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Movimento Carmelitano dello Scapolare
CONCESA: Ritiro spirituale del 10 settembre 2016
Testo della riflessione di P. Giorgio Rossi
«Troppo grande Amore» (Ef 2, 4)
Il Dio di Elisabetta della Trinità
Verità di un amore che supera ogni attesa e ogni merito, dono di sé “sino alla fine”.
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O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi interamente per stabilirmi in
te, immobile e quieta come se la mia anima fosse già nell’eternità. Che nulla possa
turbare la mia pace, né farmi uscire da te, o mio Immutabile, ma che ogni minuto
mi porti più addentro nella profondità del tuo Mistero.
Pacifica la mia anima, fanne il tuo cielo, la tua dimora amata e il luogo del tuo
riposo. Che non ti ci lasci mai solo, ma che sia là tutta intera, tutta desta nella mia
fede, tutta adorante, tutta abbandonata alla tua Azione creatrice.
In primo luogo, la Trinità che riposa in noi, cioè il cielo anticipato, il cielo sulla terra è il nostro
ideale di vita. In secondo luogo, la condizione fondamentale del cristiano, è proprio questo
atteggiamento di adorazione: «O mio Dio, Trinità che adoro...». Tutto respira di questa
adorazione: «l’adorazione, ah! è una parola del Cielo! Mi sembra che la si possa definire:
l’estasi dell’amore. È l’amore schiacciato dalla bellezza, dalla forza, dalla grandezza immensa
dell’Oggetto amato...»1. Nel dialogo di Gesù con la donna samaritana (cfr. Gv 4) si chiarisce
quale sia il luogo dell’adorazione: è l’uomo, la persona, il cuore della creatura il luogo sacro in
cui siamo chiamati ad adorare Dio. Ed è desiderio del Padre di trovare adoratori «in spirito e
verità»: «adoriamolo in “spirito”, cioè abbiamo il cuore e il pensiero fissi in Lui, lo spirito pieno
della sua conoscenza per mezzo della luce della fede … adoriamolo in “verità”, cioè per mezzo
delle nostre opere, perché è soprattutto per mezzo degli atti che siamo vere»2. Solo Cristo è
vero adoratore del Padre; ecco perché dobbiamo chiedere: «vieni in me come Adoratore»,
cioè sii tu ad insegnarmi come essere una vera adoratrice del Padre in spirito e verità.
E perché dimenticarsi? Per non appoggiarsi sulle proprie forze, sui propri progetti, sulle proprie
qualità … Insomma: per «stabilirmi in te». Ci è stato fatto il dono di essere inseriti nella casa
del Padre: «la Trinità, ecco la nostra dimora»3. Nostro il compito di fare che la costruzione
abbia fondamenta solide, sia ben radicata in Cristo Gesù, una casa costruita sulla roccia. Chi fa
orazione chiede di divenire immobile, quieto come la superficie tranquilla delle acque di un
lago, fin giù in fondo al proprio cuore. Il segreto del rinnegamento di se stessi sta tutto qui:
«fare l’unità in tutto il proprio essere per mezzo del silenzio interiore, [...] raccogliere tutte le
potenze per occuparle nel solo esercizio dell’amore, [...] avere quell’occhio semplice che
permette alla luce di Dio di irraggiarci». Di fatto «un’anima che discute con il suo io, che si
occupa delle proprie sensibilità, che persegue un pensiero inutile, un desiderio qualunque,
quest’anima disperde le proprie forze, non è tutta ordinata a Dio: la sua lira non vibra
all’unisono e il Maestro, quando la tocca, non può farne uscire armonie divine, c’è ancora
troppo di umano, è una dissonanza»4.
Ma bisogna cancellare dal proprio vocabolario la parola “scoraggiamento”. Ci vuole fiducia,
nella certezza incrollabile che Dio è fedele: «Che importa ciò che sentiamo noi; Lui, Lui è
l’Immutabile, Colui che non cambia mai: ti ama oggi come ti amava ieri, come ti amerà
domani». Che cosa importano i tuoi pensieri e i tuoi sentimenti? Che cosa importa persino il
tuo peccato o la tua infedeltà, la tua incapacità di rialzarti e di camminare? L’importante è
sollevare lo sguardo e tenerlo fisso in Dio, nella sua fedeltà d’amore: «Ti ama oggi come ti
amava ieri, come ti amerà domani»5. Questo è l’essenziale del cammino di fede: credere che
Dio non può rinnegare se stesso e che rimane fedele al Suo amore.
1
2
Elisabetta della Trinità, Ultimo Ritiro, ottavo giorno.
Elisabetta della Trinità, Ritiro, nono giorno, prima orazione.
3 Ibid, primo giorno, prima orazione.
4
Elisabetta della Trinità, Ultimo Ritiro, secondo giorno.
5
Elisabetta della Trinità, Lettere, n. 252, alla sorella, signora Chevignard, 16 luglio 1906.
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L’anima «tutta desta nella … fede...» crede, come dice san Giovanni, “all’amore che Dio ha
avuto per lei”. Crede che questo stesso amore l’ha attirato sulla terra... e nella propria anima,
poiché Colui che si è chiamato la Verità ha detto nel Vangelo: “Rimanete in me, e io in voi”.
Allora, molto semplicemente, obbedisce al comandamento così dolce e vive nell’intimità con il
Dio che abita in lei, che le è più presente di quanto ella lo sia a se stessa. E rimane vigilante,
attenta, desta; sa - come i discepoli nel Getsemani - di essere invitata dal Maestro a non
lasciarsi vincere dal sonno. Sa che l’Amore la chiama continuamente a ridestarsi. Per questo
chiede di poter essere sempre vigile, attenta, operosa nella propria fede, «tutta adorante,
tutta abbandonata alla tua Azione creatrice». L’altro aspetto di questa unificazione e
pacificazione interiore è costituito dal silenzio e dall’abbandono, cuore e fondamento della
spiritualità carmelitana, come sottolinea ampiamente la Regola del Carmelo. Il salmo 131
sintetizza questo atteggiamento di fiducia e di speranza, di silenzio interiore e di abbandono,
con l’immagine del bambino pacificato che si addormenta in braccio alla madre.
O mio Cristo amato, crocifisso per amore, vorrei essere una sposa per il tuo Cuore,
vorrei coprirti di gloria, vorrei amarti... fino a morirne! Ma sento la mia impotenza e
ti chiedo di "rivestirmi di te", di identificare la mia anima a tutti i movimenti della
tua anima, di sommergermi, di invadermi, di sostituirti a me, affinché la mia vita
non sia che un'irradiazione della tua Vita. Vieni in me come Adoratore, come
Riparatore e come Salvatore.
E’ dunque, Cristo, stato crocifisso per amore, non certo per soddisfare e placare l’ira di un
Padre. Che anzitutto la volontà di Dio è volontà di donare Se stesso, costi quello che costi. Il
cristiano è uno che ha guardato il Crocifisso, «che l’ha visto offrirsi come Vittima a suo Padre
per le anime e, raccogliendosi sotto questa grande visione della carità di Cristo, ha compreso
la passione d’amore della sua anima, e ha voluto donarsi come Lui!...»6 Fa, agisce, decide,
contemplando, in uno spazio di ascolto e di adorazione. In questa contemplazione del
Crocifisso, ciò che coglie è unicamente la grande carità di Gesù: comprende il dono d’amore,
che sfocia nell’offerta sacrificale di sé come vittima. Comprende, anzi, la sua passione
d’amore, l’amore eccessivo, troppo grande. Quando una persona vede e comprende la
passione d’amore che risplende sul Volto di Cristo crocifisso, sente nascere in sé il desiderio di
donarsi come lui fino a morirne. Morendo a se stessi, lasciando spazio a Dio perché abiti in
noi. come nell’inno liturgico della festa di Teresa d’Avila: “O charitatis victima” (“o vittima
d’amore”).
Ma sento la mia impotenza, il mio nulla, la mia fatica: I cristiani si distinguono per il fatto di
sperimentare la povertà o la fatica della loro umanità nella fiducia che «Egli è lì per rialzarmi e
portarmi più profondamente in Lui»7. Si rivolgono al Figlio: «ti chiedo di “rivestirmi di te
stesso”» Davanti all’esperienza della povertà e del limite non c’è atto di volontà che valga:
l’unica strada è lasciare spazio all’invocazione, alla preghiera, per una trasformazione intima e
profonda. Ti chiedo di “rivestirmi di te stesso”: non è che un altro modo di ribadire l’esigenza
di morire a se stessi: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Ancora: (ti chiedo) di
identificare la mia anima a tutti i movimenti della tua anima. Che il mio pensare, giudicare,
valutare, discernere siano come furono «in Cristo Gesù» (Fil 2, 5).
Perciò «vieni in me come Adoratore, come Riparatore e come Salvatore». Sia Cristo in noi
Colui che adora in spirito e verità (Gv 4, 23), Colui che obbedisce «fino alla morte e alla morte
di croce» (Fil 2, 8), colui che salva, «peccato in nostro favore» (2Cor 5, 21).
6
7
Elisabetta della Trinità, Lettere, n. 112, a Germana de Gemeaux, 7 agosto 1902
Elisabetta della Trinità, Lettere, n. 183, al chierico Chevignard, novembre 1904.
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O Verbo eterno, Parola del mio Dio, voglio passare la mia vita ad ascoltarti, voglio
farmi tutta ammaestrabile, per imparare tutto da te. Poi, attraverso tutte le notti,
tutti i vuoti, tutte le impotenze, voglio fissarti sempre e rimanere sotto la tua
grande luce; o mio Astro amato, affascinami perché io non possa più uscire dalla
tua irradiazione.
Se il desiderio si esprime al condizionale e deve misurarsi con l’esperienza della povertà,
dell’impotenza, del limite, dopo la preghiera non c’è più spazio per il desiderio (vorrei...), ma
piuttosto per una «determinata determinazione». Una volontà ferma e decisa nel Signore:
«voglio»!
«Voglio passare la mia vita ad ascoltarti». È il confronto umile con il modo di sentire e di agire
di Gesù, con il suo comportamento, con i valori che egli mette al centro della propria vita.
«Guardar vivere il mio Dio» è fare di questo ascolto uno sguardo contemplativo che impara
tutto da lui, non semplicemente assumendo la parola come qualcosa di esteriore che indica un
cammino: essa è l’unica strada, l’unica luce, l’unico mezzo che mette in rapporto diretto con
Dio, con lo sguardo fisso in lui. Ascoltare è anche vedere e contemplare.
Insieme all’ascolto anche lo sguardo: «attraverso tutte le notti, tutti i vuoti, tutte le impotenze,
voglio fissarti sempre e rimanere sotto la tua grande luce...». Infatti con il tuo «contatto mi
purifichi, mi liberi dalla mia miseria»8. Perciò affascinami, «aiutami a non uscire più dalla tua
luce, ad abitare in questa grande luce». «Affascinami» significa la necessità di lasciarsi
illuminare, trafiggere dalla luce di quell’Astro che, solo, può illuminare la notte. Ma significa
anche che «il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo
nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo» (Mt
13, 44). Prima viene la scoperta del tesoro nascosto, della perla preziosa, e solo di
conseguenza viene l’atto di volontà, l’azione, il rinnegamento di sé.
«Se guardo dal lato della terra vedo la solitudine e anche il vuoto, perché non posso dire che il
mio cuore non abbia sofferto (è un eufemismo!); ma se il mio sguardo resta sempre fisso su di
Lui, il mio Astro luminoso, oh, allora tutto il resto scompare e mi perdo in Lui come la goccia
d’acqua nell’Oceano»9. In fondo la questione è sempre la stessa: o ci si lascia prendere in
modo assoluto da ciò che è relativo, oppure si impara a fissare lo sguardo su ciò che è
davvero assoluto; allora si cominciano a vedere le cose dal punto di vista di Dio e si mantiene
lo sguardo fisso su di lui. Non ci sono mezze misure: nel primo caso si è preda dello
scoraggiamento, nel secondo caso si è «preda di Dio»,
8
9
Elisabetta della Trinità, Lettere, n. 146, al signor canonico Angles, agosto 1903.
Elisabetta della Trinità, Lettere, n. 158, al signor canonico Angles, 4 gennaio 1904.
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«O Fuoco consumante, Spirito d’amore, “scendi su di me”, affinché si faccia nella
mia anima come un’incarnazione del Verbo: che io sia per Lui una umanità
aggiunta nella quale Egli rinnovi tutto il suo Mistero. E Tu, o Padre, chinati verso la
tua povera piccola creatura, “coprila con la tua ombra”, non vedere in lei che il
“Prediletto nel quale hai posto tutte le tue compiacenze”».
C’è una sproporzione enorme fra il modo con cui ci si rivolge a Cristo nella sua umanità e nella
sua divinità, e il modo con cui ci si rivolge allo Spirito Santo e al Padre. Chiediamo al primo di
realizzare in noi una nuova incarnazione; al secondo semplicemente di amarci, di essere Padre
nostro, come fu per la figlia del suo Figlio.
Nello Spirito che aiuta a vivere la sofferenza per amore, si consuma anche l’unione d’amore tra
lo Sposo e la sposa: «Si faccia nella mia anima come un’incarnazione del verbo: che io sia per
Lui un’umanità aggiunta (o: un «sovrappiù» di umanità) in cui Egli rinnovi tutto il suo
Mistero». Io «sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne
quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1, 24). La
grazia dell’umanità e della passione di Cristo è così traboccante, così sovrabbondante che, se
la creatura si lascia inserire in questo mistero di salvezza, può partecipare con lui alla
redenzione del mondo: «cerchiamo di essere per Lui in qualche modo un’umanità aggiunta in
cui Egli possa rinnovare tutto il suo Mistero». Questo è il sì generoso e fedele di Maria che
prende su di sé la carità di Cristo.
«E tu, o Padre, chinati verso la tua povera piccola creatura...». Ponendosi davanti a Dio Padre,
il cristiano non può che pregarlo dicendogli: “sii Padre”; riversa su di me tutto l’amore che nel seno della Trinità - continuamente trabocca da Te verso il tuo Figlio, e traboccando ricrea,
rigenera, rinnova:
«che non sia più io ma Lui, e che il Padre, guardandomi, possa riconoscerlo; che “io sia
conforme alla sua morte”, che soffra in me ciò che manca alla sua passione per il suo corpo
che è la Chiesa, e poi mi bagni nel Sangue di Cristo perché io sia forte della sua propria forza;
mi sento così piccola, così debole...»10.
“O miei Tre, mio Tutto, mia Beatitudine, Solitudine infinita, Immensità in cui mi
perdo, mi consegno a voi come una preda. Seppellitevi in me perché io mi
seppellisca in Voi, in attesa di venire a contemplare nella vostra luce l'abisso delle
vostre grandezze”.
«Ė il mio Tutto, il mio unico Tutto. Che felicità, che pace questo mette nell’anima. Ė il solo, Gli
ho dato tutto»11. «Solitudine infinita...», il solo, unico, Tutto, per sempre: «nella solitudine
della mia piccola infermeria, siamo così felici entrambi; è un cuore a cuore che dura notte e
giorno, è delizioso!»12. «E questa solitudine non è altro che la sua divinità»13. Riferimento alla
divinità, certo, alla trascendenza, alla santità, ma soprattutto all’unità interiore di Dio che, pur
donandosi fino in fondo, non esce mai da sé. Ė l’Amore che, pur traboccando, non perde la
propria identità, non scende a compromessi. In questo senso Dio è il grande solitario.
10
Elisabetta della Trinità, Lettere, n. 294 al canonico Angles, luglio 1906.
Elisabetta della Trinità, Lettere, n. 169 al canonico Angles, 4 gennaio 1904.
12 Elisabetta della Trinità, Lettere, n. 270, alla signora Gout de Bize.
13 Elisabetta della Trinità, Ultimo Ritiro, decimo giorno.
11
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Una «Immensità in cui mi perdo». Amore troppo grande da cui ci si è sentiti avvolti un giorno.
E al Quale abbandonarsi «come una preda». L’immagine della preda fa riferimento alla
metafora dell’aquila che ci solleva, portandoci in alto: «mi sembra che Egli sia la nostra Aquila
divina, noi siamo le prede del suo amore; ci prende, poi ci colloca sulle sue ali e ci porta molto
lontano, molto in alto, in quelle regioni in cui l’anima e il cuore amano perdersi! Oh! lasciamoci
prendere, andiamo dove vuole! Un giorno la nostra Aquila amata ci farà entrare in quella
Patria verso la quale i nostri cuori aspirano»14.
Lasciamoci prendere... In fondo, tutta la vita cristiana si gioca in questa disponibilità a
diventare preda dell’amore di Dio: credere all’amore, abbandonarsi all’amore, lasciarsi attirare,
portare là dove egli vuole per amore e nell’amore. «Vado a seppellirmi nel fondo della mia
anima, cioè in Dio [. . .], in un movimento semplicissimo»15. Perché Dio in me «fu sepolto»
(Simbolo), si immerse nell’umano. E l’umano, in Dio, possa amare dell’Amore di Dio.
Guardando ai Vangeli, quali tratti della personalità di Gesù ti
accorgi di ripresentare? Quali sono le tue “esagerazioni”
nell’amore?
Apri il tuo cuore alla fiducia e alla speranza che nascono dal
fatto che Dio è presente in ognuno di noi?
Accetti la lotta costante, il combattimento quotidiano che questa
esperienza comporta?
14
15
Elisabetta della Trinità, Lettere, n. 41, alla signorina Marcherita Gollot.
Elisabetta della Trinità, Lettere, n. 239, alla mamma, signora Catez.
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