Numero 0, anno 2015

Download Report

Transcript Numero 0, anno 2015

numero 0 anno 2015 - Firenze
Caffè Michelangiolo, Galleria MichelangioloVia Cavour, 21 Firenze Tel. +39 055 295264 www.macchinedileonardo.com [email protected]
“...Riomaggiore...”
All’indomani dei moti rivoluzionari del 1848
presero avvio, nello storico locale del Caffè Michelangiolo di Via Larga a Firenze, gli incontri
di un gruppo di giovani artisti toscani, chiamati
in seguito con intento dispregiativo Macchiaioli.
La storia di quello che accadde a Firenze a livelli
politico in questi anni coinvolse da vicino il gruppo degli artisti del Caffè. L’idea che il gruppo potesse diventare un movimento progressista,
espressione unitaria del nascente Stato italiano,
spingeva gli artisti in argute sperimentazioni, la
macchia e il realismo dovevano rappresentare
una nuova realtà che andava costituendosi in un
continuo intreccio tra arte e politica.
La rottura con il Neoclassicismo e l’allontanamento con il Romanticismo italiano ed europeo
fu la prima delle conseguenze di questo movimento. La macchia assunse in tal senso un valore
di istantaneità di contro alla lunga gestazione
degli imponenti soggetti della pittura di storia.
Furono i Macchiaioli per primi a concepire l’idea
dell’istantaneità nell’arte che solo le avanguardie
storiche e poi Warhol fecero propria molto più
tardi. La scelta di proporre gli aspetti più dimessi
della realtà contemporanea e di denunciare con
le opere le contraddizioni sociali, poggiava le sue
basi sulla filosofia positivista di Proudhon, che
Signorini condivideva. I macchiaioli non riuscirono a incontrare il gusto del pubblico, sconvenienti agli occhi dei frequentatori dei salotti letterari erano le vedute del Ghetto di Firenze del
Signorini, le vacche del Fattori, del De Tivoli, orrende e prive di poesia le vedute del Mugnone
di Borrani e Lega. I loro piccoli quadri invadono
con il silenzio gli spazi delle mostre con una forza
di rottura dirompente.
Non c’è retorica romantica né enfasi eroica o celebrativa neppure nelle loro raffigurazioni
militari. I macchiaioli nacquero con il Risorgimento, ne condivisero le speranze e gli ideali. Gli
anni del caffè costituirono un momento di ricerca
di un’ identità di gruppo, fucina di un dibattito
fecondo per far rendere l’arte specchio della modernità dell’epoca. Tuttavia l’unità nazionale non
portò la soluzione delle questioni sociali nè alle
riforme; le rivoluzioni di quegli anni portarono
al fallimento delle posizioni mazziniane più radicali sposate dagli artisti del caffè; dopo la vittoria, coloro che avevano fatto la rivoluzione erano arrivati al potere non ebbero il coraggio di
sovvertire completamente l’ancien régime e l’ ala
moderata si accordò con la controrivoluzione.
Dopo gli eventi bellici, provati nello spirito, i
Macchiaioli interiorizzarono i grandi temi e incanalarono le proprie emozioni nell’incanto poetico di un sommesso dialogo con la natura. La
grandezza di Fattori sta nell’aver ammesso in
vita di essere un uomo semplice che si relaziona
con il mondo con un linguaggio genuino. Lega
si sposterà dalla Piagentina alle colline del Gabbro, dando vita a composizioni piene di struggente lirismo; Signorini, disgustato, sceglierà l’esilio, ritirandosi a Riomaggiore, il borgo delle Cinque Terre, dove la vita scorreva senza pretese e
dove tra le mura di semplici pescatori troverà
Artisti al Caffè Michelangelo
l’essenza della vita vera. Si può tentare un parallelo storico tra la rivoluzione del ’48 e quella del
’68 del secolo successivo? A guardar bene, entrambe sono state due rivoluzioni sovra nazionali
ed entrambe sono fallite. Il Sessantotto fu tra i
primi movimenti di contestazione radicale del
modello capitalistico e dell’equilibrio mondiale
fondato sull’egemonia statunitense. L’antiautoritarismo fu uno dei principali fili conduttori che
attraversò tutti i movimenti di protesta sorti nei
primi anni Sessanta. A differenza dei precedenti
movimenti di rivolta che si ponevano l’obiettivo
finale della conquista del potere, dello Stato, i
movimenti del Sessantotto non videro possibile
un utilizzo positivo dello stesso e si rivelarono
incapaci di trasformare le ideologie in concrete
azioni di lotta. Dopo essersi riattivato negli anni
Settanta, si esaurì lentamente degenerando nella
tragica stagione del terrorismo, concludendosi
nei primi anni ‘80. Le generazioni successive
sono cresciute fuori dalla politica e dal suo fascino, con padri e madri che hanno fatto fatica
ad avvalersi con i figli dei concetti di autorità, severità, educazione, rendendoli incapaci di perseverare nell’impegno dei genitori nel perseguimento della trasformazione globale della società.
Il fallimento degli adulti, cui la giovinezza in quegli anni fu sottratta, è stato pagato dai giovani.
Vanagloria, apparente benessere, egoismo, sono
segnali della ribalta di un pensiero debole che
dagli anni Ottanta del secolo scorso ha annullato
la nostra esistenza e le speranze ideologiche. La
mancanza di umanità, la soppressione del nostro
pensiero singolo e la paura di un dibattito aperto
hanno portato alla dominazione intellettuale del
“nulla”. L’unità che i giovani del ‘48 e del ’68 di
allora immaginavano era un’unità dei valori universali, era la conquista dei diritti civili, era un’Italia che nacque nelle coscienze di ognuno prima
che sui campi di battaglia o sui tavoli della politica.
Francesca Bertini
Andrea Del Carria
...la macchia...
“...la macchia consisteva nel vedere sul vero una
figura stagliata su un fondo, fosse un muro bianco
o aria limpida o altri oggetti. Cabianca ricordo
bene, ci mostrò un quadro che s'ispirò nel vedere
a Porta alla Croce un maiale nero su di un muro
bianco. Ecco la macchia...”
Giovanni Fattori
Portare lì, nel Caffè Michelangiolo di via Cavour
a Firenze, ed entrare lì con il solo pensiero di
una macchia, dà un desiderio e la voglia di tingere un tempo con un affrettato dialogo; veloce
come lo erano le macchie invasi come erano i
pensieri e le reazioni. Lì a quel caffè lo spirito visionario si ribella e rende vero, come vere erano
le immagini e i desideri. L'idea è ancora lì al caffè
di via Cavour, luogo diverso e assente, ma ancora
possibile di inebriare il coraggio di un'azione
probabile e libera di camuffarsi in un solo segno
fatto di ombre e colori, segni e macchie. Sei giovani artisti decidono di entrare e unirsi, confondersi in una sola azione, in un segno “impossibile”, ma possibile dalla sola loro capacità di corrispondersi in quel corpus primario che li lega,
li avvolge in un libero coinvolgimento di emozioni e sensazioni.
Dodici metri interrotti dallo spazio reale per dar
vita ad un altro, ad una sola macchia fatta di immagini vere, da impressioni schizzate, da ombre
e luci, colori e istanti fermati: bianchi e neri, luci
e ombre in colori presenti solo nel momento in
cui li osservi. Un’ azione invasiva, ma rispettosa
del proprio limite, del divieto, e dell'impossibilità
di vivere il tempo. Ma grazie a questa impossibilità nasce il coraggio di agire ed insieme di attaccarsi ad un solo segno, al pensiero di dare
vista al soffio dell'istante.
Veronica Avossa, Maria Chemello, Valentin
Osadcij, Sergio Mantovani, Marco Pioppi,
Giovanni Bigazzi hanno avuto il coraggio di
essere e sentirsi insieme, il coraggio di non rifiutare un innesto di cui non è ben chiaro il frutto
ma per questo hanno deciso di stringere le loro
sensazioni in un solo viaggio, in ciò che vedono
e sentono tenendolo a se per ri-dargli vita come
un sentiero inesplorato e colpito da innumerevoli
segni: un libero desiderio di reagire al limite.
Disegni, fotografie, pitture e... parole; sì, dialoghi
diversi ma pregnanti di quel calore contraddittorio che rende unico ogni desiderio. Quelle parole dette tra di se, ma anche ascoltate nel tempo,
quelle “chiacchiere” comprese, discusse e poi segnate nel vedere altro dall'altro fino a corrispondere in un tentativo dialettico, in una trama sintattica che ermeticamente si traduce da se per
dialogare in un sillabario anti-accademico. Così
facendo lasciano al solo desiderio l'armonia di
avvicinarsi, di mischiarsi senza alcun motivo, ma
solo con il ritmo costante dell'azione e reagire
ad ogni inviolabile percezione. I sei artisti non
interpretano, non appaiono contemporanei, ma
proprio per questo diventano altro. Vanno Fuori
dal tempo e fuori vedono e fermano ogni cosa,
ogni luce che ha ombra e da queste affabulazioni
mnemoniche prendono lo spirito e danno corpo
ad una sola storia che tra-scrive innumerevoli
percezioni. Un odissea Joyssiana che in un solo
giorno, in un tempo incluso ed escluso da ore,
minuti e attimi, interagisce con il pensiero e con
il dubbio fino a segnare possibili accostamenti.
E si attaccano tra loro le emozioni, le ricerche,
le visioni e Veronica, Maria, Valentin, Sergio, Marco e Giovanni parlano tra loro, con le loro parole
segnate in colori e sguardi, in percezioni e visioni.
Decidono di essere oltre il visibile con il visibile
e, con la naturale traccia, macchiano fogli e tele,
cartoni e lucide stampe per costruire una “tela”
componibile e scomponibile nel “notturno atrio”
di un’ ipotetica Itaca reale.
Veronica ha negli occhi la luce e con i colori
centra il miraggio evanescente. Scopre il paesaggio con la sua atmosfera. E oscilla in colori perenni fino alla luce bianca di ogni orizzonte. I
colori gli sono accanto come accanto è il suo desiderio e il suo languore per tutto il bel giorno.
Maria ha la capacità di allungare il sogno e scatta immagini, lancia nei ricordi l'attesa del presente e dalle profondità dei silenzi cattura le vie
di possibili passaggi. Li ferma e li sceglie per poi
allungarne il cammino verso l'eventuale incontro.
Valentin sente la realtà e in questa verità prova
ad esistere tendendo tesa una volta cromatica;
ombrata di vellutate sensazioni che segnano l'intreccio sperduto di orizzonti solitari. Pittura, macchie e impressioni nel bruno centro di tutti i colori.
Sergio ha nel segno il paesaggio e lentamente
lo sposta in leggere affermazioni di piani sospesi.
Colora la forma fino a trasparirne l'effetto per
poi giungere inatteso alla pura meraviglia. E si
ferma, quasi inaspettatamente, dove sorge il taciturno riverbero.
E colora...
Noi Caffè Michelangiolo
Marco oscilla a tocchi di silenzio, tra colori e
chiaroscuro, fino a tendere la vista nel fondo,
sulle strade sconnesse dei pensieri. E lì trova, li
trova attesi, concentrici in di-segni carichi di assenze. Protegge e distingue l'aperta via per tracciarne segni e ricordi.
Giovanni dalle vie ascolta il suono e la
probabile manifestazione e fotografa l'immediato, il posto, il segno paesaggistico di ogni immaginabile immersione. Penetra nei rigoli delle atmosfere per segnare variabili colori o mono-cromatici territori: suono e tempo in un istante.
Insieme installano un colore, macchiano una superficie, creano un'iconografica apparizione di
ogni visione.
Quella luce che appare è “connessa strettamente
alla dolcezza trionfale del ricordo”, evocano, fondono il tempo e gli anni, e perdono la scandibilità, interiorizzando un solo momento per poi
farlo “giocare” attorno al solo silenzio del tempo.
E, si lasciano divertire come versi liberi; “... il
poeta si diverte, pazzamente, smisuratamente!”
Massimo Innocenti
...l’ultimo respiro!
Se per destino noi, esseri, siamo già morti, per
una felice inerzia del vivere l’arte continua ad
autoriprodursi. Rigenerarsi e rinascere che le
permette di lottare contro.
Come quella della scuola fiorentina dei macchiaioli. Una storia tutta sua, la situazione all’inizio della metà dell’800 è completamente
diversa da quella francese. Non ci sono le premesse economiche, politiche e culturali perché
si affermi un movimento come quello del realismo coubertiano. In Italia non c’è il proletariato, non c’è industria e coscienza proletaria,
ma anche qui si sente l’esigenza di cambiamento e una forte avversione per la pittura accademica. Si ha notizia della pittura di paesaggio francese romantica, più libera. Si ritrovano
a Firenze giovani artisti per sfuggire al rigore
poliziesco dei loro governi nel momento della
reazione ai moti risorgimentali, che trovano
nel governo granducale dei Lorena una maggiore apertura politica. Firenze si libera dall’ultimo granducato nel 1859 e si unisce al resto d’Italia nel1860, divenendone capitale dal
65 al 71. Il luogo d’incontro è una saletta del
caffè Michelangiolo in Via larga (V. Cavour).
La stessa insegna in ricordo del caffè Michelangiolo recita:
“In questo stabile ebbe sede il Caffè Michelangiolo, geniale ritrovo d’un gruppo di liberi artisti che l’arguzia fiorentina soprannominò
Macchiaioli e le cui opere note tra le lotte politiche e gli eroismi guerrieri del risorgimento
nazionale perpetuarono il lume della tradizione
pittorica italiana rinnovandone gli spiriti”.
Presero l’accordo di lavorare sui colori luce accostati ai colori ombra. All’aria aperta per osservare la realtà, contro l’accademia. Pur essendo innovatori ricorrono, attingono alla tradizione pittorica italiana e non solo ma
soprattutto fiorentina e toscana. Dalla tradizione toscana i Macchiaioli apprezzano la chiarezza della visione e l’ordine compositivo
(Giotto, Masaccio, Piero della Francesca). Il
confine del quadro taglia una fetta del quadro
che ci appaga, microcosmo vs macrocosmo,
in un piccolo quadro c’è tutto l’universo. Al
pittore non interessa tanto il soggetto ma le
forme e il colore sotto gli effetti della luce. Le
dimensioni piccole e il supporto delle tavole
(simili a predelle) sono un omaggio alla tradizione toscana. I temi di Fattori sono il paesaggio, le campagne soprattutto la Maremma e le
coste livornesi, la vita militare, la ritrattistica
e qualche paesaggio urbano. Silvestro Lega è
forse il più tradizionale, ama anche lui i giochi
di luce ma più tradizionali. Ama i paesaggi urbani di una Firenze periferica che si apre alla
campagna, sta per essere trasformata capitale
e obbliga la costruzione di nuovi quartieri. Anche lui come Fattori giunge tardi alla pittura
di macchia, dopo un periodo di purismo classicheggiante. Entrambi lavorano nella periferia
di Firenze: lungo il Mugnone, alle Cure (oggi
è rimasto quasi come allora), e Via Piacentina
lungo l’Africo (oggi coperto e completamente
stravolto). Nei quadri dei Macchiaioli viene
rappresentata una documentazione di una Firenze scomparsa, stravolta dall’ammodernamento. Vengono descritti momenti di vita medio borghese come La visita (Roma, Galleria
Naz. Dell’Arte Moderna) panorama invernale,
vita intima, colori splendenti ma anche ombre.
Signorini Telemaco, ci permette di fare un gemellaggio fra movimento macchiaiolo e movimento realista francese per i suoi temi di rea-
lismo sociale come Bagno penale a Portoferraio(fi) e La sala delle agitate al S. Bonifazio
di Firenze (Venezia, Galleria d’Arte Moderna)
raffiguranti della perdita della dignità umana
e miseria. Anche con Abati e Sernesi abbiamo
di nuovo accostamenti di colore luce, colore
ombra, come Tetti al sole, una scusa per fare
veramente arte astratta. Con tutto questo, non
sono animato da un sentimento nostalgico del
passato, ma nel tentativo di mettere in fila una
certa idea del fare. La qualità della differenza
contro la quantità della ripetizione. La forza
della creazione, l’avvitamento sul proprio immaginario, naturale frutto di necessità individuale e di responsabilità morale. L’arte svuotata dalla sua tecnica, riafferma il suo bisogno
di essere arte. Evidentemente la speranza è
quella di portarci fuori dalla condizione prevista, quella oggi di un destino di fermo, un
dejà vue… ecco allora sei artisti del contemporaneo che dialogheranno con la memoria
del caffè Michelangiolo.
Sei giovani artisti, differenti nelle ricerche e
nelle forme espressive, ma vicini nel dato anagrafico, accomunati dal medesimo cursus studiorum (percorso accademico Laba) e da
alcuni tratti emblematici (la preferenza accordata alla pittura, l’ambiguità figurativa e non
solo, il gusto per la contaminazione dei linguaggi, l’immagine e la visione)
Un’opposizione di significato che bene rende
la situazione degli artefici, diversi nelle maniere
eppure accomunati dalle medesime vicissitudini, ora chiamati a condividere lo spazio, ciascuno con la propria visione del presente. Sei
personalità racchiuse in un microcosmo di sperimentazioni. Nello stare insieme gli artisti
prendono consapevolezza del loro modo di
essere e di sentire, ma anche dello spazio e della contemporaneità, quest’ultima intesa in senso diacronico e sincronico.
In un atto unico: il sublime abbagliante,
di Veronica Avossa, Maria Chemello e Valentin Osadcij tre artisti che raccoglieranno
dal passato i frammenti evocativi. Mentre, l’accezione emotiva di Marco Pioppi, Sergio
Mantovani e Giovanni Bigazzi chiudono il
progetto prendendo l’emotività rappresentativa
come segno originario. Indagano attraverso
il loro linguaggio che non si ferma al solo
aspetto “estetico”, l’interiore dell’animo. Parla
un linguaggio attuale che dialoga con un passato presente. Sono manifesto di un’idea, una
visione, un concetto, un’intuizione che l’artista
riveste di passioni, di colori, di parole, di elementi di connessioni che contribuiscono alla
lettura di un messaggio. Diventiamo così spettatori di una vita che continua, che si consuma,
che accade. Addii e incertezze, ripensamenti e
riflessioni, cambiamenti e meditazioni. Gli artisti mescolano le radici del ritratto con la tecnica della fotografia digitale intraprendendo
un dialogo muto con il tempo, un ponte che
si collega ai “maestri”; un’amalgama dell’estetica classica e di modalità espressive tipicamente contemporanee; capaci però di catturare e nutrire la nostra attenzione. Sono fasi
di ricerca di frammenti di flusso di tempo,
pieni di storia dell’opera stessa: pieni del prima (opera pittorica in quanto materia), del
durante (ricerca e nuova forma) e del dopo
(moltitudine mutante dell’immagine, in un rinnovamento nel contenuto e nella forma a tal
punto da perdere le sue connotazioni primitive). Le fasi “sovversive” del processo creativo
degli artisti, costituiscono un dialogo ed un
confronto di fasi, di materia, di strumenti e di
linguaggi: una multi-etnia che trova il senso
più profondo nella fusione e nell’ interdipendenza, dimostrando che, nell’unione e nella
condivisione, si crea un insieme che produce
uno scatto in avanti che non potrebbe avvenire
se tutti gli elementi partecipanti al processo
creativo operassero in modo isolato. Parlo di
Multi-etnia non a caso: ogni linguaggio artistico, così come ogni mezzo o strumento, ha
una propria identità. Ha proprie connotazioni
ben specifiche, storiche, sociologiche, di
usanze ed utilizzi, di trasformazioni, del come
e del perché siano nate e si siano sviluppate,
tutto questo crea una identità forte; ma, in questa era artistica dove sono sempre più labili i
confini tra ciò che è da considerarsi arte, tra
ciò che è l’arte stessa come definizione, tra ciò
che sono i generi artistici stessi in quanto le
commistioni producono qualcosa che fino a
qualche decennio fa era semplicemente impensabile, ecco, in tutto questo le opere si spingono ancora più avanti dimostrando che l’arte
oggi deve originarsi dalla connessione di linguaggi, fasi, strumenti e persone: tutto e tutti
sono “cellule” che in contatto producono un
nuovo organismo vivente che, nella ricerca e
nel fare artistico, producono e si rinnovano.
Tutto questo porta ad una espansione, un andare oltre anche il limite stesso della pittura
tradizionale che converge verso la unicità dell’immagine. L’immaginazione agisce a tutti i
livelli, ama la vertigine del bianco ma non rinuncia ai trattamenti speciali, alle stesure materiche, alle stratificazioni, alle precisioni dell’immagine e ai suggerimenti del caso. Tutto
avviene nel ritmo della crescita, nell’evento irripetibile della visione che lentamente rivela il
piacere della scrittura, una scrittura intesa
come parola-immagine che torna su se stessa.
...Il concetto dell’arte
nelle lettere dei Macchiaioli
Adriano Cecioni ci lascia un piccola e personalissima interpretazione del caffè Michelangiolo,
illustrandolo come un posto un po' buio,
arredato con gusto borghese, ma con un animo
vivace e rivoluzionario. Le figure sono tutte in
movimento e probabilmente discutono animatamente sulla pittura dei loro contemporanei.
È cosi che possiamo immaginare i Macchiaioli,
riunitisi al caffè Michelangiolo in Via Larga a
Firenze, dal 1855 al 1867.
Personaggi rivoluzionari, anime provenienti da
tutta Italia, che nel 1861 era appena riuscita a
ad arrivare ad un unità, dopo ben tre guerre di
indipendenza.
Nel frattempo - solo la Toscana era riuscita a
mantenere un po' d'autonomia rispetto ai severissimi governi dello Stato della Chiesa, del
Regno delle Due Sicilie e dell'Impero d'Austria
- intellettuali e anti-accademici si ritrovarono
tutti a Firenze per discutere delle sorti della pittura d'Accademia. Sembrava ormai impossibile
che questo tipo di pittura potesse davvero rappresentare l'Italia unita. Le cronache storiche e
la mitologia, per quanto rappresentate in
maniera molto naturalistica, non erano in grado
di soddisfare il bisogno del vero di questi artisti.
Dunque, come rappresentare al meglio il vero?
La linea e il disegno non esistono veramente,
sono la luce e i colori che determinano il volume
di un oggetto; secondo i Macchiaioli la luce
viene percepita tramite la modulazione dei
colori e della ombre. Masse di colore, macchie,
abilmente accostate tra loro riproducono la sensazione della luce. Diego Martelli definì questo
processo parlando di “teoria della macchia in
opposizione alla forma”.
Ne risulterà non solo uno dei movimenti artistici
più importanti dell'Ottocento italiano, ma anche di quello europeo. In Francia - è sempre
stato presente un forte dialogo artistico tra Italia
e Francia - poco più tardi, intorno al 1860,
nasce la corrente artistica che più di tutte è riuscita a rivoluzionare la pittura ottocentesca, l'Impressionismo. Essendo gli Impressionisti il gruppo più importante d'Europa, potremmo pensare
che i Macchiaioli siano stati influenzati da essi;
ma non è proprio così, ci sono sicuramente influenze reciproche, ma ciò che sono stati in grado di fare i Macchiaioli è forse ancora più coraggioso: il risultato della loro pittura è solido.
Se i coetanei francesi furono in grado di rappresentare l'attimo i Macchiaioli colsero la realtà
in modo più globale. La loro pittura possiede
corposità e struttura: si immerge perfettamente
nel nuovo quotidiano del Regno d'Italia.
Colpisce all’interno delle lettere intercorse tra i
Macchiaioli la notevole frequenza con la quale
essi si misurino nel tentativo di definire il
concetto di arte. Non si tratta di speculazioni filosofiche o di esercizi di stile, ma di autentiche
riflessioni poste per iscritto in merito a cosa sia
l’arte, quale sia il ruolo dell’artista, come riconoscere la paternità di un’opera in un’epoca in
cui non vi erano ovviamente norme esatte che
determinassero i diritti d’autore.
L’immediatezza di queste dichiarazioni, la schiettezza con la quale sono proferite non lascia spazio a dubbi: si tratta di un dibattito vivo all’interno del gruppo e così profondamente sentito
da risultare di inevitabile esplicitazione anche in
missive in cui spesso si fanno resoconti di
viaggio, si leggono consigli, suggerimenti o critiche vicendevoli sulle opere prodotte. L’arte è
una presenza costante, muta ma preponderante,
impalpabile eppure ineludibile che dunque deve
essere per forza presa in considerazione, analizzata, scandagliata nel tentativo di carpirne il
senso profondo, sebbene incredibilmente fuggevole. Come scrive infatti Abbati in una lettera a
Vincenzo Cabianca, «[…] l’arte è il prodotto
d’una è il vero visto attraverso un temperamento,
come dice uno scrittore di cui non mi rammento
il nome, e come tale è esclusiva” (Castelnuovo,
26 gennaio 1867). Questa tipologia di affermazione non è da poco: la sua disarmante modernità mostra già in nuce la convinzione della singolarità dell’opera d’arte non solo come frutto
di un estro unico e non riproducibile ma anche
come espressione personale dettata inevitabilmente dalle ideologie e dai gusti del tempo.
Scrive Fattori ad un gruppo di scolari in un’entusiasmante attribuzione di paternità che ben poco ha a che vedere con norme scritte, ma è del
tutto affidata all’inventiva e all’estro creativo: “Le
ombre blu è una delle caratteristiche di Signorini,
e sono sue, i disotti rossi e colore arancio li aveva
Costa romano e li ha insegnati a me, il coolore
messo con il mestichino quel piccolo ingegno di
Rembrandt […]» (Firenze, gennaio o febbraio
1891).
Il concetto di arte deriva anche dal confronto col
pubblico, dal suo apprezzamento che determina
di fatto la consapevolezza dello stile dell’artista,
la sua capacità di trasmettere i concetti che vuole
esprimere. Spiega a questo proposito Abbati, «se
il pubblico è ignorante e non apprezza il nuovo
bello che l’ambiente sociale e la legge eterna della
mutabilità, ha imposto agli artisti, di che è la colpa se non di questi che non sanno ancora estrinsecare il loro sentimento non producono che speranze e promesse?» (Lettera a Vincenzo Cabianca,
Castelnuovo, 26 gennaio 1867). Lo stesso Signorini, sull’argomento, registra le sue opinioni
in modo assai irruente, sintomo evidente del disagio profondo di chi, sapendo di essere un precursore per il suo tempo, è costretto ad affermare
con forza la propria maniera, il proprio stile, le
proprie teorie ad essi conseguenti: «All’amatore
che lodando la persistenza nelle mie ricerche mi
domanda “E il quadro quando ce lo fate?” rispondo. Il quadro è fatto e l’hai sotto gli occhi,
se non te ne sei accorto pigliandolo per un tentativo per un’aspirazione di avvenire, peggio per
te, se la tua educazione ti fa vedere il quadro nelle
tele di tanti professori non le cecar sulle tele dipinte da me.»
(Lettera a Ferdinando Martini, Firenze, 19 dicembre, 1872).
L’arte del resto è sintomo di esercizio, fatica,
prove e continui studi per raggiungere quella capacità espressiva, quella rappresentazione della
realtà che nella mente dell’artista rappresenta il
limite massimo di arrivo, il punto di eccellenza
al quale aspira. Registra così questo intenso e
necessario approfondimento Nino Costa in una
lettera a Francesco Gioli: «Da qualche mese mi
trovo in campagna a scopo di studiare l’arte sul
vero, e mi sento così giovane per i miei
quattordici lustri, e di tanto in tanto poco talento
che ho le ciglia di baldanza rase. Aggiungo che
se in questo momento arrivasse un premio che
sapesse di officialità mi metterebbe sempre più
nel dubbio. Perché il premio dell’arte bisogna
trovarlo in se stesso e per prova so, che l’arte è
mai ingrata a chi l’ama direttamente.» Infatti,
spiega ancora Costa, «l’arte è amore, studio, e libertà, né si deve ridurre ad un volgare pugillato»
(Marina di Pisa, 3 febbraio 1897). Le lettere citate
sono tratte dai volumi: Lettere dei Macchiaioli,
a cura di Lamberto Vitali, Einaudi, 1953; Lettere
inedite dei Macchiaioli, a cura di Piero Dini, Il
Torchio, 1975; Lettere dei Macchiaioli, a cura di
Lorella Giudici, Abscondita, 2008.
Giulia Favilla
Serena Bedini
…. l’ultimo respiro!
Angelo Minisci
Telemaco Signorini e Stanislao Pointeau
I Macchiaioli