23 ottobre 2016 - L`Agenzia Culturale

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Milano - Basilica di Sant’Ambrogio
Rassegna
Stampa
23 ottobre 2016
A cura de: “L’Agenzia Culturale di Milano”
Con sede in Milano, via Locatelli, 4
www.agenziaculturale.it
Questa rassegna stampa è scaricabile integralmente anche dal sito www.agenziaculturale.it
Estratti da:
Ciclostilato in proprio
18/10/2016
La battaglia di Mosul
ovvero il destino dell'Isis
di ALBERTO NEGRI
La battaglia per Mosul non è soltanto un'operazione
militare ma anche politica: si decide il destino dei
jihadisti e di un'intera regione.
Le forze in campo hanno interessi contrastanti: più
che una "coalizione di volonterosi" è uno
schieramento di litigiosi concorrenti. Su Mosul
convergono le ambizioni di tutti gli attori in gioco:
della Turchia, dell'Iran, della regione autonoma
curda di Massud Barzani e, ovviamente, del governo
centrale.
L'attacco coinvolge l'esercito iracheno (nella foto,
alla base di Qayyarah, a sud di Mosul) affiancato da
milizie sciite, strette alleate di Teheran, con la
partecipazione, non troppo gradita da Baghdad, dei
peshmerga curdi.
Sono inoltre in campo i corpi speciali americani,
oltre alle milizie addestrate dalla Turchia. È il più
grande intervento militare da quando gli Usa si sono
ritirati nel 2011 dall'Iraq.
Qual è l'obiettivo? Liberare la città ma anche
contenere le perdite tra i civili, ostaggio dei jihadisti,
l'ondata dei profughi e impedire che la caduta di
Mosul si trasformi in una pulizia settaria tra sciiti e
sunniti - che qui sono la maggioranza - come è
accaduto in altre offensive contro l'Isis.
La cosa più difficile potrebbe non essere la
riconquista ma quello che verrà dopo. Questo è un
argomento ultrasensibile: dopo la caduta di Saddam
nel 2003 con l'invasione americana e la dissennata
decisione di sciogliere non solo il partito Baath ma
anche l'esercito, il revanscismo sunnita nei
confronti della maggioranza sciita e dei curdi è
diventato una delle cause profonde delle derive
terroristiche. I sunniti si sono gettati nelle braccia
dei jihadisti, da Al Qaeda all'Isis. I curdi hanno così
annunciato che non entreranno in città ma
occuperanno postazioni sulla strada di Kirkuk,
capitale petrolifera e vero motivo della contesa con
il governo sciita.
L'altro protagonista non gradito a Baghdad è la
Turchia, coinvolta nell'offensiva in Siria in appoggio
alle milizie che hanno appena conquistato Dabiq.
L'obiettivo di Ankara in questa guerra del Siraq è
sempre stato duplice, se non triplice. Abbattere
Assad - target anche del candidato presidenziale
Hillary Clinton - manovrando ribelli e jihadisti,
impedire la nascita di uno stato curdo ai suoi
confini, estendere la sua influenza su Aleppo e
Mosul. Questo è uno dei tanti paradossi: mentre la
Turchia in Siria avversa i curdi del Rojava, in Iraq è
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 257 del 23 ottobre 2016
alleata dei curdi di Barzani in funzione anti-sciita.
La Turchia, membro della Nato, unico Paese nel
campo occidentale a trattare direttamente con lo
Stato Islamico, in questo conflitto si è sempre
presentata come portabandiera delle rivendicazioni
sunnite con il sostegno di Arabia Saudita e Qatar. Ed
Erdogan ha fatto sapere che non intende restare
fuori dalla riconquista di Mosul. Con il ministro
degli Esteri italiano Gentiloni, ha ribadito che non
lascerà la base irachena di Bashiqa.
Le ambizioni di Erdogan sia in Siria che in Iraq si
sono rafforzate dopo l'incontro con Putin. A parte
l'accordo per la ripresa del gasdotto Turkish Stream,
si è avuta un'intesa sulla questione curda: Putin ha
ritirato il suo sostegno ai curdi siriani per dare via
libera ad Ankara nel realizzare un'area che spezza la
continuità tra i territori conquistati nel Rojava. In
cambio Erdogan lascerà probabilmente ai russi e ad
Assad la parte orientale di Aleppo. Turchi, iraniani e
siriani condividono l'obiettivo di non dare spazio
all'irredentismo curdo mentre sono su fronti
opposti ad Aleppo dove ufficiali dei Pasdaran e
milizie sciite svolgono un importante ruolo contro i
ribelli sostenuti da Ankara.
La battaglia di Mosul è una formidabile
contraddizione. Gli americani qui devono contare
sull'esercito iracheno e le milizie sciite legate all'Iran
mentre in Siria gli Stati Uniti, la Turchia e i loro
alleati arabi sono avversari della repubblica islamica
che storicamente sostiene Assad. Ecco perché
Mosul, come Aleppo, è importante. Queste sono
città-chiave per definire le zone di influenza. Forse
non nuovi stati come molti pretendono seguendo
elucubrazioni i cui presupposti sono crollati,
sconvolti da eventi bellici, migrazioni e spostamenti
forzati delle popolazioni.
Se è vero che dalla disgregazione della ex Jugoslavia
sono nate nuove entità, qui è più complicato perché
la spartizione riguarda non solo territori ma anche
risorse strategiche come gas e petrolio. La
frammentazione fa comodo a Israele, che vede
disfarsi le nazioni arabe, ma non del tutto a potenze
come Turchia e Iran. E neppure troppo a Usa e
Russia che la divisione potrebbero averla già fatta:
l'Iraq agli americani, la Siria a Mosca. Non è detto che
cento anni dopo gli accordi anglo-francesi ci sia
bisogno di una nuova Sykes-Picot. Il Siraq potrebbe
essere un altro sanguinoso pareggio tra
superpotenze, con migliaia di morti e milioni di
profughi.
© RIPRODUZIONE RISERVATA.
pagina 2
13/10/2016
Il no all'utero in affitto: vittoria di uno stile oltre gli schieramenti
Caro direttore, noi "Donne per le donne" del Forum delle Associazioni familiari, che da mesi abbiamo sollevato la questione assurda della
maternità surrogata, non possiamo che essere soddisfatte dell'esito del Consiglio d'Europa di qualche giorno fa. Siamo convinte che la
battaglia sia molto importante; lo abbiamo affermato nella conferenza stampa organizzata al Senato a gennaio e lo ribadiamo ora con molta
determinazione, ringraziando e sostenendo le parlamentari nazionali che siedono anche nell'Assemblea del CdE che hanno in prima
persona vinto questa battaglia. Ha vinto il metodo di lavoro adottato, un lavoro trasversale di stima e intelligenza politica delle
parlamentari appartenenti a partiti diversi. Ci sentiamo di condividere questo metodo anzi questo stile, e di riproporlo anche in altri ambiti
su temi primari sulla persona e sulla famiglia. Le idee politiche non possono dividerci e contrapporci quando in gioco ci sono temi etici,
morali e umani irrinunciabili. Non è questione di essere di destra, di sinistra o di centro, ma donne e uomini veri. Noi donne del Forum
siamo in prima linea, disponibili al confronto e al dialogo con tutte le esperienze laiche serie che si occupano di donne, di violenza sulle
donne e di maternità surrogata. Occorre favorire dialogo nella chiarezza delle posizioni: la maternità surrogata mina la dignità della donna
in quanto riduce a merce il suo corpo. Non è purtroppo mai un "atto di altruismo" come qualcuno vuol far credere! In particolare, dunque,
grazie a Elena Centemero, grazie a Eleonora Cimbro e grazie a Milena Santerini! Un bel lavoro di squadra che sappiamo ha coinvolto pure
il Movimento 5 Stelle, un lavoro di tessitura di due lunghi anni, mesi in commissione e votazioni per arrivare a questo grande risultato.
Vediamo anche un'Europa che, come una vecchia signora, lentamente si sta rimettendo in moto, rialzandosi piano piano ma con segnali
positivi ed incoraggianti. Grande vittoria per tutte le donne. Ma non è finita qui, ora occorre richiedere nelle opportune forme e sedi
internazionali il rispetto da parte dei Paesi firmatari delle convenzioni internazionali per la protezione dei diritti umani e del bambino e la
messa la bando universale di tutte le forme di legalizzazione della maternità surrogata. La battaglia continua , «la buona strada» - come lei
ha titolato ieri - ormai è però tracciata. vicepresidente Forum delleAssociazioni familiari Scripta manent.
19/10/2016
Fragili, facili e confuse in coda per l'aborto sempre più minorenni
di MARIA SORBI
Milano Il sabato mattina le trovi in coda alla clinica ginecologica a chiedere la pillola del giorno dopo. Accompagnate dalla mamma.
Oppure le vedi con lo sguardo basso nelle sale d'attesa, in fila per interrompere la gravidanza. Il cellulare in una mano e lo smalto
sbeccato sull'altra. E hanno 15 anni, al massimo 16. Bambine che rischiano di avere bambini e che fanno sesso così, tanto per fare.
I medici del Policlinico di Milano hanno dato un nome alla nuova «patologia» delle teen ager. La chiamano banalizzazione del sesso. I
numeri non sono significativi del fenomeno, ancora molto contenuto e silenzioso, ma parecchi casi degli ultimi anni hanno lasciato
senza parole anche ginecologi della portata di Alessandra Kustermann che, nella sua attività trentennale, credeva di averle viste
tutte. Credeva, appunto. E invece ora si trova sempre più spesso di fronte a ragazzine con l'apparecchio ai denti che chiedono di
abortire. «Tante hanno rapporti sessuali completi con i compagni di classe in cambio di una ricarica del telefono. E non si rendono
conto che anche questa è una forma di prostituzione».
Ovviamente nulla a che vedere con le baby squillo dei Parioli di Roma: in quel caso i clienti erano tutti maggiorenni e si parlava di un
giro consolidato di giovanissime escort.
Ma anche spogliarsi, farsi palpeggiare nei bagni della scuola, o fare sesso col primo che capita in cambio di una borsa di Zara e di un
piccolo regalino ha qualcosa di inquietante.
«Abbiamo a che fare sempre più spesso con ragazzine inconsapevoli, che non si rendono conto del significato del sesso (e figuriamoci
dell'amore) - racconta la Kustermann - Le assistiamo anche dal punto di vista psicologico: sono fragilissime, insicure ed hanno una
bassa considerazione di sé e un rispetto nullo del loro corpo». Ça va sans dire, nessuna di loro usa precauzioni, né ha partner abituali.
Non stiamo parlando solamente di ragazzine provenienti da ambienti disagiati, costrette a diventare grandi più in fretta. Ma di liceali
delle «famiglie bene». Che evidentemente in testa hanno parecchia confusione sul significato di rapporto sessuale e che cambiano
partenr con un po' troppa facilità.
C'è un dato, parziale, del fenomeno. Il numeri delle certificazioni di interruzione di gravidanza registrato dall'Ats Milano: nel 2015 le
minorenni che hanno chiesto di abortire sono state 60, il tre per cento del totale e un po' meno rispetto all'annus horribilis, il 2014,
quando ne furono registrare 140. «Ma bisogna tener conto - spiega Aurelio Mosca, direttore del dipartimento famiglia dell'Ats
milanese - che il certificato di interruzione di gravidanza, oltre che nei consultori Ats, può essere rilasciato anche da un medico di base
o da un ginecologo privato». Quindi il dato fotografa solo una parte di quello che accade. È la stessa Alessandra Kustermann a
proporre di cominciare a monitorare il fenomeno, che sicuramente è in crescita. «Bisogna anche lavorare sulla sensazione di
sopraffazione psicologica - sostiene la Kustermann - ascoltare i nostri ragazzi, educarli ai sentimenti. Tempo fa nelle scuole della
Lombardia si faceva un gioco di ruolo sulle emozioni e sull'accesso alla fisicità molto profondo e utile». Ecco, ora quel corso, intitolato
«Le parole non dette», si fa solo in pochissimi istituti a causa dei soldi che scarseggiano. E il presupposto resta comunque uno:
l'educazione al sesso e all'amore si fa, ogni giorno, prima in famiglia che da dietro una cattedra. Alessandro Albizzati, neuropsichiatra
all'ospedale San Paolo, denuncia il nuovo male che colpisce, ahimé, fili e genitori: «la mancanza di valori». E forse è da qui che bisogna
ripartire.
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 257 del 23 ottobre 2016
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14/10/2016
Un progetto olandese che 'falcia' la speranza
LA MORTE A COMANDO E
LA PRETESA DEL TIMBRO
di GIUSEPPEANZANI
Il primo testo sul suicidio che la cultura umana ha
prodotto è un papiro egizio di 4.200 anni fa, noto
come il 'Dialogo di un suicida con la propria anima'.
È una disperazione invocante: «La morte è davanti
a me oggi / come quando un malato risana / come
l'uscir fuori da una detenzione». Quasi all'altro
capo della storia, il 'Mito di Sisifo' di Albert Camus,
inizia così: «Vi è un solo problema filosofico
veramente serio, quello del suicidio. Giudicare se la
vita valga o non valga la pena di essere vissuta è
rispondere al quesito fondamentale della filosofia».
I ministri olandesi della Salute e della Giustizia la
fanno breve, e ieri l'hanno detto: da noi c'è già
l'eutanasia, per i malati terminali, ma se un
individuo sente di aver «completato la sua vita», a
prescindere che sia malato o no, perché gli si
dovrebbe rifiutare il favore di aiutarlo a uccidersi, e
così farlo morire «con dignità»? Ma la semplicità
strepitosa e banale della soluzione, e quelle stesse
parole «ciclo vitale completato», ci mettono un
brivido. Sono il segno di un salto culturale che non
ha più a che fare con la malattia, il dolore, la
diagnosi infausta, non ha più a che fare neppure con
l'eutanasia e i suoi problemi etici e giuridici: è la
potenza della volontà di possedere la morte, di farsi
mortali da sé anziché riconoscersi mortali, di
scegliere l'ora della morte rifiutando che vi sia
un'ora non segnata dall'uomo per uscire dalla vita.
Prospettiva antropologica nuova che non ha più a
che fare con la medicina, e a ben riflettere configura
la fine non più come uscita dalla vita, ma come
«ingresso nella morte», quasi volontaria
distruzione d'esistenza.
Com'è evidente, allora, che il suicidio ha a che fare
con l'anima, col dialogo dell'anima, con le questioni
ultime del senso della vita e dell'essere. Non dico
soltanto dell'anima che fa persona ogni essere
umano.
Penso anche a ciò che ha significato, nella civiltà
umana e nella storia del pensiero, il concetto di
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 257 del 23 ottobre 2016
anima mundi, e quanta ricchezza di relazione, di
intreccio, di cura, di sollecitudine, di fraternità
infine e di comunanza di destino abbia suggerito e
generato fra gli uomini.
Oggi il fantasma della morte on demand lo falcia.
Oggi l'intuizione dell'anima mundi annega
nell'individualismo solitario e disperato che
esprime il massimo della liquidità sociale
teorizzata. Diranno che la legge verrà ben
preparata, e sarà acconcia, e avrà persino la
premura di cercare una garanzia per far seria la
morte e sottrarla all'impulso o alle pressioni: ci sarà
«un esperto indipendente». Qualcuno, dunque, che
potrà timbrare «ciclo vitale completato» su
un'esistenza umana, e portare a morte l'infelice?
Un profilo di dominio in cui solo il divieto ai
familiari di somministrare proprio loro le medicine
mortali guizza meno crudele.
Diranno che l'infelice l'ha voluto, diranno che
l'hanno aiutato, liberato dalla vita grama,
dall'angoscia, dal senso di fallimento, di rovina, di
stanchezza, di male; in una parola, dalla
disperazione. Ma forse proprio dall'ultima parola si
può risalire a capire che cosa coinvolge il pensiero
suicida, il desiderio di farla finita, su quale terreno
attecchisce, dove conduce. È proprio dalla parola
disperazione che può distillarsi il senso di quella
immensa grazia che è la speranza («una
disperazione sormontata», la chiamava Bernanos)
e la vitalità che la speranza inietta dentro la vita. E il
bisogno universale della speranza che 'rianima'
ogni vita, perché in ogni vita sonnecchia una
pulsione di morte. E la capacità di comunicarci
speranza l'un l'altro, come fiore di vita nei nostri
deserti.
Ministri della Salute e della Giustizia olandesi, che
ne sapete voi della speranza? O che ne sapete voi
dell' anima, nei vostri prontuari farmaceutici, nelle
vostre gazzette? Il pensiero suicida vi ha vinti?
Siete voi, allora, i disperati.
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14/10/2016
«La Ue non rispetta i patti sui migranti»
di Andrea Pasqualetto
Il governo contro l'Europa. Mattarella:
l'Italia lasciata sola. Alfano: non saremo
una Ellis Island
«Nella discussione riguardante i prossimi
fondi europei noi dobbiamo mettere una
regola e impegnarci perché passi: che quei
Paesi non in grado di rispettare gli impegni
sull'immigrazione, quei Paesi che alzano i
muri non devono avere investimenti
privilegiati». A fare la voce grossa sulla
questione migranti è stato il presidente del
Consiglio Matteo Renzi, impegnato a Bari
all'assemblea dell'Anci. Con lui, da Roma,
anche il capo dello Stato Sergio Mattarella
che ha lamentato la condizione dell'Italia
costretta a sopportare il peso dei flussi del
Mediterraneo «praticamente da sola»,
nonostante gli impegni presi in sede
europea. Un messaggio chiaro, diretto a
richiamare l'attenzione sulla rotta del mare
che il Presidente ha chiamato «cimitero»
della disperazione. «Coerenza e
responsabilità occorre avere nell'affrontare
le tensioni presenti nello scacchiere cui
guarda il Mediterraneo», ha aggiunto.
Mattarella non esclude nessuno neppure
Londra: «Rimane un partner centrale,
imprescindibile, ci auguriamo che intenda
proseguire sulla strada della
collaborazione».
E mentre si consumava proprio ieri
l'ennesima strage nel Canale di Sicilia,
quattro capitali europee hanno dichiarato
di puntare al prolungamento dei controlli ai
loro confini, allontanando di fatto il ritorno a
Schengen. «Se lo fanno per ragionamenti
politici, per dare soddisfazione all'opinione
pubblica nazionale lo capisco, ma il
problema pratico dal loro punto di vista non
ci sarebbe». Alfano si è scontrato a
distanza con il suo omologo francese
Bernard Cazeneuve che lasciando il
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consiglio Ue aveva detto come non fosse
«possibile immaginare che una parte dei
migranti in transito dall'Italia non passino
per gli hotspot, questo pone rischi per la
sicurezza». «Sulla sicurezza non
accettiamo lezioni da nessuno», gli ha
risposto il capo del Viminale: «L'Italia non è
disponibile a diventare l'Ellis Island
d'Europa».
Tornando alla sciagura di ieri, si tratta di
migranti partiti da Sabrata, Tripolitania,
sulla costa libica di Nord Ovest. Un
gommone con centotrenta disperati a
bordo. Dopo cinque ore di navigazione, i
primi problemi: il tempo che cambia, il mare
che s'ingrossa, il gommone che ondeggia
fra i flutti e i migranti che finiscono in mare:
forse 17 dispersi, forse di più, certamente
fra loro c'è un bimbo di tre anni, 117 le
persone salvate.
Chi li ha soccorsi, cioè gli uomini del team
Moas-Croce rossa italiana che guidava la
nave Phoenix, si è trovato di fronte a un
altro dramma.
Molti sopravvissuti avevano infatti varie
ustioni sul corpo, causate dallo
sfregamento della pelle bagnata dall'acqua
salata con i vestiti impregnati dal
carburante fuoriuscito dal motore. Erano
soprattutto donne, perché a differenza
degli uomini non si sono sfilate i vestiti per
pudore.
Quest'anno le persone morte cercando di
attraversare il Mediterraneo e sognando
l'Europa hanno superato quota 3.500. Un
grande cimitero marino. Il presidente del
Senato Pietro Grasso: «Sono convinto che
o l'Europa nasce a Lampedusa, o muore. O
siamo capaci di essere davvero europei sin
dal primo attimo in cui una persona in
difficoltà bussa alla nostra porta, oppure
siamo destinati a un rapido declino,
geopolitico e soprattutto morale».
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18/10/2016
I RACCONTI DEI VOLONTARI
Da borghesi a disperati, discesa senza fine
«Hanno bisogno di tutto. E sono invisibili»
Da Milano a Cosenza, il dramma dei connazionali. Ma è sottostimato
di STEFANO ZURLO
Il Meridione disperato comincia alla periferia
Sud di Roma.
«Qui alla Borghesiana - racconta don Luca
Centurioni - lavoravano tutti nell'edilizia. Ora il
settore è fermo, il lavoro non c'è più e i poveri
crescono ver tiginosamente». Famiglie
rigorosamente italiane: romani che negli ultimi
anni hanno perso tutto. «Saranno almeno cento
le famiglie italiane che non hanno più la
corrente in casa - prosegue don Luca - e trenta,
quaranta quelle che prendono l'acqua alla
fontanella perché dai rubinetti non esce più
niente».
Pare impossibile e invece il quadro che arriva
dalla prima linea dell'emarginazione supera
ogni immaginazione. «Con un'aggravante sottolinea il sacerdote - gli stranieri sono
compatti e uniti, gli italiani si dividono, la
povertà è un moltiplicatore dei guai. Il marito
perde il lavoro e comincia a bere, la moglie lo
butta fuori. Risultato: non arrivano a fine mese
né lui né lei che magari deve provvedere a due o
tre figli».
La Caritas stima che nel Mezzogiorno il 66 per
cento di chi bussa ai centri d'ascolto sia di quella
città. Un dato allarmante. Però persino
ottimistico secondo altri operatori. «È da anni
che andiamo ripetendo che ormai sono i nostri
connazionali più degli stranieri a chiedere aiuto
- afferma Andrea Giussani, presidente della
Fondazione Banco Alimentare - E questo vale a
Milano come a Palermo, al Nord come al Sud.
Semmai bisogna aggiungere che il disagio dei
nostri connazionali è sottostimato perché gli
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italiani sono più discreti, hanno pudore, si
vergognano, ancora di più perché spesso fino a
qualche anno fa se la cavavano da soli e non
dovevano tendere la mano». Oggi invece
aspettano con ansia i pacchi che permettono
loro di mangiare e tempestano di richieste le
associazioni che si fanno in quattro perché i
bisogni sono infiniti: i vestiti, le bollette le
medicine, il riscaldamento. «Purtroppo conclude Giussani - l'uscita dalla crisi di cui
parla il Governo riguarda, ammesso che ci sia,
un'élite, chi è al vertice della piramide; chi è in
fondo alla scala sociale, una valanga di gente,
ha solo il problema di sopravvivere giorno per
giorno in una realtà che è e resta nerissima come
la notte».
Le storie dei nuovi poveri che prima erano
borghesi riempiono la penisola. Ma lo sfascio
diventa insostenibile sotto Roma. «Nove anni
fa quando è partita l'attività dell'associazione
Franco Loise - spiega da Cosenza la signora
Giuliana Calabrese - aiutavamo soprattutto
stranieri. Oggi siamo circondati da italiani in
condizioni difficilissime: le famiglie calabresi
sono il 90 per cento di quelle cui diamo una
mano. Il loro tenore di vita dopo il naufragio è
bassissimo: hanno bisogno di tutto. La pasta. Il
riso. Il latte. Il vestiario. E poi il gas, la luce, la
corrente. E tutto il resto».
Poveri che giorno per giorno sprofondano
sempre più. C'è un rito che mostra questa
discesa senza fine. «È - spiega Calabrese - il
pranzo della domenica. Si presentano in mensa
signore dai modi raffinati che indossano il
vestito della festa.
Il segno di un passato che non c'è più».
pagina 6
14/10/2016
«Come tutti i grandi aveva un cuore
inquieto. Anche lui cercava Dio»
Il teologo Forte: Fo sentiva dentro di sé il mistero dell'Altro
Amava San Francesco e ne aveva colto tutta la profondità
di GIAN GUIDO VECCHI
CITTÀ DEL VATICANO «Non lo conoscevo di persona.
Ma prego perché Dio, come aveva detto lui stesso, ora
possa sorprenderlo». Il primo pensiero dell'arcivescovo
e teologo Bruno Forte è rivolto a quella frase che Dario
Fo affidò al libro «Dario e Dio», scritto con Giuseppina
Manin: «Siamo polvere, mi dice la ragione. Ma poi...
la fantasia, l'estro, la follia mi danno altre visioni. Che
dire? Spero di venir sorpreso».
Eccellenza, c'è un passaggio del «Mistero buffo»,
l'incontro tra Bonifacio VIII e Gesù, che ricorda
Dostoevskij...
«Sì, il Grande inquisitore che dice a Gesù: non venire a
disturbarci. Dario Fo era di certo un uomo di intelligenza
straordinaria e quindi inquieto. Si è interrogato sul
mistero della vita, che è buffo perché appare talvolta
senza senso, un insieme di passioni, amori, speranze,
lotte che sembrano dissolversi in una caduta nel nulla
della morte, per chi guarda solo la fenomenologia del
mondo. Eppure...».
Eppure?
«Affermare "sono ateo, però non escludo di essere
sorpreso da Dio dopo la morte" dice una condizione di
inquietudine, una ricerca del cuore che non si chiude
alla possibile "ulteriorità" del mistero. E questo credo sia
proprio di tutti i grandi. Essere o dichiararsi ateo
banalmente, senza problemi, sarebbe sintomo solo di
stupidità».
E perché?
«Perché chiudere la questione così, senza neppure
considerare la sfida del mistero, significa presumere di
sé come nessuno di noi ha il diritto di fare. Ogni ricerca
autentica deve essere segnata dall'umiltà e dalla
consapevolezza del proprio limite. Schelling parla di
"stupore della ragione". Chi esercita fino in fondo la
ragione, come ha fatto Fo, non può non avvertire questo
stupore».
Dario Fo aveva una grande ammirazione per il
cardinale Martini. Viene da pensare al tema di fondo
della «cattedra dei non credenti».
«Sì, la grande intuizione che aveva mosso il cardinale
Martini si collegava a una frase di Norberto Bobbio: "La
vera differenza non è fra credenti e non credenti, ma fra
pensanti e non pensanti". Anche il credente, in un certo
senso, è un povero ateo che si sforza ogni giorno di
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cominciare a credere... Diversamente, la fede si
ridurrebbe a ideologia o tutt'al più a illusione
consolatoria».
Però non c'è angoscia, in Fo. C'è riso e sberleffo,
no?
«Non possono non esserci ironia e umorismo di fronte al
mistero "buffo" della vita. Un'intelligenza non ripiegata
su se stessa è sempre anche ironica. Il mistero è buffo
perché inquietante. Del resto ogni esperienza artistica e
letteraria autentica è fondata su una relazione all'altro e
alla sfida che rappresenta per l'io chiuso in se stesso:
ogni autore si concepisce in rapporto a un interlocutore.
Platone, nel Fedro , scrive che ogni libro ha bisogno di
un padre, di un altro al quale riferirsi. E certamente nel
mondo di Fo il mistero dell'altro, inquietante,
interrogante, non è mai mancato».
A cosa pensa, in particolare?
«Ad esempio, al suo grande amore, Franca Rame, alla
loro relazione profonda, struggente, fedele nel tempo. E
poi ogni scrittore vive la propria vita rivolgendosi agli
altri. E chi sa che nella vita c'è l'altro, non si sazia di un
approdo "penultimo". Emmanuel Lévinas diceva che il
volto degli altri strappa il nostro io a ogni possibile
pretesa di assolutezza. Il volto degli altri rimanda
sempre a un'ultima, suprema alterità, che il credente
confessa come il Volto di Dio, desiderato e cercato».
L'Osservatore Romano cita le parole che Montini,
nel 1957 a Milano, rivolse ai «fratelli lontani»:
«Talora il loro anticlericalismo nasconde uno
sdegnato rispetto alle cose sacre, che credono in
noi avvilite». Di qui l'interesse di Fo per San
Francesco?
«Credo che Fo cogliesse un aspetto fondamentale del
messaggio di San Francesco: la povertà, che anche
papa Francesco si augura per la sua Chiesa, una
povertà che non è pauperismo, ideologia astratta, ma
constatazione onesta e intelligente che la vera
ricchezza non sta nell'avere, nel potere o nel piacere,
ma nel dare. Il Santo di Assisi, come questo Papa che
porta il suo nome, affascina moltitudini di persone
perché propone l'essenziale: una vita che ha senso
perché c'è qualcuno che ami e per cui vale la pena di
vivere e donare te stesso. Chi crede riconosce questo
altro nel Dio che è amore infinito, e negli altri,
specialmente poveri e bisognosi, in cui la Sua attesa
d'amore ci raggiunge».
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PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Roma - Piazza San Pietro
Domenica, 9 ottobre 2016
Cari fratelli e sorelle,
con dolore ho ricevuto le notizie circa le gravi conseguenze causate
dall'uragano che nei giorni scorsi ha colpito i Caraibi, in particolare Haiti,
lasciando numerose vittime e sfollati, oltre che ingenti danni materiali.
Assicuro la mia vicinanza alle popolazioni ed esprimo fiducia nel senso di
solidarietà della Comunità internazionale, delle istituzioni cattoliche e delle
persone di buona volontà. Vi invito ad unirvi alla mia preghiera per questi
fratelli e sorelle, così duramente provati.
Ieri a Oviedo (Spagna) sono stati proclamati Beati il sacerdote Gennaro
Fueyo Castañón e tre fedeli laici. Lodiamo il Signore per questi eroici
testimoni della fede, aggregati alla schiera dei martiri che hanno offerto la
loro vita nel nome di Cristo.
Rivolgo il mio più cordiale saluto a tutti voi, cari pellegrini, che avete
partecipato a questo Giubileo Mariano. Grazie della vostra presenza! Con
voi vorrei ripetere le parole che san Giovanni Paolo II pronunciò l'8 ottobre
del 2000, nell'Atto di Affidamento giubilare a Maria: «O Madre vogliamo
affidarti il futuro che ci attende. L'umanità può fare di questo mondo un
giardino, o ridurlo a un ammasso di macerie». In questo bivio, la Vergine ci
aiuti a scegliere la vita, accogliendo e praticando il Vangelo di Cristo
Salvatore.
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PAPA FRANCESCO
ANGELUS
Roma - Piazza San Pietro
Domenica, 16 ottobre 2016
Al termine di questa celebrazione, desidero salutare cordialmente tutti voi,
che da vari Paesi siete venuti per rendere omaggio ai nuovi Santi. Un
deferente pensiero va in modo particolare alle Delegazioni ufficiali di
Argentina, Spagna, Francia, Italia, Messico. L'esempio e l'intercessione di
questi luminosi testimoni sostengano l'impegno di ciascuno nei rispettivi
ambiti di lavoro e di servizio, per il bene della Chiesa e della comunità civile.
Domani ricorre la Giornata mondiale contro la povertà. Uniamo le nostre
forze, morali ed economiche, per lottare insieme contro la povertà che
degrada, offende e uccide tanti fratelli e sorelle, attuando politiche serie per
le famiglie e per il lavoro.
Alla Vergine Maria affidiamo ogni nostra intenzione, specialmente la nostra
insistente e accorata preghiera per la pace.
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quaderno 3987-3988
13-27 agosto 2016
LA FORZA DELLA FAMIGLIA
Thomas Casey S.I.
La centralità della famiglia
Che cosa succede quando si viene a sapere che si sta per morire? E non in sei mesi o in tre
settimane, ma nel giro di poche ore, o addirittura di qualche minuto? Come si fa fronte a una
situazione simile? Lo scorso novembre, Marielle, una giovane donna di Lens, era al concerto nella
Bataclan Concert Hall di Parigi, quando i terroristi hanno invaso l'edificio. Per tre ore si è nascosta in
una piccola doccia, piena di ansia, temendo che sarebbe stata uccisa. Il primo messaggio che ha
mandato era diretto ai suoi genitori: Je vais mourir, je vous aime («Sto per morire. Vi amo»).
Miracolosamente, all'una del mattino, è stata salvata dalle forze di sicurezza che hanno fatto irruzione
nell'edificio.
Accade spesso che le persone, quando affrontano la morte imminente, facciano qualcosa di
semplice, ma meravigliosamente profondo: telefonano o scrivono ai loro familiari per dire quanto li
amano. Sarebbe comprensibile che si lasciassero completamente sopraffare dal loro destino. Invece, e
ne abbiamo tanti esempi, essi pensano a persone significative nella loro vita e danno voce al loro
amore e al loro affetto. Durante gli attacchi terroristici avvenuti a Bruxelles nel marzo scorso, David
Dixon, un britannico che lavorava come programmatore informatico a Bruxelles, dopo l'attentato
all'aeroporto aveva scritto un messaggio alla sua famiglia per dire che non gli era successo nulla, ma è
stato tragicamente ucciso poco dopo, al momento di montare sul treno della metropolitana che è stato
colpito dalla successiva esplosione.
Sono tante le persone che nei momenti di pericolo, come Marielle e David, pensano alle loro
famiglie e attestano la forza imperitura del vincolo familiare. Essi sanno di amare e di essere amati, e
questo dà loro coraggio. Quando nelle nostre famiglie seguiamo la legge dell'amore, siamo in grado di
affrontare qualsiasi tipo di prova o di sacrificio.
La famiglia è un'istituzione di capitale importanza per la nostra vita personale e sociale. Con una
buona famiglia alle spalle possiamo conquistare il mondo, perché, sebbene la famiglia sia la più
piccola istituzione al mondo, è anche la più grande. È molto più piccola di un villaggio, di una città, di
una regione o di uno Stato, ma è anche più grande di queste entità, perché viene prima di tutte. Prima
che esistessero i villaggi, c'erano le famiglie. Prima che sorgessero i grandi imperi, minuscole famiglie
avevano già prosperato per generazioni. Senza la famiglia, di certo, non ci sarebbero mai stati villaggi,
paesi, città o nazioni. La famiglia è uno dei più meravigliosi doni di Dio. È l'istituzione che plasma il
carattere umano come nessun'altra.
Perciò non sorprende che Papa Francesco abbia dedicato l'Esortazione apostolica Amoris laetitia
(AL) al tema della famiglia. «La Bibbia è popolata da famiglie, da generazioni, da storie di amore e di
crisi familiari, fin dalla prima pagina, dove entra in scena la famiglia di Adamo ed Eva, con il suo carico
di violenza ma anche con la forza della vita che continua (cfr Gen 4), fino all'ultima pagina dove
appaiono le nozze della Sposa e dell'Agnello (cfr Ap 21,2.9)» (AL 8).
Nel bene o nel male, nella ricchezza o nella povertà, nella malattia o nella salute, ognuno di noi si
porta dentro la propria famiglia, per tutti i giorni della sua vita. La nostra famiglia non è con noi come
un mero ricordo, ma ha un'influenza determinante sul nostro modo di agire e di comportarci. I nostri
stessi corpi sono modellati dai nostri genitori. Noi parliamo come loro, assomigliamo a loro.
Inconsciamente ne imitiamo i gesti e camminiamo con un'andatura simile. Un giorno sono sbottato
con un'amica che mi stava esasperando, e lei si è messa a ridere, dicendo: «Sono proprio le parole che
usa tuo padre!».
L'influenza dei genitori è impressa nella nostra psiche in modo ancora più profondo. Ereditiamo
tanti valori, espliciti e impliciti, dalle nostre famiglie. Gli obiettivi che perseguiamo devono molto alle
ambizioni della nostra famiglia, e alla nostra reazione nei confronti delle sue aspirazioni. La famiglia è
una ragnatela da cui non possiamo mai districarci, e da cui non abbiamo mai veramente voglia di
staccarci.
Ma oggi non c'è accordo sul fatto che la famiglia debba continuare a svolgere un ruolo centrale nella
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società. Sebbene la struttura familiare continui a esistere, in alcuni casi è davvero difficile
riconoscervi ciò che essa era stata nella generazione precedente. Vediamo nuove configurazioni
relazionali di coppie dello stesso sesso che accolgono bambini con l'aiuto di madri surrogate o padri
donatori di sperma. Nonostante forzino alcuni confini morali importanti, queste «famiglie» alternative
sono tanto modellate sulla famiglia tradizionale che, paradossalmente, attestano la nostra nostalgia
per il modello familiare tradizionale.
In Occidente c'è tolleranza per le configurazioni relazionali insolite e d'avanguardia, ma la famiglia
tradizionale non è più di moda. Persino l'espressione «valori della famiglia» per alcuni simboleggia
l'adesione cieca e sconsiderata a una morale gretta e sorpassata. In questo contesto si pone
l'interrogativo: è possibile vivere come famiglie cristiane nel mondo di oggi?
Il compito è certamente più difficile e impegnativo di quanto sia stato finora. Prima le società
occidentali s'identificavano in una certa misura con i valori cristiani. Poiché molti cristiani vivevano in
un ambiente che sosteneva l'unità familiare, il loro impegno poteva sopravvivere senza essere
profondamente radicato. Ma, dal momento che il clima culturale che ci circonda è così instabile, le
nostre radici devono affondare più in profondità nel terreno della nostra fede, se vogliamo superare la
tempesta.
Rispetto e amore
I primi due ingredienti di una famiglia cristiana sono un uomo e una donna che si impegnano a
costituire un'unità fondamentale di se stessi, pur senza compromettere le loro due personalità uniche
e peculiari. Il libro della Genesi ci dice che l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua
moglie, e i due saranno una sola carne. Dal libro della Genesi sappiamo anche che quella
sorprendente unità non durò a lungo: quando Adamo ed Eva si ribellarono a Dio, anche l'armonia tra
loro ne fu incrinata.
Per molte persone, l'idea che due divengano uno per tutta la vita è del tutto irrealistica, una vera e
propria chimera. Anche quando Gesù ha parlato di matrimonio che dura per sempre, i suoi discepoli
l'hanno considerato una realtà praticamente impossibile da accettare; e ritenevano più opportuno
non sposarsi affatto (cfr Mt 19,10). Quando avevo tra i venti e i trent'anni, ero così emotivamente
immaturo che se allora, invece di prendere la via del sacerdozio, avessi sposato una donna, lei
probabilmente avrebbe presentato presto istanza di divorzio. Per sopportarmi, c'era bisogno
dell'amore incondizionato di Dio! I matrimoni falliscono, come del resto anche le vocazioni dei preti.
Un marito e una moglie che sono umanamente maturi possono garantirsi un'unione felice, se invitano
Dio nella loro vita.
Se marito e moglie non fanno entrare Dio nella loro vita, qualcos'altro o qualcun altro si incaricherà
di immaginare la loro vita per loro, si tratti della loro canzone pop preferita o di una rivista di moda.
Anche se Dio è nella loro vita, non esiste una formula magica per raggiungere un felice rapporto
immediato; c'è, tuttavia, quella meraviglia di una trasformazione profonda e costante di ciascun
coniuge, che permette loro di vivere e di agire come sono veramente: immagini di Dio. Noi siamo
chiamati ad amarci gli uni gli altri come Dio ci ama, e Dio non sempre riceve da noi molto amore in
contraccambio. Essere riamati è un grande dono, ma un marito e una moglie non si amano l'un l'altra
solo per guadagnarsi quella ricompensa. Non devono amarsi soltanto quando si sentono amati.
Il loro amore è certamente aiutato dai sentimenti, ma si basa su qualcosa di molto più solido e
duraturo: una promessa solenne e l'impegno reciproco che si sono assunti. La Scrittura è piena di
orientamenti concreti che le coppie sposate possono mettere in pratica. Il Vangelo di Matteo ci dice
che, se stiamo per portare la nostra offerta all'altare e ci ricordiamo che un fratello o una sorella ha
qualcosa contro di noi, dobbiamo andare immediatamente a riconciliarci; poi potremo tornare a fare
la nostra offerta. La Lettera agli Efesini ci comanda di non lasciar tramontare il sole sulla nostra ira:
invece di dare spazio ai risentimenti, dovremmo risolvere le nostre divergenze al più presto. La
Scrittura ci invita costantemente a dire la verità dal nostro cuore, con tenerezza e compassione.
All'inizio del quarto capitolo dell'Amoris laetitia (AL 89-119) Papa Francesco offre un'esegesi bella e
profonda di uno dei passi sull'amore più noti di tutta la Bibbia: il celebre «inno alla carità» di san Paolo,
in 1 Cor 13,4-7. Per descrivere l'amore paziente, egli si riferisce a chi «non si lascia guidare dagli
impulsi e evita di aggredire» (AL 91). «Questa pazienza si rafforza quando riconosco che anche l'altro
possiede il diritto a vivere su questa terra insieme a me, così com'è. Non importa se è un fastidio per
me, se altera i miei piani, se mi molesta con il suo modo di essere o con le sue idee, se non è in tutto
come mi aspettavo. L'amore comporta sempre un senso di profonda compassione, che porta ad
accettare l'altro come parte di questo mondo, anche quando agisce in un modo diverso da quello che io
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avrei desiderato» (AL 92).
Nel commentare il «tutto scusa» dell'amore, il Papa scrive: «Gli sposi che si amano e si
appartengono, parlano bene l'uno dell'altro, cercano di mostrare il lato buono del coniuge al di là delle
sue debolezze e dei suoi errori. In ogni caso, mantengono il silenzio per non danneggiarne l'immagine.
Però non è soltanto un gesto esterno, ma deriva da un atteggiamento interiore. E non è neppure
l'ingenuità di chi pretende di non vedere le difficoltà e i punti deboli dell'altro, bensì è l'ampiezza dello
sguardo di chi colloca quelle debolezze e quegli sbagli nel loro contesto; ricorda che tali difetti sono
solo una parte, non sono la totalità dell'essere dell'altro. Un fatto sgradevole nella relazione non è la
totalità di quella relazione. Dunque si può accettare con semplicità che tutti siamo una complessa
combinazione di luci e ombre. L'altro non è soltanto quello che a me dà fastidio. È molto più di questo»
(AL 113).
Genitori e figli
E che dire del rapporto tra genitori e figli? Nell'Amoris laetítia Papa Francesco cita la Relazione
finale del Sinodo dei Vescovi del 2015: «Va evidenziato sempre che i figli sono un meraviglioso dono di
Dio, una gioia per i genitori e per la Chiesa. Attraverso di essi il Signore rinnova il mondo» (AL 222). I
genitori possono imparare dai loro figli. I bambini sono i migliori maestri in assoluto, tant'è vero che
Gesù non soltanto ci dice di prestare loro attenzione, ma di diventare come loro (Mt 18,3). Qui Gesù
non sta canonizzando l'infanzia, ma ci sta dicendo che nell'infanzia spirituale c'è un grande tesoro.
C'è qualcosa di meraviglioso nell'adulto che rimane fedele al bambino che era una volta. L'infanzia è il
vero cuore di tutto. Fatto singolare, una volta perduta l'infanzia, la si può recuperare soltanto
facendosi santi.
Il più importante comandamento che i cristiani devono osservare in relazione alla famiglia è
onorare il padre e la madre. «Questo comandamento viene subito dopo quelli che riguardano Dio
stesso. Infatti contiene qualcosa di sacro, qualcosa di divino, qualcosa che sta alla radice di ogni altro
genere di rispetto fra gli uomini» (AL 189). È fin troppo facile dare i genitori per scontati e dimenticare
quanto siamo in debito con loro. Ecco perché Dio ci comanda di onorarli in modo speciale. Essi ci
danno il dono della vita, ci lavano e ci vestono, lavorano per portare il pane sulla nostra tavola, si
alzano a notte fonda per calmare le nostre paure, sono a nostra disposizione per qualsiasi esigenza
che abbiamo, e spesso questo esige da loro grandi sacrifici.
I genitori sono i nostri primi maestri nella vita e nella virtù, e probabilmente i migliori. Sono i primi
ambasciatori che Dio mette sul nostro cammino. «Mostrano ai loro figli il volto materno e il volto
paterno del Signore» (AL 172). Sono i nostri primi amici, e amici molto migliori di alcuni di coloro ai
quali successivamente apriremo i nostri cuori. Quando trascuriamo di onorare i nostri genitori,
stiamo mancando di onorare coloro che per importanza sono più vicini a Dio. Quando tradiamo
l'amore dei nostri genitori, siamo in procinto di tradire tutti gli amori futuri. Un figlio o una figlia buoni
a nulla diventeranno un cattivo marito o una cattiva moglie. Un figlio o una figlia crudeli diventeranno
degli adulti malvagi.
In famiglia, tuttavia, il rispetto non va a senso unico: anche i genitori sono obbligati ad amare e a
rispettare i loro figli. La natura dà loro un vantaggio temporale, sicché per la maggior parte dei genitori
questo amore è istintivo. Essi possono accrescere questo amore istintivo dando il buon esempio,
insegnando ai figli ad essere onesti, dignitosi e integri, a osservare le regole e a rispettare i diritti altrui.
Possono incoraggiarli con parole gentili, ed elevare parole di lode a Dio insieme a loro.
Per i loro figli i genitori devono nutrire grandi speranze, ma non aspettative irragionevoli. Nella
propria madre un ragazzo vede sempre l'immagine della donna che vuole sposare, e una figlia vede nel
proprio padre il marito dei suoi sogni. Se madre e padre conducono una vita buona, daranno ai loro
figli un aiuto prezioso nel momento di scegliere chi sposare. I genitori che si mostrano poco o per nulla
interessati al benessere materiale e spirituale dei loro figli causano in loro un danno profondo. Se
effettivamente gran parte del male che vediamo negli individui può essere fatta risalire a cattive
amicizie, in fin dei conti è altrettanto vero che essa può essere fatta risalire alla cattiva amicizia di
quelli che avrebbero dovuto essere i loro primi e migliori amici.
Nonostante i rischi che questo comporta, Dio ha ripetutamente scelto la famiglia per raggiungere il
cuore di tutta l'umanità. Egli ha fatto un patto con Abramo, promettendo un figlio a lui e a sua moglie
Sara. Quel patto si è avverato quando Sara, sfidando qualsiasi attesa umana, ha dato alla luce Isacco.
Poi Dio ha fatto un patto con una vergine di nome Maria, e lei ha dato alla luce Gesù e un mondo
nuovo.
Idealmente la famiglia è uno spazio in cui i figli vengono allevati, trovano sicurezza e imparano la
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fiducia e l'amore; in cui anche i figli si preoccupano dei genitori, in un contesto reciproco di amore e di
responsabilità per tutta la vita. Fondamentalmente la famiglia riguarda il dare e il ricevere la vita.
Tradizionalmente nella cultura occidentale - e ancora oggi in molte altre culture - gli elementi
fondamentali che compongono una famiglia sono stati il matrimonio tra un uomo e una donna e un
nucleo familiare con bambini. È indubbio che molte relazioni matrimoniali siano state tutt'altro che
ideali, e che nel quadro tradizionale ci siano state carenze: alle donne non era garantito un
trattamento paritetico; il padre esercitava un potere eccessivo; molti bambini venivano costretti a
lavorare fin dalla più giovane età, con il risultato di trascurare l'infanzia. Ma quali che fossero gli
svantaggi della struttura familiare tradizionale, essa ha aiutato innumerevoli generazioni. La società
era orientata a sostenere la famiglia. La società si attendeva che il matrimonio funzionasse, voleva che
le coppie restassero insieme e avessero figli; tollerava la separazione o, in casi estremi, il divorzio come
soluzioni disperate.
Domande che ci sfidano
Nelle società occidentali, e in alcune altre, quel modello tradizionale è stato infranto. Non c'è più
alcuna aspettativa riguardo alla monogamia, all'impegno per tutta la vita e ai bambini. Quando la
situazione diventa difficile, il divorzio è visto da molti come una scelta ragionevole. Quale futuro c'è per
la famiglia? Essa recupererà la sua precedente posizione di unità fondamentale della cultura
occidentale, o continuerà a trasformarsi in molteplici forme? Il matrimonio offrirà una struttura
stabile per intraprendere il viaggio della vita, o soltanto un luogo temporaneo di sosta? Che cosa
succede a un tessuto sociale in cui gli individui fanno una promessa duratura di matrimonio soltanto
per romperla facilmente, se le cose non vanno come previsto?
I bambini verranno ridotti a pedine nelle aspre lotte tra genitori divorziati? Le loro vite devono
spezzarsi in due perché i loro genitori si sono divisi? Che cosa succede alla relazione con il genitore che
adotta il ruolo di genitore visitatore, con un accesso regolare o soltanto intermittente ai figli? Come si
possono aiutare i figli a fronteggiare il sentimento di essere soli e indesiderati, che può colpirli quando
i loro genitori divorziano, e quando la rabbia irrisolta per la condotta dei loro genitori resta loro dentro
per molto tempo ancora?
Che cosa succede se un solo genitore vuole divorziare? Quella sua preferenza dovrà determinare
ciò che accadrà? E se l'altro genitore, e anche i figli, vogliono salvare il matrimonio? Di chi sono i
desideri e i bisogni più importanti? Se uno o entrambi i coniugi cercano di vivere la vita matrimoniale
come meglio possono ma non ci riescono, dovrebbero continuare a vivere insieme? Che cosa si può
fare per sostenere i genitori single - la stragrande maggioranza dei quali sono madri - mentre cercano
di crescere i figli da soli?
Nel caso di donatori di sperma e di madri surrogate, chi è la vera madre o il padre? L'identità degli
ovuli o lo sperma del donatore sono davvero irrilevanti? È giusto per i bambini che la madre genetica o
il padre restino anonimi? I figli adottati e i bambini in provetta hanno il diritto di conoscere almeno la
storia genetica dei loro genitori biologici, in modo da prevenire i futuri problemi di salute? Che cosa
comporta per un figlio scoprire che suo padre o sua madre saranno irrintracciabili per sempre? O
apprendere che è un bambino progettato, per il quale si è pagato nella convinzione che sarebbe venuto
fuori un particolare tipo di bambino? E se non riuscirà a essere la meraviglia genetica su cui
contavano i suoi genitori, quali saranno le conseguenze per lui? E per i genitori?
Quali sono gli effetti della penuria di donne che c'è nelle due nazioni più popolate al mondo, Cina e
India? Che cosa dire dei bambini non ancora nati, le cui vite sono state troncate troppo presto, prima
che potessero diventare una parte visibile delle loro famiglie? Tra loro vi erano gli equivalenti, per il
XXI secolo, di Abraham Lincoln, di Helen Keller, del Mahatma Gandhi, di Martin Luther King e di
Madre Teresa? Abbiamo perduto figure ispiratrici che avrebbero potuto cambiarci la vita e
trasformare in meglio il nostro mondo? Siamo più poveri per il fatto che essi non hanno mai visto la
luce?
Il calore della famiglia
La famiglia ha un'influenza decisiva sulla nostra personalità e sul nostro destino. Noi nasciamo
sempre all'interno di un contesto umano. Entriamo nel mondo dal corpo di una donna. Essa può
essere single, sposata o divorziata. Può darsi che abbia un partner amorevole e solidale, oppure
violento e prepotente. L'ambiente familiare può essere povero, confortevole o agiato; i genitori possono
essere colti o analfabeti, emotivamente maturi o immaturi. Tutti questi fattori influenzano le nostre
prospettive esistenziali. Non cominciamo tutti dallo stesso punto di partenza. Sarebbe bello se
fossimo tutti uguali, ma, dato il modo in cui vengono distribuite le carte, «alcuni sono più uguali degli
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altri».
Il nostro carattere, la nostra personalità si sviluppano nel corso della vita. Il processo inizia in
famiglia. È lì che i bambini imparano per la prima volta ad amare e a odiare, a essere gentili o
manipolatori, a servire o a spadroneggiare. La famiglia è la scuola fondamentale per la vita. Se in
famiglia i bambini imparano soltanto l'ingiustizia, per loro sarà difficilissimo costruirsi da adulti una
cultura giusta. Se viene insegnato loro a mentire e a ingannare, più tardi essi avranno enormi
difficoltà ad aiutare a costruire una società trasparente.
Nonostante tutte le polemiche sul ruolo della famiglia nella cultura occidentale, c'è qualcosa di
profondamente rassicurante nel fatto che molte persone credano ancora nel suo valore. La
Dichiarazione universale dei diritti umani, promulgata dalle Nazioni Unite nel 1948, ha proclamato
che la famiglia è l'unità fondamentale della società. Non si tratta della constatazione che così stanno le
cose, ma è l'affermazione di come le cose dovrebbero essere. Non è una descrizione dello stato della
famiglia, ma la formulazione di un ideale per la famiglia. Non è un fatto empirico, ma un valore. Anche
quando lo stato della famiglia non corrisponde a questo valore, vogliamo ancora che la famiglia sia
all'altezza di tale valore, vogliamo che la famiglia sia il nucleo della società.
Questo valore è profondamente rassicurante, perché attraverso di esso diciamo che non vogliamo
che siano l'individuo o l'individualismo a costituire la realtà fondamentale nella società. Alla base di
ogni società vogliamo che ci sia un gruppo di persone chiamato «famiglia» e collegato al suo interno da
legami profondi e durevoli. Al centro della cultura vogliamo una struttura altruistica, piuttosto che
una costante tendenza verso l'interesse individuale: un uomo e una donna che si sono messi insieme
volontariamente, disponibili a dare il meglio di sé per tutta la vita e a fare sacrifici per mettere al
mondo i bambini e per occuparsene. Finché dura l'istituzione della famiglia, quali che siano le carenze
e i fallimenti di concrete famiglie, avremo un'istituzione che è più grande di una persona, una
struttura che per sua natura tende a superare gli stretti e autoreferenziali confini dell'egoismo. La
famiglia è un segno della speranza che nel nostro mondo la preoccupazione egoistica non ha la prima
e l'ultima parola.
La scomparsa dei padri
«Si dice che la nostra società è una "società senza padri". Nella cultura occidentale, la figura del
padre sarebbe simbolicamente assente, distorta, sbiadita. Persino la virilità sembrerebbe messa in
discussione. Si è verificata una comprensibile confusione» (AL 176). La scomparsa dei padri è una
delle più grandi crisi che la cultura mondiale stia affrontando. Se manca un sano rapporto con i padri,
i neonati e i bambini piccoli diventano radicalmente insicuri. Sono i padri che danno il coraggio ai figli:
la prontezza ad assumersi rischi, la disponibilità a essere intellettualmente curiosi, la forza per
diventare sempre più indipendenti. Se vogliamo un futuro migliore per i nostri figli, dobbiamo
investire nei padri.
Le madri e la maternità godono di un'immagine positiva nell'opinione pubblica, ed è giusto. I padri,
invece, oltre a essere sotto i riflettori in quanto padri, sono oggetto di nuove domande; soprattutto, ci
si aspetta da loro che assumano un ruolo più attivo e coinvolto nella vita dei loro figli. Gli uomini di
oggi sono disposti a sporcarsi le mani cambiando pannolini e facendo i lavori di casa, ma parte del loro
nuovo ruolo li mette davanti a una inadeguatezza: come fare ad aiutare i loro figli a svilupparsi
emozionalmente? Come aiutarli a trovarsi a proprio agio nel mondo maschile? In passato, essere un
buon padre non comportava esplicite richieste di questo tipo, sicché i padri di oggi non hanno modelli
di riferimento da seguire. Dai padri del passato ci si aspettava che fossero investitori finanziari, ma
raramente essi erano tenuti a investimenti emozionali nei loro figli. La necessità di essere più che un
mero capofamiglia è scoraggiante. Si tratta di un territorio nuovo e inesplorato. Nel loro passato i
padri di oggi trovano scarsa o nessuna esperienza che possa istruirli sull'enorme differenza che può
costituire un padre che si occupa dei figli ed è premuroso.
Le donne hanno la possibilità di prepararsi alla maternità attraverso la gravidanza. Mentre
sentono il proprio corpo cambiare e crescere nel corso di nove mesi, ricevono un acuto promemoria
visibile di ciò che sta per accadere e, una volta che il bambino è nato, sono fisicamente attrezzate per
allattarlo. Gli uomini non scorgono davanti a sé un ruolo già così chiaramente pianificato: una volta
che la moglie resta incinta, il suo ruolo fisico nella nascita del nuovo bambino sembra concluso.
Essere un padre in attesa significa accettare in modo passivo ciò che sta accadendo, guardare da una
distanza che contribuisce a tenerlo poco coinvolto e finanche estraneo. Quanti padri in attesa
vengono invitati a corsi preparto? Quanti ricevono almeno spiegazioni dal ginecologo della moglie?
Quanti ricevono il congedo di paternità? È fin troppo facile, per i padri, sentire il messaggio
subliminale che sono soltanto genitori di seconda classe, mentre il centro della scena appartiene alle
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madri.
Ma niente di tutto questo sta a indicare che i padri dovrebbero essere per i loro figli semplicemente
entità calde, dolci e amichevoli. Il padre aiuta meglio i suoi bambini piccoli se consente loro di
staccarsi dalla madre, se mostra loro che ci sono altri modi di vivere, coraggiosi e ammirevoli, oltre
all'attaccamento alla madre. Senza dubbio dovrebbe aiutare a mettere in atto questa transizione con
dolcezza e con grazia. E aiutare anche la madre a lasciar andare i figli, rassicurandola e
accompagnandola in quel momento di separazione.
Trovare il giusto equilibrio
Ogni padre si trova davanti a una tentazione a doppio taglio: o interpretare la paternità come un
assoluto che lo rende del tutto autoritario, o dissolvere la paternità a tal punto che il suo rapporto con i
figli diventa blando e insipido, senza alcun vincolo di autorità. Nella società occidentale il lato più
energico della paternità ha una cattiva reputazione, e parole come «paterno» e «patriarcale» hanno una
connotazione negativa. Una simile nomea negativa non è senza ragione. Se i figli non hanno mai avuto
un rapporto con il padre, o ne hanno avuto uno in cui sono stati eccessivamente puniti (Ef 6,4)
avverte: «Padri, non esasperate i vostri figli»), probabilmente svilupperanno una forte avversione per
ogni tipo di figura paterna, si tratti di insegnanti o di tutor, di poliziotti o di politici.
L'immagine tradizionale della paternità è stata spesso troppo stretta e restrittiva. Ma la soluzione
sta forse in un padre incerto, o distante e periferico? «Il problema dei nostri giorni non sembra essere
più tanto la presenza invadente dei padri, quanto piuttosto la loro assenza, la loro latitanza. I padri
sono talora così concentrati su sé stessi e sul proprio lavoro e alle volte sulle proprie realizzazioni
individuali, da dimenticare anche la famiglia» (AL 176). Tra questi due poli esiste un equilibrio: è il
modello della paternità basata sull'autorevolezza anziché sull'autoritarismo, sul servizio piuttosto
che sul servilismo, sulla leadership senza boria, sulla disciplina senza repressione.
Il giusto equilibrio è difficile da trovare. Una madre sensibile può aiutare un padre a percorrere la
sana via di mezzo tra gli estremi: la sua compassione naturale interverrà a fermare un padre che
diventa troppo severo, e d'altra parte lei non esiterà a invocare il padre come una figura autorevole per
il figlio.
La cultura pop di cui i giovani sono imbevuti non riflette un quadro equilibrato di paternità, ma
spesso soltanto una delle polarità: o severità inflessibile o nessuna autorità. Di fatto, moltissima
musica pop ha accusato le figure paterne, a volte giustamente, ma più spesso a torto. Per esempio, il
movimento punk degli anni Settanta, rappresentato per eccellenza dai celebri Sex Pistols (il cui
bassista Sid Vicious, a causa di un padre assente e di una madre eroinomane, da bambino si era
ritrovato a vivere per strada), o la musica grunge dei primi anni Novanta, caratterizzata soprattutto
dai Nirvana (il cantante Kurt Cobain, prima di togliersi la vita, ha confessato che l'angoscia della sua
musica era derivata in gran parte dal divorzio dei suoi genitori), o il vendutissimo e altrettanto
aggressivo rapper bianco Eminem all'inizio degli anni Duemila (allevato da sua madre dopo che il
padre li aveva abbandonati, quando Eminem aveva appena due anni). Ma una delle canzoni pop dà
un'immagine redentrice della paternità: è l'inno anti-guerra Where is the Love?, cantato nel 2003 dai
Black-Eyed Peas, il gruppo hip-hop di Los Angeles. Il ritornello è una preghiera: Father, Father help us
with some guidante from above / cause people got me got me wonderin where is the love («Padre, Padre,
aiutaci con qualche indicazione dall'alto, / perché la gente mi ha fatto, mi ha fatto dubitare dove sia
l'amore»).
Avere un padre significa rendersi conto che non siamo stati noi a dare inizio alla nostra vita. Noi
non siamo all'inizio di tutto. Siamo connessi a qualcuno che è venuto prima di noi. In questo senso
avere un padre vuol dire essere «religiosi», nel senso etimologico della parola. Il verbo latino religare,
infatti, ha la connotazione di «legare, vincolare». Abbiamo un legame, un vincolo; siamo collegati a
qualcuno che ci precede, siamo in relazione con qualcuno che è al di là e prima di noi stessi.
Tutti hanno bisogno di un padre. Avere un padre dà un senso più solido di chi siamo, da dove
veniamo. Senza un padre, ci si sente deboli e fragili, non si è mai certi. Ci si sente diseredati e
rinnegati, defraudati e deprivati.
Ovviamente è importante quale sia il tipo di padre che si ha. I figli non vogliono un padre che neghi
loro la libertà e non permetta loro di vivere la propria vita. I figli sbocciano quando hanno un padre che
dice: «Figlio... tutto ciò che è mio è tuo» (Lc 15,31). Nessuno desidera un padre che gli sottrae tutto, ma
piuttosto uno che, al contrario, incoraggia, dà generosamente. San Giuseppe è un modello di questo
disinteresse paterno. Quando gli viene chiesto di punto in bianco di alzarsi nel cuore della notte, non
si ferma a pensare alla propria comodità, perché è concentrato su Maria e Gesù: «Un angelo del
L’Agenzia Culturale di Milano - Rassegna Stampa n. 257 del 23 ottobre 2016
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quaderno 3987-3988
13-27 agosto 2016
Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: "Alzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in
Egitto"» (Mt 2,13).
Oggi l'autorità dei padri deve provenire soprattutto dalle persone che sono; deve irradiare verso
l'esterno dal loro carattere. Particolarmente importante è il rapporto che esiste tra i padri e coloro dei
quali si mettono al servizio. Se le persone si fidano di una figura paterna e ne vedono la purezza,
l'integrità e la convinzione di uomo che vive ciò che insegna, gli accorderanno autorità. Sono state
questa integrità e questa purezza ad affascinare la gente quando ascoltava Gesù: «Egli infatti
insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi» (Mt 7,29). A volte i sacerdoti esitano
a rivendicare la loro identità di padri; possono essere riluttanti a riconoscere la propria paternità
spirituale. Papa Francesco è un esempio per tutti i sacerdoti, perché è a suo agio con l'essere una
figura paterna, e si vede. In L'amore prima del mondo Papa Francesco scrive ai bambini, egli risponde
così a Clara, undici anni, dell'Irlanda: «A ogni sacerdote piace sentirsi padre! La paternità spirituale è
davvero importante. Io la sento moltissimo: non saprei riconoscere me stesso senza questo
sentimento di paternità».
Le persone che serviamo ci aiutano a scoprire, ad articolare e a rafforzare la nostra paternità. Ho
visto come l'esperienza di diventare padre di un neonato faccia risaltare una nuova dimensione nella
natura di un uomo. Egli entra in contatto con una nuova compassione. Sperimenta una
riaffermazione di se stesso come protettore, come custode ed educatore. Diventare padre dà anche la
possibilità di diventare un uomo migliore. La paternità non è soltanto una grazia per l'uomo stesso, è
anche un grande dono per i figli, perché, insieme con la madre, il padre ha il privilegio di insegnare ai
suoi figli ciò che significa essere umani, e il privilegio di essere il primo ambasciatore di Dio per loro.
I figli sono più che soddisfatti quando una figura paterna crede in loro. Ma non ogni padre crede nei
figli. In ultima analisi, per essere padri degni di questo nome - si tratti di essere padri naturali o
adottivi, insegnanti o mentori -, abbiamo bisogno dell'aiuto del Padre ultimo, che ha una visione
meravigliosa per ognuno dei suoi figli: «Per questo io piego le ginocchia davanti al Padre, dal quale ha
origine ogni discendenza in cielo e sulla terra, perché vi conceda, secondo la ricchezza della sua gloria,
di essere potentemente rafforzati nell'uomo interiore mediante il suo Spirito. Che il Cristo abiti per
mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere
con tutti i santi quale sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità, e di conoscere l'amore di
Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio» (Ef 3,14-19).
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