazione in piazza Firenze, e nel caso si protragga per alcune ore sarà mio piacere parteciparvi.
Al direttore - Condivido la campagna
del Foglio contro il pronunciamento dell’Unesco e trovo incomprensibile l’atteggiamento del governo italiano che si è
astenuto.
Gian Paolo Carini
Al direttore - Battaglia sacrosanta, sono
con voi.
Paolo Polverino
Al direttore - Inventare che il Muro del
Pianto e il Monte del Tempio non hanno legami con il popolo ebraico è una terribile
bugia. E’ un oltraggio per tutta l’umanità.
L’Italia voti definitivamente contro questa
risoluzione assurda e falsa che ci offende
tutti. Siamo stanchi di essere rappresentati da tali insipienti. Non possiamo rimanere indifferenti quando i nostri fratelli maggiori vengono umiliati perché questo umilia noi per primi e la storia che Dio sta facendo con l’umanità.
Laura De Giusti
Al direttore - L’asina di Maometto sarà
rimasta sbalordita nel constatare che tante creature della sua specie albergano in
questo coso di nome Unesco, posto nientemeno a salvaguardia della cultura. E già,
perché si può essere antisemiti, odiatori di
Israele, auspicare una nuova soluzione finale, adoratori dell’autore dell’altra, ma
non si può pensare, direbbe perfino l’asina,
di annientare la storia per annientare una
nazione. L’operazione è impossibile, quindi ridicola. La posizione del governo italiano, poi, in questa miserabile faccenda, si
spiega con due ingredienti in più, oltre l’ignoranza: la viltà e la violenta fame di consenso. Israele è un paese piccolo e la umma
è grande (e minacciosa).
Michele Rinaldi
Al direttore - La deriva antistorica imperante, che ha già portato alla rimozione delle radici giudaico-cristiane dell’Europa,
prosegue con l’aberrante mozione dell’Unesco che nega l’identità ebraica di alcuni
luoghi di Gerusalemme. Tre anni fa ho avuto la gioia di recarmi in pellegrinaggio in
Terra Santa e sono stata al Muro occidentale (a noi noto come Muro del Pianto): oltre che di turisti era pieno di uomini e donne ebrei venuti a pregare da ogni parte del
mondo. Mi spiace molto che l’Italia non abbia avuto il coraggio di opporsi alla risoluzione. Ringrazio il Foglio. Continuate così!
Elena Maria Del Piero
Al direttore - L’Italia ha avuto un atteggiamento degno di Ponzio Pilato.
Paolo Vitali
Aderisco alla iniziativa del Foglio contro
la vergognosa risoluzione dell’Unesco che
vuole negare la millenaria presenza del popolo ebraico a Gerusalemme e molto mi addolora il fatto che l’Italia ufficiale non abbia avuto il coraggio di opporsi a questa
vergognosa antistorica affermazione e abbia preferito astenersi nel voto.
Sergio Di Porto
Al direttore - Sostenere che Muro del
Pianto e Collina del Tempio non siano luoghi dell’identità ebraica “è assurdo, unilaterale e falso”.
Francesca Bandozzi
Al direttore - Che dire? Allibito, incredulo, sconvolto? Penso agli amici ebrei che
non ho avuto cuore di chiamare per esprimere con loro qualche parola, colorata di
uno di sdegno, che non so però a chi destinare. Perché nella condizione di quasi tutti, non so chi siano questi diplomatici ignoti che mi richiamano i versi di Aden sulle
loro sedi, e le loro abitudini, prestigiose le
une (anche questa risoluzione è stata presa a Parigi), ciniche le altre. Indegni di rappresentarci. Noi, dove anche carabinieri e
poliziotti, pur costretti dal dovere, e non
parliamo dei cittadini qualsiasi, si distinsero per amore di una giustizia, che pure non
esisteva, difendendo e nascondendo i Perseguitati. Noi, siamo rappresentati da tali
figure? Non ci voglio credere. Eppure è
successo. Ma non è colpa di una burocrazia kafkiana, queste sono persone reali che,
o hanno deciso ciò che più gli aggradava, o
hanno eseguito un ordine da non eseguire.
A Genova c’è uno strano monumento, unico nel suo genere, che non celebra una
qualche impresa gloriosa, ma, al contrario
ne ricorda una poco edificante: è la Colonna Infame. Ecco, me ne piacerebbe una mediatica, anche solo su Internet, dedicata a
costoro. Perché mi sono sforzato di capire,
mettermi nei loro panni. Ma non ci sono
riuscito.
Itriano Cubeddu
Al direttore - To the members of the Unesco - The only way for the members of the
Unesco to obtain a minimum of dignity, after the shameful, unbielivable approval of
the motion of April 16th, 2016, is to reverse
the result in the final resolution by voting
NO, avoiding the cowardly abstentions,
main cause of dishonour for their organization. Otherwise they are no longer entitled to speak in the name of culture, science and, above all, of truth.
Silvia Conti
Al direttore - Grazie a voi del Foglio per
ciò che avete scritto e ciò che oggi avete
proposto di fare! Grazie per essere giusti e
dare informazioni corrette!
Donatella Efrati
Monte del Tempio e il Muro del Pianto appartengono biblicamente e storicamente
più di ogni altro al popolo ebraico!
Carmela Palma
Al direttore - Mi aggiungo ai molti che
avranno già scritto per sostenere l’iniziativa del Foglio. Mettete tra i mattoni della sede dell’Unesco a Roma questa mia mail
(non posso essere presente di persona): una
preghiera perché il mondo non dimentichi,
E forse l’occidente rinsavisca.
Luigi Zerbo
Al direttore - Salviamo il Muro del Pianto dalle risoluzioni Unesco. Salviamo la
memoria, la comprensione. Salviamoci dall’ignoranza.
Angelica d’Auvare
Al direttore - Una bimba, porta un cappottino rosso, vaga senza meta vicino al Muro del Pianto… Penso all’orrore che ho provato nel vedere le immagini del film di
Spielberg. Bravi, sempre in prima linea per
le battaglie giuste.
Ivana Falco
Al direttore - La deliberata (dall’Unesco)
cancellazione di millenni di storia riguardo il Tempio di Gerusalemme – dove ha insegnato anche Gesù Cristo – fa parte della
solita, squallida storia: i soldi muovono il
mondo! Ma che l’Italia, culla (o tomba) del
diritto, non abbia avuto il coraggio di votare contro non ci rende orgogliosi.
Alessandro Finazzi Agrò
Al direttore - Da cattolico sono vicino al
popolo di Israele.
Giorgio Pernigotti
Al direttore - Vergogna, vergogna, VERGOGNA!
Gianni e Giogiò Deperis
Al direttore - Sono anch’io con voi stamane. Viva Israele viva la Libertà.
Roberto Cappuccio
Al direttore - Concordo con l’iniziativa
del Foglio. L’Unesco è ormai una crapula
di ignoranti, per non dire di peggio, buoni
al massimo a battezzare l’ovvio, come il ridicolo bollino “patrimonio dell’umanità”
diventato slogan turistico… Farsi dettare la
linea da stati che non permettono né libertà politiche né libertà di religione…
Che vergogna!
Andrea Cerini
Al direttore - Come si possono portare le
corone di fiori al Ghetto, alle Fosse Ardeatine, portare gli studenti in gita nei campi
di concentramento “per non dimenticare”.
Come ci si può preoccupare, a parole, dell’ondata di antisemitismo che si avverte
nell’aria e poi non prendere posizione
quando serve. Le loro azioni sono meccaniche, le parole prive di significato. Con il
cuore e la testa sono con voi. Nessuno tocchi Israele!
Laura Darosi
Al direttore - Cosa dicono le nostre più
alte cariche dello stato (capo dello stato,
presidente del Consiglio, presidenti del Senato e della Camera) sulla risoluzione, falsa, antistorica e decisamente antisemita
dell’Unesco? La grandezza di una nazione
si misura soprattutto su come vengono affrontate queste questioni in campo internazionale. Un vecchio detto popolare dice
“dimmi con chi vai… e ti dirò chi sei”: noi
italiani con chi andiamo? Io di certo non
con l’Unesco.
Franco Molinari
Al direttore - Aderisco all’iniziativa perché questa astensione è vergognosa. Spero
in chiarimento di Gentiloni ma temo che
piccoli Andreotti crescono, altro che Fanfani! Viva Israele.
Francesco Tassinari
Al direttore - Partecipo alla protesta perchè da cristiana evangelica penso che il
Al direttore - Ignoranti!
Giovanna Comis
Al direttore - Mi unisco alla protesta contro il negazionismo dell’Unesco, assolutamente vanno ripristinate le identificazioni
ebraiche e forse un’egemonia condivisa,
possibilmente senza contrasti. Sempre dalla parte del popolo ebraico.
Anna Passagrilli
Al direttore - Aderisco a questa lodevole iniziativa del Foglio per protestare contro questa decisione dell’Unesco che vorrebbe cancellare la storia di Israele
Matteo Malaguti
Consigliere comunale di Nonantola (Mo)
Al direttore - E’ una vergogna.
Gino Prosdocimi
Al direttore - Questo antisemitismo è
peggio del nazismo e del comunismo perché ha la pretesa di presentarsi come democratico, invece è figlio della menzogna.
Paolo Tamborini
Al direttore - Vi scrivo per protestare
con tutte le mie forze, come persona e come
cittadina italiana, contro la decisione votata all’Unesco. Come persona mi chiedo come sia possibile coltivare e nutrire costantemente odio verso il popolo ebraico, come
cittadina mi chiedo come abbia potuto l’Italia astenersi, dimostrando assenza di etica e senso storico. La storia del 1900 non ci
ha insegnato nulla? Alla Shoah dello scorso secolo vogliamo aggiungere e sommare
una Shoah culturale? Mi auguro che il governo riveda le proprie posizioni e si unisca ai paesi che hanno votato contro la decisione dell’Unesco, mostrando senso etico
e storico. Nessuna pavidità, nessun accordo diplomatico, nessuna convenienza politica o economica giustificano l’astensione
decisa dall’Italia. Come cittadina italiana
mi vergogno della astensione decisa dall’Italia. Grazie per il vostro impegno.
Elisa Bonfanti
Al direttore - Concordo pienamente con
Al direttore - Purtroppo non vedo e non
sento la voce dei parlamentari italiani. Negare Gerusalemme è una miopia storica e
religiosa, un antisemitismo mascherato,
non voler vedere la realtà, sembra ieri, mascherare la verità’ con pseudo ideologie di
pacifismo. Questa risoluzione creerà una
falsa giustificazione per ricominciare una
nuova intifada. Ad oggi nessun movimento
pacifista o politico ha visitato le oltre mille famiglie delle vittime del terrorismo palestinese, questa cecità fa rivoltare la coscienza. Il sangue dei bambini d’Israele è
forse meno rosso, è di serie B? Ancora persiste l’indifferenza del mondo civile? E’
sordo o non vede i bambini del popolo d’Israele? La storia, l’Olocausto non ha insegnato proprio nulla. L’indifferenza di ieri –
un milione e mezzo di bambini ebrei trucidati, bruciati, passati attraverso un camino
– è sorella dell’indifferenza o delle manipolazione informative di oggi. Questo che il
mondo occidentale chiama intifada è Guerra, è Terrorismo. “Se questo è un uomo”,
scrisse Primo Levi e oggi mi ripeto questa
domanda senza avere una risposta
Eneo Orbach
Al direttore - Non potrò essere in piazza
oggi alle 15 (ieri, ndr), ma il mio cuore, il
mio intelletto e la mia persona saranno lì,
presenti. Chiedo scusa per il silenzio vigliacco e colpevole della chiesa, ma di questi tempi Francesco adora i gommoni più
della Verità! Finché esisterà Israele, esisterà anche la larva della nostra residua libertà. Viva Israele!
Luciano Fravolini
Al direttore - La pace si difende con la
tutela delle differenze e non con l’umiliazione di una parte. La decisione dell’Unesco è ridicola e pericolosa.
Luca Bagetto
Al direttore - Voglio ricordare che Gesù era
ebreo. Cancellare gli ebrei significa cancellare i cristiani. La vostra scellerata azione la pagheremo cara, tutti quanti. Ricomponetevi, ritornate a giudizio e rimediate al danno.
Maria Clemente
Al direttore - Un grande Kol Hakavod per
tutto quanto fate. E la chiamano “educazione”! Farò di tutto per essere a Roma quel
giorno e nel frattempo non mancherò di motivare tutti i miei parenti che vi abitano. Questa mozione è a dir poco allucinante e la sudditanza del mondo di fronte a paesi rimasti
all’età medioevale è un’ennesima conferma
che il mondo continua a rifiutare la verità
preferendo assecondare i barbari. Kol Hakavod a Olanda, Usa, Lituania, Estonia, Germania e Gran Bretagna. Shame sul solito cerchiobottismo dell’Italia. God save Israel!
Franco Cohen
Al direttore - La decisione dell’Unesco
che nega la ebraicità del Muro del Pianto
è contro la ragione, la storia e la verità. E la
complicità astensionista del rappresentante del governo italiano sconfina nel negazionismo antisemita.
Filippo Speranza
Al direttore - Aderisco convinto alla manifestazione contro questa vergogna.
Lorenzo Strik Lievers
Al direttore - Mi unisco a voi nello sdegno e nella rabbia. Stampatemi e portatemi
con voi.
Alberto Ferri
Al direttore - Sono con Voi – sono con
Israele – contro questa costante implacabile persecutoria Shoah culturale.
Anna Dadomo
Al direttore - Contro la demenziale iniziativa Unesco e la vigliaccheria degli stati occidentali.
Ignazio Cassanmagnago
ANNO XXI NUMERO 248 - PAG V
IL FOGLIO QUOTIDIANO
GIOVEDÌ 20 OTTOBRE 2016
BLACK THAI
La morte del re thailandese e l’elaborazione del lutto. La polizia vigila sul contegno
pubblico, ma per sapere cosa sarà di Bangkok non resta che affidarsi agli indovini
Bangkok. “La luce proviene a cascata dal
Palazzo reale e la luce è ormai spenta. Ecco perché tutto è nero. Guarda gli schermi
pubblicitari. Sono neri. La sola luce è il
volto del re”. Così ha detto l’indovino che
è la fonte del Foglio, uno di quei conoscitori di segreti che in Thailandia uniscono
l’universo magico alla politica.
L’oscurità è piombata su Bangkok dopo
la morte di Sua Maestà Rama IX, re Bhumibol Adulyadej, il 13 ottobre. Almeno nei
primi giorni, il lutto (che si protrarrà per
un anno), si manifesta in forma quasi parossistica. La maggior parte della popolazione veste in nero (o bianco, altro colore
tendere il tempo necessario a elaborare il
lutto. Quindi era stata resa ufficiale la reggenza del generale Prem Tinsulanonda, 96
anni, ex primo ministro, presidente del
“Privy Council” il “cerchio magico” dei
consiglieri del re, grande vecchio della politica thai che non aveva mai troppo nascosto la sua predilezione per la principessa
Maha Chakri Sirindhorn, tanto amata dal
popolo, quanto non lo sia il fratello.
Pochi giorni dopo, la sera del 18 ottobre,
il primo ministro dichiara che la ratifica
della successione dovrebbe avvenire entro
fine ottobre: il principe Vajiralongkorn diventerebbe così il nuovo sovrano, Rama X,
anche se la cerimonia d’incoronazione avverrà solo dopo quella di cremazione del
padre. Qualche ora più tardi il vice primo
Su sfondo nero le pagine e le
homepage dei quotidiani. Nero
lo sfondo dei tg. Spente le insegne
dei quartieri a luci rosse
Il principe dovrebbe firmare la
nuova Costituzione appena gli
scribi avranno terminato la sua
stesura, entro novembre
del lutto per gli asiatici). Gli stessi manichini degli showroom dei marchi del lusso globale sono vestiti in nero. Su sfondo nero le
pagine e le homepage dei quotidiani. Nero lo sfondo dei tg. Spente le insegne dei
quartieri a luci rosse come Soi Cow Boy. I
suoi bar non avevano chiuso nemmeno durante gli scontri di piazza e i colpi di stato
che si sono sussseguiti per oltre dieci anni. “Se continua così dovrò tornare nell’Isaan” dice Cat, una delle ragazze che ci lavorano e che, come la maggior parte, proviene dall’Isan, la regione più povera della Thailandia.
Il nero diviene oscuro in molti fenomeni che si accompagnano al profondo lutto.
Come le intimidazioni a chi indossa colori
accesi. “Il fatto è che ho solo una camicia
nera e ormai è sporca”, si giustifica Somchai, un venditore ambulante. Dopo pochi
giorni, infatti, gli abiti neri sono divenuti
introvabili o venduti a prezzi esorbitanti.
Tanto che il governo è intervenuto per evitare speculazioni e le banche di stato hanno annunciato la distribuzione di magliette nere agli otto milioni di cittadini registrati come poveri.
Le “guardie del lutto” come sono state
chiamate, continuano comunque a vigila-
ministro (ed esperto di cerimoniale) precisa che i tempi della successione vanno calcolati secondo quelli dei riti funebri e
quindi potrebbe avvenire ad aprile. Le
eventuali contraddizioni, spiega, vanno addebitate soprattutto a errori d’interpretazione: il primo ministro, infatti, avrebbe
detto che entro fine ottobre “inizierà il
processo di successione”.
Ciò che sembra sicuro è che il principe
dovrebbe firmare la nuova Costituzione
appena gli scribi avranno terminato la sua
stesura, entro i primi giorni di novembre.
Con questa Costituzione, che rafforza il potere dei militari, si potrà procedere alle
elezioni del 2017. In tal modo il generale
Prayuth, già noto per la sua fedeltà alla corona (data dai tempi in cui militava nell’ultra realista reggimento delle “Tigri della
Regina”) si conferma come l’uomo forte
che può assicurare la stabilità del Regno
evitando crisi istituzionali ed economiche.
Il che sembra confermato dalla relativa
stabilità dei mercati: dopo un forte calo il
giorno precedente la scomparsa del re, la
Borsa non sembra dare segni di eccessiva
sofferenza.
Lungo questa “road map”, ben definita
dai militari, tuttavia, si possono prevedere
molti altri colpi di scena. Sullo sfondo si
disegnano intrighi legati a una possibila
abdicazione o al ripristino dell’antica carica di “uparaja”, Viceré. Intanto gli occidentali che vivono in Thailandia o ne studiano la politica, ognuno col suo indovino
o col suo influente membro dell’ammart,
l’aristocrazia thai, come consigliere occulto, analizzano come bookmaker i membri
della famiglia reale, le fazioni dell’esercito, i rapporti di alleanze, le possibili alterazioni alla road map determinate dal risorgere di un’opposizione, quella dell’ex
premier Thaksin (deposto da un colpo di
stato nel 2006) che è solo latente.
In compenso, mentre questi misteri si
infittiscono, qualche luce si riaccende.
Molti locali hanno riaperto, anche se possono lavorare “a porte chiuse” e tenendo
basso il volume della musica.
di Chang Yai
“Il fatto è che ho solo una camicia nera e ormai è sporca”, si giustifica Somchai, un venditore ambulante (le pareti intorno al Palazzo reale di Bangkok, foto LaPresse)
re affinchè i cittadini mantengano un corretto contegno pubblico (comprendendo
in questo anche i post sui social media). Il
ministro della Giustizia le ha esortate a
evitare gli eccessi nei confronti dei trasgressori, che dovranno però essere “socialmente sanzionati”. A livello ufficiale
la Commissione di vigilanza sulle telecomunicazioni ha predisposto un regolamento che, almeno per i primi 30 giorni di
lutto stretto, vieta “critiche o analisi”, che
evidentemente potrebbero prestari a interpretazioni scorrette.
Tutto ciò è molto difficile da comprendere alla “luce” dei valori occidentali. E’
per questo che molti thai, ormai da anni,
a ogni situazione di crisi, ripetono come
un mantra: “Voi non potete capire”. Alcuni esasperano questa incomprensione
parlando di complotti occidentali volti a
destabilizzare il paese, se non tutta l’area,
ed esportare modelli di comportamento
“disfunzionali”. In effetti tutto ciò si può
capire solo immedesimandosi in una società che incarna molti dei cosiddetti “Valori Asiatici”, ormai rivendicati in quasi
tutto l’Oriente. In particolare quello della
gerarchia, qui basata sul rapporto piinong. Vale a dire anziano-giovane. Meglio
ancora: maggiore-minore. Un rapporto
molto complesso che ha il suo vertice nella figura del re.
Lo scomparso Bhumibol, inoltre, è riuscito a divenire una figura semidivina per
la maggior parte del popolo thai, versione
contemporanea del “Dhammaraja”, colui
che regna in nome della legge divina. Al
tempo stesso, si è conquistato l’amore dei
suoi sudditi per i quali è “Por Luang”, il
padre reale, grazie anche all’illuminata e
intelligente politica sociale svolta nei primi decenni del suo settantennale regno. La
sua visione di “economia sostenibile” è divenuta un modello per molte delle ong che
operano nel sud-est asiatico.
Amare il re, quindi, è divenuto parte
stessa della “khwampenthai”, la thailandesità. Un amore e una devozione dimostrati quotidianamente dalle decine di migliaia di persone che si radunano attorno
al palazzo reale, sottoponendosi a estenuanti attese per rendere omaggio alla
sua immagine. Una processione destinata
a divenire sempre più affollata col trascorrere del tempo e di un lungo rituale
funebre che si protrarrà almeno per un
anno. Rituali anch’essi difficili da comprendere e che appaiono chiari solo agli
esperti di protocollo reale, che hanno anche dibattuto su come ci si dovesse riferire al monarca scomparso o al titolo da riservare al suo successore designato (la
conclusione è stata quella di mantenere
immutate le definizioni).
Ma ciò che è più difficile da capire, quasi impossibile anche per gli indovini, è
che cosa accadrà. Ogni notizia, previsione,
analisi, viene smentita l’istante successivo. E’ una sceneggiatura che sembra scritta momento dopo momento. O forse è già
prefissata. Per citare un aforisma di Winston Churchill, “Si tratta di un indovinello, avvolto in un mistero all’interno di un
enigma”.
Pochi minuti dopo l’annuncio della morte del re, il primo ministro Prayuth Chanocha aveva annunciato che la National Legislative Assembly (il Parlamento provvisorio istituito dopo il colpo di stato del
2014) avrebbe formalmente ratificato l’investitura del principe Maha Vajiralongkorn (designato successore nel 1972).
Nelle ore seguenti lo stesso premier dichiarava che il principe aveva deciso di at-
La crisi dell’industria coreana (o forse no)
Too big to fail? Se pensate
che la Samsung stia passando dei guai per via del Galaxy S7, o se pensate che l’enorme fallimento della
KATANE - DI GIULIA POMPILI
Hanjin Shipping (come raccontato ieri su
questo giornale da Alberto Brambilla) possa portare giù l’economia coreana, non avete idea dei guai che sta passando la Lotte
Group. Il conglomerato sudcoreano è l’ennesimo a fare i conti con il cambiamento
del sistema industriale del paese asiatico.
Nei guai sin dallo scorso anno, la Lotte –
multinazionale da sessantamila dipendenti e un business che va dagli hotel di lusso
ai pacchetti di caramelle – è il simbolo di
una saga che riguarda la famiglia Shin, la
politica, un sistema corruttivo quasi istituzionalizzato, e il cambio di marcia delle politiche economiche del governo. Ieri è stata depositata in tribunale l’accusa formale
contro le figure chiave della Lotte, per un
totale di 22 persone iscritte nel registro degli indagati per appropriazione indebita ed
evasione fiscale. Tra di loro, ci sono pure
il 93enne fondatore del gruppo, Shin Kyukho, e il suo secondogenito nonché attuale
ceo del gruppo, Shin Dong Bin. Fino a poco tempo fa, i capi dei chaebol, i conglomerati a conduzione familiare, erano considerati intoccabili. E’ successo più volte, nella storia della Corea del sud, che il presidente concedesse l’amnistia per reati legati all’economia e alla finanza, giustificata
dalla necessità di sostenere l’economia coreana. Ora l’opinione pubblica sudcoreana
domanda più trasparenza. Lo scandalo Lotte è esploso nell’agosto scorso, quando il vicepresidente del gruppo, Lee In-won, era
stato trovato morto poche ore prima di testimoniare in un processo per corruzione.
L’Indonesia che verrà. Il presidente indonesiano Joko Widodo ha celebrato i due anni di presidenza con una lunga conversazione con il Wall Street Journal nella sua
casa di Solo, una piccola città nella Java
centrale, l’edificio che prima di diventare
sindaco della città usava come bottega per
costruire mobili. Jokowi ha parlato dei suoi
rapporti equidistanti con Cina e America,
soprattutto sulle spinose questioni del Mar
cinese meridionale, e di economia. Da
quando è entrato in carica, il progetto di
Jokowi è quello di portare il quarto paese
più popoloso del mondo a diventare competitivo economicamente, e alcune aperture al mercato globale sembrano avere avuto effetto. A fine settembre un condono fiscale ha riportato nel paese una decina di
miliardi di dollari in asset che erano tenuti all’estero. Il pil su base annuale cresce
del 4,8 per cento, e Jokowi vuole portarlo al
7 per cento riducendo la spesa e smaltendo l’enorme carrozzone burocratico che
blocca Giacarta (il presidente è noto per rispondere al telefono direttamente). Durante la sua visita ufficiale a Washington,
Jokowi ha detto che l’Indonesia deve entrare nel Tpp: “Dobbiamo fidarci dei mercati, dobbiamo fidarci del pubblico, dobbiamo fidarci degli investitori stranieri”, ha
detto al Wsj. E in effetti, i vantaggi che offre Widodo, rispetto agli altri paesi del sudest asiatico, riguardano soprattutto la stabilità politica: più del 60 per cento degli indonesiani lo sostiene, ha la maggioranza in
Parlamento, e finora la guerra al terrorismo islamico la sta vincendo.
Ban Ki Moon torna a Seul. Il 6 ottobre
scorso il portoghese Antonio Guterres è
stato votato come prossimo Segretario generale delle Nazioni Unite. Questo significa che il sudcoreano più famoso del mondo, il settantaduenne Ban Ki Moon, il 31 dicembre di quest’anno sarà ufficialmente
disoccupato. In realtà nei Palazzi di Seul si
parla sempre più spesso di una sua possibile candidatura alla presidenza del paese
nelle elezioni del 2017. Del resto Ban è un
uomo politico, oltre che diplomatico: era
stato ministro degli Esteri a Seul, e durante la promozione della sua candidatura a
successore di Kofi Annan gli contestarono
il modo poco usuale con cui, da ministro,
visitò tutti gli stati membri del Consiglio di
Sicurezza. Sulle voci che lo indicano il
prossimo candidato alla presidenza della
Corea del sud, Ban non ha mai commentato. Certo è che a leggere i sondaggi, Ban
vincerebbe con chiunque si candidasse. E
sembra che lo stia corteggiando il partito di
governo Saenuri, dopo il crollo vertiginoso
che ha avuto la popolarità della presidente Park negli ultimi anni. Quel che c’è di sicuro, è che Ban tornerà a vivere a Seul a
metà gennaio, pronto per preparare una
campagna elettorale.
Bombe nordcoreane. Ieri il Rodong Sinmun, il quotidiano di Kim Jong-un, ha scritto che la Corea del nord è pronta a distruggere Seul e il palazzo presidenziale se ci
fossero segnali di un attacco preventivo degli Stati Uniti e della Corea contro
Pyongyang. Su YouTube il canale ufficiale
Uriminzokkiri continuano a girare le immagini di missili e attacchi ai palazzi del potere “nemici”. Mentre il Consiglio di sicurezza dell’Onu lavora a nuove sanzioni economiche, il programma missilistico nordcoreano “è la sfida più grande per la comunità internazionale” dopo anni di retorica
di non-proliferazione, ha detto ieri il viceministro degli Esteri di Seul Lim Sung-nam.
La K-wave arriva in Italia. Il 26 ottobre
prossimo, a Roma, aprirà l’istituto di cultura coreana per promuovere corsi di lingua
ed eventi. La notizia non è di poco conto: tra
i paesi dell’estremo oriente, la Corea del
sud è quello più agguerrito sul fronte del
soft power. Il programma a tappe forzate di
promozione culturale è avviato da tempo: lo
dimostrano gli spazi sempre più consistenti
che i media internazionali dedicano al paese, non più legato esclusivamente alle notizie che arrivano dal Nord. Lo dimostra il fatto che il K-pop non è più considerata un’eccentrica ed esotica produzione musicale, ma
è entrato nel mainstream perfino italiano
(una puntata di “X-Factor” ha trattato l’argomento), e lo dimostrano, infine, i numerosi ristoranti coreani che iniziano ad avere
una clientela locale, non solo di gruppi turistici asiatici (se volete provare, a Roma andate da I-Gio, in via Roma Libera 24; a Milano da Bab, in via San Marco 24).
ANNO XXI NUMERO 248 - PAG VI
IL FOGLIO QUOTIDIANO
GIOVEDÌ 20 OTTOBRE 2016