Volume IN TRINCEA PER LA PACE

Download Report

Transcript Volume IN TRINCEA PER LA PACE

PROGETTO NAZIONALE “IN TRINCEA PER LA PACE”
DATEmI IL DENARO ChE è sTATO sPEsO NELLE GuERRE
E vEsTIRò OGNI uOmO, DONNA, E bAmbINO
CON uN AbbIGLIAmENTO DEI quALI RE E REGINE
sARANNO ORGOGLIOsI. COsTRuIRò uNA sCuOLA
IN OGNI vALLE suLL’INTERA TERRA.
INCORONERò OGNI PENDIO CON uN POsTO DI ADORAZIONE
CONsACRATO ALLA PACE
Charles Sumner
PROGETTO
IN TRINCEA PER LA PACE
Promosso da
Convitto “Cesare Battisti” di Lovere (Bg)
Istituto Comprensivo “Darfo 2” di Darfo B.T. (Bs)
e Liceo Linguistico “Falcone” di Bergamo
Finanziato dal MIUR
D.G. Studente, Integrazione e Partecipazione
con fondi ex D.M. 435/201
PROGETTO NAZIONALE
Dirigente:
Prof.ssa Paola Abondio
Prof.ssa Gloria Farisé
Prof. Federico Spandre
IN TRINCEA
PER LA PACE
Responsabile del progetto:
Prof. Fabio Molinari
Redazione del volume:
Simone Bergamini
A CuRA DI
sImONE bERGAmINI
FAbIO mOLINARI
/ 5
sOmmARIO
L’ARTE NELLA GRANDE GUERRA
MARIA D’INCORONATO
PAG. 127
ESPERTA DI STORIA DELL'ARTE
IL TEMA BELLICO ALL’INTERNO DELLA TEMPERIE ARTISTICA FUTURISTA
LA vIOLENzA DEL CONFLITTO E L’IMPATTO EMOTIvO NELLE OPERE
DEGLI ARTISTI TEDESChI E AUSTRIACI
IL CAMBIAMENTO DI CLIMA INTELLETTUALE ED ESTETICO
SALUTI
SEN. FRANCO MARINI
SANTO MARCIANÒ
DELIA CAMPANELLI
PAG.
9
INTRODUZIONE
SIMONE BERGAMINI
PAG. 18
2. PROGETTO “FORMAZIONE STUDENTI-GUIDE”
LICEO FALCONE - BERGAMO
UN SERGENTE DELLA SANTITÀ E CAPPELLANO
A BERGAMO DON ANGELO RONCALLI
GOFFREDO ZANCHI
PAG. 199
DOCENTE PRESSO IL SEMINARIO VESCOVILE GIOVANNI XXIII DI BERGAMO
PARTENzA E IMMEDIATO RITORNO A BERGAMO
ATTIvITà
IL PATRIOTTISMO DI RONCALLI
1. STORIA LETTERATURA ARTE
NELLA GRANDE GUERRA
NOI, TRE ITALIANI
E LA LETTERATURA NELLA GRANDE GUERRA
MASSIMO SIMONINI
PAG. 223
SCRITTORE
L’ITALIA NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
ELIANA VERSACE
PAG. 25
DOCENTE PRESSO L'UNIVERSITÀ LUMSA DI ROMA
LE ORIGINI DEL CONFLITTO
IL DIBATTITO TRA INTERvENTISTI E NEUTRALISTI
IL NEUTRALISMO DEI CATTOLICI
IL NEUTRALISMO LIBERALE
IL PATTO DI LONDRA E L’ENTRATA IN GUERRA
L’AzIONE DI PACE DI BENEDETTO Xv
LA PROPAGANDA SOCIALISTA
LA SvOLTA DEL 1917
LA CRISI DEGLI IMPERI CENTRALI
LE TRATTATIvE DI PACE
I RIFLESSI DELLA GUERRA NELLA SOCIETà ITALIANA
ANTOLOGIA POETICA ITALIANA DELLA GRANDE GUERRA PAG. 73
GIOVANNI BASSETTI
RELAZIONE DELL'ESPERIENZA DEGLI STUDENTI
DEL LICEO FALCONE
PAG. 227
3. RACCONTARE LA GUERRA
NOI, TRE ITALIANI PROGETTO TEATRALE
PAG. 243
A CURA DI MASSIMO SIMONINI E ASSOCIAZIONE SPERIMENTIAMO DI ROMA
SACERDOTI COL FUCILE,
LA CHIESA E LA GRANDE GUERRA
PROGETTO DOCUMENTARISTICO
PAG. 247
A CURA DI OFFICINA DELLA COMUNICAZIONE DI BERGAMO
ESPERTO DI STORIA DELLA LETTERATURA ITALIANA
PARTE PRIMA: MASSIMA LUCE
GIUSEPPE UNGARETTI, UMBERTO SABA, CLEMENTE REBORA
INTERMEzzO: L’ORA DEL GENIO
RENATO SERRA
PARTE SECONDA: COMETE vERSO L’ORIzzONTE SMERALDO
GUIDO GOzzANO, PIERO JAhIER, GIACOMO NOvENTA & BIAGIO MARIN
NOTE BIOBIBLIOGRAFIChE
6 |
In trincea per la pace
CONCLUSIONI
FABIO MOLINARI
PAG. 251
/ 7
Sono trascorsi poco più di due anni da quando, a fine maggio del 2014,
inaugurammo al Complesso del vittoriano di Roma la mostra “La prima
guerra mondiale 1914 - 1918. Materiali e fonti”. Si trattava del primo
appuntamento del programma messo in campo dal Comitato storico
scientifico per gli anniversari di interesse nazionale in occasione del centenario della Grande Guerra, programma che è andato avanti nel tempo
e si concluderà nel 2018. Da allora noi del Comitato siamo stati testimoni in qualche modo privilegiati dell’impressionante fioritura di iniziative commemorative in ogni angolo del Paese.
Mostre, convegni, spettacoli teatrali, concerti e poi recupero di monumenti, concorsi scolastici, inaugurazione di vie della pace lungo gli antichi percorsi di guerra, film, prodotti audiovisivi e multimediali, nuove
ricerche di carattere scientifico e valorizzazione del ricchissimo patrimonio diaristico: tutto questo, sommato alla eccezionale partecipazione che si riscontra ad ogni evento pubblico, ci dice del grande desiderio
diffuso in ogni generazione di sapere e di capire.
Ne sono testimonianza efficace anche il lavoro condotto dagli istituti di
Bergamo e Brescia, all’interno del progetto nazionale “In trincea per la
pace”, promosso dal Miur ed il presente volume che ne raccoglie ed elabora i risultati arricchiti da interessanti contributi originali. A questo proposito desidero esprimere l’apprezzamento sincero ai docenti, agli studenti ed ai curatori del volume per la qualità del lavoro svolto, per il vivo
interesse e la dedizione mostrata nell’arco della ricerca e delle azioni inserite nel progetto.
La Grande Guerra è stata per l’Italia, come per il resto d’Europa, una insaziabile fornace. Classi dirigenti composte da <sonnambuli>, secondo
l’appropriata formula coniata dallo storico inglese Christopher Clark,
provocarono non solo <l’inutile strage> ma piantarono i presupposti
per l’apparizione dei totalitarismi sul suolo europeo e per la nuova de-
/ 9
flagrazione mondiale dopo appena due decenni. Anche per l’Italia il
<mondo di ieri>, per usare l’espressione con cui lo scrittore e poeta austriaco Stefan zweig indica la società prebellica, viene spazzato via dallo
scoppio della Grande Guerra.
Eppure nelle trincee, nella sofferenza e nell’incredibile sforzo corale di
tutto il Paese, dalle cime alpine al minuscolo comune siciliano, si completa il processo di unità nazionale. ha scritto lo storico Antonio Gibelli:
<La macchina da guerra agisce come un fattore di omologazione, come
un grande e terribile riduttore delle diversità. L’esperienza compiuta
era stata decisiva per rendere più uniformi costumi e linguaggi. La guerra era stata un corso accelerato e forzato di inquadramento nella nazione>. Già nel 1923, Benedetto Croce riconosceva che la guerra aveva
reso <più viva l’idea della patria> come si ricavava dal fatto che <non
era immortalata come una volta nei soli stemmi degli edifici pubblici,
nei tricolori delle bandiere, nei ritratti dei sovrani ma nei monumenti
che ricordavano in ciascun luogo i caduti>.
Oggi, a distanza di cento anni da quella data, non abbiamo nulla da celebrare. Perché la guerra non si celebra. Ma ricordare sì, eccome.
Gli anniversari costituiscono un’occasione unica. Se ad essi affidiamo
solo la missione di riproporre storie e vicende lontane nel tempo senza
sforzarci di leggerle con libertà ne stiamo svuotando il senso più profondo e diamo ragione a quanti pensano che gli anniversari siano un
omaggio che si rende al passato per accantonarlo.
zie può tenere lontana dalle nostre comunità lo spettro dei conflitti.
Proprio nei giorni in cui scopriamo che la guerra, simmetrica o meno
che sia, non scompare dall’orizzonte della comunità internazionale ma
continua a provocare morti e distruzione, alimentandosi di odio ingiustificato e della cieca determinazione a strappare vite innocenti anche
lontano migliaia di chilometri dai campi di battaglia, è importante insistere anche sul terreno della diffusione del sapere perché così noi stessi e le nostre società diventiamo più forti e capiamo fino in fondo quanto sia importante per il destino di tutti un’Europa veramente unita e
affratellata.
Il sogno europeo, quell’Europa unita, pensata e avviata dai Padri fondatori, De Gasperi, Adenauer, Schuman e Monnet, rappresentava esattamente questo: l’antidoto alla tentazione di risolvere con le armi conflitti e contrasti tra gli Stati del continente. Oggi, mentre onoriamo senza alcuna incertezza chi è caduto per l’unità del nostro Paese, ancor più
di ieri dobbiamo far nostro il monito che poco prima di morire, nel 1995,
a quarant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale, Mitterrand
volle rivolgere al Parlamento di Strasburgo: <Sappiate, ce lo insegna la
storia: l’ unica alternativa all’Europa unita è la guerra> .
FRANCO mARINI
Presidente del Comitato storico scientifico
per gli anniversari di interesse nazionale
Allora questo anniversario deve servire ad allargare la conoscenza di
un evento che ha segnato indelebilmente la storia italiana e mondiale
e consentire la diffusione di una cultura della pace che non vuole essere solo rifiuto dell’uso delle armi ma adesione personale e collettiva
all’idea che occorrono ponti e non muri, che solo un’instancabile, quotidiana e fiduciosa azione finalizzata a superare diffidenze ed ingiusti-
10 |
In trincea per la pace
/ 11
Ogni pagina di storia è un pagina di vita. Non bisognerebbe dimenticarlo mai, anche quando si leggono, o si scrivono, pagine di guerra.
Insegna questo il Progetto “In trincea per la pace”: lo insegna con grande concretezza, attraverso una ricerca scientifica documentata, che ci
fa osservare il grande orizzonte della storia e lo incarna nelle storie di
vite personali, andando a fondo sul vissuto e sui sentimenti che sono
alla base delle diverse espressioni dell’umano.
La storia della Grande Guerra è la storia dei grandi sistemi politici e militari e, allo stesso tempo, delle singole persone, dei singoli militari dei
quali, accanto all’indagine storiografica, queste pagine ci offrono la forza della testimonianza. È la storia di coloro che si trovarono nelle trincee, talora per costrizione e talora con quel senso di patriottismo del
quale, oggi, val la pena di recuperare forse il profondo valore, coniugato
al senso profondo della pace.
Sì, le storie di coloro che hanno dovuto vivere il fantasma della guerra
sono state spesso storie di uomini di pace. Tante ne racconta il Progetto
che presentiamo.
La pace che pervade, ad esempio, le riflessioni del giovane Montini: un
amore per la Patria spalancato all’amore evangelico verso l’umanità. La
pace che vibra, dentro la drammatica posizione di Benedetto Xv, nel
suo imparziale ma accorato grido contro ogni guerra.
La pace che è invocata, sperata, sognata nel fermento artistico che ha
abitato il tempo della Guerra: nella cultura o nella scultura, nell’architettura o nella poesia, nella bellezza della letteratura o della musica…
persino nelle canzoni della guerra, la cui eco ricordiamo e ci sembra quasi di percepire.
E poi la pace che rimane in quelli che furono i luoghi della guerra, eloquente testimonianza e vivente esperienza che alcuni studenti, all’interno del Progetto, hanno potuto conoscere e hanno saputo trasmettere.
/ 13
Luoghi che parlano oggi, così come, oggi, parla l’opera teatrale e il Progetto documentaristico che affida l’insegnamento sulla Grande Guerra
alle memorie dei cappellani militari.
I cappellani militari furono anch’essi uomini che andavano in guerra con
un sogno di pace: un sogno lontano forse, ma che si concretizzava nella
vicinanza ai soldati, nel loro voler essere dove, in quel momento, si trovava una porzione di gregge della Chiesa e del popolo italiano che tanto
stava soffrendo e doveva imparare a vincere, con le armi dell’amore, un
odio che rischiava di distruggere il mondo.
Queste storie di carità evangelica i cappellani hanno cercato di scrivere
sulle pagine insanguinate dell’odio e della violenza: per tutti, le memorie
di Angelo Roncalli, che forse anche il servizio al fronte, nell’ospedale militare e come cappellano, avrebbe aiutato a diventare il “Papa Buono”.
Ogni pagina di storia è una pagina di vita. E ogni pagina di vita può diventare una pagina di storia, può scrivere la storia.
L’augurio è che tutti, ma soprattutto i giovani, leggendo, grazie a questo
Progetto, le pagine della guerra, si sentano motivati a scrivere, con la
propria vita, pagine di fratellanza e misericordia, dialogo e perdono; pagine necessarie ancora oggi, in un tempo sconvolto dal terrore ma, come ogni tempo, assetato di amore, speranza e pace.
sANTO mARCIANò
Arcivescovo Ordinario Militare per l’Italia
La storia in verità è testimone dei tempi,
luce della verità, vita della memoria,
maestra di vita, messaggera dell’antichità.
Cicerone “De Oratore”
Sono particolarmente lieta di accompagnare, con questo mio saluto, il
volume “In trincea per la pace”, nato nel segno della migliore progettualità della scuola lombarda, da sempre modello per tutte le istituzioni
scolastiche del territorio nazionale.
In una società che fa dell’hic et nunc il paradigma dominante e in cui il
sistema di valori condiviso assegna alla memoria un posto residuale, è
più che mai importante restituire alla storia il suo compito civile di maestra di vita, di guida della vicenda collettiva, di orizzonte in cui collocare
la riflessione sulle sfide e sulle mete dell’umanità.
La conoscenza della storia è vitale quando, lontana dal nozionismo e
dalla retorica di vuote rappresentazioni, esperienze e personaggi, diventa, invece, occasione di riflessione critica, via privilegiata per raggiungere consapevolezza e strumenti di interpretazione del presente.
Agli studenti e a chi, docenti e dirigenti, li ha accompagnati nella realizzazione di questo progetto va il mio ringraziamento per il valore formativo dell’attività svolta e l’augurio che il viaggio compiuto attraverso
la storia animi e plasmi l’attitudine e la sensibilità nel progettare e costruire percorsi di pace.
DELIA CAmPANELLI
Direttore Generale
dell'Ufficio scolastico regionale per la Lombardia
14 |
In trincea per la pace
/ 15
INTRODuZIONE
sImONE bERGAmINI
Curatore del volume
L’anniversario dello scoppio della Prima guerra mondiale ha coinvolto
tutti in una grande riflessione: sugli errori tragici dei nazionalismi, che
stanno risorgendo dentro steccati ancora più microscopici; sull’inutilità
della guerra, che non solo non ha risolto i problemi dell’Europa, ma ha
contribuito a peggiorare la situazione; sulla precarietà delle alleanze,
che si sfasciarono e rimescolarono strada facendo e che ancora oggi
impediscono all’Occidente e all’Europa di avere una visione chiara e
condivisa nell’ambito delle guerre del nuovo millennio. Tra le innumerevoli iniziative che dal 2015 si sono susseguite per commemorare e
offrire spunti di riflessione sul tema, rientra a pieno titolo quella posta
in essere dal MIUR attraverso il bando di concorso emanato nel mese
di ottobre 2014.
Il progetto In trIncea per la pace, organizzato e gestito dal Convitto Nazionale “C. Battisti” di Lovere (Bg) e dall’IC “Darfo 2” di Darfo
Boario Terme (Bs), che ha anche curato la direzione scientifica di questo volume conclusivo, si è inserito in questo contesto. Finanziato e nato da un’idea del MIUR - Direzione Generale per lo Studente, l’Integrazione e la Partecipazione, esso ha rappresentato per la scuola bergamasca e bresciana l’avvio di un percorso di studio e di accompagnamento che ha suscitato un forte interesse perché ha consentito agli
studenti partecipanti di avere uno sguardo critico sullo stato attuale
della storiografia sulla Grande guerra, ponendo l’attenzione in particolare sui temi che appaiono più significativi nel centenario dell’evento, come la memoria pubblica, le celebrazioni, i nuovi percorsi di ricerca, in una prospettiva comparativa che intende mettere a fuoco la situazione italiana collocandola nello scenario europeo. Il progetto,
strutturato in diverse Azioni, ha consentito di sviluppare negli studenti
partecipanti l’educazione alla pace e al rispetto di ogni diversità, affrontando il tema della memoria collettiva attraverso l’utilizzo di supporti multimediali e perseguendo una contestualizzazione storico-geografica, oltre che linguistica, delle tematiche affrontate. Centrale è stata la valorizzazione della tutela dei diritti umani e della diversità religiosa-culturale delle minoranze etniche, nonché il potenziamento
dell’educazione alla democrazia e alla pace in contrapposizione all’insorgere di sistemi totalitari vecchi e nuovi. Il progetto, realizzato con
la collaborazione dell’Ufficio Scolastico Territoriale di Bergamo e dell’Ufficio Scolastico Regionale della Lombardia, è stato ulteriormente
implementato dalla importante collaborazione con l’Ordinariato militare per l’Italia ed il Centro Televisivo vaticano.
18 |
In trincea per la pace
/ 19
Il progetto si è realizzato attraverso l’azione “Formazione e Studenti
Guide”, che ha visto coinvolti circa 50 studenti delle classi 4aA e 4aL del
Liceo linguistico “Falcone” di Bergamo, ha consentito loro di formarsi
come guide, che sono ora in grado di trasmettere le conoscenze acquisite, illustrando gli aspetti salienti della Grande guerra durante seminari
ad hoc oppure, se possibile, accompagnando eventuali gruppi alla scoperta delle testimonianze sparse sul territorio e sui luoghi della Grande
Guerra. I temi del percorso di formazione sono stati svariati: la percezione della Grande Guerra sul territorio nazionale, sintesi dei fatti cronologici, effetti della guerra, rapporto con i paesi Europei e nascita di
nuovi Stati, memorialistica sulla guerra (epistole e scritti vari), la Guerra
bianca. Dopo le attività di formazione si è svolta, a fine novembre 2015,
la visita a Redipuglia e Aquileia per consentire ai partecipanti di acquisire una ancora maggiore consapevolezza sui temi del progetto.
Il presente volume risulta peraltro arricchito dai contributi inediti, sulla
tematica storica, sull’antologia poetica e sull’arte nella Grande Guerra,
commissionati ai Prof. Eliana versace, Mara D’Incoronato e Giovanni
Bassetti, i quali hanno saputo delineare tali temi in maniera innovativa
ed avvincente, offrendo ulteriori spunti di riflessione. Altra iniziativa
collaterale è stata poi la realizzazione del progetto teatrale “Noi, tre
italiani”, liberamente ispirato al romanzo di Massimo Simonini, che già
sta facendo il giro d’Italia con la produzione dell’Associazione Culturale
Sperimentiamo di Roma. L’attività di formazione dell’autore con i ragazzi, si è quindi concretizzata con la rappresentazione, il 17 e il 24 ottobre
2015 a Roma e al Teatro San Filippo Neri di Darfo-Boario Terme, della
rappresentazione teatrale, che ha costituito una doppia occasione per
raccontare in immagini la Prima Guerra Mondiale, ricordando che la
strada da fare verso l’educazione alla pace è ancora molta, ma che è
possibile percorrerla se si è disposti ad ascoltare con il cuore e con la
mente.
IL PROGETTO
IN TRINCEA PER LA PACE
hA RAPPREsENTATO
PER LA sCuOLA bERGAmAsCA
E bREsCIANA L’AvvIO
DI uN PERCORsO DI sTuDIO
E DI ACCOmPAGNAmENTO
ChE hA susCITATO uN FORTE
INTEREssE PERChé
hA CONsENTITO AGLI sTuDENTI
PARTECIPANTI DI AvERE uNO
sGuARDO CRITICO suLLO sTATO
ATTuALE DELLA sTORIOGRAFIA
suLLA GRANDE GuERRA
Accanto alla formazione degli studenti e ai suddetti contributi letterari,
infine, il progetto “In trincea per la pace” ha visto il coinvolgimento e la
partecipazione attiva dell’Ordinariato militare per l’Italia, nella persona
dell’Ordinario Militare Mons. Santo Marcianò, e del Centro Televisivo
vaticano, nella persona del Prefetto della Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede Mons. Dario viganò, che ha realizzato in collaborazione con l’Officina della Comunicazione S.r.l. di Bergamo il progetto documentaristico sui Cappellani Militari.
20 |
In trincea per la pace
/ 21
1
sTORIA LETTERATuRA E ARTE
NELLA GRANDE GuERRA
L’ITALIA NELLA PRImA GuERRA mONDIALE
LE ORIGINI DEL CONFLITTO
IL DIBATTITO TRA INTERVENTISTI E NEUTRALISTI
IL NEUTRALISMO DEI CATTOLICI
IL NEUTRALISMO LIBERALE
IL PATTO DI LONDRA E L’ENTRATA IN GUERRA
L’AZIONE DI PACE DI BENEDETTO XV
LA PROPAGANDA SOCIALISTA
LA SVOLTA DEL 1917
LA CRISI DEGLI IMPERI CENTRALI
LE TRATTATIVE DI PACE
I RIFLESSI DELLA GUERRA NELLA SOCIETÀ ITALIANA
L’ITALIA NELLA
PRImA GuERRA mONDIALE
uN’ANALIsI sTORICA
ELIANA vERsACE
Docente presso l'Università LUMSA di Roma
ANTOLOGIA POETICA ITALIANA
DELLA GRANDE GuERRA
LE ORIGINI DEL CONFLITTO
L’ARTE NELLA GRANDE GuERRA
IL TEMA BELLICO ALL’INTERNO
DELLA TEMPERIE ARTISTICA FUTURISTA
L’ESPERIENZA DIRETTA DELLA GUERRA NELLE SCELTE FIGURATIVE
DEGLI ARTISTI: BALLA, CARRÀ, SEVERINI, SIRONI
LA SCULTURA DI UMBERTO BOCCIONI
LE IDEE ARCHITETTONICHE DI SANT’ELIA
LA VIOLENZA DEL CONFLITTO E L’IMPATTO EMOTIVO
NELLE OPERE DEGLI ARTISTI TEDESCHI E AUSTRIACI
IL TRAUMA DELLA GUERRA: GROSZ, DIX, KIRCHNER
LE INQUIETUDINI DELLA COSCIENZA: KOKOSCHKA
IL CAMBIAMENTO DI CLIMA INTELLETTUALE ED ESTETICO
LA NASCITA DEL MOVIMENTO DADAISTA
GIORGIO DE CHIRICO E LA PITTURA METAFISICA
MONDRIAN E LA RIVISTA “DE STIJL”
24 |
In trincea per la pace
Il 28 giugno 1914 vennero uccisi a Sarajevo l’erede al trono austro-ungarico, l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia. Il governo austriaco, nonostante l’attentato fosse avvenuto in Bosnia- Erzegovina,
un territorio che era stato annesso all’impero asburgico nel 1908, attribuì la responsabilità dell’atto cruento alla Serbia ove, a seguito delle
guerre balcaniche del 1912-1913, stavano prendendo sempre maggior
consistenza i gruppi irredentisti che aspiravano a liberare le popolazioni
slave della Bosnia soggette all’Austria. L’assassinio di Francesco Ferdinando d’Asburgo parve offrire all’impero austro-ungarico la possibilità
di eliminare un pericoloso Paese nemico e debellarne le insidie rivoluzionarie. L’accusa dell’Austria alla Serbia fu quindi pretestuosa, ma a
vienna si stabilì di “presentare alla Serbia domande tali che questa dovesse quasi certamente rifiutarle, in modo di aprire la via ad una soluzione radicale, per mezzo di un’azione militare”. Il governo di Berlino
solidarizzò con l’alleato asburgico e il 23 luglio 1915, meno di un mese
dopo l’attentato di Sarajevo, il governo di vienna consegnò al Paese
balcanico un ultimatum nel quale richiedeva alla Serbia l’accettazione
di funzionari asburgici che collaborassero nella repressione del movimento irredentista serbo e nelle indagini sull’attentato. Accettare queste condizioni avrebbe significato per la Serbia rinunciare a parte della
sua sovranità e pertanto questo ultimatum venne respinto. Tale rifiuto
da parte della Serbia consentiva all’Austria di realizzare il suo progetto
/ 25
bellico dichiarando guerra al Paese il 28 luglio 1914. Il conflitto si allargò
subito, con una rapida reazione a catena, coinvolgendo altre potenze:
il 1 agosto la Germania, legata all’Austria dal Patto della Triplice Alleanza, stipulato nel 1882, dichiarò guerra alla Russia, intervenuta a proteggere il Paese slavo, e il giorno successivo venne dichiarata guerra anche
alla Francia. A seguito dell’invasione del Lussemburgo e del Belgio da
parte delle truppe tedesche, il 4 agosto, pure l’Inghilterra, che era diventata alleata di Francia e Russia col Patto della Triplice Intesa, superando l’ostilità di parte dell’opinione pubblica contraria, inviò la sua dichiarazione di guerra alla Germania che aveva invaso il Belgio, violandone la neutralità.
La guerra tra le potenze europee assunse rapidamente dimensioni
mondiali quando anche il Giappone, il 23 agosto, si schierò con l’Intesa
mentre la Turchia, il 1 novembre, entrò in guerra al fianco degli imperi
centrali. L’Italia, pur legata all’Austria e alla Germania dall’adesione alla
Triplice Alleanza, mantenne una iniziale posizione di neutralità. In tutti
gli schieramenti prevaleva la convinzione che la guerra si sarebbe conclusa, seppur con duri scontri, in breve tempo. Ma già sul fronte occidentale, dopo la battaglia sulla Marna, che nell’agosto 1914 consentì
ai francesi di contenere l’avanzata tedesca, le posizioni si stabilizzarono
lungo le linee delle trincee situate tra la Svizzera e il Mare del Nord. Le
potenze imperiali raggiunsero alcuni successi sul fronte orientale, bloccando l’avanzata dei russi in Prussia nella battaglia di Tannenberg, combattuta nell’agosto del 1914 e il mese dopo le truppe tedesche riuscirono a penetrare in Russia vincendo le forze zariste nella battaglia dei
Laghi Masuri. Una nuova battaglia, sempre nei Laghi Masuri, consentì
alle armate austro-tedesche di spingersi ancora più a Sud e giungere sino alla Galizia e alla Bucovina.
IL DIbATTITO TRA INTERvENTIsTI E NEuTRALIsTI
L’Italia, legata alle potenze degli imperi centrali dal trattato della Triplice
Alleanza, espresse la sua posizione di neutralità il 2 agosto 1914. Alla
base di questa dichiarazione vi era il riferimento alla clausola del trattato che vincolava i contraenti a sostenersi solo in caso di una guerra
difensiva, e tale non era la situazione dell’Austria che aveva attaccato
la Serbia. La scelta della neutralità inoltre poneva l’Italia in un ruolo di
26 |
In trincea per la pace
maggior rilievo sul piano internazionale. A prendere questa decisione
fu il presidente del Consiglio, Antonio Salandra, che nel marzo di quell’anno era succeduto a Giovanni Giolitti. Salandra, che era un liberale
conservatore, perseguendo una “politica nazionale” piuttosto autoritaria sul piano interno, intendeva accrescere il prestigio dell’Italia anche
in campo internazionale. In realtà la scelta di una posizione di neutralità
era più che altro dovuta alle condizioni del Paese, impreparato ad affrontare un conflitto di dimensioni tanto vaste. La Marina italiana, per
esempio, non sarebbe stata in grado di difendere adeguatamente le
lunghe coste del Paese dagli attacchi delle navi francesi e inglesi.
La questione della neutralità italiana fu ampiamente dibattuta, non tanto nelle aule parlamentari (i deputati non furono convocati fino alla fine
del 1914, quando, il 5 dicembre, approvarono la linea dell’esecutivo), ma
dall’opinione pubblica del Paese. Giornali, comizi, manifestazioni di piazza e congressi favorirono la discussione. Nel Paese emersero le due opposte posizioni espresse dagli interventisti e dai neutralisti. Tra i primi,
fautori di un rapido intervento accanto agli austriaci e ai tedeschi, si collocavano i rappresentati del gruppo nazionalista di stampo conservatore
che faceva capo al quotidiano “L’Idea nazionale” e al gruppo della “Associazione nazionalistica italiana”, quasi un vero e proprio partito, sorta
nel 1910 come espressione diretta del capitalismo industriale. Le riviste
nazionaliste si assunsero il compito di formare nella borghesia una “coscienza di classe” e proposero il mito di un’Italia “potenza mondiale”. Nazionalisti e futuristi da tempo esaltavano il culto della “guerra per la
guerra”: “la guerra è bella in sé perché ha una sua virtù moralizzatrice”scriveva in questo contesto il sociologo Scipio Sighele al letterato Enrico
Corradini. Ma questo tipo di dibattito, così come la polemica bellicistica
del futurista Filippo Tommaso Marinetti, non avevano molta presa sull’opinione pubblica. Nazionalisti e futuristi rappresentavano in verità
l’unico gruppo effettivamente organizzato, favorevole ad un intervento
a fianco degli imperi centrali. Tuttavia opinioni analoghe a favore di un
intervento a fianco della Triplice Alleanza emergevano anche in altri ambienti di tendenze conservatrici e nazionalistiche, sia per motivi d’onore
e di prestigio, sia per il timore che l’abbandono dell’Alleanza potesse significare un isolamento sul piano internazionale per l’Italia. Anche l’ammirazione per la Germania e per il prestigio politico e militare tedesco
contribuirono a rafforzare tali tendenze interventiste.
Molto più forte e deciso era invece il fronte interventista schierato a
favore dell’Intesa. Tra l’autunno del 1914 e la primavera del 1915 l’Italia
/ 27
fu molto scossa dai dibattito pubblico che opponeva i fautori dell’intervento ai sostenitori della neutralità. Ma in questo caso la scelta interventista era prevalentemente intesa a favore di un ingresso in guerra a
fianco dei Paesi dell’Intesa. L’interventismo italiano fu dunque un movimento molto variegato nel quale confluirono diversi, se non opposti,
interessi ed aspirazioni. All’interno del movimento interventista si possono infatti scorgere e precisare almeno tre tendenze: quella dei nazionalisti, quella democratica ed infine quella espressa dagli esponenti
del sindacalismo, che nella guerra in corso scorgevano l’opportunità di
una “guerra rivoluzionaria” e quindi di un generale ribaltamento delle
situazioni politiche.
Gli interventisti nazionalisti trovarono principale espressione nella voce
di Gabriele D’Annunzio. Tornato appositamente in Italia dalla Francia, il
vate, nel maggio del 1915 tenne pubbliche arringhe nelle quali incitava
la popolazione a scavalcare il Parlamento, ribaltandone la posizione neutralista, con azioni intimidatorie. “Formatevi in drappelli, formatevi in
pattuglie civiche; e fate la ronda, ponetevi alla posta, per pigliarli, per
catturarli. Fate la vostra lista di proscrizione senza pietà. È necessario continuava D’Annunzio, in un pubblico intervento - che oggi attorno a
Montecitorio dove forse si può ancora cianciare e differire, voi siate un
cerchio di volontà coercitiva, una tenaglia tremenda che non rilascia quel
che ha serrato”. Un certo credito era goduto dagli interventisti nazionalisti negli ambienti studenteschi e in quelli di corte e pure tra l’esercito.
Diversa era la situazione dell’interventismo di stampo democratico. Tra
coloro che si dichiararono favorevoli all’intervento a fianco della Triplice
Intesa vi furono socialisti irredentisti come Cesare Battisti, socialisti riformisti come Leonida Bissolati, e democratici di estrazione socialista
come Gaetano Salvemini. Per i primi l’intervento a fianco dei paesi liberal-democratici poteva essere il presupposto per abbattere la potenza
autoritaria tedesca e liberare le nazionalità ancora soggette all’impero
austro-ungarico. Nella guerra all’Austria essi scorgevano i risorgenti fermenti mazziniani e ritenevano necessario battersi per affrancare i popoli dalla tirannide asburgica. Parlavano perciò non tanto di guerra nazionalistica, ma di una guerra “altruistica e internazionalistica”, nonostante accanto alle potenze liberali si trovasse anche la Russia zarista.
Per il liberale Salvemini la guerra era necessaria per stabilire la pace in
Europa ed eliminare per sempre i motivi di guerra. Si trattava per lui di
combattere una “guerra per la pace”: “Bisogna che questa guerra uccida
la guerra”- scriveva Salvemini. Ad appoggiare gli interventisti democra-
28 |
In trincea per la pace
tico liberali vi erano tutte le forze politiche italiane, tranne i socialisti, i
giolittiani e i cattolici.
Radicali, massoni, liberal-nazionali, social-riformisti, repubblicani, anarchici e socialisti mussoliniani sostenevano con insistenza la necessità
dell’intervento. La propaganda interventista recuperò formule patriottiche e risorgimentali evocando, di volta in volta, una “quarta guerra
d’indipendenza”, una “ultima guerra dell’umanità”, una guerra democratica contro il militarismo e l’autocrazia, una occasione rivoluzionaria,
una catarsi nazionale.
Alla vigilia dell’intervento italiano uscì su “Il Popolo d’Italia” dell’ 11 maggio 1915 un articolo di Benito Mussolini dal titolo “Abbasso il Parlamento”. Mussolini era direttore de “L’Avanti” e aveva condotto fino al luglio
1914 una dura campagna contro quella guerra, da lui definita, inizialmente, “nuovo macello di popolo” e si era espresso a favore dell’internazionalismo pacifista. Il suo radicale mutamento d’opinione a favore dell’intervento avvenne dopo dieci mesi dall’inizio della guerra, quando iniziò
ad accusare il Parlamento italiano di essere un “bubbone pestifero che
avvelena il sangue della nazione”, e perciò, “per la salute dell’Italia biso-
/ 29
gnerebbe fucilare, dico fucilare, nella schiena qualche dozzina di deputati”, coloro cioè che erano invece neutralisti. Per Mussolini sarebbe spettato alla piccola borghesia, alla quale prevalentemente si rivolgeva con i
suoi proclami, “provocare con ogni mezzo l’insurrezione morale e materiale del Paese”. Gli interventisti però non furono in grado di imporre le
proprie scelte sul piano politico soprattutto perché la maggior parte dei
partiti politici con base popolare si schierò a favore della neutralità.
Anche sulle posizioni neutraliste si radunò uno schieramento di forze
molto disomogeneo. Appartenevano ad esso i liberali giolittiani, i cattolici e i socialisti. Pure essendo queste le forze numericamente più rappresentative del Paese, esse non riuscirono a formare un blocco compatto contro l’ingresso in guerra. Anche i tentativi avvenuti nel maggio
del 1915 da parte dei socialisti di creare un fronte unico neutralista non
ebbero seguito perché la guerra era già stata decisa; allearsi ai socialisti
contro la guerra avrebbe potuto spostare l’asse politico del Paese troppo a sinistra, mentre per i socialisti, i liberali giolittiani e i cattolici restavano pur sempre dei nemici di classe.
Al Partito Socialista italiano la guerra in corso appariva uno scontro tra
gli Stati capitalisti europei e dunque esso assunse una posizione diversa
da quella dei socialisti appartenenti all’Internazionale socialista, che avevano deciso di sostenere la guerra dei loro rispettivi Paesi, per salvaguardare gli interessi delle proprie nazioni. I socialisti di Francia, Germania e Austria si erano accodati alle decisioni dei loro governi accettando di formare delle coalizioni in nome dei superiori interessi della patria. I socialisti italiani invece confermarono il loro pacifismo, pur non riuscendo a mobilitare le masse popolari contro la guerra. La posizione del
socialismo italiano apparve così piuttosto ambigua ed in essa si rispecchiavano le difficoltà dei maggiori esponenti del Partito. Emblematica
in questo senso è la formula espressa da Filippo Turati per spiegare la
scelta neutralista, del “non aderire, né sabotare”. Mentre nell’articolo di
Benito Mussolini, che allora era direttore de “L’Avanti”, dal titolo Abbasso
la guerra!, veniva espressa non solo la necessità della neutralità ma si minacciava il ricorso alla forza se il governo si fosse pronunciato a favore
della guerra. Il 27 luglio del 1914 il partito approvò un ordine del giorno
nel quale si ammoniva che “nessun patto segreto di coronati potrebbe
trascinare il proletariato italiano ad impugnare le armi al servizio dell’alleata (Austria) per sopraffare il popolo libero”. Tuttavia, come si è detto,
lo spazio politico del Partito socialista era molto diminuito anche a causa
delle divisioni in seno all’Internazionale socialista con la defezione degli
30 |
In trincea per la pace
altri partiti europei. Ma al di là delle singole defezioni come quella di Benito Mussolini e quella dell’irredentista trentino Cesare Battisti, che però
non ebbero seguito nel partito, la principale debolezza dei socialisti fu
quella di conferire alla loro posizione neutralistica un valore esclusivamente difensivo. Ad indebolire ulteriormente l’azione del partito fu poi
anche l’atteggiamento repressivo del governo e delle forze di polizia.
Fin dall’agosto del 1914 infatti furono operati numerosi arresti a motivo
della distribuzione di volantini pacifisti e, mentre veniva dato spazio alle
manifestazioni a favore dell’intervento, al contrario erano perseguite
quelle dei neutralisti. Spesso furono proprio gli stessi interventisti a rispondere con la forza alle manifestazioni pacifiche dei neutralisti.
Il movimento interventista fu però incapace di mobilitare moralmente
e politicamente le masse popolari in favore della guerra. Il fenomeno
dei volontari rimase riservato prevalentemente a gruppi di élite e il fatto che uomini politici e maturi intellettuali decidessero di arruolarsi volontari come fecero Salvemini, Amendola, Bissolati e Corridoni (morto
sul Carso) non ebbe grande effetto sulla popolazione. Allo stesso modo
anche le rivendicazioni patriottiche di origine risorgimentale restavano
estranee alle grandi masse e poca eco patriottica ebbero anche il sacrificio eroico degli irredentisti che militarono nell’esercito italiano come
Cesare Battisti, Damiano Chiesa, Fabio Filzi e Nazario Sauro, catturati e
poi giustiziati dagli austriaci. L’Italia infatti, oltre che per completare la
sua unità nazionale, era entrata in guerra mossa anche da fini imperialistici come fu chiaro sin dalla stipula del Patto di Londra.
IL NEuTRALIsmO DEI CATTOLICI
La posizione neutralista del mondo cattolico presentava una varietà di
sfumature al suo interno. In generale tra i cattolici non ebbero presa gli
entusiasmi degli interventisti. Il fronte cattolico esprimeva posizioni di
ferma neutralità richiamandosi alle dichiarazioni pacifiste chiaramente
espresse dal papa Benedetto Xv, che aveva assunto un atteggiamento
nettamente contrario alla guerra. vi era però tra i cattolici la tendenza
a mostrarsi anch’essi cittadini leali allo Stato nazionale. Del resto, il movimento cattolico italiano non aveva ancora una sua rappresentanza politica e quindi si richiamava direttamente alle direttive della Santa Sede,
e in secondo luogo, faceva riferimento a molteplici organizzazioni cat-
/ 31
toliche spesso a carattere locale. Allo scoppio della guerra il vaticano
scelse di seguire una via diplomatica cercando di evitare l’estensione del
conflitto. Il quotidiano della Santa Sede, “L’Osservatore Romano”, auspicò allora una pacifica intesa sulle questioni oggetto di controversia. La
Santa Sede, temendo una ondata sovversiva, non tentò la mobilitazione
delle masse cattoliche in senso pacifista e neutralista. Un fermo richiamo
ai cattolici perché reagissero alle manifestazioni interventiste venne invece dai rappresentanti delle Leghe contadine, tra cui il deputato Guido
Miglioli, il quale intendeva la guerra in corso come una esigenza delle
classi dirigenti per rinsaldare un sistema sociale avverso al proletariato.
Il neutralismo cattolico si mosse in parte sostenendo l’azione del governo e facendo così prevalere una forma di “lealismo patriottico”. E
questa posizione dei cattolici, distante dal neutralismo assoluto dei socialisti così come dai vivaci movimenti interventisti, sarebbe sboccata
in un sostegno all’intervento nel momento in cui il governo scelse la
strada dell’entrata in guerra.
Anche il giovane bresciano Giovanni Battista Montini, il futuro pontefice
Paolo vI, espresse in quegli anni sentimenti di vivo patriottismo, pur nella lealtà alla Santa Sede. La generazione a cui apparteneva Montini, nata
alla fine dell’Ottocento, quasi all’alba del nuovo secolo, fu l’ultima chiamata alle armi. Molti di quei giovani cattolici, soprattutto nelle regioni
del Nord Italia, intesero quel conflitto - incitati i questo senso da una ovvia ed insistente propaganda nazionalistica - come se si trattasse di una
quarta ed ultima guerra d’indipendenza, necessaria per completare
l’Unità d’Italia e liberare le terre rimaste irredente. Giovanni Battista
Montini venne dichiarato inabile al servizio militare, ma seguì con trepidazione ogni evento della guerra, commuovendosi per la conquista di
Gorizia, soffrendo per la disfatta di Caporetto – annoverata da lui tra “le
sventure d’Italia” - e giungendo, in alcuni momenti di sconforto, a temere anche per le sorti della sua Brescia. “Li seguo- scriveva Montini nel
1916, durante il secondo anno di guerra - li seguiamo tutti i nostri soldati
e al di sopra di ogni ricreazione, in fondo ad ogni chiasso sta il pensiero
di loro, pensiero d’amore, di gratitudine, di compassione, di preghiera”.
Il 4 novembre 1921, nel terzo anniversario della conclusione di quel conflitto, da cui l’Italia era uscita infine vittoriosa, Montini, insieme al padre
Giorgio, assistette a Roma ai solenni onori tributati alla salma del Milite
Ignoto, traslata dai luoghi di battaglia e trionfalmente deposta al vittoriano e ne riportò una vivissima impressione: quella imponente manifestazione di popolo, in cui aveva ravvisato “uno spettacolo d’esalta-
32 |
In trincea per la pace
zione nazionale”, era stata per lui “ciò che di più grandioso si poteva immaginare”. E ancora l’anno successivo, nel dicembre del 1922, scrivendo
sulle pagine de “La Fionda”- un periodico studentesco bresciano, di cui
era stato tra i fondatori nel 1918 - Montini, ricordando i vinti incolpevoli
di Caporetto, (“non traditori” - puntualizzava don Battista, nel frattempo divenuto sacerdote) acclamava “la dignità civile e militare” del Paese.
Sembra opportuno precisare meglio quale era il reale significato e l’autentica portata di questo sincero e radicato amor di patria. È plausibile
infatti cogliere in queste esperienze ed espressioni verbali i tratti di un
vero e proprio patriottismo cattolico che, in ogni suo aspetto, rivela e
conferma un’ acuta passione civile. In un articolo, pubblicato su “La Fionda” nel settembre del 1923, ed emblematicamente intitolato Osservazioni elementari sul patriottismo, Montini sosteneva la “necessità morale
del patriottismo”, mettendo però in guardia da un distorto abuso di
questo spontaneo e lodevole sentimento, e dal rischio – particolarmente evidente in quel delicato frangente storico, mentre andava consolidandosi il governo di Mussolini – di concepire la patria “come l’unica patria del mondo”. Diversamente, solo il patriota cattolico, orientato dal
supremo comandamento evangelico della carità, “amando la patria” proseguiva Montini- non rinunciava “ad amare l’umanità intera e ad abbracciarla in un sentimento fraterno di unione e solidarietà”.
IL NEuTRALIsmO LIbERALE
Nel mondo liberale fu Giovanni Giolitti a rappresentare la più importante voce a favore dello schieramento neutralista. L’ex capo del governo
si battè fino alla fine perché il Paese potesse restare fuori dalla guerra,
che egli prevedeva sarebbe stata molto lunga e sanguinosa e che l’Italia,
a suo parere, non sarebbe stata in grado di sostenere. Fu Giolitti a perseguire la formula di una “neutralità condizionata”. Egli incontrò a Roma
l’ex cancelliere tedesco Bernhard von Bulow, interessato a conoscere
l’eventuale prezzo di una Italia neutrale. Ciò convinse Giolitti che il Paese avrebbe potuto ottenere “parecchio” difendendo la sua neutralità.
Il neutralismo di Giovanni Giolitti, quindi, scaturiva da una scelta responsabile dovuta alla lunga esperienza di governo e alla migliore comprensione delle forze in campo. L’Italia avrebbe potuto soddisfare le sue legittime aspirazioni nazionali senza partecipare alla guerra che, a suo
/ 33
giudizio, si sarebbe protratta per diversi anni, compromettendo l’economia e le strutture dell’ancor giovane nazione italiana e delle sue istituzioni politiche. La sua posizione apparve ad alcuni come dettata da
pavidità e opportunismo. voltarono le spalle all’ex capo di governo tutti
i suoi alleati tradizionali, come i ceti agrari e industriali che avrebbero
potuto trarre maggiori vantaggi da una scelta interventista. Giolitti, che
venne dileggiato presso l’opinione pubblica per la sua presa di posizione, difese la sua opinione anche nelle sue memorie. “Io avevo invece la
convinzione che la guerra sarebbe stata lunghissima e tale convinzione
manifestavo liberamente a tutti i colleghi della Camera coi quali ebbi
occasione di discorrerne. A chi mi parlava di una guerra di tre mesi rispondevo che sarebbe durata almeno tre anni, perchè si trattava di debellare i due imperi militarmente più organizzati del mondo, che da oltre quarant’anni si preparavano alla guerra; i quali, avendo una popolazione di oltre centoventi milioni, potevano mettere sotto le armi sino a
venti milioni di uomini (…) Che il nostro fronte sia verso il Carso, sia verso il Trentino, presentava difficoltà formidabili. Osservavo d’altra parte
che, atteso l’enorme interesse dell’Austria di evitare la guerra con l’Italia
e la piccola parte che rappresentavano gli italiani irredenti in un’ Impero
di cinquantadue milioni di popolazione, si avevano le maggiori probabilità che trattative bene condotte finissero per portare all’accordo”. Giolitti spiegava nelle sue memorie anche il senso della lettera inviata all’onorevole Camillo Peano il 24 gennaio del 1915 e pubblicata il 1 febbraio successivo sulle colonne della “Tribuna”, che gli valsero allora il dileggiante appellativo di “uomo del parecchio” per l’affermazione: “credo
parecchio (…) potersi ottenere senza la guerra”, poi corretta in “credo
molto potersi ottenere senza la guerra”. Lo statista piemontese rivendicava la singolarità della sua posizione quando affermava: “la mia adesione al partito della neutralità assoluta. Altra leggenda. Certo io non
considero la guerra come una fortuna, come i nazionalisti, ma come una
disgrazia, la quale di deve affrontare solo quando è necessario per l’onore e per i grandi interessi del Paese. Non credo sia lecito portare il Paese
alla guerra per un sentimentalismo verso altri popoli. Per sentimento
ognuno può gettare la propria vita, non quella del Paese. Ma quando
fosse necessario non esiterei ad affrontare la guerra e l’ho provato”.
Nello schieramento liberale vi fu una frattura pure nella stampa: vi era
una linea riformistico-moderata interpretata dal quotidiano “La Stampa” di Torino, che auspicava un ritorno di Giolitti al governo e interpretava gli interessi delle grandi industrie esportatrici allora in espansione
34 |
In trincea per la pace
come la Fiat - il gruppo industriale che avrebbe tratto maggior giovamento nel commercio dal mantenimento delle condizioni di neutralità
- e una linea autoritaria e antigiolittiana de “Il Corriere della Sera” di Milano, diretto da Luigi Albertini.
Il presidente del Consiglio, Salandra e il ministro degli Esteri, Sidney
Sonnino, imboccarono la via dell’entrata in guerra dell’Italia, supportati
in questo dagli antigiolittiani e incoraggiati dalla propaganda in tal senso del principale quotidiano italiano. Non erano estranee a questa scelta le pressioni di alcuni gruppi siderurgici come l’Ilva, navali come l’Ansaldo, e tessili, che vedevano nell’entrata in guerra dell’Italia una possibilità di superare la crisi che le attanagliava da anni, incrementando la
loro produzione.
NEL mONDO LIbERALE
Fu GIOvANNI GIOLITTI
A RAPPREsENTARE LA PIù
ImPORTANTE vOCE A FAvORE
DELLO sChIERAmENTO
NEuTRALIsTA.
L’Ex CAPO DEL GOvERNO sI bATTè
FINO ALLA FINE PERChé IL PAEsE
POTEssE REsTARE FuORI DALLA
GuERRA, ChE EGLI PREvEDEvA
sAREbbE sTATA mOLTO LuNGA
E sANGuINOsA E ChE L’ITALIA,
A suO PARERE, NON sAREbbE
sTATA IN GRADO DI sOsTENERE
/ 35
IL PATTO DI LONDRA E L’ENTRATA IN GuERRA
Il governo italiano proseguì i contatti con la Triplice Alleanza fino al febbraio del 1915. Il rifiuto di vienna di compensare l’Italia, rinviando ogni
eventuale soluzione al termine della guerra, spinse l’esecutivo a intavolare trattative con i Paesi dell’Intesa. Queste si svolsero tra il 4 marzo
e il 26 aprile tramite il governo inglese ed ebbero come base un memorandum inviato dal ministro degli Esteri, Sonnino nel febbraio precedente. La più importante novità di questo testo riguardava gli acquisti
territoriali richiesti dall’Italia. Alle zone già rivendicate del Trentino,
dell’Alto Adige, di Trieste, e le contee di Gorizia e di Gradisca con l’Istria
e fino al Carnaro, si aggiungeva la richiesta “della provincia di Dalmazia,
secondo l’attuale sua delimitazione amministrativa”, comprese le “isole
giacenti a nord e a ovest della Dalmazia stessa” e “gli scogli vicini”. Questo articolo, inserito per volontà di Sonnino, suscitò l’opposizione della
Russia, creando difficoltà anche a Francia e Inghilterra. All’Italia venne
comunque promesso circa metà del territorio dalmata comprendente
zara, e la maggior parte delle isole della Dalmazia.
Il 26 aprile del 1915 si giunse alla firma del Trattato di Londra. Con tale
accordo l’Italia entro un mese avrebbe aperto le ostilità contro l’impero
asburgico ottenendo in cambio la promessa, a guerra conclusa, di acquisire i territori del Trentino e del Sud Tirolo fino al Brennero, di Trieste, dell’Istria e di parte della Dalmazia, oltre al riconoscimento della
sua occupazione di valona in Albania e delle isole greche del Dodecanneso. A decidere la stipula del trattato furono sostanzialmente Antonio
Salandra e Sidney Sonnino, insieme al Re d’Italia, vittorio Emanuele III.
Infatti il Parlamento e l’opinione pubblica furono tenuti all’oscuro di
tutto e gli stessi membri del governo conobbero solo in parte i termini
precisi del Trattato, il cui testo completo fu reso noto solo nel marzo
del 1920.
Agli inizi di maggio gli interventisti promossero una serie di manifestazioni per incitare alla guerra, mentre Giolitti, accanito sostenitore della
neutralità, veniva quasi fatto oggetto di un linciaggio morale da parte
dell’opinione pubblica favorevole all’intervento. La maggior parte della
popolazione sembrò invece rimanere indifferente ed inerte rispetto al
dibattito in corso. In questo clima, il Parlamento il 20 maggio concedette poteri straordinari al governo di Salandra, il quale la settimana precedente aveva presentato a Re le proprie dimissioni a causa della posizione neutralista espressa dalla maggioranza dei deputati. L’Italia dun-
36 |
In trincea per la pace
que entrò in guerra il 24 maggio del 1915 aprendo le ostilità contro
l’Austria. Tra i più accesi sostenitori dell’entrata in guerra, in quelle “radiose giornate di maggio”, come furono definite con enfasi retorica dai
nazionalisti, vi fu Benito Mussolini, espulso dal Partito socialista, che dirigeva ora un nuovo quotidiano da lui fondato “Il Popolo d’Italia” .
L’esercito italiano entrato in guerra dovette assestarsi sul fronte militare
della III guerra d’indipendenza, conclusa nel 1866. Si trattava di un lunghissimo perimetro di quasi 800 chilometri, che, assumendo quasi la forma di una grande S, andava dalle Alpi venete alle montagne del Trentino
e dell’Isonzo, comprendendo tutto il settore della Carnia. Gli italiani erano in prevalente superiorità numerica, ma con un armamento arretrato
e una notevole impreparazione delle truppe. Gli austriaci, al contrario,
erano meglio addestrati e occupavano posizioni dominanti. Nei primi
mesi la guerra venne combattuta in particolare sull’Isonzo e sul Carso,
dove tra giugno e dicembre del 1915 furono lanciate alcune offensive
che portarono alla conquista di importanti postazioni (il Monte Nero, il
Monte Sei Busi e il Monte San Michele). In Trentino venne invece mantenuta una condotta prevalentemente difensiva. Il generale Luigi Cadorna, comandante in capo, aveva adottato una tattica di logoramento che
però comportava il sacrificio di moltissimi soldati; egli era infatti convinto
che bisognasse stancare il nemico attaccandolo continuamente più che
conquistare terreno e alla guerra di movimento preferiva intraprendere
una guerra di posizione. Cadorna era allora considerato pessimo psicologo, ma grande organizzatore. Invece la flotta italiana riuscì a bloccare
quella austriaca nell’Adriatico, pur subendo alcune perdite.
Tra il maggio e il giugno del 1916 l’esercito italiano subì una pesante
sconfitta causata dalla Strafexpedition (spedizione punitiva) sull’altipiano dei Sette Comuni, che si concluse con l’occupazione austriaca di Asiago. Dopo esser riuscito a contenere l’avanzata nemica, Cadorna contrattaccò sull’Isonzo, conquistando, tra l’agosto e il settembre del 1916,
l’altopiano della Bainsizza. Già alla fine di luglio Cadorna aveva rafforzato notevolmente la III armata alla quale affidò il compito di conquistare la testa di ponte austriaca sulla destra dell’Isonzo, davanti Gorizia.
Il comandante della III armata, il Duca d’Aosta, cugino del Re d’Italia,
volle estendere l’attacco al Monte San Michele, sulla sinistra dell’Isonzo.
L’attacco italiano cominciò il 6 agosto ed ebbe il suo momento culminante nella conquista del Monte Sabotino, nella quale si distinse particolarmente il colonnello Pietro Badoglio, che aveva preparato quell’impresa e che a seguito di questa venne promosso generale per meriti di
/ 37
guerra. Gli austriaci, che tentarono la resistenza nei settori di Oslavia e
Podgora, l’8 agosto abbandonarono la testa di ponte. Il generale Luigi
Capello, comandante del vI corpo d’armata, stabilì di passare l’Isonzo e
conquistare Gorizia. Le truppe italiane entrarono così a Gorizia il 9 agosto 1916 e iniziarono l’attacco dalle nuove posizioni. Gli austriaci opposero una tenace resistenza dalle alture a est della città costringendo
Cadorna a ordinare il 16 agosto la sospensione dell’offensiva. La battaglia di Gorizia, detta anche vI battaglia dell’Isonzo, provocò nell’esercito
italiano 21630 morti e 52940 feriti mentre furono catturati oltre 18000
prigionieri. La presa di Gorizia però contribuì a risollevare gli animi depressi dalle precedenti e vittoriose offensive austriache e venne salutata con grande entusiasmo nel Paese. Il successo militare fu quindi importante per rialzare il morale dei combattenti e della popolazione e
rinsaldò la fiducia in Cadorna, ma ebbe sul piano strategico dei risultati
limitati perché le truppe poste oltre il confine dell’Isonzo, su una linea
lunga molti chilometri, si trovarono di fronte ad un nuovo e compatto
fronte di resistenza nemica.
La guerra di posizione voluta da Cadorna però colse impreparati i grandi
capi militari. Nonostante l’uso di nuove e potenti armi quali mitragliatrici, bombe a mano, gas venefici, carri armati e aerei, la vita di guerra
che si svolgeva prevalentemente nelle trincee aveva portato ad un radicale peggioramento delle condizioni dei soldati. La stessa trincea era
resa insicura dalla presenza continua del nemico, dall’attesa dell’attacco
avversario, dai bombardamenti che provocarono un logoramento anche di carattere psicologico. Le gravi perdite umane portarono poi al
bisogno di arruolare nuove classi di soldati e diminuire le esenzioni. Tutto ciò però conduceva ad una minor disponibilità di manodopera industriale in un frangente nel quale si rendeva necessario l’aumento della
produzione. Più favoriti dalle vicende belliche furono i gruppi industriali
privati che con le commesse belliche incrementarono la loro produzione e il commercio. Ma, mancando i controlli da parte del governo, molti
industriali fornirono il materiale bellico a prezzi altissimi. Le difficoltà
di approvvigionamento diventarono dunque sempre più rilevanti nel
proseguimento della guerra. Le potenze dell’Intesa, che si trovarono
avvantaggiate dalla consistente superiorità navale inglese, determinarono un assedio economico, violando le norme sulla libertà dei mari e
compromettendo in tal modo i rifornimenti della Germania (vennero
infatti bloccate anche le navi di paesi neutrali come Olanda e Danimarca, che erano però paesi fornitori dei tedeschi).
38 |
In trincea per la pace
Il protrarsi della guerra compromise anche la situazione dei governi dei
Paesi in conflitto. Alle insorgenti difficoltà sul piano militare, lo scoraggiamento delle truppe e il malumore della popolazione, si rispose con
una rafforzata concentrazione del potere nelle mani dei governi, esautorando i parlamenti da molte funzioni. In Francia e in Inghilterra vennero costituiti dei governi di unione nazionale, guidati rispettivamente
dai primi ministri Aristide Briand e Lloyd George.
In Italia Salandra fu costretto a lasciare il potere dopo la disastrosa Strafexpedition austriaca. Lo sostituì l’anziano Paolo Boselli che nel giugno
del 1916 divenne capo di un governo al quale partecipavano tutte le
forze politiche tranne i socialisti i quali continuavano a mantenere una
posizione di neutralità. Per la prima volta, anche un deputato cattolico,
il milanese Filippo Meda, entrò a far parte del governo del Paese.
Difficili restavano però i rapporti tra il governo e i comandi militari. Ciò
era dovuto in particolare al carattere, eccessivamente autoritario e sospettoso, di Cadorna, che continuava a condurre la guerra con metodi
spesso crudeli e privi di sensibilità per le condizioni fisiche e umane dei
soldati. Cadorna ricorse frequentemente ad un uso sommario della giustizia militare, improntando processi per codardia e tradimento e disponendo la decimazione dei reparti per disobbedienza agli ordini militari. La disciplina che lo aveva forgiato nei lunghi anni di carriera aveva
acuito in lui anche la sfiducia e lo scetticismo nei confronti delle capacità
dei suoi sottoposti. Gli uomini impegnati nell’esercito erano da lui considerati come “un’accolta improvvisata di grandi masse, in buona parte
ineducate ai sentimenti militari, anzi educate dai partiti sovversivi ai sentimenti antimilitaristi”. Riteneva dunque suo compito rieducarli. I giudizi
negativi riguardavano anche i suoi stessi ufficiali, come avrebbe scritto
lo stesso generale, alcuni anni dopo: “Come sarebbe stato possibile sottoporre ad una cultura intensiva di educazione militare le enormi masse
ineducate che provenivano dal Paese? E con quali educatori, poiché
molti dei migliori ufficiali caddero nei primi mesi di guerra, e si dovettero improvvisare ufficiali a diecine di migliaia in breve tempo, e perciò
necessariamente inesperti? In tale condizione non rimaneva che far intendere la necessità della disciplina mediante una relativa severità; la
qual cosa è senza dubbio assai meno efficace della lenta educazione
del tempo di pace, ma la sola possibile in quelle circostanze”. La repressione di Cadorna fu compiuta anche attraverso esecuzioni sommarie,
imposte per atti di grave insubordinazione compiuti nei confronti dei
superiori e atti di viltà, in presenza del nemico. Il Comandante, come si
40 |
In trincea per la pace
è detto, non esitò a ricorrere alle “decimazioni”, che non distinguevano
tra colpevoli e innocenti: era una antica norma, priva di umanità, ma in
uso nell’esercito per reprimere rapidamente la mancanza di disciplina
e lo sbandamento dei reparti. I primi episodi di decimazione si ebbero
nell’esercito italiano un anno dopo l’entrata in guerra, nel maggio del
1916, a seguito dello sfondamento delle linee italiane sull’altipiano di
Asiago. Le disposizioni di Cadorna sull’uso di questa pratica militare furono inflessibili e prescritte anche ai comandi inferiori. Il Capo di Stato
maggiore non esitò a reprimere anche ogni tentativo dei soldati italiani
che per sfuggire alle decimazioni provavano a darsi prigionieri al nemico. Per essi - scriveva- doveva aprirsi “implacabile giustiziere, il fuoco
delle nostre artiglierie e delle nostre mitragliatrici”.
Nell’esercito italiano vi erano molte insufficienze e la cosa era nota sin
dal 1914. Gli esperti militari avevano spiegato al presidente Salandra come queste carenze avrebbero potuto rivelarsi disastrose. Era stato calcolato che per una mobilitazione completa sarebbero stati necessari almeno 13500 soldati in più, mentre i 15000 effettivi avevano una preparazione scadente. Cadorna descriveva i suoi quadri come “abbastanza
buoni in basso, ma invecchiati e sfiduciati nei gradi inferiori e medi in alto
- insieme con parecchi buoni ed ottimi - altri non pochi insufficienti”.
Fu la guerra ad imporre interventi di carattere straordinario per preparare gli eserciti. Nei mesi della neutralità vennero tenuti corsi per l’addestramento degli ufficiali e, dopo l’entrata in guerra, questi corsi vennero ripetuti a ritmo costante. Circa la metà dell’esercito era composta
da contadini. Su un totale di 5 milioni e 750 mila combattenti chiamati
complessivamente durante il conflitto, 2 milioni e 600 mila erano contadini e quasi tutti appartenevano alla fanteria, che sarebbe stata la più
colpita e sacrificata durante la guerra, arrivando a subire da sola il 95%
delle perdite.
All’inizio della guerra tra i fanti vi furono anche operai, studenti, impiegati, Ma al termine del conflitto si contò che su un totale dei 345mila
orfani di guerra, quelli dei contadini furono più della metà, pari al 63%
del totale. Nelle prime linee si trovarono anche i molti ufficiali dell’esercito. In maggior parte anziani e ormai abituati alla vita borghese, essi si
trovarono in difficoltà spesso più dei fanti, abituati a vite di sacrificio e
di grandi disagi. L’istruzione militare ricevuta nelle accademie non era
adatta di fronte ad una guerra completamente diversa e combattuta
con tecniche nuove e spesso sconosciute. In questo contesto anche il
sentimento patriottico veniva molto affievolito.
/ 41
Molto dura era anche la vita di trincea, con le rischiose perlustrazioni
notturne, le operazioni difensive contro reticolati e trincee nemiche.
Padre Agostino Gemelli, analizzando la situazione psicologica di molti
soldati annotava: “alcuni individui intellettuali si dimostrano incapaci di
vivere la vita militare; sono poveri infelici che vivono immersi nell’antico
mondo al quale appartenevano, inadatti al nuovo. Essi sono perciò dei
pessimi soldati ed anche soldati poco eroici”.
In Russia la guerra accelerò il processo di dissoluzione del regime zarista. Ma voci pacifiste si levarono da più parti. Tra di esse si distinguevano
coloro che erano favorevoli ad una soluzione diplomatica del conflitto
da quelli che prevedevano una soluzione rivoluzionaria. Nella prima direzione si mossero il presidente degli Stai uniti Woodrow Wilson e il
pontefice Benedetto Xv, che promosse diverse iniziative riservate tese
a raggiungere la pace.
La guerra fece riscoprire forti sentimenti di umanità, solidarietà e fraternità. Un giovane intellettuale arruolatosi volontario, il poeta Giuseppe Ungaretti ci ha lasciato, con le sue poesie scritte al fronte, una intensa testimonianza di tali sentimenti. In “San Martino del Carso”, dell’agosto 1916, il poeta ci descrive la desolazione del suo cuore, il luogo
più straziato dal conflitto, mentre in “Soldati”, del luglio 1918, Ungaretti
testimonia il senso di precarietà che attanagliava i combattenti.
Il pontificato di Benedetto Xv, che durò dal settembre 1914 al gennaio
1922, ha avuto come sfondo e come oggetto principale della sua azione
proprio gli anni della I guerra mondiale, con il tormentato seguito delle
difficili trattative per la pace. Il cardinale Giacomo Della Chiesa, eletto
Papa il 3 settembre 1914, sin dal suo primo messaggio, inviato l’8 settembre successivo, parlò della guerra come di uno “spettacolo mostruoso” e un “flagello dell’ira di Dio”. E nella sua prima enciclica “Ad Beatissimi”, del 1 novembre 1914, definì ancora la guerra in corso come “spettacolo atroce e doloroso” e “tremendo fantasma”. Anche dopo l’entrata
in guerra dell’Italia, il 24 maggio del 1915, il Papa tornò a denunciare i
funesti effetti del conflitto che stava riducendo il mondo in “ossario e
ospedale”. Rivolgendosi con una lettera al cardinale vicario di Roma,
Benedetto Xv descrisse la guerra in corso come un “suicidio dell’Europa” e la “più fosca tragedia dell’odio umano e della demenza”. Ma la più
conosciuta e ripetuta definizione della guerra fu quella espressa nella
“Nota di Pace” del 1 agosto 1917, nella quale parlò del I conflitto mondiale come di una “inutile strage”. Il valore dell’espressione “inutile strage” non offriva solo una valutazione etico- politica molto negativa sulla
guerra, ma rappresentava anche un realistico invito a considerare come
si fosse ormai arrivati ad una condizione di stallo, in cui si dovevano
compiere grandi offensive con quarantamila o cinquantamila morti per
conquistare pochi metri di terreno. La posizione di Benedetto Xv nei
confronti della guerra è stata definita di “neutralità”, mentre sarebbe
più corretto parlare di “imparzialità”, atteggiamento che presuppone
una generale condanna di ogni guerra, senza volersi ergere ad arbitro
e giudice dei motivi dei singoli popoli. Nei confronti della posizione del
Papa vennero espresse, soprattutto dagli organi di stampa e dai membri di alcuni governi, accuse di demoralizzazione e vi fu chi arrivò a paragonare l’opera di Papa Della Chiesa a quella di Pilato. Scrivendo ad
Achille Ratti, allora prefetto della Biblioteca vaticana, che sarebbe diventato suo successore come Pio XI, Benedetto Xv, consapevole di queste accuse, ribadiva: “vogliono condannarmi al silenzio. Il vicario di Cri-
Lo scrittore Emilio Lussu, combattente nella Brigata Sassari, rievocò invece nel suo libro “Un anno sull’altipiano” quello che definiva “il dramma
corale”, vissuto da interi reparti di fanti sull’altipiano di Asiago, dall’estate del 1916 a quella del 1917. Le rivendicazioni patriottiche svanivano
di fronte alla dura vita delle trincee: in mezzo al fango e tra innumerevoli disagi i soldati desideravano solo la più rapida conclusione della
guerra e il ritorno alle loro case. Nelle pagine di Lussu viene descritto il
disagio e i tormenti di coscienza di chi, nel nemico che si trova di fronte,
riconosceva comunque un uomo. “Forse, era quella calma completa che
allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare.
Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza senza sbagliarne uno.
Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo.
Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà mi rese
esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo!”
L’AZIONE DI PACE DI bENEDETTO xv
Anche negli imperi centrali si manifestò una situazione di conflitto tra
potere militare e politico. Mentre, sotto la spinta dell’indipendentismo
slavo e cecoslovacco, si temette la dissoluzione dell’impero asburgico,
l’imperatore Carlo I d’Asburgo succeduto nel 1916 allo zio Francesco
Giuseppe, promosse una iniziativa di pace separata che venne respinta.
42 |
In trincea per la pace
/ 43
sto non dovrebbe invocare la pace. Non riusciranno mai a sigillare il mio
labbro. La paternità universale di cui sono investito mi fa un dovere preciso: di invitare alla pace i figli che dalle opposte barricate si trucidano
a vicenda. Sono e mi sento il padre spirituale dei combattenti nell’uno
e nell’altro campo. Nessuno potrà impedire al Padre di gridare ai propri
figli: Pace, Pace, Pace”.
L’opera del Papa non si limitò a queste pubbliche deplorazioni e agli appelli alla pace. La diplomazia della Santa Sede lavorò sempre, anche in
maniera segreta, per cercare uno spiraglio che avesse potuto condurre
al termine del conflitto. Con la “Nota di Pace” il Papa invitava le parti in
guerra a cercare la pace sulla base di alcuni punti fondamentali. Nella
“Nota”, ai fini di una pace giusta e durevole, venivano contemplati il disarmo simultaneo e reciproco, rafforzato da garanzie internazionali; la
libertà dei mari e il reciproco condono dei danni di guerra; la restituzione dei territori occupati; la soluzione delle questioni territoriali, tenendo conto delle aspirazioni dei popoli. Il direttore del “Corriere della Sera”, Albertini, mosse una critica serrata al documento del Papa, mentre
“La Stampa”, che si manteneva vicina ai liberali giolittiani, assunse un
atteggiamento più benevolo. Il generale Cadorna proibì che tra le truppe circolasse il testo pontificio che, dopo la sconfitta militare di Caporetto, fu considerato disfattista al pari della propaganda pacifista dei
socialisti, e venne annoverato tra le cause della sconfitta militare italiana. Anche Benito Mussolini criticò la “Nota” dalle colonne de “Il Popolo
d’Italia”, definendola “una manifestazione di propaganda banale e criminosa contro la guerra”, un incitamento al disfattismo e al tradimento,
mentre, al contrario, ne furono soddisfatti i socialisti.
Pure il presidente americano Wilson respinse la “Nota” del Papa, in
quanto, pur riconoscendo “la forza dei motivi umani e generosi” che
l’avevano ispirata, essa sembrava ignorare le responsabilità del popolo
tedesco il quale, “avendo concepito in segreto di dominare il mondo”,
aveva sferrato i suoi colpi feroci senza arrestarsi davanti a nessuna barriera “né di legge, né di pietà”, provocando in Europa una ondata di sangue. Per il presidente americano, accettare la “Nota” così come era stata
preparata, avrebbe significato solamente ripristinare le condizioni che
avevano determinato la guerra. Invece i torti subiti “da un intero continente” avrebbero dovuto essere riparati, non tanto a spese del popolo
tedesco, vittima di un “governo irresponsabile” e di “uno spietato padrone”, ma guardando alle esigenze dei popoli, unici garanti di una pace
basata sulla “giustizia, sull’onestà e sui diritti comuni dell’umanità”.
44 |
In trincea per la pace
L’intervento del Pontefice quindi non ebbe successo, ma nonostante le
diffidenze, i rifiuti e gli impedimenti, il Papa proseguì tenacemente la
sua azione. In una lettera inviata da Benedetto Xv all’imperatore d’Austria Carlo d’Asburgo, dopo aver constatato il fallimento del suo tentativo di pacificazione definendolo “un’ora, forse la più amara della nostra
vita”, insistette ancora perché si cercasse ogni occasione di arrivare ad
una “pace mediante compensi e senza umiliazioni”, anche per evitare
“quelle agitazioni politichesi cui nessuno poteva prevedere la portata”.
Agitazioni che proprio in quei giorni si stavano moltiplicando in Russia.
L’azione della Santa Sede durante la guerra non si limitò agli inviti alla pace e ai tentativi per realizzarla. Tramite i normali canali diplomatici, e attraverso vie più confidenziali, ci si adoperò per lo scambio dei prigionieri
ammalati, creando e gestendo un ufficio informazioni sui dispersi e una
rete per lo scambio della corrispondenza tra i prigionieri e le loro famiglie.
I credenti furono poi invitati a pregare in maniera intensa e speciale per
la pace: una particolare orazione in tal senso fu composta dallo stesso
Benedetto Xv nel gennaio del 1915 e venne tradotta nelle lingue dei
paesi belligeranti in modo che i combattenti sui diversi fronti potessero
leggere la stessa invocazione di pace. Sempre nello stesso anno vennero regolate le disposizioni per proclamare il canto del Te Deum in occasione di vittorie militari, mentre veniva esteso a tutte le diocesi del mondo il privilegio di poter celebrare tre messe al giorno, in suffragio dei
caduti. Nel 1917 venne infine aggiunta alle litanie lauretane alla Madonna, l’invocazione, voluta dal Pontefice, di “Regina Pacis”.
Alla fine della guerra, dopo la firma dei trattati di versailles, Benedetto
Xv in una allocuzione concistoriale, si soffermò a deprecare quanto ancora sopravviveva della guerra (il blocco marittimo, la detenzione dei
prigionieri vinti, gli odi perduranti tra i popoli) e scongiurò le nazioni ad
associarsi tra loro con i vincoli della “carità cristiana”. Nel maggio del
1920, nell’enciclica Pacem Dei Munus, il Papa ricordava agli uomini e
agli Stati che “se quasi dappertutto la guerra era finita ed erano stati
sottoscritti dei trattati di pace, erano tuttavia rimasti i segni delle antiche discordie”, per cui bisognava fare in modo che, “rimosse per quanto
possibile le cause dei dissidi, e fatte salve le ragioni di giustizia, i popoli
reintegrino tra loro l’unione e l’amicizia”. Pochi giorni prima di morire,
nel gennaio del 1922, Benedetto Xv ricevette da parte della Società delle Nazioni il riconoscimento “della sua più alta e rispettosa considerazione per il Papa e della sua riconoscenza più sincera per la generosa iniziativa, nuova prova delle sue premure nel sollevare tutti i dolori umani”.
/ 45
LA PROPAGANDA sOCIALIsTA
LA svOLTA DEL 1917
In seno al movimento socialista si parlava invece di una possibile “soluzione rivoluzionaria” della guerra. Dopo le iniziali posizioni di appoggio
alle scelte militari dei governi nazionali, tra i militanti si rafforzarono le
posizioni pacifiste. Le drammatiche vicende del conflitto suscitarono
un ampio dibattito sulle posizioni del socialismo in rapporto alla politica
degli stati borghesi. Tra il 1915 e il 1916, furono convocate due conferenze a zimmenrwald e a Kienthal, in Svizzera, alle quali parteciparono
le minoranze pacifiste dei partiti socialisti europei (solo quello italiano
fu ufficialmente rappresentato). In tali occasioni furono ripresi i principi
dell’autodeterminazione dei popoli posti a fondamento di una pace duratura; ma vennero espresse anche tesi più radicali ad opera degli esponenti del bolscevismo russo, guidati da Lenin, per i quali la guerra avrebbe dovuto essere trasformata in rivoluzione, altrimenti “sarebbero venute ben presto altre guerre”. Sempre più frequenti tra le masse operaie e popolari si facevano le manifestazioni contro la guerra, spesso
guidate dalle donne, come a Torino, nel 1917. Si trattò in questo caso
del più grande episodio di protesta durante tutto il periodo bellico. Dal
mancato rifornimento della farina si originò una vasta manifestazione
e ben presto alle rivendicazioni sul pane si aggiunsero quelle per la pace
dalle quali trapelava il profondo malcontento della popolazione. Il Partito socialista italiano si trovò però impreparato e non in grado di gestire o sfruttare a suo vantaggio la situazione di protesta.
L’entrata in guerra degli Stati Uniti. Il 1917 segnò una decisiva svolta
nelle sorti della guerra. In quell’anno infatti l’ingresso degli Stati Uniti
nel conflitto al fianco delle forze dell’Intesa confermò la definitiva ascesa della nuova potenza americana; allo stesso tempo, la caduta dell’impero zarista, per secoli protagonista della storia europea, fu seguito
dall’affermazione al potere in Russia della parte bolscevica del Partito
socialdemocratico russo. Successivamente a questi avvenimenti, in meno di un anno, gli altri tre imperi sui quali si era retto l’equilibrio europeo
(asburgico, ottomano e tedesco) crollarono col precipitare degli eventi
bellici. In un biennio, tra il 1917 e il 1918, vennero completamente ridefiniti i confini geografici dell’Europa e la situazione mondiale mutò
in maniera tanto radicale quanto improvvisa.
sEmPRE PIù FREquENTI
TRA LE mAssE OPERAIE
E POPOLARI sI FACEvANO
LE mANIFEsTAZIONI
CONTRO LA GuERRA,
sPEssO GuIDATE DALLE DONNE,
COmE A TORINO,
NEL 1917
46 |
In trincea per la pace
All’inizio del guerra gli Stati Uniti erano rimasti neutrali, mentre il prolungarsi del conflitto aveva stimolato la produzione industriale del Paese, grazie alle commesse belliche inglesi, francesi e italiane. Il presidente
repubblicano Woodrow Wilson, in carica tra il 1913 e il 1921, tentò di
svolgere un’opera di mediazione e pacificazione tra i paesi belligeranti.
Ciò non impedì agli Stati Uniti di inviare notevoli aiuti economici alle potenze dell’Intesa con le quali vi erano maggiori affinità politiche ed interessi economici in comune.
La scelta americana fu quindi quella di una “neutralità belligerante” a
favore dei Paesi dell’Intesa, ma il 2 aprile 1917 - a seguito dei danni economici causati dalla guerra sottomarina tedesca che impediva il commercio bellico degli Usa, danneggiandone fortemente l’economia - il
Congresso americano votò l’ingresso in guerra della nazione al fianco
delle potenze dell’Intesa, non come Paese alleato, ma come “associato”.
Gli Usa, nelle intenzioni del Presidente Wilson, avrebbero dovuto battersi non per scopi di conquista ed espansione territoriale, ma per altri
fini più nobili che il presidente, l’anno seguente, avrebbe sintetizzato
in “Quattordici punti”, con i quali intendeva qualificare il carattere democratico e non imperialistico dell’intervento americano in guerra, auspicando una pace che punisse le colpe dei governi, senza colpire le popolazioni ad essi soggette.
Il programma di Wilson, incentrato sul rispetto delle nazionalità e sul
diritto dei popoli all’autodeterminazione, richiedeva tra l’altro la libertà
dei mari e la riduzione degli armamenti e, nell’ultimo punto, prefigurava
/ 47
la costituzione di un organismo, la Società delle Nazioni, che avrebbe
dovuto dirimere le controversie internazionali. In Italia alcuni punti del
messaggio di Wilson suscitarono delle apprensioni in quanto al punto
9 era espressamente dichiarato che “la sistemazione delle frontiere
dell’Italia dovrà essere effettuata secondo le linee di nazionalità chiaramente riconoscibili”; mentre al punto 10 veniva data garanzia ai popoli dell’Austria-Ungheria “il cui posto desideriamo vedere tutelato e
garantito tra le Nazioni”. Tali affermazioni contrastavano in parte con
le richieste italiane sottoscritte nel Patto di Londra e le nuove frontiere
europee, a guerra conclusa, avrebbero potuto essere tracciate “secondo le linee di nazionalità” .
Il ritiro della Russia. L’ulteriore evento epocale che segnò le sorti della
guerra fu lo sconvolgimento della società russa col crollo dell’impero
zarista. Nicola II reggeva le sorti dell’impero dal 1894 e aveva ereditato
un governo autocratico, concentrato quasi esclusivamente nelle sue
mani e privo di controllo parlamentare, mentre la struttura dello Stato
era rimasta immutata dai tempi di Pietro il Grande. Una rigida e cristallizzata burocrazia statale permetteva il controllo e la repressione delle
rivolte agrarie come anche delle sommosse provocate dalle nuove forze
politiche. Nel 1898 era stato fondato in Russia il Partito socialdemocratico, di estrazione marxista, il quale pochi anni dopo, nel 1903, si scisse
in due correnti. Alla prima, quella bolscevica (maggioritaria), apparteneva vladimir Il’ic Ulianov, più conosciuto con lo pseudonimo di Nicolaj
Lenin, che sosteneva la fondazione di un partito di militanti ai quali sarebbe spettata la guida delle masse popolari attraverso una organizzazione centralizzata che avrebbe condotto alla caduta dell’impero grazie
all’opera del ceto operaio.
La seconda corrente, menscevica (minoritaria), prefigurava un partito
di massa che avrebbe potuto dare maggiori garanzie di partecipazione
alla base popolare del grande Paese, in una repubblica democratica e
costituzionale, mentre per i bolscevichi bisognava realizzare una dittatura del proletariato. Sarebbe stata la guerra a mettere in crisi tutto il
sistema russo e permettere ai bolscevichi di rovesciare le istituzioni
giungendo al potere. La gran massa di soldati, composta in maggior
parte da contadini, privi di equipaggiamento e anche di armamentario,
fu inviata ad affrontare il nemico con attacchi frontali che causarono la
perdita di circa due milioni e trecentomila soldati. Già dopo i primi mesi
di guerra nell’esercito russo si erano moltiplicati i fenomeni di diserzio-
48 |
In trincea per la pace
ne, mentre diventavano ardue e insostenibili le condizioni del proletariato urbano. I primi scioperi si ebbero nel febbraio del 1917 a Pietrogrado, accompagnati da cortei organizzati dai socialisti bolscevichi. Il
drammatico e improvviso rivolgimento degli eventi avvenne quando lo
zar diede ordine di porre termine alle manifestazioni e l’uccisione di 40
manifestanti causò la rivolta dei militari che fraternizzarono con i ribelli
e gli operai. Nella mattina del 12 marzo 1917 un lungo corteo di rivoltosi
riuscì ad entrare nel Palazzo d’Inverno, simbolo del potere del governo,
ed issarvi una bandiera rossa, sancendo con questo gesto la fine del potere imperiale. Lo zar Nicola II abdicò e fu costituito un governo provvisorio, che non riuscì a corrispondere alle attese del popolo russo mostrandosi incapace anche di gestire l’ordine pubblico, mentre accanto
alla Duma assumevano sempre maggior potere i Soviet (consigli di operai, soldati e contadini) che rappresentavano una specie di “governo popolare diretto”. Il governo provvisorio non riuscì a rispondere alle attese
della popolazione che chiedeva l’uscita dalla guerra e la riforma agraria
e così alla rivoluzione di febbraio seguì quella di ottobre con l’insediamento di un governo rivoluzionario dominato da Lenin il quale riuscì a
portare il Paese fuori dalla guerra stipulando nel marzo 1918 il Trattato
di Brest – Litovsk. Con questo i russi dovettero abbandonare la Polonia,
la Lituania, l’Estonia e la Finlandia, liberando così tutto il territorio occupato tra il Baltico e l’Ucraina, e quest’ultima fu costituita in repubblica
indipendente sotto il controllo tedesco.
L’abbandono della Russia rappresentò un colpo durissimo per le potenze dell’Intesa sia sul piano militare che su quello politico. In Italia si ebbero diversi moti di rivolta guidati dagli operai, mentre in Francia si verificarono ammutinamenti nelle truppe, e pure Berlino dovette affrontare una serie di scioperi e manifestazioni.
Anche in Inghilterra, nel 1917, si diffuse il malcontento per la guerra in
corso mentre gli obiettori di coscienza subivano controlli e restrizioni,
e lo stesso filosofo Bertrand Russel venne arrestato con l’accusa di propaganda pacifista e allontanato dalla sua cattedra presso il Trinity College di Oxford.
Più lenti si manifestarono invece gli effetti positivi dell’entrata in guerra
degli Stati Uniti per la Triplice Intesa e, tra la fine del 1917 e l’inizio del
1918, proprio a seguito dell’abbandono della Russia, si verificarono gli
eventi più sfavorevoli per le potenze occidentali: esse subirono dure
sconfitte inflitte dagli imperi centrali sia sul fronte italiano, a Caporetto,
che su quello francese con la riconquista del confine della Marna.
/ 49
La disfatta di Caporetto. La disfatta dell’esercito italiano, avvenuta a
Caporetto il 24 ottobre 1917, fu determinata anche all’aumentato contingente delle truppe austro-tedesche ritirate dal fronte orientale. Gli
eserciti degli imperi centrali riuscirono ad operare uno sfondamento
delle linee italiane nel piccolo villaggio di Caporetto, posto alle pendici
del Monte Nero, sul confine sloveno, penetrando nelle valli fino ad aggirare le posizioni delle truppe italiane che si mossero in ritirata sino a
raggiungere la linea del Piave.
Dopo la disfatta di Caporetto, e ancora nell’immediato dopoguerra, la
causa principale della sconfitta italiana fu individuata nel cedimento
morale dei combattenti. Lo stesso Cadorna attribuì subito la responsabilità della rotta dell’esercito alla propaganda contraria alla guerra, definita allora “disfattista”. In realtà, come è stato documentato dalla
maggior parte della storiografia, la sconfitta di Caporetto fu determinata da ragioni principalmente militari.
Le truppe erano molto provate e affaticate dalla lunga permanenza nelle trincee e a causa delle battaglie sanguinose che erano state impegnate a combattere. Ma lo stato d’animo dei soldati, stanchi e provati,
era noto ai comandi dei corpi d’armata. La classe militare addusse allora
come motivo della sconfitta dapprima la viltà dei soldati e in seguito il
sentimento disfattista ormai diffuso nel Paese, che aveva contagiato
anche i combattenti al fronte. Il desiderio di pace delle truppe in ritirata
si era espresso anche con delle insolite esclamazioni, come “W il Papa”,
(autore qualche mese prima della Nota di pace) e “W Giolitti”, (da sempre sostenitore della neutralità). Un iniziale comunicato di Cadorna parlava di “mancata resistenza dei reparti, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico”. Anche in seguito lo stesso
comandante avrebbe ripetuto che “l’esercito cede, vinto non dal nemico esterno, ma dal nemico interno”.
Con tali espressioni Cadorna intendeva imputare il disastro militare alla
debolezza morale e politica dell’intera nazione. Ma che vi fossero stati
gravi errori militari lo ritenevano anche i comandi delle potenze alleate,
che comunicarono al capo del governo italiano la loro sfiducia nel Comando italiano. Il primo ministro inglese Lloyd George chiese ufficialmente il siluramento di Cadorna e dell’intero Stato maggiore, ritenuto
colpevole per lo sbandamento dell’esercito italiano avvenuto “non per
difetto di valore - si riteneva - ma soltanto perché dal loro Comando furono poste condizioni insostenibili”. Anche nell’opinione pubblica italiana si venne formando l’idea che all’origine della sconfitta di Caporet-
50 |
In trincea per la pace
to vi fossero stati gravi errori militari e così fu creata una commissione
d’inchiesta per chiarire le responsabilità tra gli altri anche di Cadorna e
di Pietro Badoglio, allora comandante del corpo d’armata che subì lo
sfondamento di Caporetto. L’inchiesta portò a conclusioni ambigue perché, pur mettendo in evidenza gli errori strategici compiuti, non si vollero lanciare precisi atti d’accusa, lasciando spazio a nuove polemiche.
Negli anni successivi, durante il regime fascista, sembrò più utile alla
propaganda governativa addossare le colpe di Caporetto all’azione degli avversari politici (cattolici, giolittiani, socialisti), rivalutando l’operato
dei comandi militari, tanto che Badoglio e Cadorna saranno promossi
eroi nazionali per meriti fascisti.
Nei giorni precedenti l’attacco delle truppe austro-tedesche Cadorna
si era pure accertato dello stato morale delle truppe mandando uomini
di fiducia a visitare i vari reparti. I rapporti pervenuti erano improntati
all’ottimismo. Si può infatti leggere in alcune di queste relazioni riguardanti le truppe coinvolte nella disfatta come Badoglio si ritenesse “soddisfatto dello stato morale delle truppe”; e ancora come “nei soldati
l’idea che avrebbero avuto di fronte i germanici pareva avesse rianimato
il loro spirito combattivo”. Con queste valutazioni i comandanti militari
pensavano di presentare un quadro positivo dei propri reparti.
Si sapeva che anche i soldati austriaci erano stanchi e stremati ancor
più degli italiani e, alla vigilia della battaglia di Caporetto, nell’ottobre
del 1917, tutto l’esercito, da Cadorna ai fanti, era convinto che non sarebbe successo più niente di militarmente rilevante fino alla primavera
successiva. Infatti, generalmente, al termine dell’autunno, la guerra subiva un rallentamento, fin quasi a fermarsi, per poi riprendere con lo
sciogliersi delle nevi a primavera.
A molti contingenti di truppe era già stata concessa la licenza invernale
e il 20 ottobre circa 120mila militari si trovavano in licenza; soprattutto
le Brigate Enna e Caltanissetta del Iv corpo d’armata che controllavano
la zona del fronte dal quale passarono gli austro tedeschi erano in quei
giorni “depauperate numericamente in misura anormale”, perché il comando supremo aveva dato ordine di inviare in licenza molti militari siciliani. L’offensiva del 24 ottobre quindi non era attesa dai comandi italiani e questo spiega i numerosi errori che permisero alle truppe austrotedesche di sfondare il fronte e costringere gli italiani alla ritirata. Eppure erano giunte sia a Cadorna che al presidente del consiglio vittorio
Emanuele Orlando, che era succeduto all’ottuagenario Boselli, notizie
precise e dettagliate, da parte del servizio informazioni e dai prigionieri
/ 51
austriaci, di un prossimo attacco nemico sul fronte dell’Isonzo. Alle 2 e
30 del mattino del 24 ottobre 1917 l’artiglieria austro-tedesca avviò un
fuoco intenso contro le posizioni italiane utilizzando numerose granate
a gas. L’artiglieria italiana, colta di sorpresa, rispose in modo fiacco e
sporadico. Ciò dipendeva dalla poca chiarezza e dal sovrapporsi degli
ordini dati dal comando militare e, per quanto riguarda il XXvII corpo
d’armata, dalle disposizioni date da Badoglio all’artiglieria di attendere
un suo ordine prima di rispondere al fuoco.
L’ordine però non poteva più essere trasmesso a causa dell’interruzione
delle linee telefoniche causate dal fuoco nemico e per la nebbia che rese impossibili anche le comunicazioni con segnali ottici. Le penetrazioni
nemiche avvenute nel fondovalle, proprio a causa della fitta nebbia,
non furono avvistate in tempo. La velocità dell’attacco austro-tedesco
e il fatto che molti reparti italiani rimasero isolati rallentarono molto le
comunicazioni, facendo giungere le notizie al comando supremo con
notevole ritardo, con errori e imprecisioni. Solo nella notte del 27 ottobre Cadorna ordinò la ritirata generale della II e III armata fino alle
sponde del Tagliamento, mentre comunicò alla Iv armata schierata in
Cadore di tenersi pronta ad una ulteriore ritirata sul Monte Grappa.
Nel pomeriggio del 17 ottobre gli austriaci occuparono Cividale del
Friuli e il Comando supremo italiano lasciava il quartier generale di Udine per rifugiarsi a Padova, mentre Cadorna e i suoi collaboratori si fermarono a Treviso. Nella notte tra il 2 e il 3 novembre gli austriaci riuscirono a passare il Tagliamento, sul ponte di Cornino non fatto saltare
dagli italiani e da Cadorna giunse l’ordine a tutte le truppe di ritirarsi
sulla linea del Piave - Monte Grappa- Altipiani.
La mancata resistenza italiana si dovette alla sorpresa e alla conduzione
dell’attacco nemico compiuto con l’uso di gas venefici piuttosto che
con armi da fuoco. Le truppe austro-germaniche, incoraggiate dal successo dell’attacco, superiore alle loro stesse aspettative, dilagarono,
imperversando sino a costringere l’intero contingente italiano ad una
ritirata che assunse presto l’aspetto di una fuga disordinata. Infatti
l’esercito italiano andò retrocedendo dalla linea dell’Isonzo, fino al Tagliamento, per giungere infine sulla linea del Piave, quindi per oltre 140
km, lasciando nelle mani dei nemici circa 300 mila prigionieri, 3136 cannoni, 300 mila fucili e enormi quantità di munizioni e viveri. vi furono
circa 40mila tra morti e feriti, gli sbandati furono 350 mila, i profughi
oltre 400 mila mentre l’intero Friuli fu perduto.
52 |
In trincea per la pace
TESTIMONIANZA
DI UN REDUCE DI CAPORETTO
Le pagine di questa storia restarono per sempre vive immagini per l’ultimo
combattente italiano della Prima guerra mondiale, l’ ultimo cavaliere di
Vittorio Veneto, la cui vita si è stesa su tre secoli. Èstato anche il più anziano bersagliere d’Italia Delfino Borroni, classe 1898, la penultima chiamata alle armi nel 1917, l’anno di Caporetto e della disfatta dell’esercito
italiano. Il bersagliere Borroni, scomparso a 110 anni, nell’ ottobre del
2008, si trovava proprio a Caporetto, nei giorni della battaglia decisiva del
24 ottobre 1917. Novanta anni dopo quell’evento, nel novembre del 2007,
ho incontrato l’anziano reduce, l’unica persona al mondo che ancora poteva raccontare quelle giornate e ripercorrere con la memoria quella che
per me è storia e per lui è vita. Mentre parliamo mi stringe forte la mano,
come se volesse accompagnarmi in quel mondo che è ancora vivo nei suoi
occhi spenti, ormai quasi ciechi. La memoria è lucida, la voce chiara, qualche volta rotta dal pianto, il tempo dei verbi è spesso al presente. Parlare
della sua guerra per lui significa riviverla, evocare volti, nomi, persone che
non ci sono più, richiamare tutto in vita, trasmetterne il ricordo in modo
che il tempo non se li porti via definitivamente. Il cavalier Delfino Borroni,
mi conduce in un passato che per lui resta sempre presente e, per una mattina, tutto sembra rivivere. Partiamo da lontano, da quei primi anni del
Novecento in cui a scuola i maestri insegnavano ai bambini ad amare il
proprio Paese, così faticosamente riunito. Con le parole di Borroni, anche
l’imperatore Francesco Giuseppe esce dai libri di storia e ritorna ed essere
“il nostro nemico”.
“A scuola ed a casa si parlava spesso della guerra del ’59 - mi racconta Delfino Borroni e, poiché stiamo parlando del 1859 e della seconda guerra
d’indipendenza, intravedo in quel momento davanti a me scorci di un mondo ancora più lontano- Mio padre e il mio maestro avevano combattuto
contro gli austriaci e, quando andarono via, gli austriaci saccheggiarono
tutto. Io sono nato vicino Magenta e Solferino, i posti delle battaglie che
abbiamo vinto contro di loro e noi bambini siamo cresciuti con la paura che
gli austriaci potessero tornare a riprendersi le nostre terre”. Nelle parole
di Delfino lo spirito del Risorgimento non é più retorica, ma ritorna realtà.
“Molti dei miei amici- continua Borroni- si arruolarono subito, nel 1915, all’inizio della guerra. Erano i più colti, quelli che avevano continuato gli studi, che volevano andare volontari a combattere. Bisognava riprendere
quello che era nostro, si andava a combattere per Trieste e per Trento. Solo
così gli austriaci sarebbero andati via per sempre dalla nostra terra”.
Delfino Borroni non era un volontario. Ma quando, il 7 gennaio del 1917
venne chiamato alle armi, “quattordicesimo reggimento della IV Brigata
Bersaglieri”- precisa lui con immutato orgoglio- partì per il fronte perché
/ 53
“era un dovere di tutti difendere la Patria”. Dopo i primi mesi, tra la primavera e l’autunno del 1917, trascorsi in Veneto e in Trentino, sull’altopiano di Asiago, sul Pasubio, sul Monte Maio e sul Cismon, il 20 di ottobre
“in tradotta siamo andati in Friuli, a Cividale,- continua Delfino, con una
precisione che lascia stupiti- e qui, il 21, abbiamo fatto rifornimento di
munizioni e di viveri. Ci hanno dato quattro gallette e due scatolette di
carne, dicendoci di tenerle da parte perché non sapevano se e quando ce
ne avrebbero potute dare altre. Il 23 ottobre ci mettiamo in marcia in direzione di un posto che si chiamava Caporetto”. Caporetto, quel piccolo
villaggio sconosciuto, sulla riva dell’ Isonzo, che tanto avrebbe pesato sul
destino dell’Italia. “Arriviamo la sera del 23, che freddo che c’è, un freddo
cane e si scatena anche una tormenta, abbiamo in faccia acqua gelata, vento freddo e siamo fradici, - mi dice Delfino e, mentre parla, lui sembra essere ancora lì, in quel momento i suoi occhi ciechi stanno tornando a vedere quel campo di battaglia. “Noi bersaglieri arriviamo nella notte tra il
23 e il 24 ottobre sulla posizione che dobbiamo difendere, la sella di Luico,
che domina l’Isonzo, sotto di noi vediamo Caporetto e davanti a noi si staglia il Monte Nero.” Il Monte Nero è un altro luogo simbolo di questa guerra, conquistato dagli alpini nel giugno del 1915, come narra un vecchio canto, ormai quasi dimenticato, quando “spunta l’alba del 16 giugno, comincia
il fuoco l’artiglieria, il terzo alpini è sulla via, Monte Nero a conquistar”.
Anche i canti raccontano un’epoca. “Una volta- mi dice Delfino- quando
succedeva un grande avvenimento, bello o brutto che era, la voce della
gente ne faceva un canto e anche così si diffondevano le notizie”. Ma nelle
trincee no, lì non c’era molto tempo per cantare. “Era dura la vita delle
trincee, avevamo fame e freddo, ma almeno lì eravamo sicuri, invece andare di pattuglia era molto più rischioso e i superiori mandavano sempre
me, che ero uno dei più giovani, gli altri avevano mogli e figli.”
Il giovane Borroni fu inviato in pattuglia anche a Caporetto, mentre infuocava la battaglia, iniziata alle due di notte del 24 ottobre 1917, con l’attacco nemico, portato avanti pure con l’utilizzo di gas asfissianti. Quella
mattina “il mio sergente, Luigi Mosconi, che era di Como, mi ordina di andare fuori dalle trincee per vedere la situazione. Io gli chiedo perché manda a morire proprio me che sono il più giovane, gli altri almeno hanno vissuto vent’anni più di me, ma io non ho mai disubbidito agli ordini e sono
uscito dalla trincea in perlustrazione”. Cosa sentivano nell’animo quei soldati, paura, incoscienza, un forte senso di precarietà? Ho la possibilità di
saperlo e glielo chiedo. Lui mi risponde, semplicemente, “non c’era tempo
per avere paura, non si poteva pensare ad avere paura, avevamo tante cose da fare, anche nelle trincee, si viveva la nostra vita così, giorno dopo
giorno, nascevano forti amicizie, io ho pure insegnato ad un mio compagno
di trincea a leggere e scrivere”.
Nemmeno quel giorno a Caporetto aveva paura, mi dice con orgoglio Delfino, “mandano me ed io vado”. Mentre infuria la battaglia lui cerca di ripararsi dove capita, si fa scudo anche col corpo di due soldati tedeschi uccisi, ma le truppe nemiche sono ovunque, “io vedevo le loro sagome, che
54 |
In trincea per la pace
si alzavano e si abbassavano, vedevo le loro ombre e cercavo di avvisare i
compagni, ma non potevo urlare per non farmi sentire dai nemici”. Il giovane bersagliere allora cerca di tornare indietro ma nella fuga viene colpito al tallone, cade, si finge morto e si salva, perché gli viene risparmiata
un’altra scarica. Rotolando e zoppicando, aggrappandosi alle rocce, e respirando la polvere mossa dal fuoco incrociato, Delfino riesce a tornare
dai suoi, dove ormai era dato per morto. “Il mio sergente si è commosso
quando mi ha visto tornare, mi diceva che nessuno sarebbe riuscito a salvarsi, mi diceva che ero uno scoiattolo”. Ma la situazione stava precipitando per le truppe italiane. “Non c’erano più rinforzi, non avevamo più munizioni e davanti a noi c’erano i tedeschi pronti ad attaccarci”. Inizia così,
anche per i bersaglieri di Delfino Borroni, la ritirata. Dopo “l’onta consumata a Caporetto”, le truppe italiane, tentando qualche strenua resistenza, si dirigono, allo sbando, verso il Tagliamento, per poi retrocedere definitivamente fino al Piave.
A Cividale, Delfino viene catturato dai nemici, viene condotto prima in Austria, a piedi, e poi in Veneto, lungo le sponde del Piave a scavare trincee
per gli austriaci, per un anno. Fino al 4 novembre del 1918, quando il generale Armando Diaz, nuovo comandante supremo dell’esercito italiano,
dirama il Bollettino della Vittoria, oggi scolpito sui monumenti ai Caduti
di tutti i comuni d’Italia. “Io ero in Veneto, com’erano belle le case imbandierate, la gente usciva per le strade a festeggiare, ci abbracciava noi soldati, a Trieste quanta festa che hanno fatto ai bersaglieri”.
/ 55
La rotta dell’esercito italiano. I comandi italiani, durante le fasi della
tragica avanzata austro-tedesca persero completamente la testa. In una
relazione dell’ufficio storico dello Stato maggiore si può leggere: “Gli
stessi comandi si persero d’animo. Molti retrocedettero per sfuggire
alla prigionia o per recarsi a conferire col comando superiore (…). Troppi comandanti si ritirarono prima delle truppe”. Mentre un esperto di
vicende militari, nel 1920 scriveva: “Gli ufficiali, superiori e i generali, i
quali per primi conobbero la situazione, disponendo si automobili, si
misero senz’altro in salvamento”. Caporetto però non rappresentò solo
una sconfitta militare, ma fu “accompagnata da una sorta di sciopero,
dall’insubordinazione generalizzata, dalla diserzione in massa, da un diffuso spirito di rivolta”. Per lo scrittore Curzio Malaparte Caporetto era
stata una “rivoluzione”: “il fenomeno di Caporetto- scriveva- è schiettamente sociale. È una rivoluzione. È la rivolta di una classe, cioè della fanteria, di una mentalità, di uno stato d’animo, contro un’altra classe,
un’altra mentalità, un altro stato d’animo. È la rivolta della trincea contro gli imboscati, retoricamente patriottici e umanitari. Èuna forma di
lotta di classe”. Sulla rotta di Caporetto fiorì poi una vastissima pubblicistica accompagnata da lunghe diatribe storiografiche. Già in occasione
di altre sconfitte militari come Lissa e Custoza nel 1866 si accesero gravi
polemiche e si cercarono capri espiatori per spiegare quelle sconfitte.
Ma le dimensioni del disastro di Caporetto furono tali che, oltre allo
sgomento generalizzato, l’evento suscitò una serie crescente di interrogativi sulla coesione della nazione italiana. Cadorna inizialmente avanzò l’ipotesi di un “tradimento” da parte delle truppe che a Plezzo e Tolmino si sarebbero accordate col nemico. “Io non ero presente – dichiarò
il comandante- e non posso dire le cose come sono andate. Ma le immagino così. Non ci può essere stato un tradimento esteso; ma ci deve
essere stato qualche tradimento parziale, che ha aperto dei varchi”.
L’ipotesi di tradimento, in assenza di spiegazioni più convincenti, fu accolta da molti finché in Parlamento, il ministro della Guerra, il generale
vittorio Luigi Alfieri, dichiarò che le voci di tradimento, a suo parere,
erano infondate, nonostante il presidente Orlando continuasse a dire,
in privato, che per spiegare il disastro di Caporetto nulla poteva essere
escluso, neanche il tradimento. Fu solo in un secondo tempo che Cadorna comprese che l’ipotesi del tradimento non poteva reggere e davanti alla Commissione di inchiesta la negò con fermezza. Mentre più
forza ebbe l’ipotesi che a Caporetto i fanti avessero operato una specie
di “sciopero militare”. Quel giorno, il 24 ottobre, sulle rive dell’Isonzo
/ 57
non ci sarebbe stata una vera battaglia perché in gran parte la II armata
dell’esercito italiano, si sarebbe rifiutata di combattere, retrocedendo
e chiedendo la pace. Questa ipotesi sembrava avere più consistenza e
poteva combinarsi sia con quella di un accordo col nemico di alcune
truppe, che con ragioni propriamente militari in quanto le truppe austro-tedesche avevano conseguito il loro importante successo perché i
contingenti italiani si erano in pratica rifiutati di combattere. Entrambe
le ipotesi rifiutavano di riconoscere nel valore militare degli avversari
la principale causa della sconfitta italiana.
Il capo del governo Orlando giudicò necessario l’esonero di Cadorna il
quale, il 9 novembre del 1917, fu nominato rappresentante del nuovo
comitato interalleato di versailles e cedette il comando supremo delle
truppe ad Armando Diaz, che fino ad allora aveva comandato il XXIII
corpo della III armata, e prima era stato capo dell’ufficio operazioni del
comando supremo. Diaz venne affiancato da due sottocapi anch’essi
comandanti di corpi d’armata: il generale Gaetano Giardino, ministro
della guerra dal 1917 e il generale Pietro Badoglio. Quest’ultimo, energico e dotato di grande preparazione militare, fu giudicato adatto ad
affiancare Diaz, uomo abile e prudente, ma con minori capacità tecniche. Non si pensò in quel momento che la disfatta del fronte italiano
fosse stata causata anche dagli errori commessi da Badoglio e quando,
più tardi, la Commissione d’inchiesta accertò le responsabilità dei comandanti, quelle di Badoglio, per decisione del Capo del governo Orlando, furono tenute nascoste.
Dopo Caporetto la guerra italiana, che per quasi due anni e mezzo era
stata prevalentemente difensiva, divenne offensiva e tale rimase fino alla
battaglia di vittorio veneto. Si fece molto più uso di motivi propagandistici che vertevano sulla difesa della Patria mentre gli aiuti degli alleati,
di cui il Paese aveva avuto sempre bisogno sin dall’inizio del conflitto, diventarono più urgenti e indispensabili. L’Italia, all’avvio del 1918, si trovava in una situazione drammatica per carenza di viveri e armamenti (furono persi ingenti depositi di viveri durante l’avanzata nemica in veneto
e lo scarso raccolto del 1917 rese fondamentale l’importazione dall’America). Inoltre servivano grandi quantità di carbone, acciaio e altre materie
prime per la fabbricazione delle armi da guerra, per colmare così le perdite di munizioni subite durante la ritirata. Per tutti questi rifornimenti
l’Italia dipendeva dagli Stati Uniti d’America e dall’Inghilterra che dilazionarono i crediti per i pagamenti. L’aiuto tempestivo degli alleati fu quindi
per parecchio tempo una condizione di sopravvivenza per l’Italia.
58 |
In trincea per la pace
Le truppe italiane nonostante le difficoltà operarono una valorosa resistenza assestandosi sulle linee del Piave e del Grappa. La ritirata dell’esercito italiano dall’Isonzo al Piave si era svolta in maniera molto disordinata e caotica, causando la perdita di uomini e il disgregamento
di numerose unità. Ciò era dovuto non solo alla presenza di numerosi
sbandati, come fu detto inizialmente, ma anche a motivo della disorganizzazione dei comandi militari che invece di fare indietreggiare la maggior parte delle truppe, tentarono di frenarne la marcia. Cadorna inizialmente aveva infatti ordinato la resistenza ad oltranza e attese fino
al 27 ottobre per ordinare la ritirata fino al Tagliamento, per poi stabilire
di indietreggiare ancora fino al Piave. Gli stessi stati maggiori dell’esercito tardarono a fare eseguire gli ordini non comprendendo come dopo
aver perso così tante vite per guadagnare alcuni territori sul Carso e
sull’Isonzo, si dovesse ora cedere all’avversario l’intero Friuli e il Cadore.
Una scelta diversa era però inattuabile perché, perso lo schieramento
militare sull’Isonzo, l’esercito italiano non aveva possibilità di utilizzare
riserve che mancavano o tamponare le sempre più numerose faglie, e
non restava altra scelta che ritirarsi e resistere sulla linea del Piave.
Questa resistenza ammirevole dell’esercito italiano di fronte ad un nemico più numeroso e rinvigorito dall’importante vittoria militare consentì alla propaganda nazionalista e patriottica di fare del Piave e del
Grappa i simboli della difesa della Patria contro l’invasore.
Al 1918 risalgono anche due tra i canti più popolari della I guerra Mondiale: la “Canzone del Monte Grappa” e la “Leggenda del Piave”. La prima fu scritta di getto dal generale Emilio De Bono colpito dalla frase
“Monte Grappa tu sei la mia Patria”, scritta da un patriota e letta sul muro di una casa occupata dagli austriaci nella val Cismon. L’altra, più celebre, che dopo la guerra venne sempre ed è tuttora suonata nelle manifestazioni di carattere militare, fu scritta da E. A. Mario, pseudonimo
di Giovanni Gaeta, nel giugno del 1918, e in ogni sua strofa sono narrati
i momenti decisivi della guerra a partire dalla silenziosa avanzata “dei
primi fanti il 24 maggio” del 1915.
La riorganizzazione dell’esercito proseguì abbastanza rapidamente: gli
sbandati di Caporetto furono raggruppati in campi di raccolta e poi nuovamente inquadrati. Le divisioni, che da 65 si erano ridotte a 38 dopo
la ritirata, erano 52 al momento della decisiva battaglia del Piave, nel
giugno 1918. Il governo diede nuovo impulso alla fabbricazione di armi
e munizioni e in tal modo vennero colmate le perdite subite. Anche
l’aviazione subì un notevole sviluppo passando da 140 a 600 apparecchi.
/ 59
Fu incrementata la propaganda tra le truppe, prima molto trascurata,
e furono migliorate le condizioni materiali dei soldati. Nell’inverno e
nella primavera del 1918 furono stampati numerosi periodici dedicati
ai soldati, come “La Trincea”, “L’Astico”, “La tradotta” e vennero organizzati Uffici di propaganda guidati da intellettuali interventisti che
spesso erano ufficiali di complemento. venne inoltre organizzata una
propaganda contro il nemico, prima inesistente. Ai soldati furono aumentate le razioni di viveri e concessa una seconda licenza annuale di
10 giorni, oltre a quella già esistente di 15 giorni. Ad essi però non venne aumentata la paga e invariato restò anche il sussidio dei richiamati,
ma per iniziativa del Ministro del Tesoro, Francesco Saverio Nitti, fu istituita una polizza gratuita di assicurazione di 500 lire per tutti i soldati.
Il 1 novembre del 1917 venne costituito un ministero per l’assistenza
ai militari e le pensioni di guerra che fu affidato a Bissolati.
Tutti questi provvedimenti contribuirono a ravvivare il morale dei combattenti anche se non mutò l’atteggiamento delle grandi masse nei
confronti della guerra che veniva combattuta e tollerata più per obbedienza passiva che per convinzione politica o passione patriottica.
LA CRIsI DEGLI ImPERI CENTRALI
Una decisiva svolta per le sorti della guerra si ebbe nel 1918 e si manifestò a seguito delle crisi interne dei due grandi imperi centrali. In Germania era stato creato un “gabinetto di guerra” che ben presto divenne
il centro del potere, guidato dal generale Wilhelm Groener che ottenne
anche l’appoggio dei gruppi industriali favoriti dal proseguimento della
guerra. Nel Paese i militari stavano ormai acquisendo un potere sempre
maggiore, condizionando durata ed efficienza degli esecutivi. Ma all’interno dell’impero tedesco erano molto peggiorate le condizioni dei
contadini, ed essi trovavano rappresentanza soprattutto nel partito dei
cattolici, il Centro, guidato dal leader Matthias Erzberger, fautore di una
pace senza vincitori né vinti. Gli strati operai, anch’essi molto danneggiati dalla guerra, facevano invece riferimento al Partito socialista tedesco (SPD), alla cui sinistra si era creato un gruppo autonomo e dissenziente dalla linea ufficiale del partito, capeggiato da Rosa Luxenbourg e Karl Liebknecht, i quali avevano fondato la “Lega di Spartaco”,
molto vicina alle posizioni leniniste sul carattere imperialista della guer-
60 |
In trincea per la pace
ra in corso. Nonostante i tentativi di repressione dell’esercito molti seguaci del movimento (detti spartachisti) riuscirono a compiere una notevole propaganda antimilitarista, raccogliendo molto seguito tra gli
operai a Berlino e nelle grandi città.
Anche l’impero austro-ungarico visse una grave situazione di crisi tra il
1917 e il 1918. Dopo la morte dell’imperatore Francesco Giuseppe, che
sin dal 1848, per quasi settant’ anni, aveva retto l’impero asburgico, nel
novembre del 1916, salì al trono il nipote Carlo I. Di temperamento molto mite e profondamente religioso (sarà proclamato beato dalla Chiesa
Cattolica nel 2004), Carlo I tentò di portare avanti trattative per la pace,
anche ricorrendo alla mediazione della Santa Sede, come attesta la corrispondenza da lui intrattenuta direttamente col Papa Benedetto Xv.
Il monarca destituì il Capo di Stato Maggiore dell’esercito per bilanciare
l’equilibrio dei poteri, cercando di contenere quello militare e riconvocò
il parlamento, anche se questo divenne una semplice cassa di risonanza
delle rivendicazioni delle diverse nazionalità. Da polacchi, cechi e croati
sottoposti al dominio ungherese giungevano molte spinte centripete
e disgregatrici. Nel luglio del 1917 il governo serbo in esilio stipulò con
croati e sloveni il Patto di Corfù che prefigurava, a guerra finita, la creazione di uno stato di slavi del sud, (base della futura Jugoslavia) mentre
venne costituito un governo cecoslovacco in esilio per opera di Tomas
Masaryk ed Edvard Benes. Le potenze dell’Intesa sostenevano pienamente le rivendicazioni dei popoli slavi e pubblicamente il primo ministro francese ed il presidente Wilson incoraggiarono “le aspirazioni dei
cechi e degli jugoslavi alla libertà”.
Fu quindi infruttuoso e tardivo il tentativo di Carlo I, nell’autunno del
1918, di provare a dare all’Impero una struttura federale perché a
quell’epoca il dominio asburgico era già in piena disgregazione.
Nel giugno del 1918, l’esercito italiano ottenne una importante vittoria
militare in quella che fu ricordata come la Battaglia del solstizio o La battaglia del Piave, che inflisse agli austriaci gravissime perdite umane e militari. Di fronte alla paura di una nuova vasta penetrazione dei nemici sul
suolo italiano l’esercito si battè coraggiosamente, rinvigorito dalle nuove
leve dei ragazzi appena diciottenni del 1899, “i ragazzi del Piave”, gli ultimi chiamati a combattere e che pagarono un alto tributo di sangue. La
vittoria del Piave suscitò un grande entusiasmo generalizzato in Italia.
Il 24 ottobre il generale Diaz diede avvio ad una controffensiva che
sfondò a vittorio veneto le linee avversarie, costringendo gli austriaci
/ 61
a battersi in ritirata su tutto il fronte. La battaglia di vittorio veneto
venne esaltata da molti come la più abile impresa compiuta dagli italiani
nel corso della guerra. Per altri osservatori invece a vittorio veneto non
vi fu battaglia perché gli austro-ungarici non si batterono. Il direttore
del “Corriere della Sera”, Albertini, riconobbe come le truppe italiane
approfittarono, avvantaggiandosi, delle ribellioni e delle diserzioni
nell’esercito austriaco. La situazione delle truppe austriache, infatti, alla
vigilia della battaglia di vittorio veneto erano molto precarie e ciò rese
molto più facile il successo italiano. Lo spirito dei combattenti asburgici
era in piena crisi e in molti reparti vi furono ammutinamenti e rivolte.
Nonostante tale situazione gli austro-ungarici non rinunciarono a combattere e provarono ad opporre una valida resistenza. Ma dopo poche
ore, quando le prime linee furono travolte dall’esercito italiano, non vi
fu più battaglia e l’intero fronte cedette.
“vittorio veneto - scrisse in proposito Giuseppe Prezzolini - è una ritirata
che abbiamo disordinato e confuso; non una battaglia che abbiamo vinto. Questa è la verità che si deve dire agli italiani; la verità che gli italiani
debbono lasciarsi dire”.
Il 3 novembre vennero liberate Trento e Trieste e il 4 novembre il generale Diaz annunciò la vittoria con un Bollettino, poi ricordato come il
Bollettino della vittoria, scolpito sui monumenti costruiti in ricordo dei
caduti in tutti i paesi d’Italia, e fatto imparare a memoria a tanti scolari
italiani dell’epoca.
Così recitava il testo diramato il 4 novembre del 1918 dal generale Armando Diaz: “La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida
di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e
per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore
condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta. La gigantesca
battaglia ingaggiata il 24 dello scorso Ottobre ed alla quale prendevano
parte cinquantuna divisioni italiane, tre britanniche, due francesi, una
cecoslovacca ed un reggimento americano, contro settantatre divisioni
austroungariche, è finita. La fulminea e arditissima avanzata del XXIX
corpo d’armata su Trento, sbarrando le vie della ritirata alle armate nemiche del Trentino, travolte ad occidente dalle truppe della vII armata
e ad oriente da quelle della I, vI e Iv, ha determinato ieri lo sfacelo totale
della fronte avversaria. Dal Brenta al Torre l’irresistibile slancio della XII,
dell’vIII, della X armata e delle divisioni di cavalleria, ricaccia sempre più
indietro il nemico fuggente. Nella pianura, S.A.R. il Duca d’Aosta avanza
rapidamente alla testa della sua invitta III armata, anelante di ritornare
62 |
In trincea per la pace
vITTORIO vENETO
sCRIssE IN PROPOsITO
GIusEPPE PREZZOLINI
è uNA RITIRATA ChE AbbIAmO
DIsORDINATO E CONFusO;
NON uNA bATTAGLIA
ChE AbbIAmO vINTO.
quEsTA è LA vERITà
ChE sI DEvE DIRE AGLI ITALIANI;
LA vERITà
ChE GLI ITALIANI DEbbONO
LAsCIARsI DIRE
sulle posizioni da essa già vittoriosamente conquistate, che mai aveva
perdute. L’Esercito Austro-Ungarico è annientato: esso ha subito perdite
gravissime nell’accanita resistenza dei primi giorni e nell’inseguimento
ha perdute quantità ingentissime di materiale di ogni sorta e pressoché
per intero i suoi magazzini e i depositi. ha lasciato finora nelle nostre
mani circa trecento mila prigionieri con interi stati maggiori e non meno
di cinque mila cannoni. I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti
del mondo risalgono in disordine e senza speranza le valli, che avevano
disceso con orgogliosa sicurezza. Armando Diaz”.
Tra la fine di ottobre e il 12 novembre 1918 vennero proclamate l’indipendenza della Cecoslovacchia, della Jugoslavia, dei polacchi della Galizia e infine, dopo l’abdicazione di Carlo I, nacque la repubblica d’Austria. L’armistizio di villa Giusti, firmato dai comandi austriaci e da quelli
italiani il 3 novembre del 1918 ed entrato in vigore il giorno seguente,
segnò allo stesso tempo la sconfitta asburgica e la fine dell’Impero austro- ungarico.
/ 63
LE TRATTATIvE DI PACE
La guerra che all’inizio in molti avevano ipotizzato di breve durata e di
proporzioni limitate si era conclusa, dopo più di quattro anni, con un
bagno di sangue e con oltre dieci milioni di morti. In quegli anni di guerra, eventi imprevedibili come la caduta dell’impero asburgico, la rivoluzione bolscevica, e più in generale il tracollo del sistema di potere che
egemonizzava l’Europa, resero più difficile stabilire un durevole equilibrio. I Paesi vincitori nelle trattative di pace pretesero di imporre agli
sconfitti una “resa senza condizioni”, accrescendo in tal modo il loro desiderio di rivalsa. Per stabilire un nuovo ordine internazionale i vincitori
si richiamarono ai Quattordici punti del presidente americano Wilson,
dando prioritaria importanza ai principi di nazionalità e autodeterminazione dei popoli. In questo senso la Prima guerra mondiale poteva essere effettivamente intesa come la conclusione dei molti “risorgimenti”
che già nell’ Ottocento avevano infiammato il continente europeo.
L’interpretazione dei principi di Wilson si scontrava però con la difficoltà
di tracciare i nuovi confini europei raggruppando diversi gruppi etnici
e linguistici. Alcuni dei Quattordici punti, come quelli sulla fine della diplomazia segreta e la riduzione di tutti gli armamenti al minimo indispensabile con la soppressione delle barriere doganali, difficilmente
avrebbero potuto essere applicati in quel particolare momento storico.
Il punto 5, riguardante le questioni coloniali, si prestava invece a molte
contraddizioni poiché vi si affermava che gli interessi delle popolazioni
dovevano avere uguale peso rispetto alle richieste dei governi.
Altri princìpi erano molto difficili da applicare come quello di regolare
i nuovi confini a vantaggio delle popolazioni interessate, ma tale vantaggio veniva inevitabilmente stabilito dalle potenze vincitrici. Nel gennaio del 1919 si riunì a Parigi la Conferenza di Pace. Ad essa non furono
ammessi i rappresentanti dei paesi sconfitti, né quelli della Russia sovietica che venne isolata dagli alleati occidentali. Ciò è importante per
comprendere l’instabilità del nuovo ordine europeo e il carattere impositivo delle regole di pace. Le potenze alleate affrontarono presto le
questioni che creavano maggiori difficoltà e discordie tra le parti. vi furono contrasti tra la Francia e gli angloamericani sulle condizioni di pace
per la Germania sconfitta e altri ne sorsero tra l’Italia e gli Stati Uniti per
definire l’assetto della penisola balcanica. Si trattò in questo caso di un
contrasto difficile da risolvere che causò il ritiro della delegazione italiana, capeggiata dal presidente Orlando, dal tavolo delle trattative.
64 |
In trincea per la pace
Ma le maggiori difficoltà si presentarono nelle trattative con la Germania che prevedevano il ritorno dell’Alsazia Lorena alla Francia e la cessione di territori tedeschi al Belgio e alla Danimarca. Sul fronte orientale venne costituita la Repubblica di Polonia, sottraendo territori alla
Germania, alla Russia e all’Austria e al Paese venne dato uno sbocco sul
Baltico, il cosiddetto “corridoio di Danzica”, che separava la Prussia dal
resto dei territori tedeschi. La Germania subì anche la perdita di tutti i
territori coloniali: le colonie africane passarono sotto il controllo di inglesi, francesi e belgi. L’Italia restò esclusa anche da questa spartizione
a causa dei contrasti con gli alleati anche perché la delegazione italiana
aveva abbandonato il tavolo delle trattative, come segno di protesta.
Pesanti limitazioni vennero imposte al potere militare tedesco: per tutelare la Francia da futuri attacchi venne ridimensionato l’esercito e l’armamento tedesco e fu stabilita per quindici anni l’occupazione della
riva sinistra del Reno. Alla Francia fu inoltre concesso lo sfruttamento,
sempre per quindici anni, del bacino minerario della Saar, senza interpellare la popolazione della zona.
I Paesi vincitori imposero alla Germania il pagamento, a titolo di riparazione, dell’esorbitante somma di 123 miliardi di marchi. Fu in particolare
la questione delle riparazioni ad avvelenare il clima del dopoguerra.
L’economista inglese John Maynard Keynes, fu presente alle riunioni
parigine del Consiglio dei Quattro (Wilson, Clemenceau, Lloyd Gerorge
e Orlando) in qualità di rappresentante del Tesoro britannico. In quelle
circostanze egli criticò severamente l’esorbitanza delle somme richieste
alla Germania, in una sorta di pace molto punitiva, e ritenne eccessivo
il peso dato alle questioni dei confini. Per l’economista inglese le potenze vincitrici avrebbero ignorato le questioni connesse ad una rinascita economica dell’Europa: “È un fatto straordinario- scriveva- che il
problema fondamentale di un’Europa affamata e disintegrata davanti
ai loro stessi occhi, fu la sola questione alla quale non fu possibile interessare i Quattro”.
Con i Trattati di Saint Germain, del settembre 1919, e del Trianon, del
giugno 1920, vennero stabilite le condizioni di pace per l’Austria e l’Ungheria e si configurò un altro volto per l’Europa orientale suddivisa in
nuovi stati: la Repubblica d’Austria, molto vicina alla Germania, la Repubblica della Cecoslovacchia, che pure includeva alcuni tedeschi, il Regno d’Ungheria, il Regno di Jugoslavia e la già ricordata Repubblica polacca, mentre sul mar Baltico divennero indipendenti i territori dell’ex
impero russo della Lettonia, Lituania, Estonia e Finlandia.
/ 65
All’Italia furono concessi l’intero territorio del Trentino e dell’Alto Adige
fino al Brennero, la venezia Giulia con Trieste e l’Istria, mentre il presidente americano Wilson si oppose all’attribuzione delle terre della Dalmazia, pattuite col Trattato di Londra, ormai superato dalla nascita del
Regno di Jugoslavia. Tutto questo contribuì ad alimentare, nell’opinione pubblica italiana, il mito di una “vittoria mutilata” , che vedeva traditi
gli accordi territoriali pattuiti dall’Italia.
Col Trattato di Saint Germain quindi l’Italia definì i propri confini sul
fronte del Brennero, mentre le potenze alleate lasciarono che il governo italiano precisasse successivamente in un accordo separato i confini
sul fronte orientale col Regno degli slavi del Sud.
La questione della Dalmazia e di Fiume rimase inizialmente irrisolta e
ciò portò il vate Gabriele D’Annunzio, messosi alla guida di alcuni reparti
dell’esercito, ad occupare per sedici mesi la città di Fiume e governarla
con la Reggenza italiana del Carnaro.
Con i trattati di Neuilly e di Sèvres venne infine firmata la pace con la
Bulgaria e con la Turchia. La Bulgaria dovette cedere vasta parte dei
suoi territori alla Grecia, alla Romania e alla Jugoslavia, mentre la Turchia ebbe smembrato il territorio dell’ex impero ottomano. Fu avviata
allora la pratica dei “mandati” con i quali un territorio veniva affidato
ad una grande potenza, che esercitava un potere quasi coloniale, in attesa che si realizzassero le condizioni migliori per l’indipendenza. In tal
modo la Siria e il Libano vennero affidati alla Francia, mentre la Palestina, la Transgiordania e l’Iraq all’Inghilterra, e gli Stretti furono posti sotto controllo internazionale.
Sulle macerie della guerra sorse il primo organismo internazionale, la
Società delle Nazioni, creata nel 1919 a Ginevra ma già prefigurata da
Wilson per regolare i rapporti tra gli Stati. L’istituzione deluse ben presto le attese dei fondatori. Il nuovo organismo non prevedeva al suo interno gli Stati più importanti: mancavano infatti la Russia comunista, la
Germania sconfitta e fortemente penalizzata e anche gli Stati Uniti, dove il partito repubblicano, che aveva sconfitto Wilson, portò avanti una
politica di isolazionismo nei confronti dell’Europa. Le diplomazie francese e inglese di trovarono così a gestire la Società delle Nazioni, seguendo le vecchie logiche di potenza, anche se l’unico effettivo potere
che aveva l’organismo internazionale nei confronti degli stati indocili,
consisteva esclusivamente nel comminare sanzioni di carattere economico, che però si riveleranno di scarsa efficacia.
66 |
In trincea per la pace
I RIFLEssI DELLA GuERRA NELLA sOCIETà ITALIANA
Il ruolo delle donne. In Italia, i riflessi e le conseguenze della guerra,
che era durata oltre le più pessimistiche previsioni, ebbero carattere di
vera e propria trasformazione sociale. Nel 1914, quando scoppiò il conflitto, lo Stato italiano era ancora molto giovane, e aveva festeggiato,
solo tre anni prima, il cinquantesimo anniversario dell’Unità. La guerra
rappresentò una esperienza di libertà, responsabilità e autonomia senza
precedenti anche per le donne. Il lavoro femminile venne valorizzato notevolmente e spesso per sostituire i mariti al fronte, al loro posto di lavoro vennero chiamate le mogli, per le quali si aprirono nuove opportunità professionali ed esse ebbero l’occasione di scoprire nuovi strumenti
e nuove tecniche di lavoro. In Francia sin dall’inizio della guerra si contò
un notevole incremento delle donne medico che erano quasi un centinaio, assieme a una decina di donne avvocato che ebbero la possibilità
di patrocinare cause al Consiglio di Guerra. Anche le scuole di ingegneria
e di commercio iniziarono ad ammettere donne ai loro corsi.
La professione che maggiormente assunse carattere femminile fu quella dell’insegnante, che iniziò a godere di un migliore trattamento economico, acquisendo nuovo valore sociale. Le donne e le giovani dei ceti
medio- alti, da sempre impegnate in opere caritative, a motivo della
guerra intensificano il loro impegno superando in tal modo una rigida
chiusura sociale, e modificando anche l’abbigliamento, che per questioni di comodità e praticità, diventò più corto e meno rigido, liberando il
corpo e rendendo più liberi e sciolti i movimenti.
Molte donne, di tutte le età, furono attivamente impegnate nelle attività della Croce Rossa o in altre organizzazioni di soccorso. I servizi della
sanità militare accolsero in quegli anni decine di migliaia di volontarie,
senza contare le salariate. In Gran Bretagna alle donne venne affidata
anche la guida delle ambulanze o la direzione degli ospedali da campo.
Le strutture dello Stato. Lo Stato italiano, alla fine della Guerra, aveva
assunto un carattere più autoritario, con una prevalenza sistematica del
potere esecutivo su quello legislativo. Il Parlamento continuò le adunanze, anche se queste divennero sempre più rare. Nel giugno del 1916
il governo di Antonio Salandra aveva dovuto lasciare il posto ad un governo di unità nazionale presieduto da Paolo Boselli che nell’ottobre
del 1917, dopo Caporetto, fu sostituito da vittorio Emanuele Orlando.
In questa situazione il Parlamento italiano lavorò poco e fu quasi privato
/ 67
di ogni potere di controllo. Nelle sue memorie, in proposito osservava
Giolitti “i poteri governativi avevano di fatto soppressa l’azione del Parlamento italiano in un modo che non aveva riscontro negli altri stati alleati”. Per lo statista inoltre “ogni discussione di bilancio, ogni controllo
sulle spese dello stato erano stati soppressi” e “il Parlamento era tenuto
all’oscuro circa gli impegni finanziari”. Anche la stampa nazionale aveva
perso libertà e spesso i giornali venivano pubblicati con intere colonne
in bianco a causa della censura. Gli elementi giudicati sovversivi e disfattisti erano inviati al confino o costretti al domicilio coatto.
Se pure lo stato italiano durante e dopo la guerra divenne sempre più
autoritario, questo non contribuì a renderlo più forte, rigoroso ed efficiente e a rinsaldarne le istituzioni. La stessa struttura governativa, che
prima degli eventi bellici era ridotta a pochi ministeri, aveva dovuto essere reimprontata. Furono così creati nuovi enti e commissariati e venne fondato anche un Comitato per la mobilitazione industriale, retto
da un generale che aveva il compito di sovrintendere alla produzione
di tutti gli stabilimenti impegnati nelle forniture militari. Pure il nuovo
personale dirigente chiamato a controllare le nuove strutture era molto
eterogeneo, composto in maggior parte da uomini della vecchia burocrazia ministeriale, da militari e capitani d’industria. Lo Stato nazionale
stava quindi subendo una trasformazione in senso più autoritario ma,
allo stesso tempo, diventava maggiormente esposto alle pressioni dei
grandi gruppi privati.
Si può anche sostenere che una vera e propria opinione pubblica nazionale si formò solo con la Prima guerra mondiale, e che questa guerra
fu anche la prima grande esperienza collettiva del popolo italiano. Scriveva in proposito lo storico Procacci: “questa opinione pubblica nacque
sotto il segno di una profonda lacerazione e esasperazione: d’ora in poi
quando un contadino dovrà pensare alla «patria», il suo pensiero correrà
spontaneamente alla sola che egli ha conosciuto, quella delle stellette
e delle trincee, dei sacrifici e delle umiliazioni. Per contro, nella mente
del piccolo borghese, dell’ufficiale da complemento, il concetto di Patria sarà pure con segno inverso associato con quello di guerra: l’Italia
sarà per lui l’Italia di vittorio veneto, celebrata con tutti gli orpelli dalla
retorica dannunziana”.
La guerra aveva minato profondamente le strutture dello Stato liberale,
corrodendone il prestigio, proprio mentre al fronte e nelle trincee la
popolazione iniziava a sentirsi italiana. I ceti medi che avevano rappresentato l’ossatura dello Stato liberale subirono una decadenza. La guer-
68 |
In trincea per la pace
ra aveva infatti messo in moto nuove forze ideali e sociali. Anche il proletariato industriale aveva vissuto un processo di emancipazione dovuto
alle conseguenze della rivoluzione industriale. Un ruolo importante nel
dopoguerra ebbero i reduci ai quali i governi avevano fatto le maggiori
promesse di compensi materiali. Dopo la retorica propagandistica del
1918 essi attendevano il sorgere di una nuova società. Alle elezioni politiche del 1919 fu presentata anche una lista di ex combattenti che però raccolsero in tutta Italia risultati molto scarsi con appena due- trecentomila voti. Tuttavia molti tra loro continuarono ad esprimere in maniera disorganizzata l’aspirazione ad un mutamento dell’ordine costituito. Essi, tra il 1921 e il 1922, furono la principale forza di sostegno al
quale si appoggiò Benito Mussolini per diffondere i suoi Fasci di combattimento. Diversamente i socialisti, che sin dall’inizio avevano mantenuto posizioni neutraliste e contrarie alla guerra, non fecero alcun
tentativo di recupero dei reduci e combattenti. La guerra accelerò i
grandi mutamenti sociali in corso, favorendo il decollo economico dell’Italia ma, soprattutto dopo il triennio di guerra, si rese evidente ai
gruppi dirigenti l’importanza del ruolo assunto dalle grandi masse popolari. Ciò mise il crisi il sistema liberale perché i vecchi governanti, abituati a rapportarsi ad un numero molto modesto di cittadini elettori,
non avevano un tale legame con queste masse e non sembravano capaci di crearlo. Tra i grandi partiti di massa i socialisti non riuscirono a
stringere alleanze con altre forze politiche per poter costituire una reale alternativa di potere alle forze liberali governative, mentre i cattolici,
che nel 1919 si ritrovarono uniti nel Partito Popolare di don Luigi Sturzo,
non avevano forza e autorità per imporsi sulla scena politica, e subivano
gli effetti della non ancora risolta Questione romana.
La conclusione vittoriosa della guerra non aveva dato soluzione agli annosi problemi che la società italiana si trascinava da anni, ma anzi li aveva aumentati. Anche nel più ampio contesto europeo la guerra aveva
fatto trionfare in Europa le rivendicazioni di libertà degli stati nazionali,
ma l’idea di nazione sfociò spesso nel nazionalismo: “C’è qualcosa di veramente duro a morire nell’Europa e nel mondo - scriveva Luigi Salvatorelli nel 1922 - ed è lo spirito del nazionalismo (…) che generò la guerra, avvelenò la pace e sta devastando il mondo del dopoguerra”.
garico, tedesco e ottomano) rispose a queste dinamiche implosive. Non
tutte le aspirazioni nazionali dei popoli furono soddisfatte dall’esito della guerra e dalle trattative di pace, ma il conflitto aveva inevitabilmente
provocato il mutamento profondo di tutte le realtà politiche sociali economiche e culturali in maniera rapida e inattesa. Con la conclusione della guerra terminava anche la fine del primato dell’Europa centro-occidentale sul mondo e le nuove potenze che si affacciavano alla ribalta
mondiale (Usa, Russia e Giappone) avrebbero esercitato la loro influenza e supremazia sulle vicende mondiali, mentre sul piano delle istituzioni politiche la guerra evidenziò la fragilità e la debolezza dei sistemi
parlamentari di tipo liberale, favorendo l’organizzazione di nuove associazioni e partiti politici. Nei Paesi di solida tradizione democratica come
in Inghilterra, Francia e nei Paesi scandinavi si ebbe la mutazione dei sistemi parlamentari; in altri casi come in Italia, Germania e Austria si ebbe
il tracollo dei regimi politici.
Il 4 novembre 1921 con la maestosa cerimonia che insediò la salma del
Milita Ignoto nel complesso del vittoriano di Roma, l’Italia rese omaggio
in maniera solenne alla popolazione di combattenti che sulle trincee,
tra il 1915 e il 1918, era diventata veramente italiana. Una forte retorica
patriottica e militarista ebbe da allora molta presa su ampi strati del popolo che considerava la guerra vittoriosa come la conclusione del processo di unificazione nazionale.
“Il Carso era una prora, prora d’Italia volta all’avvenire”: con le strofe
dell’Inno al Milite Ignoto, insegnate anche nelle scuole negli anni venti,
gli italiani impararono ad onorare il Milite Ignoto, simbolo di tutti i caduti della Grande Guerra. Oggi le rocce del Carso, scavate e percorse
dalle trincee dei soldati di allora, sono il cuore di una grande Euroregione, approvata dall’Unione Europea, nella quale cooperano i governi regionali di veneto, Friuli venezia Giulia, Carinzia e Slovenia in una stessa
struttura transnazionale. Avvenimenti come questo rendono sempre
più remoto il ricordo degli odi e delle battaglie che cento anni fa insanguinarono l’Europa e che ormai sembrano definitivamente consegnate
ai libri di storia.
La prima guerra mondiale aveva impresso un nuovo corso agli avvenimenti storici, completando quei processi sociali e culturali, iniziati circa
un secolo prima e tesi ad affermare i principi di nazionalità: in questo
senso anche il crollo dei quattro imperi plurinazionali (russo, austroun-
70 |
In trincea per la pace
/ 71
FACCIO IN ARME DEI VERSI
ANTOLOGIA POETICA ITALIANA
DELLA GRANDE GuERRA
1915-1918
GIOvANNI bAssETTI
Esperto di Storia della Letteratura Italiana
beati quelli che diffondono la pace
Dio li accoglie come suoi figli. (mt 5,9)
INTRODuZIONE
Se la Basilica di Santa Maria Maggiore in Roma non accogliesse, tra le
sue inestimabili ricchezze spirituali e materiali, la statua della Madre di
Dio, titolata Regina Pacis, qualcosa d’essenziale mancherebbe. voluta
da Papa Benedetto Xv per scongiurare la Grande Guerra, l’inutile strage,
di cui quest’anno ricorre il centenario, è un segno di speranza sempre
acceso per gli uomini, che non riescono a riconoscersi e si vedono contrapposti e nemici.
Si divide l‘umanità, per l’apparente (e falsa) diversità ontologica che si
stabilisce esser tra i popoli, spesso velata da cause economiche, sociali,
religiose, etc. L’automatizzazione tecnica del fattore umano nell’ambito
delle conoscenze, operata attraverso lo sviluppo europeo della Rivoluzione industriale, ha reso questo fratricidio ancor più orribile e logicamente inspiegabile.
La Prima Guerra Mondiale s’è configurata come l’evidenziazione tragica
di questo processo secolare, ma non come il suo zenit, purtroppo.
Altri orrori, altre carneficine hanno sconvolto il mondo, tuttora lo violentano. I mass media, figli dello stesso ideale divisivo, ci rendono familiare e seriale tutto questo.
/ 73
Della guerra restano i milioni di morti, le devastazioni, la distruzione
ovunque. La morte diviene regina incontrastata.
L’Italia entrava nel conflitto il 24 maggio 1915. Le strategie militari del
passato cominciavano a rivelarsi sbagliate. I facili e rapidi successi in battaglia diventavano un’illusione. La trincea s’ergeva come funerea parola
chiave; vane attese ad attendere la fine tra il fango e la neve, oppure
assalti alla baionetta insensati, a rispettar un onore, spoglio ormai delle
sue vestigia antiche, scheletro d’ipocrisia.
Gorizia, l’Isonzo, il San Michele, il Sabotino, Caporetto, il Piave, vittorio
veneto... Geografia lapidaria e nera come una scomposta tempesta, come l’imprevista grandinata che miete d’aridità e pianto contadino le
perdute spighe, il disperso raccolto. vittorie e sconfitte si mescolavano
in un inferno di corpi strappati al sole, al bel verde d’Italia, alle famiglie
e ai cieli stellati.
La maggior parte dei soldati italiani era composta da un popolo lontano
dall’unità linguistica e quindi dalla stessa possibilità di corrispondere
pienamente. Non si parlava, insomma, la lingua patria, l’italiano. L’atavico problema di non avere una lingua comunitaria, la differenziazione
così marcata tra l’italiano scritto della bella poesia, della bella pagina, e
quello orale, non esistente nel popolo, si rifletteva sui nostri poeti combattenti. Testimoni al fronte della solitudine di una lingua, quella italiana, nata per la bellezza, per la poesia, e costretta a confrontarsi con la
sua antitesi più letale: la bruttezza della morte omicida.
Paradossalmente, la vocazione creatrice e l’affermazione della vita, elementi costitutivi della poesia italiana, si elevavano dove sembravano
bandiere definitivamente ammainate dall’orda nera dello sterminio dell’umano. Il muro alzato nei secoli tra letterati e popolo, vera matrice dei
problemi italiani, si trasfigurava in un’aquila benigna e potente, che vola
sola ma, con i suoi occhi che guardano lontano, indica la via del futuro
a tutti. Non è vuota retorica proclamare che il cuore della pace, ovvero
della vita, sia nel dettame poetico, nella bellezza palingenetica dei bei
versi che restano immortali nel tempo che passa, nel loro esplicito o implicito anelare all’Assoluto, nella ricerca della realtà, nel respingere i demoni dell‘irrealtà che nella guerra paiono prevalere attraverso la cieca
volontà del predominio dell’uomo sull’uomo.
La presente antologia poetica è stata preparata esattamente con questo specifico obiettivo didattico-estetico. Sono stati scelti i poeti, i Felici
Pochi di morantiana memoria, che hanno scelto la verità nell’inchiostro
74 |
In trincea per la pace
delle pagine; non le ridicole fanfare dei futuristi del furbo pifferaio Marinetti o le assurdità paraspirituali e opportunistiche di D’Annunzio, pur
grande e significativo poeta italiano.
Piccoli cammei identificativi e illustrativi, dell’autore e dell’opera, che non
appesantiscano la lettura dei testi, ma la meglio definiscano, sono stati
posti all’inizio di ogni selezione antologica. Le note biobibliografiche suggeriscono, a chi lo desidera, indicazioni e la possibilità d’ulteriori approfondimenti sui poeti che hanno lasciato maggior curiosità nell’animo.
La riflessione s’è concentrata sui silenzi, sulle parole spezzate, del verso
che si spezza insieme al corpo del fratello soldato che muore ammazzato “Si sta come/d‘autunno/sugli alberi/le foglie“, affresco umbratile di
nuvole nere, magistralmente descritti da Ungaretti, sforate da raggi di
luce solare, d’universale voglia di vivere, che rompe il cerchio dell’ottusa
morte, come suggerisce Umberto Saba: Faccio in arme dei versi, / per
me li ho fatti, per una gentile / donna che aspetta: guarda il mio fucile, /
non ha sparato ancora sui tedeschi.
Giovanni Bassetti, dottore in Lettere, con Franca Angelini, presso l’Università La Sapienza di Roma, si occupa prevalentemente di questioni inerenti i rapporti tra la Poesia Italiana
e il Cattolicesimo. Per questo ha fondato, in qualità di ricercatore, nel gennaio 2005, l’Istituto di Poesia Italiana & Escatologia Mariana “Associazione Poetica Albaprotosimbolica”.
Nel 2011, con la quarta di copertina firmata da Giulio Ferroni, è uscito il suo libro di Poesia
Metaferroviarie. Nel 2013 ha visto la luce il suo saggio su Elsa Morante Verso Colono. Elsa
Morante e il teatro (prefazione di Giovanni Dotoli).
/ 75
PARTE PRImA: mAssImA LuCE
L’ATAvICO PRObLEmA DI NON
AvERE uNA LINGuA COmuNITARIA,
LA DIFFERENZIAZIONE
COsì mARCATA TRA L’ITALIANO
sCRITTO DELLA bELLA POEsIA,
DELLA bELLA PAGINA,
E quELLO ORALE,
NON EsIsTENTE NEL POPOLO,
sI RIFLETTEvA suI NOsTRI POETI
COmbATTENTI.
TEsTImONI AL FRONTE
DELLA sOLITuDINE DI uNA LINGuA,
quELLA ITALIANA,
NATA PER LA bELLEZZA,
PER LA POEsIA,
E COsTRETTA A CONFRONTARsI
CON LA suA ANTITEsI PIù LETALE:
LA bRuTTEZZA
DELLA mORTE OmICIDA
76 |
In trincea per la pace
GIusEPPE uNGARETTI
IL SILENZIO DEL CIELO
Più d’ogni altro, Ungaretti è l’immagine e il simbolo del poeta soldato
italiano della Grande Guerra. I motivi dominanti su cui s’innalza la sua
ricerca poetica, e l’altezza eccezionale dei suoi versi, anche quando essi
sono solo trafitture del silenzio, come nei meditati spazi bianchi tra un
verso e l’altro, sono la solitudine dell’individuo, la riscoperta dell’umana
fraternità, l’angoscia della morte e la risposta forte di vita che a ciò fa
da contraltare. La partecipazione da soldato semplice, con tutte le angustie e le difficoltà correlate a tale condizione, permette al Nostro di
centrarsi immediatamente con gli aspetti fondamentali della condizione umana. Nelle ore drammatiche del combattimento e del sangue, la
sincerità diventa l’unica strada percorribile. Ungaretti stesso, in un’intervista, racconta questo, offrendo indicazioni illuminanti, anche per
un discorso generale e allargante sulla poesia e sulla critica: “Per essere
preciso sulla mia vocazione alla poesia, è necessario che ricordi anche
/ 77
questo: che essa mi apparve nettamente durante l’altra guerra. Ero un
soldato fra i soldati, vivevo di fronte alla morte, tutte le incrostazioni
convenzionali della civiltà mi erano bruscamente sparite di dosso, ero
rimasto un povero semplice uomo civile a contatto con la natura che
palesava con cruda brutalità il suo prevalere. Da questo attrito è nata
la mia poesia. La guerra mi fece capire inoltre che gli uomini, anche i più
insigni, anche i più potenti, non erano nulla, ch’essi erano in balìa di una
sorte che non dipendeva da loro, e che dovevo quindi sentire per essi
una solidarietà di fratello. La guerra mi ha insegnato un’altra cosa, a non
sprecare le parole. Come non essere laconici con la minaccia di morte
sospesa visibilmente sul vostro capo ad ogni attimo che passa, con il timore di non arrivare a dire ciò che urgeva dire?”1.
I FIUMI
Cotici il 16 agosto 1916
Mi tengo abbandonato
a quest’albero mutilato
abbandonato in questa dolina
che ha il languore
di un circo
prima o dopo lo spettacolo
e guardo
il passaggio quieto
delle nuvole sulla luna
Stamani mi sono disteso
in un’urna d’acqua
e come una reliquia
ho riposato
Le poesie qui proposte fanno parte delle sue opere da lui stesso raccolte sotto il titolo Vita di un uomo: L’Allegria (1931), che riunisce le due
precedenti Il porto sepolto (1916) e Allegria di naufragi (1919).
1
Da E.F. Accrocca, Ritratti su misura, Sodalizio del libro, venezia 1960.
78 |
In trincea per la pace
non mi credo
in armonia
Ma quelle occulte
mani
che m’intridono
mi regalano
la rara
felicità
ho ripassato
le epoche
della mia vita
Questi sono
i miei fiumi
L’Isonzo scorrendo
mi levigava
come un suo sasso
Questo è il Serchio
al quale hanno attinto
duemil’anni forse
di gente mia campagnola
e mio padre e mia madre
ho tirato su
le mie quattr’ossa
e me ne sono andato
come un’acrobata
sull’acqua
Questo è il Nilo
che mi ha visto
nascere e crescere
e ardere d’inconsapevolezza
nelle estese pianure
Mi sono accoccolato
vicino ai miei panni
sudici di guerra
e come un beduino
mi sono chinato a ricevere
il sole
Questa è la Senna
e in quel suo torbido
mi sono rimescolato
e mi sono conosciuto
Questo è l’Isonzo
e qui meglio
mi sono riconosciuto
una docile fibra
dell’universo
Il mio supplizio
è quando
Questi sono i miei fiumi
contati nell’Isonzo
Questa è la mia nostalgia
che in ognuno
mi traspare
ora ch’è notte
che la mia vita mi pare
una corolla
di tenebre
/ 79
FRATELLI
SONO UNA CREATURA
vANITà
vallone il 19 agosto 1917
Di che reggimento siete
fratelli?
mi riposo
come fosse la culla
di mio padre
Come questa pietra
del S.Michele
così fredda
così dura
così prosciugata
così refrattaria
così totalmente
disanimata
come questa pietra
è il mio pianto che non si vede
D’improvviso
è alto
sulle macerie
il limpido
stupore
dell’immensità
PELLEGRINAGGIO
Mariano il 15 luglio 1916
Parola tremante
nella notte
Foglia appena nata
Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli2
vEGLIA
valloncello di Cima il 5 Agosto 1916
La morte
si sconta
vivendo
E l’uomo
curvato
sull’acqua
sorpresa
dal sole
si rinviene
un’ombra
S. MARTINO DEL CARSO
Cullata e
piano
franta
Cima Quattro il 23 dicembre 1915
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
valloncello dell’Albero Isolato il 27 agosto 1916
Di queste case
non è rimasto
che qualche
brandello di muro
Di tanti
che mi corrispondevano
non è rimasto
neppure tanto
Ma nel cuore
nessuna croce manca
È il mio cuore
il paese più straziato
Questa lirica ha avuto una elaborazione complessa. La seguente è la stesura originaria: Di che
reggimento siete/fratelli? /Fratello/tremante parola/nella notte/come una fogliolina/appena nata/
/Fratelli/saluto/accorato/nell’aria spasimante/implorazione sussurrata/di soccorso/all’uomo presente
alla sua fragilità.
2
80 |
In trincea per la pace
ITALIA
Locvizza il 1° Ottobre 1916
Sono un poeta
un grido unanime
sono un grumo di sogni
Sono un frutto
d’innumerevoli contrasti d’innesti
maturato in una serra
Ma il tuo popolo è portato
dalla stessa terra
che mi porta
Italia
E in questa uniforme
di tuo soldato
valloncello dell’Albero Isolato
il 16 agosto 1916
In agguato
in questi budelli
di macerie
ore e ore
ho strascicato
la mia carcassa
usata dal fango
come una suola
o come un seme
di spinalba
Ungaretti
uomo di pena
ti basta un’illusione
per farti coraggio
Un riflettore
di là
mette un mare
nella nebbia
IMMAGINI DI GUERRA
valloncello di Cima il 6 agosto 1916
Assisto la notte violentata
L’aria è crivellata
come una trina
dalle schioppettate
degli uomini
/ 81
ritratti
nelle trincee
come le lumache nel loro guscio
Godere un solo
minuto di vita
iniziale
Mi pare
che un affannato
nugolo di scalpellini
batta il lastricato
di pietra di lava
delle mie strade
e io l’ascolti
non vedendo
in dormiveglia
Cerco un paese
Innocente
SOLDATI
Bosco di Courton, luglio 1918
Si sta come
d’autunno
sugli alberi
le foglie
GIROvAGO
Campo di Mailly, maggio 1918
In nessuna
parte
di terra
mi posso
accasare
A ogni
nuovo
clima
che incontro
mi trovo
languente
che
una volta
già gli ero stato
assuefatto
E me ne stacco sempre
straniero
Nascendo
tornando da epoche troppo
vissute
82 |
In trincea per la pace
umbERTO sAbA
IL SOLDATO INNOCENTE
Indipendente e estraneo alle maggiori correnti in cui venivano costituendosi nel corso del Novecento la cultura e la letteratura italiana, ma
non alle problematiche reali insite in esse, Umberto Saba visse in autentica totalità la sua vocazione poetica. Il suo isolamento gli permise di
comprendere con più profondità le origini e le ragioni delle sofferenze
dell’uomo. La Prima Guerra Mondiale rappresenta un momento decisivo della sua avventura esistenziale. Tracce luminose, di un’inimitabile
lucentezza, verde prato marino, le liriche inserite in quest’Antologia
creano il paradossale effetto dell’umanità di un sorriso e della leggerezza speranzosa del bene, pur nel plumbeo orizzonte della guerra, dal
Poeta risolutamente condannata.
Tutte le sue poesie sono raccolte nel Canzoniere, che ha avuto nel 1961
l’edizione più completa.
/ 83
AUTOBIOGRAFIA: 14
SOGNAvO, AL SUOL PROSTRATO…
Ritornai con la guerra fantaccino.
Fui cattivo poeta e buon soldato:
vorrei ben dirlo! Ma non pur bambino
amavo contro il vero esser lodato.
Sognavo, al suol prostrato, un bene antico.
Ero a Trieste, nella mia stanzetta.
Guardavo in alto rosea nuvoletta
veleggiar, scolorando, il ciel turchino.
Cantai di zaccaria, cantai di Nino,
e d’altri figli del popolo amato.
Ma non più dei miei giorni in sul mattino
troppo sotto alle cose son restato.
Ella in aere sfacevasi; al destino
suo m’ammonivo in una poesietta.
Quindi «Mamma - dicevo - io esco»; e in fretta
a leggerla volavo al caro amico.
A Giorgio Fano, al buon Guido voghera,
ai dolci amici di Trieste andava
l’anima da caserme e accampamenti.
«Che fai, carogna?» E mi destò una mano:
e vidi, come al cielo gli occhi apersi,
tra fumo e scoppi su noi l’aeroplano.
Dell’Europa - pensavo - ecco, è la sera;
quella che a noi fanciulli s’annunciava
per gli estremi bagliori in lei fulgenti.
vidi macerie di case in rovina,
correr soldati come in fuga spersi,
e lontano lontano la marina.
BERSAGLIO
DE PROFUNDIS
Del mare sulle iridescenti arene,
dove in trincee si ammucchiano, mi getto;
e con una repressa ansia il grilletto
premo. va la terribile frustata
Della tomba nell’ultimo refugio
talor mi penso, alla mia terra in seno.
E vedo (per non so quale pertugio)
più verde il prato, il cielo più sereno,
tutto della mia pace il giorno pieno
e una sagoma cade. Immaginata
non ho in essa una più bella che buona,
non una testa che porti corona,
non il nemico che più mai non viene.
NINO
Se qui l’occhio non falla e il colpo è certo,
egli è che nel bersaglio ognor figuro
l’orrore che i miei occhi hanno sofferto.
Tutto che di deforme hanno veduto,
di troppo ebraico, di troppo panciuto,
di troppo lamentosamente impuro.
84 |
In trincea per la pace
Quando vedo un soldato, una garretta,
un giovane soldato che con gli occhi
mi segue, e splende al sol la baionetta
vicina al volto della sentinella;
e «coscritto» gli dicono «cappella»
i compagni che fuori escono a crocchi,
a bere, a passeggiare, a fare l’amore;
stringe un’angoscia, un rimorso il mio cuore;
penso ad un altro coscritto, a te Nino
/ 85
Tibaldi, che non torni a chi t’aspetta,
che non torni da Monte Sabotino.
Ti vidi quando già verso i confini
partivano la notte i reggimenti.
Non volevi la guerra; ai tuoi vicini
di branda eri di risa e frizzi oggetto;
qua e là balzavi, facevi il capretto,
e il tuo plotone era già sull’attenti.
«Tibaldi al posto, non fare il buffone
- altri disse - o ti metto alla prigione».
Sorrise poi, ti ammonì con amore;
e sul volto ti vide ai nuovi accenti
correre quasi un virgineo rossore.
Non volevi la guerra; e, sì, l’hai fatta.
Eri un bravo, e scrivevi: «Mamma, quando
finirà questa vita disperatta?»
E scrivevi ai fratelli come a figli,
aspri rimbrotti, amorosi consigli.
«Posso non ritornare, il babbo è un santo
Per noi; vi ho dato solo che dolori;
perdonatemi, cari genitori».
E smaniavi, avevi in te un affanno:
Pensavi a quelli che han gridato tanto
«viva la guerra», e alla guerra non vanno.
«Figlio - ti dice ora tua madre in sogno,
che ad un bacio per via t’offre la buona
guancia, la vizza guancia di cotogno io t’aspetto, e tu giri per Milano»;
e nell’angoscia di quel bacio vano
sembra che per picchiarti a sé ti stringa.
Tu la guardi, e rispondi: «Podi minga.
vengo il giorno a Milano; a notte in zona
di guerra, giù in trincea devo tornare.
Per me ho finito; adesso hai tu bisogno
di pace, resti tu, mamma, a penare».
Dice il babbo, e una lacrima ha versato,
Una sola per te ch’eri il suo primo:
«È morto bene, è morto da soldato».
E Baldino, quel prode fanciullesco,
86 |
In trincea per la pace
Ch’è sempre in alto come l’uccelletto,
il tuo più caro fratello Baldino,
che un tempo, a chi di te lo richiedeva:
«È sempre in Austria, in trincea» rispondeva;
già la vita, l’oblio di te l’afferra;
dimentico di chi su tutti ha amato,
gioca alla guerra coi morti per terra.
Ecco, nell’aria è ancora primavera,
ferve nei cuori una rossa ebrietà.
volevo dirti, Nino, che una sera,
venuto a casa di laggiù in licenza,
pian piano feci, mamma tua non senta,
non senta la pedana d’un soldà;
che Picco è a Col di Lana, e per te manda
a Monte Sabotino una ghirlanda.
Addio piccolo, ai rischi eletto e al lancio
delle bombe, onde hai fatto aspra querela:
«Mamma, la base principale è il rancio».
MILANO 1917
Per ogni via un soldato - un fante - zoppo
va poggiato pian piano al suo bastone,
che nella mano libera ha un fagotto.
vITA DI GUARNIGIONE
Picco scrive del fronte:
«Molto freddo, molti soldati,
Molto rumore di cannonate».
ed io son qui, sono a Casalmaggiore,
e ci devo restare;
devo ancora pensare
alla guerra: ci penso a lungo, e dico:
Aver forse paura e non fuggire,
saper uccidere, saper morire,
/ 87
Dio sa quest’arte s’io l’apprenderò?
vigilare ora devo sul nemico
che ad Ala, a Redipuglia, a Doberdò
i miei bravi compagni han disarmato;
ne intendo i lagni, ne placo le beghe.
«Wie geth’s Ihnen, Colleghe?»
la parola così mi fu rivolta
(un poco io ne sorrisi) da una faccia
che sorrideva entro la barba folta.
No, non sono pago; no, una prova manca
alla mia vita, che non chiedon gli altri.
«Meglio che al fronte», ed ammiccano scaltri;
vita di guarnigione non li stanca,
di poco onore, di nessuna pace.
vino buono e a buon prezzo (a me dispiace),
belle ragazze, schive coi borghesi,
ma per noi militari, lungo il fiume,
o in qualunque osteria, molto cortesi;
molto invero disposte a far piacere
a Sancio Panza, che ha messo le piume
di bersagliere.
Le mie mani non sono ancora rosse
di sangue…son d’inchiostro ancora nere,
la baionetta è nel fodero ancora.
In Piazza d’Armi mi vede l’aurora,
passo al Corpo di Guardia le mie sere.
Ed altro mai. Perché mai altro fosse,
perché ucciso dal tedio io le sia reso,
dove c’è un altarino, un lume è acceso,
un’immagine c’è della Madonna,
prega per me una donna.
Quasi ogni armato ha una donna che prega;
e l’Iddio degli eserciti, il Signore,
per ogni dieci in cui l’istessa brama
discopre, e l’ansia onde soffri, nel cuore,
una ne sceglie, a lei grazia nega.
Parte allora un soldato per il fronte;
le scrive: «T’amo. Siamo già sul monte…
Abbi cura di te, non darti pena,
fa un poco come noi, pensaci appena».
88 |
In trincea per la pace
Altro un giorno le scrive, un po’ più in fretta:
«Sei troppo buona…se per caso…ascolta:
occhio ai figli; per essi hai da campare».
E «Gli austriaci perderanno le gare».
Non scrive: Desto per l’ultima volta
(stavo nella trincea ghiacciata e stretta
come tomba, sognavo la famiglia),
vidi presso la vampa alle mie ciglia,
corsi al fucile…ora, chi giace giace
chi vive si dia pace.
Faccio in arme dei versi,
per me li ho fatti, per una gentile
donna che aspetta: guarda il mio fucile,
non ha sparato ancora sui tedeschi;
ma il soldato va dove altri lo manda,
e deve il suo saluto a che comanda.
Non può dire un soldato: «Mi fa freddo
sui monti; anche il nemico è un valoroso,
(non quanto noi); ma di più su non visto
fulmina, ed io non voglio morir qui».
E nemmeno può dire: «Meglio il freddo
d’alta montagna, anche un pensiero sì,
anche un pensiero di morte, che l’ore
- lunghe a Casalmaggiore con un nemico accanto a te senz’armi,
un che t’odia, e per farsi
perdonare ti fa il saluto al modo
dei nostri. Meglio che l’aspetto tristo
di Sancio Panza; e poi con lui di guardia
montar la sera, e portar zaino il giorno,
meglio prender con voi senza ritorno
la via di Trento; oh tu che là ti struggi
d’essere a casa, e non sei meno un prode
se tanto ti lamenti, e mai non fuggi!»
Tante cose non può dirle un soldato;
le pensa, e dura al posto che gli è dato.
Ma tu, che di volermi bene dici,
se del vero mio bene il tuo cuor gode;
non ch’io viva o ch’io muoia; altro, o mia Lina,
altro chiedi per me alla Madonnina.
/ 89
vOCE DI vEDETTA MORTA
C’è un corpo in poltiglia
Con crespe di faccia, affiorante
Sul lezzo dell’aria sbranata.
Frode la terra.
Forsennato non piango:
Affar di chi può, e del fango.
Però se ritorni
Tu uomo, di guerra
A chi ignora non dire;
Non dire la cosa, ove l’uomo
E la vita s’intendono ancora.
Ma afferra la donna
Una notte, dopo un gorgo di baci,
Se tornare potrai;
Soffiale che nulla del mondo
Redimerà ciò che s’è perso
Di noi, i putrefatti di qui;
Stringile il cuore a strozzarla:
E se t’ama, lo capirai nella vita
Più tardi, o giammai.
CLEmENTE RèbORA
LE vETRATE D’ORO
Sottotenente di fanteria, nel dicembre 1915 l’esplosione ravvicinata di
un pezzo d’artiglieria gli provoca un trauma cranico e uno choc prolungato; dopo una lunga degenza viene congedato. Tale è il prezzo che
quest’anima nobile ha pagato al fronte.
Questa esperienza accelererà il viaggio mistico, vera e propria e nostalgia spirituale, che il poeta ha sempre avuto nelle sue corde versificatrici,
cosmiche liturgie, ipnotiche cadenze, quasi a segnar i passi, per nulla disperdere degli accadimenti.
Cicatrici di rara intensità, come le prose liriche, che tessono il dolore
delle battaglie con il Dio cercato, e che porteranno Rèbora a maturare
la conversione al cattolicesimo, di cui diverrà sacerdote rosminiano.
Le poesie, a cura di Gianni Mussini e vanni Scheiwiller, Garzanti, 1988, è
il testo usato come riferimento bibliografico in questa Antologia.
90 |
In trincea per la pace
CAMMINAMENTI
Piccone sordo
Morder gravame,
Fin che la notte resista:
Galeotta pista
Maciullar pietrame,
Fin che nel mondo s’insista:
Incomber teso
Che nessuno torni
Di chi fu preso,
Frana di morti
Su noi vivi ancora
Insostituibilmente nativi.
Lasciateci andare
Che il pretesto irretito
/ 91
D’orrore è finito,
Lasciateci andare
Che raso d’agonia
Non c’è più tempo,
O morderemo
Maciullerem come sia
Chiunque in agio sua persona acquista,
E ci tien sofferenza capace,
Anonima svista.
Ma questo andar non torna:
Sfasciando al cuore
Ch’era per dimore
Tornano colpi mordenti,
E in galeotta pista
A morte van camminamenti.
SENzA FANFARA
Si va per la strada profonda spastata, ingoiata. Confusion d’ordine; file
perdute: barcollii di volumi spossati ricurvi, spossati e cacciati nel buio
dal flutto dei morti che non è libero ancora, che non sarà libero mai, ma
non sa, non sapeva, e marcia e si posa e s’apposta, perché così vuole
qualcuno o qualcosa, perché si deve, si fa, non si sa - per contro un nemico, il nemico ch’è fuori, il nemico che è noi.
Si va per la strada profonda. Come grassa terra bagnata si leva ferita e
si volge rovescia, perché c’è un aràtro che vuole, perché c’è qualcun che
lo guida e i bovi li assilla: perché c’è infin dietro qualcosa che spinge chi
spinge, i bovi, l’aràtro - qualcosa che insiem si ritrova non essere altro
che i bovi e chi guida l’aràtro.
Si va per la strada profonda. Brontola brontola, ma pazienza, cannone:
il rancio per noi, noialtri per te. Tu bracca, veniamo: non si brontola più.
Noialtri veniamo.
zòccola, springa, ristride una sopravveniente ferraglia. Fatti in là, Fanteria - passa l’artiglieria! Passa, e schizza introna spurga su te. E si ride
dall’alto. Non brontola ancor come quella, ma già in qualcosa ti allena.
Fanteria smarrita, smagrita: ricopri la strada; è passata.
Ancor si ragiona nel mondo che vive?
Noialtri si va.
92 |
In trincea per la pace
vIATICO
O ferito laggiù nel valloncello,
Tanto invocasti
Se tre compagni interi
Cadder per te che quasi più non eri,
Tra melma e sangue
Tronco senza gambe
E il tuo lamento ancora,
Pietà di noi rimasti
A rantolarci e non ha fine l’ora,
Affretta l’agonia,
Tu puoi finire,
E conforto ti sia
Nella demenza che non sa impazzire,
Mentre sosta il momento,
Il sonno sul cervello,
Làsciaci in silenzio Grazie, fratello.
STRALCIO
Semicalmo imbrunire - caligine opalina in faville d’azzurro, sgocciata da
un cielo a colpi di spillo: pioggerellina. Sulla terra è già mota, e si spettra.
Frigge in sordina l’enorme fatica che lavora la rovina. Attender l’attesa.
Le batterie sono a desinare: qualche strillo per cambiare i piatti. Azienda
avviata, la guerra scientifica, coi suoi orari beneducati. Salvo nelle grandi
occasioni: allora si fa un po’ i mattacchioni.
Ragionato, bollato, controfirmato, tutto per il meglio, vicino e lontano procede, per il noto proverbio. Né i morti hanno urgenza, né i semivivi han guadagnato ad affrettare la morte - e perfino la gente, se digerisce, distratta
ha pazienza. Così, sui giornali, c’è molta forza d’animo e calma virile.
*
Così, verso l’avvento. E salvo le isteriche voglie, e gli aborti, la gravidanza
del tempo è garantita civile.
Una nascita, dopo tanto morire, gloriosa - un feto di pace da tanto amplesso uscirà. Poi se colpa è di uno e senza colpa nessuno, maschio e
/ 93
femmina, gli avversari, non saran sempre sterili; la neonata verrà. Per
questo, chi scrive e chi sa, s’ingegna al nome e al corredo secondo il credo e l’umore, verso il rischio del parto.
Ma bombe e granate, son tutte a scavare la culla, se venga mai un bel
maschiotto invece, capace alla razza; scavare, non tralasciare, fin che
nasca l’aurea età dell’oro che s’è tanto perduto.
La culla - e dal nostro lamento riceve il vagito e già l’ossatura dai morti.
vuol dire che poi si farà sgombro e pulito. E chi vivendo n’avrà più sentore?
*
A ridosso, in nicchie di fango, nei rovesci e più fondo, sotto rughe merdose,
noi altri stiamo alla lenza del caldo che non abbocca - ma le cimici nostre,
sotto la colla dei cenci sono all’esca del corpo, che ne sente la bocca.
Balbettìi tremitìi; a un guardar di spurgo è la voce, e la pasta dei morti vicina
abitua un giacere. Se anche non si spera, la cosa tuttavia si avvera; non ci si
può lagnare; se anche ci affonda, procede. Non manca nulla, non manca.
La fronte è una gronda per l’acqua, e il copricapo n’è il tetto: c’è casa.
Soltanto la vita ci manca - ma l’amarezza supina, l’ebetudine persa; la
morte ci manca - ma l’agonia che nell’assurdo mistero cinico ci avviluppa
e costringe e restringe; e se speranza ci manca, fame consola, e un orror
bruto, che disarmato tante armi ha in consegna, non per noi, non per
chi c’impegna; e se la coscienza è tranquilla in chi ci fa morire, possiamo
cader per procura, in onore di ciò ch’è nessuno di noi.
Eppure, ve’. Pensando alla gente, là dove ancora si gira, come vuole ciscuno, magari slanciato sul busto, se vuole - adesso che vengono le feste,
una strana visione a qualcosa di terso lucente infiorato c’incuora. Chi sa
mai se in ricordo dei buoi, che sparati al natale preparan tra fiori e tersezza di sfolgoranti locali: la gente a vederli si esalta. Similmente ci esalta,
e guarda questa gran festa di guerra - forse un Natale che spacca la Madre per nascere, sì grande tremendo supremo è il suo fine pei secoli.
TEMPO
Apro finestre e porte Ma nulla non esce,
Non entra nessuno:
Inerte dentro,
94 |
In trincea per la pace
Fuori l’aria è la pioggia.
Gocciole da un filo teso
Cadono tutte, a una scossa.
Apro l’anima e gli occhi Ma sguardo non esce,
Non entra pensiero:
Inerte dentro,
Fuori la vita è la morte.
Lacrime da un nervo teso
Cadono tutte, a una scossa.
Quello che fu non è più,
Ciò che verrà se n’andrà,
Ma non esce non entra
Sempre teso il presente Gocciole lacrime
a una scossa del tempo.
vANNO
Cade il tempo d’ogni stagione,
E autunno è un nome.
Salma di pioggia,
Terra, e una gora
In cateratta al fosso Il cielo addosso.
Sotto torbido pelo
La gora impigra
Dove non trascina:
Tra vermi e pesci
Alghe patetiche,
Sputi di rane
Per sinuose tane,
Tenaci ristagni
E a ritroso sgomitanti ragni
Simulano la corrente,
Ma non si danno.
/ 95
INTERmEZZO: L’ORA DEL GENIO
Minuzie le foglie
Alla rovina intanto
Perché non vuole in sé ciascuna
vanno:
Movendosi ancora
Non sembran perdute;
Riviere e piante
Non sanno fermare;
Salma di un nome,
Stagioni cadute,
E l’ora di tutte, son tante a passare;
Crollo del tempo,
Tracollo di spoglie
Ingiallisce la piena,
Anonimo gorgo
Sull’orlo, così, rigirare Inabissano al fosso.
FONTE NELLA MACERIE
Gluglù, c’era una volta, e sempre c’è, l’acqua a sgorgare - e la fontana
più. Dicitura dell’àmen sul paese che fu.
Finestre e soglie, al fossile ritrovo delle strade - ma insegne a dettar legge son rimaste; e a dritta, a mancina, scritte di di botteghe spacciano la
rovina.
Al cielo spalancata ora la chiesa - breve inferno di santi; giù dalla croce,
crocefisso Gesù.
Obelisco del caos, il campanile muto: rincorse il suo clangor nell’aria la
campana, e l’ha perduto.
Risorto il cimitero - incombe - in libertà di scheletri le tombe.
Gluglù, c’era una volta, e sempre c’è, nel forato silenzio l’acqua che va
giù: cammino ancora a chi non sa il destino - dal curvo spillo, spruzzi dan
spruzzi, cerchietti ricciuti, gocciole in gingillo, sorsate d’eco, perché? e viene e va - perché? - e sì e no - per dove è spreco non s’attinge più.
96 |
In trincea per la pace
RENATO sERRA
Pur disappartenente al canone della poesia propriamente detto, l’Esame di coscienza di un letterato di Renato Serra si staglia come uno dei
documenti più straordinari e poetici che siano mai stati composti nelle
lettere italiane. Diede un contributo decisivo e drammatico alla riflessione degli intellettuali italiani circa il dibattito irrisolto tra vita e letteratura. Il Cesenate pensò di risolverlo nella trincea, fondendosi con la
vita dei suoi commilitoni, cercando la morte per scrutare la vita, guardandola negli occhi, come gli accadde sul Monte Podgora (Gorizia) nel
1915, appena trentenne.
Al di fuori di ogni dimensione accademica, in queste pagine si respira
vivida tutta la vitalità di un giovane letterato, che usa la letteratura per
riunire cielo e terra, per riscoprire la radice reale dell’essere, per attingere alla bellezza nella visione dell’istante, poiché per Serra essa era
concettualmente invivibile e inaccessibile. L’immediatezza del suo com-
prendere e “profetizzare” ancor oggi sorprende. Un “profetizzare” che
mette in gioco innanzitutto se stesso, in quanto intellettuale occidentale educato a razionalizzare, a conquistare con l’intelletto ogni cosa,
senza posa, sovvertendo alfine l’aspirazione vera della ragione, che è
quella d’esser pronta ad esser sorpresa dall’esterna visione.
Le orme dei movimenti e dei passaggi si sono logorate nel confuso calpestìo delle strade; e intorno, nei campi, nei solchi, fra i sassi, la vita ha
continuato uguale; è pullulata dalle semenze nascoste, con la stessa
forma, con lo stesso suono di linguaggi e con gli stessi oscuri vincoli,
che fanno di tanti piccoli esseri divisi, dentro un cerchio indefinibile e
preciso, una cosa sola;
[...] Ora è certo che non può esser permesso a nessuno di prender congedo dal suo proprio angolo nel mondo di tutti i giorni; deporre sull’orlo
della strada il suo bagaglio, lavoro e abitudini, sogni e amori e vizi, via
tutt’insieme, come una cosa improvvisamente vuotata di sostanza e vincoli; scrollarci sopra la polvere del passaggio [...]
[...] È vero che questa volta un’ondata profonda pare che abbia sollevato irresistibilmente gli strati più antichi della umanità che s’accampa
nelle regioni d’Europa: non è un’avventura o un turbamento locale, ma
un movimento di popoli interi strappati dalle loro radici [...] l’Europa
non aveva più veduto questo da quasi duemila anni: erano i barbari d’allora, le masse della gente nuova, che tornavano a muoversi dai luoghi
in cui s’eran trovate ferme alla fine, quando la marea si ritirò; e in tutto
l’intervallo movimenti e sconvolgimenti parziali non le avevano più spostate in modo durevole. [...]
Che cosa è che cambierà su questa terra stanca, dopo che avrà bevuto
il sangue di tanta strage: quando i morti e i feriti, i torturati e gli abbandonati dormiranno insieme sotto le zolle, e l’erba sopra sarà tenera lucida nuova, piena di silenzio e di lusso al sole della primavera che è sempre la stessa?
Io non faccio il profeta. Guardo le cose come sono. Guardo questa terra
che porta il colore disseccato dell’inverno. Il silenzio fuma in un vapore
violetto dagli avanzi del mondo dimenticato al freddo degli spazi. Le
nuvole dormono senza moto sopra le creste dei monti accavallati e ristretti; e sotto il cielo vuoto si sente solo la stanchezza delle vecchie
strade bianche e consumate giacere in mezzo alla pianura fosca.
Non vedo le traccie degli uomini. Le case sono piccole e disperse come
macerie; un verde opaco e muto ha uguagliato i solchi e i sentieri nella
monotonia del campo: e non c’è né voce né suono se non di caligine
che cresce e di cielo che s’abbassa; le lente onde di bruma sono spente
in cenere fredda.
E la vita continua, attaccata a queste macerie, incisa in questi solchi, appiattata fra queste rughe, indistruttibile. Non si vedono gli uomini e non
si sente il loro formicolare: sono piccoli perduti nello squallore della terra:
è tanto tempo che ci sono, che oramai sono tutt’una cosa con la terra. I
secoli si sono succeduti ai secoli; e sempre questi branche di uomini sono
rimasti nelle stesse valli, fra gli stessi monti: ognuno al suo posto, con una
agitazione e un rimescolio interminabile che si è fermato sempre agli
stessi confini. Popoli razze nazioni da quasi duemila anni sono accampate
fra le pieghe di questa corsa indurita: flussi e riflussi, sovrapposizioni e
allagamenti improvvisi hanno volta sommerso i limiti, spazzate le plaghe,
sconvolto, distrutto, cambiato. Ma così poco, così brevemente.
98 |
In trincea per la pace
E alla fine tutto tornerà press’a poco al suo posto. La guerra avrà liquidato
una situazione che già esisteva, non ne avrà creata una nuova. Ci saranno
dei cambiamenti di tendenze politiche e di indirizzo morale; delle rettifiche e delle definizioni, così di confini geografici come di valori civili, che
diminuiranno, in quel che si suol chiamare l’equilibrio mondiale [...]
La storia non sarà finita con questa guerra, e neanche modificata essenzialmente; né per i vincitori né per i vinti. [...]
Certi problemi non possono rimaner legati al destino di una generazione; che può anche essere fiacca, pettegola, ottusa, cieca, vile; come
questa sembra. Ma l’Italia è un’altra cosa. E’ una realtà. [...]
Di quali problemi si può accorger l’egoismo, che è la forza sola e la ragion di essere che ha sostenuto e mantenuto attraverso il tempo, la vitalità del branco, attaccato alla sua terra, alle sue cupidigie, al suo lavoro
e al suo dolore, oggi come tremila anni fa; come sempre, fin che ci saranno viventi sotto il sole?
[...] Questa Italia esiste, vive; fa la sua strada. Se manca oggi alla chiamata, risponderà forse domani; fra cinquanta anni, fra cento; e sarà ancora in tempo. Che cosa sono gli anni a un popolo? [...] Che cosa diventano i resultati, le rivendicazioni di territori o di confini, le indennità e i
patti e la liquidazione ultima, sia pur piena e compiuta, di fronte a ciò?
Forse il beneficio della guerra, come di tutte le cose, è in se stessa: un
sacrificio che si fa, un dovere che si adempie. Si impara a soffrire, a re-
/ 99
sistere, a contentarsi di poco, a vivere più degnamente, con più seria
fraternità, con più religiosa semplicità, individui e nazioni: finché non
disimparino…
Ma del resto è una perdita cieca, un dolore, uno sperpero, una distruzione enorme e inutile. [...]
Il cuore, che s’è ribellato per un istante, torna presto alla quiete usata:
si rassegna a questa che non è maggiore né minore di tutte le altre ingiustizie, intollerabili e tollerate, del vivere. Il mondo è pieno di cose
senza compenso. Tale è la sua legge. Penso che anch’io pianto fanciullo
sulle corone antiche, sui popoli scomparsi senza colpa dalla scena del
mondo, su tutte le cose che si sono perdute e più di lor non si ragiona:
ho letto con una lacrima negli occhi fissi, i denti stretti in silenzio, la storia delle conquiste e delle distruzioni, le vittorie dei Romani e dei barbari, le guerre degli Spagnuoli e le rivolte dei villani, le guerre dei trent’anni e le guerre di religione. Ero un fanciullo solo, e non sapevo come
avrei potuto continuare a vivere. Ma ho potuto continuare. ho rinunciato a vendicare le vittime, ho dimenticato di consolare quelli che erano morti senza consolazione: ho vissuto egualmente. (ho vissuto accanto ai miei cari che sono morti. Li ho lasciati sotto terra e me ne sono andato per le strade del mondo). Posso fare così anche adesso. Questa
storia, che chiamiamo presente, non è diversa da quelle, che crediamo
di aver letto soltanto nei libri: partecipiamo all’una come alle altre con
lo stesso titolo. vicini, ma anche così lontani!
Facciano i Tedeschi e i loro amici tutto quello che vogliono e che possono. Noi abbiamo una cosa sola da offrire per compenso a tutte le ingiustizie dell’universo: ma questa ci basta, e il nostro cristianesimo, che ha
perduto tutto il Dio e tutta la speranza, non ha perduto la tristezza e il
gusto dell’eternità.
Del resto, viviamo, poiché non se ne può fare a meno, e la vita è così.
E facciamo della letteratura. Perché no? Questa letteratura, che io ho
sempre amato con tutta la trascuranza e l’ironia che è propria del mio
amore, che mi son vergognato
di prender sul serio fino al punto di aspettarne o cavarne qualche bene,
è forse, fra tante altre, una delle cose più degne. [...]
Si ha voglia di camminare, di andare. Ritrovo il contatto col mondo e
con gli altri uomini, che mi stanno dietro, che possono venire con me.
Sento il loro passo, il loro respiro confuso col mio; e la strada salda, li-
100 |
In trincea per la pace
scia, dura, che suona sotto i passi, che resiste al piede che la calca. [...]
Tanto, quello che conta non è la parola; è l’occhiata di complicità che ci
scambiamo e che ci unisce, anche su rive opposte e con animo diverso,
gente legata alla stessa sorte, che s’incontra e si riconosce. Tutte le parole son buone, quando il senso di tutte è uno solo: siamo insieme,
aspettando oggi, come saremo nell’andare, domani.
Fratelli? Sì, certo. Non importa se ce n’è dei riluttanti; infidi, tardi, cocciuti, divisi; così devono essere i fratelli in questo mondo che non è perfetto. E accanto a quello che brontola o si ritrae diffidente, ci son tutti
quelli che si aprono a un sorriso istintivo nell’incontrarmi - sorriso semplice e lieto che ha vent’anni un’altra volta sui volti cambiati, colle pieghe fisse e la barba aspra dell’uomo già logoro -; quelli che mi stendon
la mano dura con una timidezza affettuosa; quelli che posano sopra di
me i loro occhi un po’ turbati con un senso d’improvvisa fiducia, come
avendo ritrovata, nel momento dubbioso, la loro guida di ieri… Guida
da poco: ma io andavo avanti, e loro dietro. Così si farebbe ancora. L’uomo non ha bisogno di molto per sentirsi sicuro.
Purché si vada! Dietro di me son tutti fratelli, quelli che vengono, anche
se non li vedo o non li conosco bene.
Mi contento di quello che abbiamo in comune, più forte di tutte le divisioni. Mi contento della strada che dovremo fare insieme, e che ci porterà tutti egualmente: e sarà un passo, un respiro, una cadenza, un destino solo, per tutti. Dopo i primi chilometri di marcia, le differenze saranno cadute come il sudore goccia a goccia dai volti bassi giù sul terreno, fra lo strascicare dei piedi pesanti e il crescere del respiro grosso;
e poi ci sarà solo della gente stanca che si abbatte, e riprende lena, e
prosegue; senza mormorare senza entusiasmarsi; è così naturale fare
quello che bisogna. Non c’è tempo per ricordare il passato o per pensare molto, quando si è stretti gomito a gomito, e c’è tante cose da fare;
anzi una sola, fra tutti.
Andare insieme. Uno dopo l’altro per i sentieri fra i monti, che odorano
di ginestre e di menta; si sfila come formiche per la parete, e si sporge
la testa alla fine di là dal crinale, cauti, nel silenzio della mattina. O la
sera per le grandi strade soffici, che la pesta dei piedi è innumerevole
e sorda nel buio, e sopra c’è un filo di luna verdina lassù tra le piccole
bianche vergini stelle d’aprile; e quando ci si ferma, si sente sul collo il
soffio caldo della colonna che serra sotto. O le notti, di un sonno sepolto nella profondità del nero cielo agghiacciato; e poi si sente tra il sonno
/ 101
PARTE sECONDA: COmETE vERsO L’ORIZZONTE smERALDO
il pianto fosco dell’alba, sottile come l’incrinatura di un cristallo; e su,
che il giorno è già pallido. Così, marciare e fermarsi, riposare e sorgere,
faticare e tacere, insieme; file e file di uomini, che seguono la stessa
traccia, che calcano la stessa terra; cara terra, dura, solida, eterna; ferma
sotto i nostri piedi, buona per i nostri corpi. E tutto il resto che non si
dice, perché bisogna esserci e allora si sente; in un modo, che le frasi
diventano inutili.
Laggiù in città si parla forse ancora di partiti, di tendenze opposte; di
gente che non va d’accordo; di gente che avrebbe paura, che si rifiuterebbe, che verrebbe a malincuore. Può esserci anche qualcosa di vero,
finché si resta per quelle strade, fra quelle case.
Ma io vivo in un altro luogo. In quell’Italia che mi è sembrata sorda e
vuota, quando la guardavo soltanto; ma adesso sento che può esser
piena di uomini come son io, stretti dalla mia ansia e incamminati per
la mia strada, capaci di appoggiarsi l’uno all’altro, di vivere e di morire
insieme, anche senza saperne il perché: se venga l’ora.
Può darsi che non venga mai. E’ tanto che l’aspettiamo e non è mai venuta! Che cosa ho io oggi di più sicuro a cui fidarmi, all’infuori del desiderio che mi stringe sempre più forte?
Non so e non curo. Tutto il mio essere è un fremito di speranze a cui mi
abbandono senza più domandare; e so che non son solo. Tutte le inquietudini e le agitazioni e le risse e i rumori d’intorno nel loro sussurro
confuso hanno la voce della mia speranza. Quando tutto sarà mancato,
quando sarà il tempo dell’ironia e dell’umiliazione, allora ci umilieremo:
oggi è il tempo dell’angoscia e della speranza.
E questa è tutta la certezza che mi bisognava. Non mi occorrono altre
assicurazioni sopra un avvenire che non mi riguarda. Il presente mi basta; non voglio vedere né vivere al di là di questa ora di passione.
Comunque debba finire, essa è la mia; e non rinunzierò neanche a un
attimo dell’attesa, che mi appartiene.
Dirai che anche questa è letteratura?
E va bene. Non sarò io a negarlo! Perché dovrei darti un dispiacere? Io
sono contento, oggi.
102 |
In trincea per la pace
GuIDO GOZZANO
IL BIANCO SANGUE, / ChE RIGA SOTTILE
IL vOLTO DEL vENTO
Non ha ragione la critica tradizionale nel considerare Gozzano, unitamente a Corazzini, l’iniziatore della poesia cosiddetta crepuscolare. Se
così fosse, i suoi versi oggi ci sembrerebbero smorzati, destoricizzati,
conclusi nell’iter futile versificatorio, che delle volte annega nel lago
della dimenticanza. Ma i versi del romantico Guido restano.
In lui la lucida consapevolezza che l’italiano secolare della tradizione sia
ormai una lingua morta, che la lingua debba aprirsi per non rimanere
intrappolata nella sterilità espressiva. È un problema giunto alle estreme conseguenze nell’Italia del XXI secolo, e che il Poeta aveva bene intravisto. In queste due poesie, questa questione si intreccia con la tematica della prima guerra mondiale.
/ 103
Nella prima inquadrandola icasticamente nel simbolo della pace per eccellenza, la colomba, ferita a sangue, così come la poesia italiana, ferita
dall’incapacità di rendere ancora la bellezza, di essere smarrita, di cercare rifugio, come la povera colomba, in altre gabbie, in altre sedi, per
essere curata, ma disperatamente….
Nella seconda, si leva il grido cupo e canzonatorio della finta nobiltà
della guerra moderna; l’Aquila, simbolo di altezze inusitate è qui trasformata in un’Aquila di paglia, in una menzogna. Il povero ragazzo che
cerca gloria, il povero poeta che dovrebbe descriverne le gesta sublimi:
tutto diventa tremendamente tragico e ridicolo, sia sotto il profilo della
ricerca poetica, senza ormai più il respiro della freschezza e della ricerca
insite nella lingua italiana arresa ai salotti tradizionali della maniera sia
sotto il profilo storico-militare. Il povero ragazzo-soldato non possiede
più la libertà dell’aria dell’eroe antico, dell’Aquila d’oro che vola profonda; questa è un’Aquila nera e sordida, che regge le fila, tetro teatrino,
di una farsa d’orrore.
Le poesie sono contenute all’interno delle Opere, a cura di Carlo Calcaterra e Alberto Marchi, Garzanti, Milano 1948.
LA MESSAGGIERA SENzA ULIvO
È giunto alle piccionaie della Società Colombofila di Milano, un colombo
di Liegi, recante la targa ben nota. La bestiola, sfuggita certo a qualche
piccionaia distrutta, deve aver vagato di città in città, stordita dal fragore della strage e dal rombo del cannone. Ed ha percorso non meno
di duemila chilometri, prima di riparare, spennata e insanguinata, in Italia... (20 Settembre 1914 - La Donna)
Bene scegliesti l’unico rifugio
trepida messaggiera insanguinata!
(Sangue d’amico? Sangue di nemico?
Ah! Che il sangue è tutt’uno, oltre la soglia!)
104 |
In trincea per la pace
Palpiti esausta e sfuggi la carezza
e temi il rombo…È il rombo del tuo cuore.
Socchiudi gli occhi dove trema ancora
lo spaventoso tuo pellegrinare.
Ah! Sarcasmo indicibile! Tu sacra
dai tempi delle origini alla pace
la novella ci rechi - ah! Senz’ulivo! del flagello di Dio sopra la Terra.
Ma non del Dio Signore Nostro: il dio
feticcio irsuto della belva bionda:
- Rinascono le donne ed i fanciulli,
uccideremo ciò che non rinasce! E le trine di marmo, le corolle
di bronzo, gli edifici unici al mondo,
i vetri istoriati, i palinsesti
alluminati, i codici ammirandi,
ciò che un popolo mite ebbe in retaggio
dalla Fede e dall’Arte in un millennio
ritorna al nulla sotto i nuovi barbari:
non più barbari, no: ladri del mondo!
Tu non tremare, messaggiera bianca;
bene scegliesti l’unico rifugio:
la spalla manca della Bella Donna
eretta in pace nel suo bel giardino.
La riconosci? Dolce ti sorride
piegando il capo sotto la corona
turrita a vellicarti con la gota
e con l’ulivo ti ravvia le penne.
Ma tien la destra all’elsa e le pupille
chiaroveggenti fissano il destino;
non fu mai così forte e così bella
e palpitante dalla nuca al piede.
La riconosci? Non ti dico il nome
troppo già detto, sacro all’ora sacra!
Bene scegliesti l’unico rifugio,
trepida messaggiera insanguinata!
/ 105
LA BELLA PREDA
Fanciullo formidabile: soldato
dell’Alpi e tu mi chiedi
ch’io celebri il tuo gesto in versi miei!
Non trovo ritmi - oimè! - non trovo rime
così come vorrei
al tuo gesto sublime!
Ma sai tu quanto sia bello il tuo gesto,
simbolica la spoglia
dell’aquila regale che t’offerse
l’Altissimo - redento! - a guiderdone
della baldanza tua liberatrice?
La vittima che dice:
Terra d’Italia è questa!
a consenso palese
dei cieli sommi nella santa gesta?
II
Tu non sapevi. Solo con te stesso
e coi fratelli in una forza sola,
sostavi sulla gola
vertiginosa, l’anima in vedetta,
protetto dalla vetta
signoreggiata. Il cuore
batteva impaziente dell’assalto.
Il cielo era di smalto
cerulo, nel silenzio intatto come
quando non era l’uomo ed il dolore…
Era il meriggio alpino,
splendeva il sole nella valle sgombra.
In larghe rote s’annunciò dall’alto
l’olocausto divino,
la messaggiera, disegnando un’ombra.
E l’aquila regale
ecco immolasti sul granito alpino
come sull’ara sacra alla riscossa
del popolo latino.
E la tua mano rossa
fu del sangue ricchissimo aquilino.
Battezzasti così con la tua mano,
nella stretta che tutti ebbero a gara,
commentando l’augurio e la bravura,
battezzasti così con la tua mano
tutti i compagni tuoi,
dal giovinetto imperbe al capitano!
Iv
Sarcasmo inconsapevole! E tu mandi
oggi la spoglia a noi che con bell’arte
le si ridoni immagine di vita:
ma quale arte iscaltrita
può simulare l’irto palpitare
di penne e piume, il demone gagliardo
tutto rostro ed artigli e grido e sguardo
nell’ora che si scaglia?
Nessuna sorte è triste
in questi giorni rossi di battaglia:
fuorché la sorte di colui che assiste…
E - sarcasmo indicibile per noi
scelti ai congegni ed alla vettovaglia tu strappasti l’emblema degli eroi
ed a noi mandi un’aquila di paglia!…
III
Che pensasti nell’attimo? Colpisti.
Bene colpisti. Il vortice dell’ale
precipitò ventandoti sul viso.
106 |
In trincea per la pace
/ 107
E proprio il contatto coi suoi soldati, spesso gente semplice, corrisponde
a quella modalità d’onestà, che conduce al ritrovamento di alcuni valori
fondamentali dell’uomo come quelli dell’uguaglianza e della solidarietà.
Le poesie scelte provengono da Poesie e versi in prosa, a cura di P. Briganti, Einaudi, Torino 1983.
PRIMA MARCIA ALPINA
Uno per uno
bastone alla mano
e alla salita cantiamo
Se chiedi le reni rotte alla mina
se chiedi il posto della gravina
se chiedi il ginocchio piegato a salire
se chiedi l’amore pronto a patire:
son io, l’alpino, rispondiamo
e all’adunata corriamo
PIERO JAhIER
L’ONESTO UFFICIALE
Tenente degli alpini, volontario nella prima guerra mondiale. Ufficiale
devoto ai suoi soldati, guida certa, cuore impavido.
Senso morale altissimo, poesia sopraffina, nel cuore della parola, che
rende semplice anche l’inudibile, che converte al popolo anche le salite più ardue della lingua. Tutto questo è Piero Jahier, e forse non basta, a caratterizzarne la figura di uomo e poeta, non riconosciuto abbastanza nei suoi alti meriti.
In Jahier il dovere etico è straordinario e intenso, come un fuoco verde
di primavera, in giornate in cui sembra non tramontar mai il sole. La sua
esigenza di sincerità si allarga dalla propria individualità, fino a toccare
il cuore universale delle cose.
Nessuna espressione convulsa, nessun intellettualismo di maniera, nessuna immediatezza sentimentale.
108 |
In trincea per la pace
***
Ma la montagna, alpino, è franata
ma la tua tenda, alpino, è sparita;
alpino, tutta l’acqua è seccata
alpino, il vetrato gela le dita;
ma la tua penna è folgorata
ma la gran notte di nebbia è salita
*
Uno per uno
corda alla mano
dove non si passa, passiamo.
E la balma di roccia ci ricoprirà
e l’acqua di neve ci disseterà;
la penna il fulmine domesticherà
la nebbia il sole l’avvamperà
quando l’apino passerà.
/ 109
*
Uno per uno
zaino alla mano
e nei riposi ci contiamo
***
Alpino, tu sei passato
ma il compagno che manca è ferito
la mitraglia l’ha arrivato
dalla croda l’ha distaccato
nella gola l’ha tranghiottito.
*
Dove sei, compagno caro,
al paese devi tornare;
se qualcuno lo potrà rivedere
gliene chieder la tua mare.
Ma non sei stato abbandonato
ma ti veniamo a ritrovare.
Sei il nostro ferito
ti riprendiamo
al paese ti riportiamo
Tutti per uno,
mano nella mano
dove si muore, discendiamo.
***
Tutti per uno
mano alla mano
dove si muore, discendiamo.
Ma il tuo compagno, alpino, è spirato
al paese non può tornare;
ma il suo lamento è dileguato
non ti chiama più a ritrovare.
Sulla coltrice del nevato
resterà solo a riposare.
*
Dove sei, compagno caro,
se al paese non puoi tornare
110 |
In trincea per la pace
ma non sei stato abbandonato
ma ti veniamo a ritrovare.
Il viso bianco gli rasciughiamo
il corpo stronco ricomponiamo.
È il nostro morto
ce lo riprendiamo
alla patria lo riportiamo.
Uno per uno
Fucile alla mano
E lo vendichiamo.
Marzo, Sopracroda
Ai miei soldati dell’Alpago e a ogni alpino.
SILENzIO
Tutto il giorno questo scansarsi reverente,
tutto il giorno questi lunghi saluti:
tre passi prima la mano alla visiera,
quattro passi durante lo sguardo fitto in cuore.
E chi sono io, superiore?
Questi saluti chi li ha meritati?
Ma la sera, giornata finita,
traversando i cortili annerati
son io che sull’attenti, rigido,
la mano alla tesa
tutti e ciascuno
per questa notte e questa vita
vi saluto, fratelli soldati.
DOMANDA ANGOSCIOSA ChE TORNA
quando vi guardo e voi non potete sapere:
Perché alcuni son chiamati a lavorare e guadagnar sulla
guerra, e altri a morire?
/ 111
Morire non ha equivalente di sacrificio; morire è un fatto assoluto.
Se la guerra ha un valore morale: rieducare alla salute, alla
mansuetudine, alla giustizia, attraverso il passaggio nella
pena della privazione e distruzione, perché sopra tutto
debbon portarne il peso questi che erano nella privazione e
mansuetudine, e non desideravano più che la salute?
Perché facevi onestamente tanti figliuoli
nostra forza, gloria d’Italia
più di tutti ne devi sacrificare.
Perché sei sano
buon sangue che cicatrizza presto
sempre abile a risoffrire.
Perché sei povero
ora che il denaro ridicolo
non compra più nulla
che vale più solo il lavoro del povero
che la vita è sospesa tra un raccolto e l’altro
e il tuo pane scuro è diventato a tutti pane
perché, santo popolo d’Italia,
perché più di tutti devi morire?
MARE
e alla finestra mare l’à aspettato.
L’ha aspettato infino alla mattina
quando squilla la tromba repentina
e alla sua casa non può rivare.
hanno preso il suo figliolo alla mare
*
hanno preso il suo tosàt ànno preso
quel ch’era così tanto delicato
e si ritrova lontano trasportato
nel bastimento sopra l’acqua acceso.
Di giorno il bastimento gli cammina
ma nella notte è sempre arrestato
e tutte l’acque bussan per entrare
dove il suo tosàtel sta addormentato.
hanno preso il suo tosàt alla mare
*
hanno preso il suo omo ànno preso
quello che la doveva accompagnare
che avea giurato davanti all’altare
di non lasciarla sola a questo peso.
Lui coi suoi bòcia è contento di andare
non si è quasi voltato a salutare
Ma ànno preso il suo òmo alla mare.
hanno preso il suo figliolo ànno preso
quello che l’era appena rilevato
e per andà non può essere andato
che nel posto più brutto indifeso.
E per restà non può esser restato
che dove tronca la vita le granate
e quando ànno finito di troncare
scendono le valanghe a sotterrare.
E se non scrive è che vuol ritornare
e per queste notti è camminato camminato
per chiedere una muta alla sua mare.
La muta era ben provata al davanzale
112 |
In trincea per la pace
*
E la mattina si è levata a solo
e à messo tutte le sue filigrane;
à bevarato le sue armenti chiare;
à steso tutti i suoi panni a asciugare;
à agganciato il più grande suo paiolo;
à apparecchiato il più bel fuoco acceso
e dopo si è seduta al focolare.
Anche se tornano non si può alzare
hanno preso ànno preso anche la mare.
Parrocchia di Sargnano
/ 113
DIChIARAzIONE
Altri morirà per la Storia d’Italia volentieri
e forse qualcuno per risolvere in qualche modo la vita.
Ma io per far compagnia a questo popolo digiuno
che non sa perché va a morire
popolo che muore in guerra perché «mi vuol bene»
«per me» nei suoi sessanta uomini comandati
siccome è il giorno che tocca morire.
Altri morirà per le medaglie e le ovazioni
ma io per questo popolo illetterato
che non prepara guerra perché di miseria ha campato
la miseria che non fa guerre, ma semmai rivoluzioni.
Altri morirà per la sua vita
ma io per questo popolo che fa i suoi figlioli
perché sotto coperte non si conosce miseria
popolo che accende il suo fuoco solo a mattina
popolo che di osteria fa scuola
popolo non guidato, sublime materia.
Altri morirà solo, ma io sempre accompagnato:
eccomi, come davo alla ruota la mia spalla facchina
e ora, invece, la vita.
Sotto, ragazzi,
se non si muore
si riposerà, allo spedale.
Ma se si dovesse morire
basterà un giorno di sole
e tutta l’Italia ricomincia a cantare.
GIACOmO NOvENTA
& bIAGIO mARIN
TRA LE NUvOLE BIANChE, E SU,
ANCORA, E vERSO IL SOLE,
MA ANCORA, ANCORA PIù SU, SOPRA ‘L SOLE:
MARE ETERNO vERTICALE & ACQUAMARINA CON L’ALE
Noventa & Marin: due poesie sulla Prima Guerra Mondiale. Una poesia
scritta in un veneziano noventiano, l’altra in un gradese assoluto. Entrambe sembrano perdere quasi gli umani contorni, per toccare edifici
metafisici e assoluti. Eppure entrambe sanno di terra, di mare, di cose
ascoltate o dimenticate, per mancanza di silenzio.
L’una parla delle giornate quotidiane della trincea, dei discorsi comuni,
delle innocenti divagazioni del pensiero, l’altra della mano di Dio, che
toglie dalla guerra e ridà la pace, che l’uomo si toglie.
114 |
In trincea per la pace
/ 115
Perché non usare l’italiano? Perché affidarsi a lingue ardue alla comprensione? Per amore della lingua italiana e del suo popolo. Affidandosi
a lingue-dialetti così particolari, l’eco poetica della poesia italiana ritrova
la sua acqua limpida e la sua cristallina intenzione: quella di appartenere
a tutti quelli che amino il bene e la pace. La sua origine riacquista senso
e lancia occhiate d’amicizia alla possibile traduzione: c’è un riconoscimento familiare d’affetto, di vera coscienza, di cuore.
Il gradese e il veneziano noventiano sono l’italiano, ne sono l’essenza e
il primo fulgore. Le morti e il sangue della Grande Guerra ne cementano
insieme e perpetuamente un legame che va oltre la formalità delle regole e della semplice tradizione: diventa Amore.
Per Noventa il riferimento è Versi e poesie, a cura di F.Manfriani, Marsilio,
venezia 1986, per Biagio Marin le Poesie, a cura di C. Magris e E. Serra,
Garzanti, Milano 1981.
CO SE GÈRA SOLDàI…
GIACOMO NOvENTA
Co se gera soldai dentro in trincea,
O a riposo o marciando o a l’ospeal,
E i compagni più veci ne diseva,
E parlàsseli pur del so paese,
Dei campi e dei lavori lassài là,
Una storia d’amor,
Gèrimo in tanti a no’ saver ancora
Quel che fusse una dona, e se ascoltava,
Se inventàvimo un nome, e se moriva,
(Se imparava a morir…)
Sia come quei soldai che ne diseva,
E parlàsseli pur del so paese,
Dei campi e dei lavori lassài là,
Una storia d’amor.
QUAND’ERAvAMO SOLDATI
Quand’eravamo soldati in trincea,
O a riposo, o marciando verso l’ospedale
E i compagni più vecchi raccontavano,
Ci parlavano del loro paese,
Dei campi, e dei lavori là lasciati e
Di una storia d’amore,
Eravamo in tanti a non sapere ancora
Com’era una donna, ascoltavamo
Inventavamo un nome, si moriva
(S’imparava a morir…)
Oggi, leggendo come fosser qui ora
Giacomo, Francesco, Dante, e altri
Cari poeti, italiani e stranieri,
M’è sorto un pensier:
Che noi siamo come obbligati
In una Grande Guerra, e che i poeti
Sono come quei soldati che ci parlavano,
Del loro paese, dei campi e dei lavori là lasciati,
E di una storia d’Amore.3
Ancùo lesendo, come i fusse vivi,
In Giacomo, in Francesco, in Dante e in altri
Cari poeti, o nostrani o foresti,
Ma xè vignùo un pensier:
Che noialtri se sia come i coscriti
In una guera granda, e che i poeti
116 |
In trincea per la pace
3
Co se gèra soldai, di Giacomo Noventa, traduzione di Giovanni Bassetti.
/ 117
E DIO T’hA TOLTO
CANTO POPOLARE
BIAGIO MARIN
GORIZIA
E Dio t’ha tolto
dai tribuli del Carso,
dal mondo arso
dal mal sconvolto.
Per spassi iminsi
de paurusi silinsi
el t’ha portào a le nove zornàe
al sovo eterno istàe.
Là xe la pace,
ninte te tormenta,
a duto e duti tase;
la fiama xe contenta.
E DIO T’hA TOLTO
E Dio t’ha tolto
Dal dolore del Carso,
Dal mondo arso
dal male sconvolto
Per spazi immensi
di paurosi silenzi
Lui t’ha portato a nuove giornate
alla Sua eterna estate
(istante soave del silenzio)
La drammatica impresa bellica che si consumò per la presa di Gorizia, nell’agosto 1916, tra l’esercito italiano e quello austriaco, nella sesta battaglia dell’Isonzo, che portò alla conquista della città da parte delle truppe
italiane, costò ben 20.000 morti.
Un anonimo fante scrisse questo canto, che riportiamo per intero, nel suo
crudo e innegabile dettato.
Il rifiuto della guerra e la condanna dei governanti e dei capi militari che
ci guadagnano è il tema di questo canto; importante perché è il tentativo
di rendere alla Nazione una lingua comune, così oscura, così inespressa
nelle sue potenzialità popolari, che pur tuttavia son le sue sorgenti, come
Dante Alighieri ci insegna.
Personalmente ho letto Gorizia nell’Antologia delle medie, quand’ero
bambino. M’è rimasta sempre impressa, sebbene lo stile non sia quello angelico e assoluto della nostra migliore tradizione, come un semplice confronto potrà dimostrare.
M‘è sembrato quindi necessario inserire il canto doloroso dei militi verso
questa stupenda città, medaglia d’oro al valor militare, crocevia del mondo latino-slavo-germanico.
L’auspicio è che Gorizia non sia più maledetta, ma benedetta, e che sia bandiera e modello di pace, quell’AГYIAN (pace) così cercata da un grande goriziano come Carlo Michelstaedter, così difficile da comprendere e da vivere in un’Europa che soffia gelida tra i fiumi e le valli, e che Gorizia anche
oggi sente.
Là è la pace,
Niente ti tormenta,
Tutto tace;
La fiamma è contenta4
4
E Dio t’ha tolto, di Biagio Marin, traduzione di Giovanni Bassetti.
118 |
In trincea per la pace
/ 119
GORIZIA
NOTE BIOBIBLIOGRAFICHE
La mattina del cinque d’agosto
Si muovevano le truppe italiane
Per Gorizia e le terre lontane
E dolente ognun si partì.
Sotto l’acqua che cadeva al rovescio
Grandinavano le palle nemiche
Su quei monti, colline e gran valli
Si moriva dicendo così
O Gorizia tu sei maledetta
Per ogni cuore che sente coscienza
Dolorosa ci fu la partenza
E il ritorno per molti non fu.
O vigliacchi che voi ve ne state
Con le mogli sui letti di lana
Schernitori di noi carne umana
Questa guerra ci insegna a punir
Voi chiamate il campo d’onore
Questa terra di là dei confini,
Qui si muore gridando assassini
Maledetti sarete un dì
Cara moglie che tu non mi senti
Raccomando ai compagni vicini
Di tenermi da conto i bambini
Che io muoio col suo nome nel cuor
O Gorizia tu sei maledetta
Per ogni cuore che sente coscienza
Dolorosa ci fu la partenza
E il ritorno per molti non fu.
Giuseppe ungaretti (1888-1970). Poeta. È considerato uno dei massimi poeti
italiani del Novecento. Dopo un’infanzia trascorsa in Africa, presso Alessandria
d’Egitto, frequentò nel 1912 a Parigi i maggiori letterati del tempo. Prese parte
come volontario alla prima guerra mondiale, combattendo sul Carso e poi in
Champagne. Le sue prime poesie apparvero nella rivista Lacerba nel 1915. Considerato il massimo esponente dell’ermetismo, nel dopoguerra collaborò alla
Ronda e fu corrispondente e giornalisti in vari paesi. Nel 1936 si trasferì in Brasile, chiamato ad insegnare lingua e letteratura italiana all’Università di San Paolo (qui gli morì, nel 1939, il figlio Antonietto). Rientrò in Italia nel 1942 per ricoprire la cattedra di letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università
La Sapienza di Roma. Morì a Milano. L’opera poetica completa è raccolta in Vita
d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di L.Piccioni, Mondadori, Milano 1969. Le principali edizioni sono: Il porto sepolto, Stabilimento tipografico friulano, Udine
1916; Allegria di naufragi, vallecchi, Firenze 1919; La guerre, ètablissement Lux,
Parigi 1919 (ristampata come Dernièrs Jours 1919, Garzanti, Milano 1947); L’Allegria, Preda, Milano 1931 (de L’Allegria si veda ora l’ed. critica, a cura di C.Maggi
Romano, Fondazione Alberto e Arnaldo Mondadori, Milano 1982; E. Chierici e
A. Paradisi hanno curato le Concordanze dell’ «Allegria» di G.Ungaretti, Bulzoni,
Roma 1977); Sentimento del tempo, vallecchi, Firenze 1933 e Novissima, Roma
1933); Poesie disperse, a cura di G. De Robertis, Mondadori, Milano 1945 (contiene le poesie non contenute in Allegria e Sentimento del tempo); Il dolore, ivi
1947; La terra promessa, ivi 1950; Un grido e paesaggi, ivi 1954 (prima ed.
Schwarz, Milano 1952); Il taccuino del vecchio, ivi 1960; Morte delle stagioni, Fògola, Torino, 1967; Dialogo, ivi 1968 (queste ultime due, edizioni rarissime).
Prose: Il deserto e dopo, Mondadori, Milano 1961; Saggi e interventi, a cura di M.
Diacono e L.Rebay, ivi 1974; Invenzione della poesia moderna. Lezioni brasiliane
di letteratura (1937-1942), a cura di P. Montefoschi, Edizioni Scientifiche Italiane,
Napoli 1984. Importanti sono anche le traduzioni, dall’Odissea, da Gongora,
Shakespeare, Mallarmé. Da ricordare la traduzione de Il matrimonio del cielo e
dell’inferno di William Blake.
umberto saba (1883-1957). Poeta. Triestino, di madre ebrea abbandonata dal
marito prima della nascita di Umberto, che rifiutò di prendere il cognome del
120 |
In trincea per la pace
/ 121
padre (Poli), assumendo uno pseudonimo, Saba, tributo alla sua nutrice, Peppa
Sabaz. Senza concludere gli studi, lavorò come praticante in una casa di commercio triestina e come mozzo su una nave mercantile. Nel 1911 si sposa con
la sua Lina. Dopo la Grande Guerra, acquistò a Trieste la Libreria Antiquaria,
avamposto per poter coltivare la sua arte poetica e il lavoro quotidiano per vivere. Durante la seconda guerra mondiale, a causa delle leggi razziali fasciste,
fu costretto ad abbandonare Trieste e a nascondersi a Firenze. Nel dopoguerra,
visse, per vari periodi, anche a Roma e a Milano, ritirandosi poi per sempre a vivere a Trieste. Morì in una clinica a Gorizia. È opportuno sempre rimandare al
Canzoniere, Einaudi, Torino 1961, per avere una visione totale della sua poesia.
Ricordiamo anche le varie edizioni del Canzoniere che l’hanno preceduta: Libreria antica e moderna, Trieste 1921; Einaudi, Torino 1948; Garzanti, Milano 1951.
Da segnalare l’Antologia del Canzoniere a cura di Giovanni Giudici, Oscar Mondadori, Milano 1976. Le Prose, a cura di L.Saba, Mondadori, Milano 1964, comprendono tutti i maggiori scritti del Poeta ad eccezione del romanzo incompiuto Ernesto, Einaudi, Torino 1975.
Clemente Rebora (1885-1957). Poeta. Nasce a Milano da una famiglia medioborghese, di origine ligure e forte tradizione mazziniana e laicista. Dopo aver
interrotto gli studi di medicina a Pavia, si laurea a Milano in Lettere presso l’Accademia Scientifico-Letteraria, con una tesi su Romagnosi. Dal 1910 insegna
negli istituti tecnici governativi lombardi, e nelle scuole serali popolari; inizia la
collaborazione con la Rivista d’Italia e La Voce. Nel 1913 esconi i Frammenti lirici
per le edizioni della Voce. Pubblica su La Riviera ligure. Nel 1914 conosce la pianista russa Lidia Natus, con la quale inizia una storia d’amore. Dell’esperienza
nella prima guerra mondiale e sulla mistica conversione al cattolicesimo abbiamo già scritto nel cammeo introduttivo di quest’Opera. E’ ordinato sacerdote
nel 1936 ed esercita nei collegi rosminiani il ruolo d’insegnante. Dopo un lungo
silenzio, riprende a scrivere e pubblica, a partire dal 1955, il Curriculum Vitae e
i Canti dell’infermità, che raccolgono poesie composte dal ‘46. Muore a Stresa.
Opere: Frammenti lirici, Libreria della voce, Firenze 1913; Canti anonimi raccolti
da Clemente Rebora, Il Convegno editoriale, Milano 1922; Le poesie (1913-1947)
raccolte ed edite a cura di Piero Rebora, vallecchi, Firenze 1947; Via Crucis (il
gran grido), Scheiwiller, Milano 1955; Curriculum Vitae, ivi 1955; Canti dell’infermità, ivi 1956; Gesù il fedele (Il Natale), ivi 1956; Canti dell’infermità raccolti da
vanni Scheiwiller, ivi 1961 (poesie e prose inedite); Le poesie (1913-1957), a cura
di vanni Scheiwiller, ivi 1961; Aspirazioni e preghiere raccolte da v. Scheiwiller,
ivi 1963; Ecco del ciel più grande. 7 liriche inedite, ivi 1965. Si veda poi l’edizione
usata in questa Antologia: Le poesie (1913-1957), a cura di G. Mussini e v. Scheiwiller, Garzanti, Milano 1988.
Renato serra (1884-1915). Critico letterario. Di Cesena, formatosi alla scuola
di Carducci, col quale si laureò a Bologna, con una tesi su Petrarca (1904), ap-
122 |
In trincea per la pace
profondì molto i temi dell’estetica classica, influenzato dall’insegnamento di
F.Acri. Dopo aver frequentato a Firenze un corso di perfezionamento presso
l’Istituto di studi superiori (1907-1908), tornò nella sua Cesena, dove divenne
direttore della Biblioteca Malatestiana. Collaborò con La Voce. La sua esperienza
letteraria, che resta e attraversa le generazioni, riguarda il suo testo più importante, l’Esame di coscienza di un letterato, analisi lucida sul ruolo dell’intellettuale
nella modernità, scritto lo stesso anno della sua morte, che avvenne il 20 luglio1915 in una trincea davanti al Monte Podgora (Gorizia), detto anche Monte
Calvario. Le sue opere sono comprese nei due volumi degli Scritti, a cura di G.
De Robertis e A. Grilli, Le Monnier, Firenze 1938; le lettere nell’Epistolario di R.
Serra, a cura di De Robertis, Ambrosini, Grilli, Le Monnier, Firenze 1934.
Guido Gozzano (1883-1916). Poeta. Nacque e visse quasi sempre a Torino,
dove morì. Iscrittosi alla Facoltà di Giurisprudenza, non si laureò.Agli studi giuridici preferì presto le lezioni di Arturo Graf. Proruppe la passione per la letteratura e la poesia. Poco più che ventenne cominciò a collaborare con prose e
racconti alle più importanti riviste dell’epoca, La Lettura, La Nuova Antologia, La
Riviera ligure, facendo conoscere la sua capacità poetica ne La via del rifugio
(1907). Il successo letterario venne con I colloqui (1911). Nel frattempo, la tubercolosi, che fu causa della morte precoce, cominciò a manifestarsi. Nello stesso arco di tempo ha una relazione sentimentale con Amalia Guglielminetti. Speranzoso di una guarigione, a trent’anni intraprese un viaggio di cura in India. Da
questa esperienza uscì postumo il libro Verso la cuna del mondo. Tra il 1915 e il
1916 compose un soggetto cinematografico sulla vita di San Francesco d’Assisi.
Per le Opere, suggeriamo: Opere di Guido Gozzano, a cura di Carlo Calcaterra e
Alberto De Marchi, Garzanti, Milano 1948; Poesie (La via del rifugio, I colloqui, Le
farfalle, Poesie sparse), revisione testuale, introduzione e commento di Edoardo
Sanguineti, Einaudi, Torino 1973.
Piero Jahier (1884-1966). Poeta. Genova fu il luogo natale di Jahier. Dopo il
suicidio del padre, pastore evangelico, il Nostro dovette impiegarsi nelle ferrovie, abbandonando la facoltà valdese di teologia. Collaborò a La Voce, Lacerba
e La Riviera ligure. Tenente degli alpini nella Grande Guerra, diresse il giornale
delle trincee L’Astico. Dopo la guerra fondò Il Nuovo contadino, un periodico destinato ai reduci appartenenti alle famiglie di agricoltori. Attivo antifascista, fu
perseguitato dal regime di Mussolini, e non poté pubblicare per molto tempo.
Nel secondo dopoguerra, continuò l’attività di traduttore che aveva iniziato fin
dal 1911. E’ morto a Firenze. Le Poesie sono custodite nel I volume delle Opere,
curate dallo stesso Jahier, vallecchi, Firenze 1964; il II comprende Resultanze in
merito al carattere e alla vita di Gino Bianchi, ivi 1955; il III Ragazzo e Con me e
con gli alpini (ivi 1967). Consiglio il volume Poesie e versi in prosa, a cura di P. Briganti, Einaudi, Torino 1983, che raccoglie l’intera opera jahieriana. Bellissime le
traduzioni di Jahier, da P. Claudel, J. Conrad, G. Green.
/ 123
Giacomo Noventa (1898-1960). Poeta. Giacomo Ca’ zorzi, Noventa è il cognome d’arte, derivante dal nome del suo paese di nascita, Noventa di Piave (venezia), parte volontario, giovanissimo, nella guerra del ’15 ’18. Studia a Torino,
laureandosi nel 1923 in filosofia del diritto. A Torino stringe una forte amicizia
con G.Debenedetti e P.Gobetti. Dal ’25 al ’35, viaggia in Europa, soggiornando
spesso a Parigi. Tornato in Italia, viene arrestato nel 1935. Dopo un mese di prigione, viene scarcerato, con il divieto di risiedere in Piemonte. Fonda a Firenze
la rivista La Riforma letteraria. Subisce un nuovo arresto nel 1939: gli è vietato
di abitare in tutte le città che siano sedi universitarie. Anche nel dopoguerra, la
sua attività di riformatore culturale della palude italiana è molto intenso, e di
fatto resta emarginato. Il suo uso della lingua veneziana è un modo paradossale
per affermare un’italianità più forte e vera, e al contempo marcare un confine
netto e chiaro rispetto al degrado culturale italiano, che s’incominciava allora,
e di cui oggi paghiamo le amare conseguenze. Il suo pensiero politico può essere collocato nell’area del cattolicesimo democratico. È morto a Milano. L’intera opera poetica di Noventa è compresa nel volume Versi e poesie, Mondadori,
Milano 1975. Le sue prose saggistiche, per la loro non conformità e originalità
vanno ricordate: Il vescovo di Prato, Il Saggiatore, Milano 1958; Nulla di nuovo,
ivi 1960; I calzoni di Beethoven, ivi 1965; Caffè greco, vallecchi, Firenze 1969; Storia di un’eresia, Rusconi, Milano 1973. Da ricordare la pubblicazione, a cura di F.
Manfriani, Versi e poesie, uscito a venezia, presso Marsilio, nel 1986.
biagio marin (1891-1985). Poeta. Grado è non solo il luogo della nascita e morte di Biagio Marin, ma il riferimeto totale di tutta la sua vita, fisica e metafisica,
e del suo io, e del suo oltre. Studia filosofia a vienna, anche se si laurea a Roma,
con G. Gentile. Conobbe, tra gli altri, il grande goriziano Carlo Michelstaedter,
e Friedrich Wilhelm Forster alla vigilia della prima guerra mondiale. Arruolatosi
volontario nel 1917, contrae in guerra una grave malattia polmonare che lo costringe a una lunga degenza a Davos. ha insegnato nelle scuole medie di Gorizia, è stato anche ispettore scolastico, bibliotecario e impiegato presso le Assicurazioni Generali. Nel 1943 ha perduto in guerra il figlio Falco. La sua morte
diverrà uno dei grandi motivi della sua poesia.
Le principali raccolte di versi sono costituite da: I canti de l’isola, Dal Bianco, Udine 1951, contenente i precedenti libri: Fiuri de tapo, 1912; La ghirlanda de gno
suore, 1922; Cansone picole, 1927. La nuova edizione de I canti de l’isola, Cassa
di Risparmio, Trieste 1970, all’interno della quale sono contenute precedenti
plaquettes: Sénere colde, 1953; Tristessa de la sera, 1957; L’estadela de San Martin, 1958; El fogo del ponente, 1959; Elegie istriane, 1963; Dopo la longa istae,
1965; El mar de l’eterno, 1967. Inoltre: El vento de l’Eterno se fa teso, La Editoriale
Libraria Scheiwiller, Trieste-Milano 1973; A sol calao, Rusconi, Milano 1974; Pan
de pura farina, Ed. San Marco dei Giustiniani, Genova 1976; Stele cagiùe, Rusconi,
Milano 1977. Notevole l’Antologia La vita xe fiama, con la prefazione di P.P. Pasolini,Einaudi,Torino 1970.
124 |
In trincea per la pace
ULTRA MODUM
FRA CENT’ANNI
Da qui a cent’anni, quanno
ritroveranno ner zappà la terra
li resti de li poveri sordati
morti ammazzati in guerra,
pensate un po’ che montarozzo d’ossa,
che fricandò de teschi
scapperà fòra da la terra smossa!
Saranno eroi tedeschi,
francesi, russi, ingresi,
de tutti li paesi.
O gialla o rossa o nera,
ognuno avrà difesa una bandiera;
qualunque sia la patria, o brutta o bella,
sarà morto per quella.
Ma lì sotto, però, diventeranno
tutti compagni, senza
nessuna differenza.
Nell’occhio vòto e fonno
nun ce sarà né l’odio né l’amore
pe’ le cose der monno.
ne la bocca scarnita
nun resterà che l’urtima risata
a la minchionatura de la vita.
E diranno fra loro:- Solo adesso
ciavemo per lo meno la speranza
de godesse la pace e l’uguajanza
che cianno predicato tanto spesso!
Trilussa
31 gennaio 19155
5
Trilussa, Lupi e agnelli, voghera, Roma 1919.
/ 125
L’ARTE NELLA GRANDE GuERRA
mARA D’INCORONATO
Esperta di Storia dell'Arte
Gli anni della Prima guerra mondiale, segnati dal susseguirsi di terribili
eventi bellici, rappresentano uno dei periodi più stimolanti e creativi dal
punto di vista della Storia dell’Arte. Pittori, scultori, architetti e scrittori
moderni si trovano nella necessità di leggere ed interpretare lo sconvolgimento in cui l’Europa cade di fronte ad un conflitto caratterizzato da
dinamiche nuove, dall’utilizzo di nuove armi e di nuovi eserciti.
Il 28 giugno 1914 Gavrilo Princip, rivoluzionario serbo-bosniaco, attenta
alla vita di Francesco Ferdinando, arciduca d’Austria e della moglie la principessa Sophie von hohenberg, uccidendoli entrambi. L’attentatore risulta essere un membro dell’organizzazione Giovane Bosnia, l’intento della
quale è ottenere l’indipendenza dell’Erzegovina dall’impero austro-ungarico e l’annessione al regno di Serbia. Un mese dopo il gesto omicida
di Princip, l’Austria, dichiarando guerra alla Serbia, scatena una reazione
a catena con la presa di posizione delle maggiori potenze mondiali e delle
loro colonie che intervengono formando due schieramenti contrapposti;
da una parte gli Imperi centrali (Germania, Impero austro-ungarico, Impero ottomano e loro alleati), dall’altra le forze dell’Intesa (Francia, Gran
Bretagna, Russia e loro alleati, tra i quali, in seguito, l’Italia). In questo clima di grande disordine e sconcerto molti artisti decidono di partecipare
al conflitto, non solo con le loro opere ma partendo volontariamente per
il fronte. L’entusiasmo iniziale nei confronti della guerra, nasce dall’idea
che quest’ultima sia il mezzo più adatto per favorire la rinascita spirituale,
invocata da tempo, della società contemporanea.
/ 127
L’Europa dei primi del Novecento è al massimo della sua potenza, grazie
ad un continuo e proficuo progresso della scienza e della tecnologia ma
gli intellettuali riconoscono invece nella società specificatamente in una
classe sociale, la borghesia, segni e sintomi di una profonda ed ineluttabile decadenza causata dalla schiavitù verso la logica del denaro e dalla
corruzione; per evitare che tutto questo porti le comunità all’inevitabile
collasso, la soluzione è una guerra capace di rigenerare le spinte vitali,
ormai inesistenti o prive di forza, che possa aprire la strada ad un nuovo
corso, ad una società nuova. Gli artisti delle avanguardie, quindi, invocano
e promuovono l’intervento nel conflitto, intenzione molto evidente guardando alla situazione italiana. L’Italia, legata ad Austria e Germania da un
patto di natura difensiva, stipulato nel 1882, resta neutrale fino al 23
maggio 1915, giorno in cui il duca di Avarna, ambasciatore italiano a vienna, consegna al ministro degli esteri dell’Impero austro-ungarico, la dichiarazione di guerra. La decisione di partecipare al conflitto schierandosi
al fianco delle potenze della Triplice Intesa viene motivata anche dall’impegno preso, da parte di queste ultime, con il patto segreto di Londra, di
procedere, in caso di vittoria, alla restituzione all’Italia delle regioni ancora
soggette al dominio austro-ungarico. Il fronte interventista, chiaramente
favorevole alla partecipazione della nazione alla guerra, schiera tra le proprie fila gli artisti del gruppo futurista. Questi ultimi si erano di fatto adoperati, con diversi strumenti di propaganda, ad incitare ed indirizzare
l’opinione pubblica verso la piena consapevolezza della necessità della
lotta come strumento rigeneratore. Le ragioni dell’interventismo futurista sono individuabili nel Manifesto scritto da Marinetti nel 1909 dove si
legge: «Non v’è più bellezza se non nella lotta, nessuna opera che non
abbia carattere aggressivo può essere un capolavoro, la poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote per ridurle
a prostrarsi davanti all’uomo. Noi vogliamo glorificare la guerra, sola igiene del mondo, il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna»¹.
L’entusiasmo per la guerra spinge molti esponenti del gruppo ad arruolarsi volontariamente e a vivere in maniera diretta l’esperienza del fronte.
In Germania la Prima guerra mondiale viene salutata con la medesima eccitazione dai giovani intellettuali. Il mondo tedesco valuta il conflitto come
necessario per preservare l’unità dell’Impero austro-ungarico, definire il
¹ Manifesto del Futurismo, pubblicato per la prima volta a Bologna dalla Gazzetta dell’Emilia, il 5 febbraio
1909.
128 |
In trincea per la pace
ruolo della Germania come predominante nel panorama delle potenze
mondiali e per affermare la superiorità di una civiltà improntata sui valori
dello spirito, a discapito di quella imperniata, invece, sui dettami di un materialismo decadente, propria di nazioni quali la Francia e l’Inghilterra.
Gli artisti vengono influenzati dal pensiero nichilista di Nietzsche che vede
nella guerra la sola possibilità di salvezza per la civiltà europea. Sulla rivista degli espressionisti berlinesi Die Aktion, nel 1912, si legge: «Il poeta
deve partecipare alla politica per creare la volontà di catastrofe, per scuotere cioè le istituzioni tradizionali, demolire illusioni, creare immagini capaci di far sprigionare nuove energie spirituali dalla vita quotidiana». La
distruzione è vissuta come mezzo per conoscere nuove energie creative,
indagando profondamente la realtà umana, gli abissi nei quali l’uomo attraverso la guerra sta sprofondando per poi risalire a vette più alte.
Lo slancio nei confronti della lotta si trasforma presto in disillusione, la
guerra, quella vera, combattuta in trincea, rivela aspetti terribili e molto
diversi da ciò che gli artisti avevano immaginato. Il conflitto non è breve
come la Germania aveva progettato. Il tempo si ferma sui fronti di combattimento, nelle trincee si combatte per mesi, con l’obiettivo di conquistare pochi metri di terra al prezzo di orribili massacri. Nel suo diario di
guerra Otto Dix scrive: «Pidocchi, ratti, filo spinato, pulci, granate, bombe,
buche, cadaveri, sangue, acquavite, topi, gatti, gas, cannoni, sudiciume,
pallottole, mortai, fuoco acciaio, questa è la guerra! Un vero inferno!»².
La guerra non sta creando il Superuomo evocato da filosofi, intellettuali
ed artisti ma un essere umano con tratti bestiali, costretto a vivere nella
terra, a convivere con la paura, con l’idea della morte che può sopraggiungere ad ogni istante. Il conflitto mostra il suo vero volto ad entrambi i fronti e l’orrore è tale che l’idealismo giovanile in molti artisti, dopo
il conflitto, viene sostituito da una maturità consapevole di aver subito
un trauma causato dall’atrocità di quanto vissuto e visto.
Nonostante la morte, il dolore e l’orrore, o forse proprio per questo, il
contesto bellico riesce a proporre comunque nuovi stimoli, ad incentivare
la nascita di nuove correnti artistiche, spianando in questo modo la strada
ad un sostanziale cambiamento della temperie culturale ed estetica.
Un gruppo di intellettuali europei si rifugia, in pieno conflitto, nella Svizzera neutrale e nel 1916 dà vita ad un nuovo movimento artistico, il Dadaismo. L’esordio ufficiale del movimento viene identificato con il gior² Gentile E., L’Apocalisse della modernità, Mondadori, Milano 2014.
/ 129
no in cui fu inaugurato il Cabaret voltaire, il locale che rappresenta il
luogo di incontro per tutti gli artisti coinvolti nella nuova proposta artistica, il 5 febbraio 1916 . Al fine di sottoporre all’attenzione altrui un’arte innovativa e originale, le serate al Cabaret voltaire sono caratterizzate dall’intento di stupire con manifestazioni inaspettate, provocatorie, ed in questo senso sembrano molto simili a quelle organizzate dal
gruppo dei futuristi, in realtà però, del tutto opposto è l’atteggiamento
nei confronti della guerra. Il Dadaismo nasce, infatti, in risposta e come
protesta contro la barbarie della Prima guerra mondiale, i futuristi invece caldeggiano e promuovono l’intervento diretto nel conflitto. I dadaisti spogliano degli attributi di perentorietà, mettendoli in ridicolo,
valori ai quali viene dato l’attributo di “borghesi,” come l’arte, la cultura,
il senso di appartenenza alla patria, poiché facilmente correlabili alla
guerra e alle sue motivazioni intellettuali. Una prima connotazione al
movimento viene data dal termine scelto per identificarlo, la parola Dada letteralmente non significa nulla, proprio per questo riesce a precisare le intenzioni del gruppo, il rifiuto di ogni atteggiamento razionalistico. Rinnegare la razionalità significa per i dadaisti mettere in atto una
provocazione necessaria ad abbandonare consuetudini ormai desuete
riguardo l’attività artistica, utilizzando atteggiamenti dissacratori ed
eclatanti per giungere al loro fine ultimo che è quello di distruggere
l’arte impregnata di valori borghesi per adoperarsi poi alla costruzione
di un nuovo tipo di arte, pienamente conforme e coincidente con la vita
stessa e non lontana da essa.
Il grande cambiamento apportato dai dadaisti entra anche nel merito
della pratica artistica; fino a quel momento l’artista realizza la sua opera
scegliendo un modello e copiandolo con una tecnica tradizionale come
la pittura, i dadaisti invece non creano un’opera ma costruiscono oggetti. Il carattere categorico dell’intento di demolire una concezione
ormai obsoleta e decadente dell’arte, è la causa dell’esistenza piuttosto
breve del movimento, poiché per procedere ad una funzione propositiva e non più solo distruttiva è necessario avvenga una trasformazione
che avrà il suo compimento tra il 1922 e il 1924 con la scomparsa del
Dadaismo e la nascita del Surrealismo.
«A cosa serve mandare un artista in guerra? A niente. Meglio farlo dipingere»³. La domanda viene posta al soldato Giorgio de Chirico dal
³De Chirico a Ferrara. Metafisica e avanguardie, catalogo della mostra a cura di Paolo Baldacci, Fondazione Ferrara Arte Editore, Ferrara 2015.
130 |
In trincea per la pace
IL POETA DEvE PARTECIPARE
ALLA POLITICA
PER CREARE LA vOLONTà
DI CATAsTROFE,
PER sCuOTERE CIOè
LE IsTITuZIONI TRADIZIONALI,
DEmOLIRE ILLusIONI,
CREARE ImmAGINI CAPACI
DI FAR sPRIGIONARE
NuOvE ENERGIE sPIRITuALI
DALLA vITA quOTIDIANA
DIE AKTION
ORGANO DELL'ESPRESSIONISMO BERLINESE, 1912
maggiore Gaetano Boschi, medico e artefice del progetto della villa del
Seminario a Ferrara, una struttura ospedaliera innovativa per il periodo
e specializzata in malattie nervose causate dalla guerra; non è un caso
che proprio in questo luogo vengano gettate le basi di una corrente pittorica nuova, la Metafisica.
De Chirico si ritrova a Ferrara, dopo aver lasciato Parigi dove ha iniziato
la sua ricerca metafisica, per entrare a far parte dell’esercito italiano; si
arruola in fanteria ma viene dichiarato non idoneo alle fatiche di guerra
e per questo ricoverato presso l’ospedale neurologico di villa del Seminario. La sua decisione di entrare nell’esercito italiano nasce dall’esigenza
personale di affermare la sua identità e le sue origini italiane, in realtà, di
fatto, considera la guerra un’enorme barbarie, la testimonianza che il
mondo non è governato dalla logica ma solo dalla follia. L’orrore della
Prima guerra mondiale è appena fuori le mura estensi, dentro queste ultime invece l’artista si sente al sicuro, ritrova un senso di protezione che
gradualmente lo spinge a riprendere a disegnare e a fissare l’attenzione
sull’osservazione intellettuale dell’irrazionalità che domina il presente.
/ 131
La pittura metafisica si sviluppa quindi in Italia, a Ferrara in particolare,
a partire dal 1916 e rispetto alla pittura delle avanguardie e dei futuristi,
si presenta come una grande novità, anche per il ritorno dei soggetti
classici che ricordano l’antichità greca e romana. La parola “metafisica”
racchiude ed identifica i significati e le manifestazioni del sogno, del
surreale, dell’inconscio. I quadri metafisici spesso raffigurano paesaggi,
piazze, personaggi rappresentati come statue greche o manichini; tutto
appare realistico ma assemblato in maniera confusa, come appunto in
un sogno, poiché ciò che si vuole mostrare va oltre l’apparenza fisica
della realtà, al di là dell’esperienza sensoriale. Nelle opere ferraresi, però, de Chirico lascia provvisoriamente da parte la rappresentazione di
piazze e statue per focalizzare l’attività figurativa sull’analisi della follia
che a causa della guerra caratterizza la realtà di quel periodo; da qui la
creazione dei quadri che più contraddistinguono la sua indagine metafisica, ricerca che risulterà di fondamentale importanza per molti artisti
del Surrealismo.
Il fermento creativo degli anni della guerra è testimoniato anche dagli
stimoli provenienti dai Paesi Bassi, qui viene creato nel 1917 De Stijl,
un movimento artistico che prende il nome dall’omonima rivista fondata da Theo van Doesburg e conosciuto anche con il termine Neoplasticismo usato da Piet Mondrian e dallo stesso van Doesburg nella pubblicazione del Manifesto De Stijl, per definire le caratteristiche della
loro forma d’arte: l’astrazione, il ritorno all’essenziale, la geometria.
I principi teorici riguardanti la pittura vengono delineati dal movimento
attraverso la pubblicazione sulla rivista, da parte di Mondrian, di undici
articoli, dall’ottobre 1917 allo stesso mese del 1918. Per i neoplasticisti
occorre che la pittura si sviluppi obbligatoriamente all’interno dei cardini dell’astrattismo geometrico. L’artista deve, in maniera consapevole,
escludere dalle proprie scelte, la rappresentazione figurativa, abbandonare le linee curve effimere e decorative a favore di linee e segmenti
retti, mostrare la propria indipendenza dai valori emotivi, liberare la forma naturale da strutture espressive superflue, utilizzare esclusivamente
gli elementi base del piano, della linea e dei colori primari, mediante
rettangoli e blocchi cromatici.
Il fine dell’arte neoplastica è di ritrovare l’equilibrio, non solo nell’arte
ma anche nella società, affinché possa essere facilitata la riflessione riguardo l’ordine dell’universo, grazie ad un metodo nuovo per vedere il
materiale e lo spirituale.
132 |
In trincea per la pace
IL TEmA bELLICO ALL’INTERNO DELLA TEmPERIE
ARTIsTICA FuTuRIsTA
L’esperienza diretta della guerra nelle scelte figurative
degli artisti: Carrà, balla, severini, sironi
L’ambiente sociale e politico italiano è in fermento negli anni immediatamente precedenti la Grande Guerra. L’Italia, in epoca giolittiana, si trova in una situazione di riassetto, caratterizzata da contrasti molto forti
e dalla quale vengono fuori necessità di espansione oltremare e volontà
irredentiste. Gruppi di intellettuali e personaggi appartenenti a strati sociali influenti promuovono imprese coloniali e militari che possano portare il paese a diventare una grande nazione, per rendere sicuro il confine orientale dalla minaccia asburgica, per evidenziare una gloria che
non rappresenti soltanto un retaggio archeologico, per risolvere la questione di Trento e Trieste. In questo clima pieno di inquietudini il paese
si trova diviso tra chi sostiene la necessità di restare neutrale e chi invece
spinge per un intervento armato a fianco delle potenze dell’Intesa. Si
possono annoverare tra questi ultimi gli artisti del gruppo futurista, molti dei quali partecipano in prima persona al conflitto, esperienza che segna profondamente le loro vite e di conseguenza le loro opere.
Immagine riconosciuta simbolo dell’interventismo futurista è il dipinto
parolibero di Carlo Carrà, Festa patriottica, pubblicato sulla rivista «Lacerba» il 1° agosto 1914, nel momento in cui la Germania dichiara guerra
alla Russia. La diffusione a mezzo stampa in contemporanea con lo scoppio del primo conflitto mondiale ed il cambiamento del titolo originario
in Manifestazione interventista rappresentano le motivazioni della grande
fama riservata a questo dipinto e del fatto che sia diventata l’icona degli
obiettivi del gruppo futurista. L’opera è da decenni associata in maniera
indissolubile alla Prima guerra mondiale, per la sua datazione, infatti,
viene considerata il tramite attraverso cui procacciare consensi nei confronti della causa patriottica e del militarismo, concetti connaturati e
contenuti all’interno del desiderio bellico del movimento futurista, desiderio soddisfatto poi dall’inizio del terrificante conflitto; da recenti approfondimenti però sembra possibile datarla alla seconda metà del mese di giugno, in un momento in cui non si ha idea della tragedia che di lì
a poco avrebbe sconvolto il mondo. Al di là delle coincidenze cronologiche fra il momento della creazione del dipinto e feste intrise di patriottismo organizzate nel giugno 1914, il significato più profondo dell’opera
/ 133
deve essere ricercato nella violenta volontà di azione, comune a tutti i
giovani artisti futuristi, nella loro determinazione a contestare l’inerte
società borghese giolittiana. Il quadro diventa un grido dinamico o come
dice Carrà: «astrazione plastica del tumulto cittadino».
L’opera sembra simboleggiare l’arrivo di un’era piena di entusiasmo,
grazie anche alla nuova tipologia di espressione scelta per la prima volta
dall’artista. Il “paroliberismo” è uno stile letterario introdotto dal Futurismo in cui il testo è composto da parole tra le quali non sono riscontrabili legami sintattici o grammaticali, non essendo strutturate in periodi e frasi; non viene utilizzata la punteggiatura, non esistono accenti
e apostrofi. Le regole e i principi di questa tecnica letteraria sono state
individuate e spiegate da Marinetti nel Manifesto tecnico della letteratura futurista dell’11 maggio 1912 e Carrà decide di applicarla alla pittura; subito dopo nasce una diatriba con Severini riguardo al primato
di tale ideazione, fatto che testimonia quanto l’interesse degli artisti
futuristi sia in questo momento focalizzato su dispute di natura puramente estetica e sulla preoccupazione che siano riconosciute le proprie
ricerche al riguardo.
Con lo scoppio della guerra in Europa tutto questo cambia in maniera
ineluttabile, e diverso è l’argomento delle discussioni tra gli artisti futuristi, incentrate ora sull’atteggiamento neutrale del governo italiano
e sulla necessità immediata di una svolta interventista, in un’attesa carica di tensione emotiva, quasi palpabile durante le manifestazioni futuriste organizzate nelle maggiori città italiane. Carrà respira questo clima carico di frenesia, condivide la consapevolezza che il gruppo futurista non ha abbastanza peso politico per essere il motore capace di portare il paese alla decisione finale dell’entrata in guerra ed è preda di
sentimenti paralizzanti e orientati interamente sul pensiero della guerra, tanto che questo finisce per impedirgli di iniziare nuovi lavori. Per
venir fuori da questo stallo, l’artista deve mettere mano al progetto di
un libro: “Guerrapittura”. Il volume esce per le Edizioni Futuriste di “Poesia” nel marzo del 1915 e proprio questa tempestiva pubblicazione può
far pensare ad una necessità propagandistica urgente da parte di Marinetti, in realtà l’intento di Carrà è un altro, vale a dire soddisfare la
propria esigenza di produrre un’opera che possa guidare i lettori e gli
amici in un percorso attraverso la sua attività di artista, il suo pensiero
estetico e politico, per poi evidenziare il punto di arrivo dell’autore in
un momento storico fondamentale, segnato dalla fatale partecipazione
del paese alla guerra.
134 |
In trincea per la pace
carlO carrà
Festa patrIOttIca
(ManIFestazIOne
InterventIsta), 1914
teMpera, penna, pOlvere
dI MIca, carte IncOllate
su cartOncInO,
cM 38,5 x 30. cOllezIOne
GIannI MattIOlI,
In depOsItO pressO
la peGGy GuGGenheIM
dI venezIa
carlO carrà
InseGuIMentO
(cavallO e cavalIere), 1915
teMpera, carbOncInO
e cOllaGe su cartOne,
cM 39x68, cOllezIOne
GIannI MattIOlI,
In depOsItO pressO
la peGGy GuGGenheIM
dI venezIa
I primi mesi del 1915 rappresentano un momento di transizione per
Carrà. Comincia, infatti, ad allontanarsi dai futuristi milanesi e dal proprio stile più dinamico, per affrontare un profondo studio sui primitivi
italiani ed un intensa riflessione sulle caratteristiche dell’arte popolare
ed infantile; esplica in maniera chiara questo periodo, in evidenza rispetto alle altre opere di “Guerrapittura”, il collage Inseguimento. La differenza di questo collage rispetto agli altri lavori eseguiti per il libro viene spiegata dalla sua datazione, tra il gennaio ed il marzo 1915.L’opera
nasce come testimonianza di uno sviluppo stilistico molto veloce, segnato da un graduale abbandono delle più tipiche istanze futuriste in
favore di scelte formali più plastiche. Quando il paese entra in guerra
lo studio sulla forma diventa costante e mirato ad estraniare l’opera
dell’autore dalle manifestazioni del futurismo per avvicinarla alla forma
come certezza costruttiva.
Carrà può continuare a lavorare perché non viene mobilitato subito e
quasi a voler scongiurare il dramma che si sta consumando al fronte, si
dedica alla realizzazione di dipinti dai soggetti inquietanti, sebbene
/ 135
completamente slegati dall’iconografia bellica, dalla ricercata consistenza plastica. L’artista è poi richiamato alle armi ed inviato nel gennaio
del 1917 a Pieve di Cento presso Ferrara ma per le sue cattive condizioni
di salute è ricoverato per “nevrastenia” nel nosocomio di villa del Seminario, dove incontra Giorgio De Chirico. Il contatto tra i due pittori
porta Carrà lungo i percorsi onirici della Metafisica, slegati dalla realtà
contingente, drammaticamente lontani ed estranei dal contatto con il
mondo della guerra; tutto questo compare nell’opera dell’artista, nel
celebre dipinto La musa metafisica.
Un altro artista partecipe degli intenti interventisti di Marinetti cambia
in questo periodo il suo percorso di ricerca figurativa modificando i dettami del dinamismo futurista a favore della scelta di forme più solide e
salde: Giacomo Balla, unica potente voce futurista nella Roma giolittiana,
si fa portavoce degli auspici bellici dei futuristi milanesi a suo modo, attraverso gli atteggiamenti ludici ed entusiastici che gli sono propri. La
vicinanza a Marinetti è testimoniata dal fatto che quest’ultimo non esita,
dal canto suo, ad appropriarsi del progetto del Vetement masculin futuriste, pubblicato sotto forma di manifesto in lingua francese da Balla in
data 20 maggio 1914, trasformandolo, nel settembre dello stesso anno,
nel Vestito antineutrale, modificandone intimamente il significato in funzione antineutrale e bellicista con sostanziali rimaneggiamenti alla versione italiana del testo. In questo manifesto si dichiara di voler sostituire
il vecchio, cupo e soffocante abbigliamento maschile con uno più dinamico, asimmetrico e colorato, che rompa con la tradizione, si adegui al
concetto futurista di modernità e di progresso, faccia riferimento alla
guerra e sappia rendere l’uomo più aggressivo e bellicoso. L’accostamento dei colori è studiato per produrre un vivace effetto di simultaneità
che meglio si armonizza con lo spazio urbano moderno.
Nel corso del 1915 la pittura di Balla, incentrata da anni sull’analisi del
dinamismo, cambia punto di vista. Insieme al più giovane Depero redige
il manifesto Ricostruzione futurista dell’universo in cui vengono spiegati
i «complessi plastici dinamici» ideati dai due artisti e subito dopo si lascia
attrarre e partecipa alla causa interventista, con la serie dedicata agli
“sbandieramenti” ed alle manifestazioni di piazza; non è più il disegno
di traiettorie esterne alle forme geometriche descritte ad indicare il dinamismo ma sono le forme stesse ad evocarlo, grazie a contorni definiti
che descrivono volumi dinamici, con una struttura organizzata da campiture di colore piatte e solide. Gli smaglianti e festosi colori delle opere
di Balla del 1915-1916 incarnano l’idea della guerra come festa, evocata
136 |
In trincea per la pace
carlO carra’
la Musa MetaFIsIca, 1917,
OlIO su tela, cM 90 x 66
pInacOteca dI brera,
MIlanO
GIacOMO balla
bandIere all’altare della patrIa, 1915,
GallerIa nazIOnale d’arte MOderna, rOMa
GIacOMO balla
cOlpO dI FucIle dOMenIcale, 1918
OlIO su tela, cM 66 x 80
cOllezIOne d’arte della banca d’ItalIa
/ 137
dall’artista ancora alla fine del conflitto in Colpo di fucile domenicale,
opera direttamente riconducibile al patriottismo bellico grazie alla scritta autografa «colpo di fucile 1918 W l’Italia» presente in un dipinto di
analogo titolo presentato dall’artista alla Mostra d’arte Bragaglia dell’ottobre 1918. Aprendo il catalogo della mostra si leggono i sette punti
del Manifesto del colore ed è con quest’ultimo che entriamo proprio nel
clou del momento artistico di Balla ricco di lavori colorati. Dopo gli anni
Dieci dove principalmente troviamo opere in bianco e nero, a partire
dal momento bellico, l’artista, quasi come una risposta positiva al pessimismo del conflitto, guarda al colore. I punti del manifesto sono:
1) Data l’esistenza della fotografia e della cinematografia, la riproduzione pittorica del vero non interessa né può interessare più nessuno.
2) Nel groviglio delle tendenze avanguardiste, siano esse semi-futuriste
o futuriste, domina il colore. Deve dominare il colore perché privilegio tipico del genio italiano.
3) L’impotenza coloristica e il peso culturale di tutte le pitture nordiche,
impantanano eternamente l’arte, nel grigio, nel funerario, nello statico, nel monacale, nel legnoso, nel pessimista, nel neutro o nell’effeminatamente grazioso e indeciso.
4) La pittura futurista italiana, essendo e dovendo essere sempre più
un’esplosione di colore non può essere che giocondissima, audace, aerea, elettricamente lavata di bianco, dinamica, violenta, interventista.
5) Tutte le pitture passatiste o pseudo-futuriste danno una sensazione
di preveduto, di vecchio, di stanco, e di già digerito.
6) La pittura futurista è una pittura a scoppio, una pittura a sorpresa.
7) Pittura dinamica: simultaneità delle forze4.
Nel luglio del 1914, la Prima guerra mondiale coinvolge il percorso figurativo di un altro artista appartenente al gruppo futurista: Mario Sironi.
Nei giorni successivi l’attentato di Sarajevo, l’artista pubblica Le due Triplici, sedici disegni su «Noi e il mondo», rivista il cui direttore è suo cugino
Lucio D’Ambra. Una delle tavole è dedicata per la prima volta al tema
bellico con lunghe file allineate di soldati che marciano ma i suoi personaggi hanno un accento araldico e astratto, lontano dall’esperienza vera
Il Manifesto del colore è stato pubblicato nel catalogo della mostra Personale di Balla presso la Casa
d’Arte Bragaglia, nell’ottobre del 1918.
4
138 |
In trincea per la pace
del conflitto. La ripetizione di una stessa figura in diverse proporzioni o
la replica di figure uguali, evidenziano il carattere ritmico della figurazione secondo i dettami della poetica futurista. Il tema vero dei fogli
sembra la guerra ma in realtà la scelta figurativa dell’artista è focalizzata
e indirizzata interamente all’interesse per la reiterazione delle forme.
Le cose non cambiano con l’arrivo del 1915. Effige della guerra futurista
è La ballerina, composta probabilmente il 3 gennaio 1915, data che troviamo all’interno della figurazione. L’opera è un omaggio al manifesto
Sintesi futurista della guerra, scritto da Marinetti nel settembre 1914. La
ballerina viene rappresentata come una giovane donna posizionata vicino al filo da equilibrista caratterizzante un tipo di locale notturno, vestita di un costume di scena molto sensuale, in realtà non sembra danzare ma prevaricare sui nemici del futurismo, vale a dire il passatismo, i
critici, l’Austria, come si evince dalla scelta di evidenziare parole tratte
dalla Sintesi come «guerra»,«passatismo» o «cimici+preti», quest’ultima
espressione utilizzata per definire l’Impero di Francesco Giuseppe.
Nel febbraio 1915 vengono pubblicate sei illustrazioni per il libro I gesti
della guerra di A. Forlisi grazie al sostegno costante del cugino Lucio
D’Ambra. L’artista sceglie una figurazione semplificata, nella sintesi di
un disegno su direttrici diagonali nello spazio vuoto, rappresentando i
soldati in diverse attività come la marcia, l’attenti, l’attacco, ma il suo
intento è più il perfezionamento dello stile che la proposta di una cronaca di guerra; ne è un esempio il soldato rappresentato Nella trincea
con un fucile 91 in verticale. Per la stessa rivista raffigura esponenti
dell’alta società e i suoi soldati sono molto simili a questi.
Un sostanziale cambiamento rispetto le illustrazioni precedenti, nel segno di un palese sentimento antitedesco, si riscontra nella prima tavola
dell’artista per la rivista milanese gli «Avvenimenti». Sironi si trasferisce
a Milano alla metà di marzo del 1915 ed entra nel gruppo dirigente futurista, è lo stesso Marinetti a presentarlo all’editore della rivista, Umberto Notari. I nuovi volumi della Kultur tedesca esce l’11 aprile. La Germania, con la sua cultura, la sua filosofia e il suo spirito, diventa il bersaglio di continui attacchi da parte di intellettuali ed artisti italiani a causa dello strenuo interventismo di quel periodo che porta i futuristi ad
attaccare la politica di indecisione adottata dal proprio paese, l’Italia infatti a quella data non ha ancora firmato la dichiarazione di guerra.
La tavola di Sironi esce proprio nel momento in cui il clima è più carico
di tensione per l’aggressione, avvenuta pochi mesi prima, della Germa-
/ 139
MarIO sIrOnI
IllustrazIOne per le due trIplIcI,
nOI e Il MOndO», 1 luGlIO 1914
MarIO sIrOnI
IllustrazIOne per I GestI della Guerra,
«nOI e Il MOndO», 1 FebbraIO 1915
MarIO sIrOnI
I nuOvI vOluMI della Kultur tedesca, 1915,
chIna e teMpera su carta, 63 x 46 cM,
«GlI avvenIMentI», 11 aprIle 1915,
cOllezIOne prIvata, MIlanO
nella paGIna precedente:
MarIO sIrOnI
la ballerIna, 1915
140 |
In trincea per la pace
/ 141
nia ai danni del Belgio. Sironi raffigura un generale tedesco che con la
spada fa a pezzi il nemico caduto; il contenuto pieno di violenza viene
quasi messo in secondo piano dalla novità stilistica. Il suo disegno senza
chiaroscuro è molto stilizzato, con una linea pura, e grazie a questo, il
volume della forma risulta più evidente.
Il 23 maggio 1915, giorno in cui l’Italia dichiara guerra all’Austria, Sironi
con tutto il gruppo dirigente futurista milanese si arruola nel Battaglione volontari Ciclisti ed il 22 parte per il fronte. L’artista coglie l’occasione per creare, ad inchiostro, ritratti di alcuni volontari Ciclisti; nel disegno utilizza di nuovo il chiaroscuro con una tecnica a segmenti accostati,
in cui le ombre vengono definite in maniera graduale. Lo stesso stile è
riscontrabile in Ritratto di soldato, anch’esso probabilmente del 1915.
Il battaglione viene coinvolto nella prima battaglia tra il 21 e il 24 ottobre, che si risolve con la presa di Dosso Cassina sul Monte Baldo. Il combattimento ha un bilancio relativamente positivo, sia per l’esito favorevole, che per il numero molto limitato di vittime ma si tratta comunque
di un’esperienza estremamente drammatica, accentuata dal fatto che
i soldati si trovano in una condizione precaria, il cibo è scarso e l’equipaggiamento estivo inadeguato per il freddo intenso. Sironi si congeda
a dicembre quando il battaglione viene sciolto e torna a Milano, aspettando di essere richiamato nell’esercito regolare.
Questo periodo di pausa è segnato dalla creazione di alcune opere il
cui tema è immediatamente riconducibile al conflitto, come le tavole
per gli «Avvenimenti», ed altre invece la cui figurazione è legata al periodo di guerra in maniera indiretta, come Il Borghese. Nella figurazione
viene descritto un signore che cammina con il bastone e sta andando
al concerto pubblicizzato dal ritaglio di rivista che si vede sulla destra.
L’artista ironizza sull’abbigliamento e sull’aspetto, i baffi, il cappotto
elegante, la cravatta sul colletto inamidato sono elementi che permettono di caratterizzare l’uomo come borghese.
Si tratta però di un’ironia piena di amarezza; al mondo tranquillo, composto da serate a teatro, bastoni da passeggio ed abiti eleganti, si contrappone la situazione drammatica e tragica delle popolazioni redente,
concentrate non sull’arte come passatempo mondano ma sull’amor di
patria. Per questo motivo, quasi al centro della composizione, si trova
l’elenco delle sottoscrizioni dei paesi friulani in favore dell’Italia. Si nasconde quindi, dietro lo sguardo ironico dell’artista, un significato più
profondo: il borghese che vive la sua vita tranquilla e confortevole men-
142 |
In trincea per la pace
MarIO sIrOnI
tenente GOrI,
crOcetta trevIGIana, nOveMbre 1917
MarIO sIrOnI
Il bOrGhese, 1916,
cOllaGe e teMpera su carta,
cM 48,5 x 34,5, studIO d’arte
nIcOletta cOlOMbO, MIlanO
MarIO sIrOnI
capItanO FantOnI, 1918,
MatIta su carta, 34 x 23,5 cM.
cOllezIOne prIvata
tre al fronte si combatte, rappresenta una condizione di cecità nei confronti della realtà contemporanea.
Tra il 1917 e il 1918 Sironi crea numerosi disegni che rappresentano soldati ed ufficiali. A differenza delle tante illustrazioni del periodo che pagano pegno alla retorica, Sironi sceglie di ritrarre personaggi sconosciuti, il cui eroismo si manifesta nelle attività compiute in momenti di pausa: giocare a carte, suonare la chitarra, fumare una sigaretta. In questi
disegni l’attenzione dell’artista è in alcuni casi rivolta esclusivamente
alla resa plastica della figura, come nel Capitano Fantoni, dove nel contrasto tra luci ed ombre si perde la riconoscibilità del volto dell’ufficiale,
in altri casi invece più importante per Sironi è rendere evidente l’aspetto
psicologico del personaggio ritratto, come nel Tenente Gori, eseguito
nel novembre 1917 a Crocetta Trevigiana, lo stesso mese in cui Diaz assume il comando dell’esercito dopo Caporetto. Il disegno è strutturato
come un primo piano, la luce rivela il volto dell’uomo e la sua espressione impossibile da decifrare, vitale ed esemplificativa della sua giovi-
/ 143
nezza ma sulla quale sembrano influire anche sentimenti di dolore e
delusione. La raffigurazione è incentrata esclusivamente sul volto, non
viene caratterizzato l’ambiente e non si procede alla descrizione della
figura, l’aspetto centrale ed essenziale è lo sguardo fisso nel vuoto che
riporta alle parole di Ungaretti:«Nel cuore nessuna croce manca, è il mio
cuore il paese più straziato». Nelle illustrazioni, l’artista utilizza toni più
accesi, nei disegni invece il suo stile è più classico; non c’è teatralità ma
nemmeno la cronaca della brutalità e degli elementi più terrificanti del
conflitto come in Dix e Grosz.
Sironi fa parte dell’vIII Corpo d’armata che è uno dei protagonisti della
battaglia finale di vittorio veneto ma la guerra per l’artista, come per
la maggior parte dei soldati italiani, non termina con l’armistizio; viene
congedato solo nel marzo 1919. Sironi continua però a rappresentare
il tema della Grande Guerra, come si vede in tante opere degli anni successivi, dove viene evocata spesso la memoria del conflitto.
Poco dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale l’artista si trasferisce
a Parigi con la moglie e la figlia. La capitale francese è descritta attraverso la rievocazione di ricordi personali, riguardanti un periodo della sua
vita pieno di difficoltà, a causa di numerosi fattori: dover procacciare il
cibo per sé e la sua famiglia, dover far fronte alla salute malferma della
figlia e dover portare avanti il proprio lavoro. Il suo intento di realizzare
opere incentrate sul tema bellico viene complicato dal fatto che l’ambiente parigino è ormai artisticamente privo di stimoli ed influssi creativi.
s
GInO severInI
canOn en actIOn (MOts en lIberté et FOrMes), 1914-15
OlIO su tela, 50 x 60 cM
staedelschen KunstInstItut, FranKFurt aM MaIn
MarIO sIrOnI
scena dI Guerra, 1918 ca.
teMpera su carta, 32 x 48 cM
cOllezIOne prIvata, MIlanO
s
Tra i firmatari del primo Manifesto della pittura futurista (1910) e fondamentale tramite tra il gruppo futurista e l’ambiente parigino è Gino Severini.
Durante l’autunno del 1914 accettando il consiglio di Marinetti di utilizzare una pittura di guerra come esortazione ad agire, Severini desiste
gradualmente dal dedicarsi all’astrazione che caratterizza le opere del
1913, per concentrarsi di nuovo sulla realtà e sulla ricerca degli impulsi
in essa contenuti, per introdurli nella figurazione. Dalla primavera del
1914, inserisce nei propri lavori composizioni di parole e forme che non
hanno un carattere puramente geometrico e decorativo ma includono
spicchi di realtà provenienti direttamente dai campi di battaglia; così
avviene in Canon en action (1914-1915), dove l’immagine di due soldati
intenti a far esplodere un colpo di cannone, viene resa più potente e
chiara grazie alle parole ed alle onomatopee che tentano di stimolare
144 |
In trincea per la pace
/ 145
sensazioni uditive, per accrescere la forza d’impatto dell’immagine su
chi la guarda. Questa sintesi di parole e forme crea un’immagine emotivamente suggestiva che viene registrata dalla memoria dell’osservatore come una rappresentazione dinamica e quasi gioiosa della guerra.
Molto diversa, sebbene il tema sia lo stesso, è la tempera Scena di guerra, eseguita due anni prima da Mario Sironi. Qui la forma viene sintetizzata, per mostrare e mettere in evidenza un‘esperienza profonda, vissuta in prima persona. Il dinamismo di Canon en action è sostituito da
una struttura priva di movimento e da una pittura densa. L’opera di Severini, dinamica, rapida, sembra mostrare l’illusione della guerra immaginata dai futuristi nel 1914 mentre l’opera di Sironi, la snervante guerra di trincea, vissuta ogni giorno, nel fango, dai soldati.
Severini decide di portare ad Igny, nella campagna alle porte di Parigi,
la moglie e la figlia, nella speranza di poter migliorare lo stato di salute
di quest’ultima. In questo periodo compie alcuni dei famosi dipinti che
hanno come tema i treni militari, compreso Studio per treno blindato, la
cui interpretazione però non è certa, per l’ipotesi che possa trattarsi di
uno studio di soldati in trincea; lettura dell’opera che sembra sostenuta
dall’immagine del fante. Nell’autunno del 1915 torna a Parigi e non
smette di dedicarsi al soggetto del treno blindato, riuscendo a comporre, gradualmente, un compendio più chiaro della realtà considerata, fino ad arrivare, nelle opere compiute nell’inverno di quello stesso anno,
a forme concentrate e facili da riconoscere, a rappresentare quindi un
momento di ricomposizione delle immagini, un ritorno alla figurazione,
come tramite per l’idea che erompe dalla mente dell’artista. Severini,
meditando sui dipinti di guerra eseguiti nell’inverno del 1915, scrive:
«In base a tale modo di vedere, non potevo esprimere la mia idea di
“guerra” dipingendo dei campi di battaglia, con stragi di uomini, fiumi
di sangue e via dicendo; mentre pochi oggetti o poche forme relative a
certe realtà, comprese nel loro “stato essenziale” e in quanto “nozione
pura” mi davano, condensata al massimo, l’idea-immagine ben moderna
della guerra»5.
Queste dichiarazioni sono da interpretare come commento alle due
versioni di Synthèse plastique de l’idée: «guerre» dell’inverno 1915, quando l’artista decide di elaborare di nuovo, rimuovendo tutti gli elementi
superflui in favore di una pittura concentrata in forme chiuse e nette,
5
Gino Severini, Tutta la vita di un pittore, cit., p. 176.
146 |
In trincea per la pace
GInO severInI
synthèse plastIque de l’Idée: «Guerre», 1915
OlIO su tela, cM 92 x 73,
cOllezIOne slIFKa, new yOrK
GInO severInI
synthèse plastIque de l’Idée: «Guerre», 1915,
OlIO su tela, 60 x 50 cM, bayerIsche
staats- GeMaeldesaMMlunGen, Munchen
un’opera che ha lo stesso titolo, la cui genesi può essere ricondotta ad
un periodo tra il 1914 e il 1915; la versione di Synthèse plastique de l’idée:
«guerre» conservata oggi a Monaco di Baviera, costituisce il risultato di
un percorso volto a sintetizzare la forma e ad agire nello stesso modo
sulla composizione, a tal fine il colore viene consolidato perché riesca a
plasmare le ombre e i volumi, rendendoli più consistenti al confronto
con la versione di New York. L’opera raccoglie, in forma sintetica, una
singola proiezione plastica: l’ancora di una nave a rappresentare la Marina, l’ala di un aeroplano per l’Aeronautica, la ruota di un treno e di un
/ 147
cannone per la Fanteria. La composizione viene alleggerita anche grazie
al minore utilizzo nel quadro, della parola dipinta; nell’opera di New York
si trova la scritta “EFFORT MAXIMUM” di cui è privo il dipinto di Monaco,
nel quale inoltre le parole “ORDRE DE MOBILISATION GENERALE” vengono posizionate in maniera meno evidente, nell’angolo in alto a sinistra
del quadro. La tela di Monaco, nonostante le dimensioni ridotte rispetto
alla compagna newyorkese, diventa la massima rappresentazione di
quello che Severini stesso chiama “realismo ideista”, e l’importanza di
questa versione del dipinto è testimoniata dal fatto che l’artista la predilige come tavola della prima edizione delle sue memorie.
Proprio nel momento in cui la guerra sul fronte italiano inizia a dare prova dei suoi aspetti più duri, queste tre opere comprovano la fine del periodo dinamico-futurista di Severini, come a ribadire che questo percorso
di studio e di ricerca si è concluso, per lasciare il posto alla volontà da
parte dell’artista di tornare alla creazione di forme più solide che rispecchiano una realtà più concreta, in contrasto con i sentimenti di incertezza
e provvisorietà dell’esistenza molto diffusi in quel momento storico.
La scultura di umberto boccioni
Boccioni viene considerato uno dei più autorevoli esponenti del futurismo italiano, partecipa con Marinetti, Carlo Carrà, Giacomo Balla e Gino
Severini alla stesura del Manifesto della pittura futurista (1909) e al Manifesto tecnico del movimento futurista (1910). L’11 gennaio del 1912 firma il Manifesto della scultura futurista, scrive: «Tradizionalmente, la statua si intaglia e si delinea sullo sfondo atmosferico dell’ambiente in cui
è esposta. La pittura futurista ha superato questa concezione della continuità ritmica delle linee in una figura e dell’isolamento di essa dal fondo e dallo spazio avviluppante invisibile.
La poesia futurista, secondo il poeta Marinetti, dopo aver distrutto la
metrica tradizionale e creato il verso libero, distrugge ora la sintassi e il
periodo latino. La poesia futurista è una corrente spontanea, ininterrotta di analogie, ognuna riassunta intuitivamente nel sostantivo essenziale. Dunque, immaginazione senza fili e parole in libertà. La musica
futurista di Balilla Pratella infrange la tirannia cronometrica del ritmo.
Perché la scultura dovrebbe rimanere indietro, legata a leggi che nessuno ha il diritto di imporle? Rovesciamo tutto, dunque, e proclamiamo
148 |
In trincea per la pace
l’assoluta e completa abolizione della linea finita e della statua chiusa.
Spalanchiamo la figura e chiudiamo in essa l’ambiente. Proclamiamo
che l’ambiente deve far parte del blocco plastico come un mondo a sé
e con leggi proprie; che il marciapiede può salire sulla vostra tavola, e
che la vostra testa può attraversare la strada mentre tra una casa e l’altra la vostra lampada allaccia la sua ragnatela di raggi di gesso»6.
Si estrapola dallo scritto, una concezione quasi architettonica della pratica scultorea; l’opera si costruisce all’interno, da un interno che si allarga e si sviluppa per entrare in comunicazione con lo spazio reale che
lo circonda, con il mondo. In questo senso bisogna leggere la formulazione del concetto di scultura d’ambiente. La scultura quindi, secondo
l’artista, deve riuscire a concretizzare e a far assumere consistenza al
prolungamento degli oggetti nello spazio e dar loro vita grazie all’effetto del movimento. L’oggetto è qualcosa che non ha limite, è infinito,
perché si diffonde nello spazio, diventa spazio e a sua volta lo contiene,
nel senso che lo spazio vive nell’oggetto. Paradigma di tutto questo è
la scultura che Boccioni porta a compimento nel 1913, Forme uniche nella continuità dello spazio. La figura, senza braccia, sembra per certi versi
uno studio anatomico, risulta infatti priva di involucro epidermico e si
distinguono in modo preciso particolari come i polpacci, i muscoli, l’articolazione del ginocchio, per altri invece, sembra avere le fattezze dell’ingranaggio di un macchinario in movimento. L’artista riesce a creare
un chiaroscuro ad intermittenza, costituito dall’avvicendamento di parti
cave e in rilievo, piene e vuote, dove in maniera veloce ed improvvisa,
dalla luce si passa all’ombra; un esempio di questo è il torso, visto da
destra dà l’impressione di essere pieno ma girando intorno alla statua
e tornando ad osservarlo da sinistra, sembra trasformarsi in una cavità
vuota. Il fine è rendere evidente come la figura si plasmi a seconda dello
spazio che la circonda. I contorni irregolari, con una linea elaborata come una successione di curve alternativamente concave e convesse, permettono alla figura di liberarsi dai limiti consueti ed espandersi nello
spazio. L’interno della statua è percorso da fenditure e spigoli, a causa
dei quali i piani sembrano spezzati come se non ci fosse una sola figura
ma altre sovrapposte ad essa di continuo. La statua vista lateralmente
appare lanciata energicamente in avanti ma osservata frontalmente si
rileva un avvitamento delle forme nello spazio, torsione creata dall’avvolgersi della linea intorno alla figura con un movimento a spirale; la ro-
6
verdone M., Il Futurismo, Newton Compton, Roma 1994, p. 45.
/ 149
va quindi considerato il concetto più importante della sua poetica, quello di dinamismo. Boccioni scrive: «Dinamismo è la concezione lirica delle
forme interpretate nell’infinito manifestarsi della loro relatività tra moto assoluto e moto relativo, tra ambiente ed oggetto, fino a formare
l’apparizione di un tutto: ambiente + oggetto. È la creazione di una nuova forma che dia la relatività tra peso ed espansione. Tra moto di rotazione e moto di rivoluzione, insomma è la vita stessa afferrata nella forma che la vita crea nel suo infinito succedersi»7.
uMbertO bOccIOnI
svIluppO dI una bOttIGlIa nellO spazIO, 1912-1913
brOnzO, 38 x 59,5 x 32,3 cM
MuseO del nOvecentO, MIlanO
a FIancO
uMbertO bOccIOnI
FOrMe unIche nella cOntInuItà dellO spazIO, 1913
brOnzO, 1,11M x 88 cM
MuseuM OF MOdern art, new yOrK
tazione che ne risulta, coinvolgendo diversi piani, evidenzia una dilatazione ulteriore delle forme.
Altra opera che risulta utile alla comprensione degli intenti di Boccioni
è Sviluppo di una bottiglia nello spazio. La scultura rappresenta un soggetto raramente riscontrabile nel panorama della poetica futurista
dell’artista: una natura morta, costituita da una bottiglia poggiata su
un piatto. Il gioco dinamico che è fondamento dei suoi lavori, viene reso
mediante la proiezione vorticosa dei due elementi, l’esterno e l’interno
dei quali è indefinito. Grazie alle linee, le forme e i colori, l’oggetto prende vita; la finalità dell’artista è partire da una visione esterna di esso,
per arrivare alla decodificazione di quella interna.
Allo scopo di indagare e spiegare a se stesso, il metodo, la tecnica, i
meccanismi d’indagine per fare della figurazione la vita stessa, intuita
nelle sue trasformazioni dentro all’oggetto e non fuori da esso, nel
1914 scrive Pittura e Scultura futuriste. È da un simile punto di vista che
150 |
In trincea per la pace
Il primo significato dato dai futuristi al concetto di dinamismo quale semplice reiterazione meccanica del movimento, viene arricchito da Boccioni;
secondo quest’ultimo infatti, l’intuizione dell’artista è in grado di misurare la continuità nello spazio delle linee-forza, per mezzo delle quali gli
oggetti tendono, in ogni direzione, all’infinito. Questa tensione all’infinito
dell’oggetto è definito da Boccioni «trascendentalismo fisico» ed il suo
fine è quello di acquisire la capacità di riconoscere come forma unica il
dinamismo dell’oggetto. Da queste premesse discendono gli altri concetti del pensiero boccioniano di «simultaneità» e di «stato d’animo plastico». L’artista è quindi in grado di fornire una sintesi della fatalità drammatica di cui è preda il mondo, che riguarda, allo stesso modo, gli uomini
e tutta la realtà che li circonda. Scrive l’artista:«Noi vogliamo modellare
l’atmosfera, disegnare le forze degli oggetti, le loro reciproche influenze,
la forma unica nella continuità dello spazio. Questa materializzazione del
fluido, dell’etereo, dell’imponderabile; questa trasposizione nel concreto
di quello che si potrebbe chiamare il nuovo infinito biologico e che la febbre dell’intuizione illumina, è forse letteratura? Tutte le ricerche umane
nel nostro tempo non anelano forse verso questo imponderabile che è
in noi, attorno a noi e per noi? Non dimentichiamo che la vita risiede nell’unità dell’energia, che siamo dei centri che ricevono e trasmettono, cosicché noi siamo indissolubilmente legati al tutto»8.
Il testo di Boccioni Pittura e Scultura futuriste è un testo fondamentale
nella storia delle avanguardie artistiche del Novecento. La lettura e l’interpretazione di un simile testo non può essere compiuta senza rendersi conto del travaglio che lo precede e delle inquietudini, degli umori,
delle ragioni che lo seguono. Boccioni è uno strenuo interventista e parte per la guerra, con grande fervore, insieme a Marinetti, Sant’Elia, Sironi. Le lettere dal fronte all’inizio hanno un tono entusiastico, energi7
Boccioni Umberto, Pittura e scultura futuriste, Abscondita, Milano 2006, p. 95.
8
Id., p.152.
/ 151
co, convinto ma nel bel mezzo dell’entusiasmo arriva la crisi all’improvviso, sconcertandolo, ed egli si rivolge allora all’unica verità rimasta per
lui: l’arte. Dopo due anni di guerra il suo ardimento viene frantumato.
Muore nel corso di un’esercitazione, per una caduta da cavallo.
Il desiderio più pressante per Boccioni è quello di diventare, a tutti gli
effetti, un artista pienamente partecipe e attivo all’interno del convulso
e confuso clima della sua realtà contemporanea, constatando la necessità di un grande e profondo rinnovamento di fronte allo sfacelo dei valori ottocenteschi degenerati.
Le idee architettoniche di Antonio sant’Elia
Il Futurismo focalizza l’attenzione sulla metropoli contemporanea già
nelle prime opere programmatiche e nelle prime figurazioni pittoriche,
evidenziando l’energico, vitalità della vita metropolitana e delle macchine che vi si trovano: il tema dell’architettura futurista è quindi congenito ed inscindibile dalle idee del movimento. Architettura lineare,
essenziale e funzionale per una società improntata sul dinamismo. L’architetto più coinvolto dagli intenti del movimento futurista è Antonio
Sant’Elia. Ispirato, nel periodo compreso tra il 1912 e il 1914, dalle città
industriali degli Stati Uniti e dagli architetti viennesi Otto Wagner e Joseph Maria Olbrich, inizia a creare una serie di disegni per una “Città
Nuova”. Sant’Elia è consapevole del fatto che la sua proposta non può
avere una realizzazione immediata, per questo le sue intenzioni sono
precipuamente di natura propositiva come all’interno di una provocazione utopica sono da leggere le sue idee, i suoi progetti e disegni della
città nuova. Le sue metropoli sono pensate per essere durature, il suo
desiderio è che ogni generazione possa costruire dal nulla la propria città, in cui spazio destinato alla vita del singolo individuo e spazio collettivo si compenetrino, integrandosi.
Nel Manifesto dell’Architettura futurista, scritto nel 1914, si trovano i
fondamenti del suo progetto utopico. Sant’Elia immagina e disegna
un’architettura che, partendo da un’ipotesi nuova, possa risolvere i problemi della casa e della città, senza rinunciare al positivo dinamismo del
rinnovamento futurista. Scrive l’architetto:«Non si tratta di trovare nuove sagome, nuove marginature di finestre e di porte, di sostituire colonne, pilastri, mensole con cariatidi, mosconi, rane; non si tratta di la-
152 |
In trincea per la pace
antOnIO sant’elIa
studIO per la cIttà nuOva, 1914
/ 153
sciare la facciata a mattone crudo, o di intonacarla, o di rivestirla di pietra, né di determinare differenze formali tra l’edificio nuovo e quello
vecchio; ma di creare di sana pianta la casa futurista, di costruirla con
ogni risorsa della scienza e della tecnica, appagando signorilmente ogni
esigenza del nostro costume e del nostro spirito, calpestando quanto
è grottesco, pesante e antitetico con noi(tradizione, stile, estetica, proporzione) determinando nuove forme, nuove linee, una nuova armonia
di profili e di volumi, un’architettura che abbia la sua ragione d’essere
solo nelle condizioni speciali della vita moderna, e la sua rispondenza
come valore estetico nella nostra sensibilità. Quest’architettura non
può essere soggetta a nessuna legge di continuità storica. Deve essere
nuova come è nuovo il nostro stato d’animo»9.
L’antitesi tra antico e moderno è determinata da tutto quello che prima
non esisteva, sostiene Sant’Elia: «Abbiamo perduto il senso del monumentale, del pesante, dello statico, ed abbiamo arricchito la nostra sensibilità del gusto del leggero, del pratico, dell’effimero e del veloce. Sentiamo di non essere più gli uomini delle cattedrali, dei palazzi, degli
arengari; ma dei grandi alberghi, delle stazioni ferroviarie, delle strade
immense, dei porti colossali, dei mercati coperti, delle gallerie luminose,
dei rettifili, degli sventramenti salutari. Noi dobbiamo inventare e rifabbricare la città futurista simile ad un immenso cantiere tumultuante,
agile, mobile, dinamico in ogni sua parte, e la casa futurista simile ad
una macchina gigantesca.
Gli ascensori non debbono rincantucciarsi come vermi solitari nei vani
delle scale; ma le scale, divenute inutili, devono essere abolite e gli
ascensori devono inerpicarsi, come serpenti di ferro e di vetro, lungo
le facciate. La casa di cemento, di vetro, di ferro senza pittura e senza
scultura, ricca soltanto della bellezza congenita alle sue linee e ai suoi
rilievi, straordinariamente brutta nella sua meccanica semplicità, alta e
larga quanto più è necessario, e non quanto è prescritto dalla legge municipale, deve sorgere sull’orlo di un abisso tumultuante: la strada, la
quale non si stenderà più come un soppedaneo al livello delle portinerie, ma si sprofonderà nella terra per parecchi piani, che accoglieranno
il traffico metropolitano e saranno congiunti, per i transiti necessari, da
passerelle metalliche e da velocissimi tapis roulants »10.
9
Manifesto dell’architettura futurista, in Mario verdone, op. cit., pp. 92-93.
10
Id., p. 93.
154 |
In trincea per la pace
GIuseppe e antOnIO terraGnI
MOnuMentO aI cadutI. MOnOlItO In GranItO d’alzO,
alt. 30M, 1933, cOMO
La nuova architettura deve avere come elementi irrinunciabili: audacia
e temerarietà, elasticità e leggerezza, cemento e ferro, vetro e fibre
tessili, surrogati del legno, della pietra e del mattone. Non deve quindi
essere limitata dalla combinazione sterile di praticità ed utilità, ma risultante sempre da espressione e sintesi. Le abitudini, le consuetudini
plastiche e lineari cadranno. Il senso di transitorietà sarà presente come
positiva caratteristica dell’architettura futurista. La città sarà un cantiere sempre aperto.
Sebbene guardi con simpatia alle idee socialiste, all’alba della Prima
guerra mondiale Sant’Elia si schiera su posizioni interventiste, coerentemente con le idee del movimento futurista. Nel 1915 si arruola volontario nel Regio Esercito Italiano. Durante un assalto con il suo plotone ad una trincea nemica, viene colpito a morte. Da un suo disegno
ad acquarello nasce il sacrario di Como, il Monumento ai caduti. Il sacrario costituito da un monolito in granito d’Arzo del peso di 40 tonnellate
rivestito di diorite d’Anzola viene realizzato poi dai fratelli Terragni. Sulla
facciata di fronte al lago è scolpita una frase dell’architetto: «Stanotte
si dorme a Trieste o in paradiso con gli eroi».
La maggior parte dei suoi progetti non furono mai realizzati, ma la sua
visione futurista ha influenzato numerosi architetti e disegnatori.
/ 155
LA vIOLENZA DEL CONFLITTO E L’ImPATTO EmOTIvO
NELLE OPERE DEGLI ARTIsTI TEDEsChI E AusTRIACI
Il trauma della guerra: Dix, Grosz, Kirchner
Allo scoppio della guerra Otto Dix, interventista deciso e pieno di entusiasmo, si arruola volontario nell’esercito tedesco, attratto come tanti giovani europei dalla speranza di partecipare ad eventi straordinari
e dalla possibilità di dare vita ad un mondo rinnovato, sulle rovine di
quello vecchio. La convinzione, resa ancora più radicata in lui dalla lettura di Nietzsche, che l’esperienza intrapresa sia necessaria e rigeneratrice, è accompagnata dalla sua grande determinazione, come è evidente nell’opera in cui decide di ritrarre se stesso: l’Autoritratto da soldato, del 1914. In questo dipinto, infatti, l’artista sceglie di utilizzare
colori violenti, pennellate decise e raffigura se stesso con occhi profondi, mascelle serrate, testa rasata; ad indicare, in maniera ulteriore,
i suoi sentimenti di fierezza e determinazione, l’apposizione di una firma molto grande e squadrata.
Nel momento in cui la guerra moderna rivela il suo aspetto più duro,
tragico, antieroico, distruttivo, il sentimento dell’artista cambia, si trasforma in disperato sconforto. In questi anni Dix realizza un diario visivo, composto di centinaia di fogli e disegni, frutto della sua esperienza
nei diversi fronti del conflitto, prima in
Francia, poi nelle Fiandre, in Russia e ancoOttO dIx
autOrItrattO da sOldatO, 1914
ra in Francia. In quest’opera gli aspetti più
OlIO su carta, 68 x 53,5 cM
GalerIe der stadt stuttGart,
terrificanti della guerra affiorano attraverstOccarda
so la rappresentazione di paesaggi devastati come lesioni inflitte alla terra inerme
e mediante l’utilizzo di immagini espressioniste di morte, di aggressione, di violenza, rafforzate dai colori puri. I commilitoni di Dix che condividono giorno dopo giorno la terribile esperienza bellica con lui non
riescono a comprendere fino in fondo quelle illustrazioni perchè le trovano troppo violente ed impressionanti.
In Germania alla fine della Prima guerra mondiale nasce un movimento
artistico riguardante, in prima istanza, la pittura: “La Nuova Oggettività”. L’adesione di Dix al gruppo corrisponde alla sua partecipazione alla
mostra d’arte, dove vengono esposte le opere dei pittori appartenenti
al movimento, organizzata a Mannheim. L’intento di questi artisti è
quello di utilizzare l’arte come un arma, come mezzo per rappresentare
156 |
In trincea per la pace
/ 157
la realtà lucida e concreta delle cose, grazie alla capacità di provvedere
a descrizioni amare e distaccate, alla forza di testimoniare i loro sentimenti di disillusione, rassegnazione e cinismo davanti al drammatico
dopoguerra tedesco e ad una società contaminata e corrotta; questa
componente emotiva è peculiare della temperie culturale tedesca.
OttO dIx
craterI dI bOMbe In un caMpO a dOntrIen
rIschIaratO da pallOttOle traccIantI, 1924
cM 19,3 x 25,4, brItIsh MuseuM, lOndra
OttO dIx
FIandre, 1936
La conoscenza della grande tradizione artistica tedesca e la personale
memoria di una tragedia infinita si congiungono in una serie di 50 acqueforti dal titolo Der Krieg (la guerra), realizzata nel 1924 in occasione
del decennale della Prima guerra mondiale; in questo ciclo Dix si dedica
al tema bellico con uno stile che richiama alla mente un’altra famosa
collana di incisioni contro la guerra, i Disastri della guerra di Goya. Uno
dei fogli più terrificanti della serie di Dix è il quarto (Crateri di bombe in
un campo a Dontrien rischiarato da pallottole traccianti) dove la scelta di
rappresentare solo un povero pezzo di terra segnato dalle esplosioni e
il buio squarciato dalla luce improvvisa dei razzi, rivelatrice di un paesaggio lunare, allontana la figurazione dall’abituale retorica dell’orrore
e testimonia l’accostamento di Dix ad una tecnica di incisione sviluppata
nei primi anni del Cinquecento da un artista della Svizzera tedesca, Urs
Graf; un procedimento in cui è previsto il capovolgimento del rapporto
tra bianchi e neri, la xilografia a linee bianche.
Alla fine degli anni venti Dix elabora e porta a compimento un’opera
monumentale, concepita nella forma del trittico, scrive l’artista: «Quando ho dipinto il trittico La guerra non volevo suscitare sentimenti di paura. Il quadro è stato eseguito dieci anni dopo la fine della guerra mondiale. Durante quel periodo avevo realizzato molti studi, cercando di
rappresentare pittoricamente l’esperienza della guerra. Nel 1928 mi
sono sentito pronto ad affrontare quel grande soggetto, a cui avevo lavorato tanti anni. In quell’epoca, durante la Repubblica di Weimar, c’erano molti libri che esaltavano il senso dell’eroismo, riandando insensatamente alle azioni militari della prima guerra mondiale. Gli uomini stavano già dimenticando le terribili sofferenze che la guerra aveva portato. Il trittico è nato da queste riflessioni. ho voluto solo rappresentare,
in modo sintetico e oggettivo, come se facessi un articolo su un giornale, le mie esperienze dal 1914 al 1918»11.
Il Trittico della guerra viene realizzato a Dresda ed esposto a Berlino nel
1932; opera ad ulteriore testimonianza della relazione stretta di Dix con
l’antica tradizione pittorica. Il trittico è una struttura arcaica, tipica degli
11
OttO dIx
trIttIcO la Guerra, 1929-32
alt. cM 264, staatlIche KunstsaMMlunG, dresda
La Nuova Oggettività tedesca, a cura di Elena Pontiggia, Abscondita, Milano 2002, p. 40.
158 |
In trincea per la pace
/ 159
altari ecclesiastici e il riferimento all’arte religiosa non è fortuito, nonostante ad essere rappresentati non siano personaggi religiosi ma intollerabili crudeltà belliche, ma serve, da un lato, a riguadagnare dopo
l’astrattismo, il legame con la realtà, dall’altro, risulta utile a fornire la
scansione temporale della figurazione. Nel pannello a sinistra un gruppo
di soldati procede in un’atmosfera tempestosa, richiamando alla memoria l’andata al calvario di Cristo. Un bombardamento tremendo, in grado
di distruggere tutto e rendere scheletro l’uomo in alto, crocifisso, viene
rappresentato nello scomparto centrale. All’interno di un paesaggio cupo e lunare Dix inserisce la citazione di un arco di rocce, riferimento agli
sfondi paesaggistici delle madonne del Rinascimento, meravigliosi e pieni di bellezza, in contrasto stridente con uno sfondo composto da corpi
massacrati e in disfacimento. Il soldato che indossa la maschera indica
la minaccia di attacchi chimici. Nello scomparto destro un militare è intento a cercare invano sopravvissuti e nella predella, l’ultimo pannello,
nel quale di solito la tradizione iconografica pone la raffigurazione di Cristo disteso, appaiono invece soltanto numerosi cadaveri. Non bisogna
valutare l’opera solo come una delle più tormentate e terrificanti rappresentazioni della guerra ma anche come dimostrazione dell’esperienza diretta dell’artista che la vive come un’angosciosa esperienza onirica
trasformatasi in realtà. I traumatici fatti vissuti, lo accompagnano anche
dopo anni dalla fine del conflitto, nei suoi incubi costanti, ed è questo
che Dix vuole mostrare alla vigilia di un’altra immane tragedia.
L’ostilità di Dix al regime che sta organizzando un nuovo conflitto è provata dal suo ultimo dipinto di tema bellico: Fiandre del 1934-36, compiuto di nascosto, dopo il divieto impostogli dai nazisti, di esporre e di
perpetuare con i suoi insegnamenti la memoria della guerra e dei suoi
morti. Quest’opera come Il Trittico della guerra riporta agli esempi dei
grandi artisti del passato, per esempio nello stile adottato per la figurazione del cielo e delle radici degli alberi. La volontà di Dix di schierarsi
contro il nuovo regime è dimostrata anche dal fatto che il dipinto è un
omaggio ad uno scrittore vietato dal Terzo Reich: Barbusse, combattente francese, membro del partito comunista francese, morto a Mosca
nel 1935, autore del libro Il Fuoco. Il tema dell’opera di Dix non è più il
massacro ma la reazione dei soldati, di entrambi gli schieramenti, davanti all’acqua che invade le trincee e la loro fuga per mettersi in salvo,
al riparo, nella notte, dall’inondazione; il loro pensiero non è più quello
di uccidersi ma quello di salvarsi e quando arriva il mattino, si ritrovano
tutti vicini nello stesso luogo.
160 |
In trincea per la pace
Nel 1933 con la presa al potere di hitler, Otto Dix viene considerato un
pittore “degenerato”, in tal modo è aggettivato dal regime qualunque
artista che nelle proprie opere riveli principi o scelte estetiche contrarie
alle concezioni naziste, le quali si oppongono a molte forme d’arte contemporanea dell’epoca. Non solo viene proibito quindi a Dix di esporre
la propria arte ma alcune sue opere vengono confiscate e bruciate.
Un altro artista tedesco, nel 1914, si arruola volontario nell’esercito, George Grosz. A causa del trauma psicologico legato all’esperienza bellica
viene congedato per problemi di salute e ricoverato presso un ospedale
militare. Riprende a dipingere tra il 1915 e il 1917 e al fine di rappresentare lo sfaldamento morale dopo il tracollo prussiano, decide di ridurre
graficamente il segno in modo drastico; negli anni seguenti la sua produzione è caratterizzata da questo stile, nel momento in cui, per breve
tempo, partecipa al movimento Dada di Berlino, giunto in quella città da
zurigo nel 1918 e sceglie di aderire a ideologie politiche rivoluzionarie.
Le ripercussioni psicologiche delle atrocità che l’artista si è trovato a vivere sono evidenti in un’opera del 1917, Metropolis. L’immaginazione
lo porta a rappresentare in questo dipinto una città priva di ordine, caratterizzata da una confusione opprimente e dove gli uomini trascorrono le loro esistenze soffocati da un’atmosfera convulsa e violenta. Un
colore prevale sugli altri, il rosso, per evidenziare il concetto della città
moderna come luogo di dolore e angoscia, luogo in cui le persone vengono logorate dal traffico e dal cemento. Gli uomini, resi irriconoscibili
dalle maschere, sembrano scappare da un imminente disastro, un conflitto o semplicemente il loro avvenire devastato dal progresso incontrollato e disordinato della metropoli.
Le figure rappresentate nel dipinto sembrano partecipare ad un drammatico spettacolo teatrale, come se Metropolis costituisca, in realtà, una
sorta di caricatura della città moderna. L’esito ultimo dell’opera, realizzata negli anni della Prima guerra mondiale, viene ineluttabilmente condizionato dalla situazione tragica in cui si trova l’artista e dalla presa di
coscienza di un conflitto che diventa, giorno dopo giorno, una carneficina di massa. Il dinamismo della figurazione è meccanico e definito, da
un lato il movimento delle persone che fuggono verso punti diversi, con
andatura sostenuta ma disordinata, dall’altro la staticità degli edifici, come quello più importante che separa il quadro in due parti, virtualmente
sorretto dalla delimitazione rappresentata dal palo opposto al centro.
Tutto appare come il fotogramma di un film, una proiezione catastrofica
e forse un presagio; pochi anni più tardi il nazismo sarebbe andato al po-
/ 161
Un’altra opera di Grosz, realizzata tra il 1917 e il 1918, si connette alla
rappresentazione dell’umanità fuori controllo e vittima di corruzione e
disfacimento: Il funerale. Il dipinto diventa per il pittore una valvola di
sfogo, sarcastica e pessimista, per l’astio e il risentimento dell’artista
nei confronti di una società borghese, rea di aver coinvolto o comunque
di non aver impedito la partecipazione della Germania alla grande catastrofe della guerra mondiale.
GeOrGe GrOsz
MetrOpOlIs, 1916-17
OlIO su tela, 100 x 102 cM
MuseO thyssen- bOrneMIsza, MadrId
GeOrGe GrOsz
Il Funerale. dedIcatO a OsKar panIzza, 1917-18
OlIO su tela, cM 140 x 110
staatsGalerIe, stOccarda
tere e Grosz censurato per il significato e i contenuti delle sue opere. Al
dipinto, conseguenza degli orrori ai quali l’artista ha assistito, appartiene uno stile segnato da una forte componente espressionista, sulla quale influiscono elementi tratti dall’estetica cubista ed in misura ancora
maggiore, futurista. Caratteristico del Futurismo italiano è lo studio del
dinamismo proprio della vita urbana moderna e Grosz riesce ad adattare questo principio alla propria visione del mondo.
La massa di persone imprigionata senza alcuna via di scampo in un’esistenza dall’avvenire spaventoso e pieno di barbarie, si coniuga, perfettamente, con la celebrazione dell’inesorabile fatalità del destino umano, tipica degli artisti futuristi; Grosz la amplifica grazie a fondamentali
linee di fuga che partono da un punto determinato immobile e grazie
anche all’illuminazione dell’intera scena, assicurata dalla presenza di un
infuocato sole irreale.
162 |
In trincea per la pace
Il quadro è dedicato ad Oskar Panizza, autore di una serie di volumi di
poesie, ardite e sfrontate, per le quali viene prima arrestato ed imprigionato nel 1885 e poi internato in vari ospedali psichiatrici, dal 1901
fino alla sua morte nel 1921. Grosz consegna del dipinto un’interpretazione eccentrica, irriverente e dall’intonazione raccapricciante, come
dimostrano gli edifici raffigurati sulla scena, talmente instabili da dare
l’impressione di un crollo imminente la cui vittima sarebbe la folla. Al
centro della composizione, l’artista dispone una bara bianca sopra la
quale è seduto uno scheletro ubriaco. Sulla destra, un giovane che rigurgita le illusioni della propria esistenza. Tre figure orripilanti e spaventose, rappresentanti la sifilide, la peste e l’alcolismo si pongono davanti ad un prete che con un crocifisso bianco in mano e le braccia sollevate tenta di tenerle a bada. L’utilizzo di sfumature rosso scuro e nero
per la marcia disordinata di figure distorte, tra edifici minacciosamente
instabili, rende opprimente e piena di angoscia l’atmosfera del quadro,
inoltre ad accentuare la sensazione di claustrofobia, la scelta della sovrapposizione di scene multiple nello spazio.
L’intento di Grosz, come di altri nuovi pittori anti-borghesi della Germania, è quello di restare il più possibile fedele alla realtà, scrive nel 1921:
«Tornare alla stabilità, alla costruzione, alla funzionalità: sport, ingegneria, macchine, niente più dinamismi e romanticismi futuristi. Sto provando ancora a dare un’immagine assolutamente realistica del mondo. Mi
sforzo di essere comprensibile a tutti, evitando gli abissi di profondità
oggi in voga, a cui si può giungere solo indossando un vero e proprio
scafandro carico di metafisica e di menzogne cabalistiche. Nel tentativo
di creare uno stile semplice e chiaro, si finisce senza volerlo per avvicinarsi a Carrà. Eppure tutto concorre a separarmi da un artista come lui,
che aspira a una dimensione metafisica e affronta una tematica borghese. Io cerco nei miei lavori cosiddetti artistici, di costruire una base assolutamente realistica. L’uomo non è più un individuo rappresentato con
un sottile scavo psicologico, ma un concetto collettivo, quasi meccanico.
Il destino individuale non ha più importanza. vorrei come nell’antica Gre-
/ 163
cia, rappresentare dei semplici avvenimenti sportivi, comprensibili e godibili senza bisogno di chiose. Il futuro dell’arte lo vedo nell’artigianato,
nelle cose fatte a mano, non nel tempio celeste. La pittura è un lavoro
manuale come un altro, che può essere fatto bene o male»12.
Queste premesse lo portano ad approdare, nel 1925, al movimento della “Nuova oggettività” e a partecipare alla mostra di Mannheim. La tragica situazione del dopoguerra tedesco si estrapola facilmente dai dipinti, dalle litografie e dai disegni di questo periodo. La falsità e la violenza di salotti, caserme, tuguri, strade vengono messe a nudo dallo stile caustico e amaro di Grosz. Uno spirito spiccatamente satirico è evidente in un dipinto di questi anni: i Pilastri della società, nel quale analizza, senza pietà, i personaggi destinatari del potere della società, due
politici, un giornalista, un prete e dei soldati. Le sembianze delle figure
sono accentuate, esagerate e i loro visi appaiono come terrificanti sogghigni derivanti da un incubo. In primo piano è raffigurato un militante,
in una mano ha un boccale di birra, nell’altra una spada, sulla cravatta
blu il simbolo della svastica ( simbolo che si trova in quest’opera realizzata nel 1926, nove anni prima della salita al potere di hitler), dalla sua
scatola cranica fuoriesce un cavaliere armato, personificazione delle
sue convinzioni bellicose; dietro questa figura quella di un politico, privo
di cervello perché al posto di quest’ultimo ha solo un cumulo di escrementi, la sua obesità e mollezza ad esemplificare il suo egoismo. Il personaggio con un vaso da notte in testa a sostituire il cappello, è un giornalista e ad evidenziare le sue idee fermamente conservatrici, una penna con la piuma. A chiudere la rappresentazione, un prete con naso ed
orecchie rosse e sullo sfondo, i soldati intenti a diffondere morte e distruzione con piglio caparbio.
GeOrGe GrOsz
I pIlastrI
della sOcIetà, 1926
neue
natIOnalGalerIe,
berlInO
L’artista caratterizza ogni figura con una forma sintetizzata ma anche
con l’aggiunta di precisi dettagli, molto utili a livello di comunicazione;
usa l’arma della pittura per criticare la situazione politico-sociale della
Germania, attraverso una pittura brutale quanto i tempi in cui si trova
a vivere.
Grosz è stato un artista in grado di scorgere nella sete di potere, nell’autoritarismo politico, nel desiderio sfrenato di ricchezza, i segni della
nevrosi, di una dannosa e mortale follia. La sua determinazione nella
denuncia dei mali della società, rappresenta una delle motivazioni per
12
La Nuova Oggettività Tedesca, op. cit., p.19
164 |
In trincea per la pace
/ 165
cui anche Grosz come Dix viene ritenuto dal nazismo un “artista degenerato”. Nel 1933 lascia la Germania alla volta degli Stati Uniti, tornerà
in patria solo un anno prima della morte, avvenuta nel 1958.
Caratterizzato da una violenta denuncia sociale è il percorso umano e
figurativo di un altro artista tedesco: Ernst Ludwig Kirchner, la cui larga
fama è legata al primo espressionismo tedesco. Nel 1905 nasce «Die
Brucke» (Il Ponte), un movimento artistico d’avanguardia di cui l’artista
è uno dei fondatori. Esaminando il momento storico caratterizzato da
degradazione morale, sfruttamento e depauperazione di una classe
operaia ormai alienata, sconvolgimenti e politiche disattese, il nome
scelto per la nuova corrente rappresenta uno stimolo ad attraversare
una sorta di ponte virtuale che porta al traguardo ultimo di un futuro
promettente, rispetto alla situazione contemporanea.
In quegli anni e fino al momento in cui il gruppo decide di sciogliersi nel
1913, Kirchner trova nella sua arte il modo di mettere in evidenza le sue
convinzioni più radicate al fine di trasporre visivamente gli elementi della società in cui vive. Esempio di questo, sono dipinti come le Cinque
donne per strada del 1913, notevole sia per il tema che per l’elaborazione. Il rapporto dell’espressionismo tedesco con la visione della realtà è
segnato da uno sguardo angosciato e pieno di dolore, a differenza dei
Fauves, perché generato sempre da circostanze più drammatiche. La
realtà rimane celata dietro un muro di consuetudini e falsità, non è quella che sembra. L’intima conoscenza dell’animo umano è l’unico mezzo
per svelare la verità dietro la sua immagine apparente avvertita dagli
occhi. Per avvicinare l’uomo a ciò che l’animo percepisce, la pittura
espressionista tedesca provvede alla deformazione dell’aspetto della
realtà. Nelle opere di Kirchner questo è evidente nella scelta di dare
una forma spigolosa e appuntita ai corpi che non irradiano calore umano ma diffondono invece una sensazione di aguzza freddezza.
Le cinque donne raffigurate nel dipinto possono essere prostitute che
aspettano clienti sotto un lampione oppure signore borghesi, quello che
è certo non si differenziano significativamente da altre donne visibili in
altri quadri dell’artista. Le fattezze appuntite, i corpi spigolosi e privi di
curve, i visi pallidi ed esangui restituiscono di queste cinque figure femminili un’immagine lugubre ed infausta. L’opera non è collocata nello
spazio in maniera molto nitida, anche se un incerto elemento circolare
è disegnato dalla posizione delle donne in angolazioni distinte. Per creare e distinguere le cinque protagoniste dallo spazio circostante, l’artista
sceglie il nero che si differenzia dalle prevalenti tonalità del verde, in un
166 |
In trincea per la pace
assortimento cromatico piuttosto ristretto. Lo stile pittorico è reso volontariamente più snello, quasi a voler creare un collegamento con la
tecnica xilografica conosciuta ed adottata dagli artisti espressionisti del
gruppo «Die Brucke» e quindi dallo stesso Kirchner. La scelta di utilizzare
il colore come forma di espressione, la semplificazione dei profili, le ambientazioni drammatiche e fosche, la determinazione a voler mettere a
nudo i difetti della società borghese in maniera estesa, la volontà di sovvertire il significato della bellezza come dote portata dall’arte per promuovere sentimenti rassicuranti e confortanti, sono tutti segni distintivi
dell’espressionismo tedesco. Gli artisti espressionisti, infatti, rifiutano
l’idea borghese dell’arte come strumento di ottimistiche e piacevoli divagazioni, e non può essere altrimenti dato che la loro arte è una denuncia sociale orientata, proprio, contro la borghesia.
Nel 1913 il gruppo viene sciolto e alla stessa data viene associato il principio per Kirchner di problemi fisici e psicologici; complicazioni acuite
dal fatto che l’artista decide di arruolarsi volontario, l’anno successivo
allo scoppio della Prima guerra mondiale.
Parte per il fronte e l’esperienza diretta del conflitto lo devasta interiormente. La convivenza con la morte, l’osservazione delle mutilazioni,
le atrocità che caratterizzano la guerra di trincea ad oltranza, lo portano
ad una condizione tale di abbattimento che nel 1915 viene congedato
al fine di farsi curare per l’esaurimento nervoso di cui è vittima. Il trauma
subito durante il conflitto si evince anche dai suoi autoritratti di questo
periodo, ne è un esempio, appunto, l’Autoritratto da soldato del 1915,
in cui l’artista ritrae se stesso nella sua divisa militare insieme ad una
donna nuda, non imprescindibilmente legata a lui da un rapporto sentimentale, forse una prostituta.
La coscienza che al fronte la morte può arrivare da un momento all’altro, inaspettata ed improvvisa, rende lo sguardo del pittore, nel dipinto,
quasi inconsistente e stordito. Il moncone dal quale fuoriesce ancora
sangue è la dimostrazione ed il simbolo della paura avvertita nei confronti della guerra e delle mutilazioni che quest’ultima è in grado di provocare. È la prima opera che focalizza fermamente l’attenzione sulle
conseguenze terribili del conflitto sul piano anche fisico e comprova il
terrore di Kirchner e degli artisti di quella generazione, verso la capacità
della guerra di annientare le loro forze fisiche e creative a causa dei danni morali risultanti dalle atrocità affrontate. Il passato diventa insignificante di fronte all’amputazione subita dall’artista ed è rappresentato
dalla donna. L’artista ha utilizzato più volte la figura femminile nella sua
/ 167
carriera, per esempio nella serie di ritratti di Marcella tra il 1908 e il
1910; Kirchner la raffigura spavalda, insolente, con uno sguardo sensuale, truccata in modo esagerato, vestita o nuda, coperta nelle parti
intime e nei seni dalle braccia.
Testimonianza ulteriore della devastazione interiore dell’artista provocata dalla guerra è l’Autoritratto da ammalato del 1918, che raffigura
un Kirchner sconvolto, inquieto, assolutamente terrorizzato. Il paesaggio dalla finestra si manifesta in tinte di colori appariscenti, la stanza
pare diventare più piccola a vista d’occhio e in primo piano il pittore dalla carnagione pallida e verdognola, angosciato dall’avvenire. Un importante periodo di successi arriva con la fine della guerra per il pittore che
però, nonostante l’edizione di un suo catalogo personale e di diverse
mostre monotematiche, è sempre vittima delle forti ripercussioni psicologiche ed emotive associate all’esperienza del conflitto.
Nel 1937 i suoi quadri vengono esposti nella mostra voluta dai nazisti
sull’ «arte degenerata». L’anno successivo Kirchner si toglie la vita.
Le inquietudini della coscienza: Oskar Kokoschka
ernst ludwIG KIrchner
cInque dOnne per strada, 1913
OlIO su tela, 120 x 90 cM
MuseO ludwIG, cOlOnIa
ernst ludwIG KIrchner
autOrItrattO da sOldatO, 1915
allen MeMOrIal art MuseuM, OberlIn
ernst ludwIG KIrchner
autOrItrattO da aMMalatO, 1918
OlIO su tela
das stadel MuseuM, FrancOFOrte
All’inizio del Novecento, vienna è il punto di riferimento culturale di letteratura, pittura e musica, culla della psicanalisi freudiana e città piena
di fascino, borghese, lussuosa, colta, grandiosa, appariscente e sull’orlo
della catastrofe in cui viene coinvolta dallo scoppio della Prima guerra
mondiale. In quest’atmosfera confusa e disordinata, sviluppa il suo percorso artistico Oskar Kokoschka, un grande artista partecipe e consapevole del drammatico periodo di forti inquietudini esistenziali.
Si trasferisce a Berlino nel 1910 e nel 1914 è coinvolto nel «Blaue Reiter» (il Cavaliere Azzurro), un movimento artistico nato nel 1911 a Monaco di Baviera, in attività fino all’inizio del primo conflitto mondiale
che ne motiva la disgregazione. In senso temporale è il secondo dei due
cardini principali dell’espressionismo tedesco dopo «Die Brucke». Non
esiste un vero e proprio manifesto del gruppo ma viene prodotto un
bollettino con il medesimo nome, caratterizzato, sin dal principio, in
senso multidisciplinare ed universalistico.
Il 22 giugno, mentre è al lavoro, Kokoschka viene a conoscenza, dagli
strilloni dei giornali che proclamano un edizione straordinaria, delle notizie riguardanti l’assassinio, a Sarajevo, dell’arciduca Ferdinando e della
168 |
In trincea per la pace
/ 169
sua consorte e prende, in quel frangente, la decisione di arruolarsi volontariamente nella cavalleria. Resta ferito sul fronte orientale e dopo
essere stato ricoverato presso un ospedale militare, viene congedato
per malferma salute mentale. Prima di partire per la guerra, con la cavalleria, al fine di acquistare una giumenta, decide di vendere ad un farmacista di Amburgo, il suo capolavoro appena compiuto, La sposa del
vento. L’opera, conosciuta anche con il titolo La tempesta, viene eseguita
a vienna alla vigilia della Prima guerra mondiale nel 1914 ed è senza
ombra di dubbio, la più celebre dell’artista.
L’Impero asburgico di cui vienna è capitale uscirà disgregato dal conflitto e la città, importante polo europeo di cultura, vive gli anni dell’evento bellico in un atmosfera di incertezza e quasi di consapevolezza
del fatto che il mondo dorato che l’ha rappresentata sino a quel momento stia per sparire. Tutto questo trova la sua manifestazione figurativa nelle tele di Gustav Klimt, piene di ambientazioni aggraziate e delicate. La raffinatezza di Klimt, però, con le sue eleganti evasioni diventa
troppo rasserenante in un clima sempre più incerto e teso e si fanno
strada così altri punti di vista legati ai nuovi movimenti espressionisti
che si originano in quegli anni all’interno della temperie artistica mitteleuropea. I dettami artistici devono subire un mutamento, passare dal
“bello” al “brutto” perché quest’ultimo risulta più aderente alla rappresentazione della dolorosa realtà di quel preciso momento storico, trasformazione messa in atto appunto dall’espressionismo a vienna. Allievo di Klimt, Kokoschka, per la raffinatezza del tratto e per il consapevole
sentimento poetico delle sue figurazioni e delle sue concezioni mantiene una certa affinità con il maestro appartenente alla Secessione viennese, pur lavorando su un registro del tutto diverso, e si allontana dallo
stile più crudo e drammatico degli altri artisti espressionisti che lavorano in Germania.
Il protagonista della Sposa del vento è l’uomo. Essere dubbioso per antonomasia l’uomo, che resta sveglio durante la notte per trovare l’irrealizzabile armonia tra ragione e sentimento. La donna è più serena e
pacata, grazie alla sua capacità di relazionarsi alla vita e cancellare dalla
sua mente i fantasmi notturni che generano inquietudini esistenziali.
Tutto questo viene figurato dall’artista in maniera magistrale. L’espressione del volto e il distendersi del corpo rilassato, restituiscono della
donna un’immagine quieta e tranquilla, comunicando il suo benessere
fisico e psicologico. Gli occhi aperti dell’uomo sono, invece, sintomo di
un conflitto interiore, un disturbo della psiche che non gli permette un
170 |
In trincea per la pace
sonno rilassato ma anzi altera il suo
corpo in una forma spigolosa e segnata da fasci di nervi. La figurazione in Kokoschka è plasmata e strutturata dal colore che rimanda direttamente alla gestualità del pittore.
Il colore riesce a richiamare alla mente atmosfere e ambientazioni con
una grande efficacia di comunicazione, data dalla sua funzione di astrarre dal reale e dalla sua composizione materica. La relazione tra il paesaggio notturno composto da nuvole, montagne, dal vento e dalla luna,
con l’aspetto dei due personaggi nudi, è la dimostrazione della grande
ispirazione dell’artista. Il quadro diventa il riflesso delle passioni umane,
all’interno di una natura quasi partecipe della drammatica esistenza dell’uomo e proiezione di significati allegorici e simbolici universali, come
lo è, del resto, la rappresentazione della differenza, nella sostanza, tra
uomo e donna. Nell’opera sono anche presenti tracce autobiografiche
riguardanti la vita privata che in questo periodo è segnata da un rapporto sentimentale estremamente profondo con Alma Mahler, vedova
del celebre musicista e compositore viennese. Indubbiamente il suo
OsKar KOKOschKa
la spOsa del ventO (O la teMpesta), 1914,
OlIO su tela, 181 x 220 cM
KunstMuseuM, basIlea
/ 171
da una materia disfatta dalla violenza delle pennellate, ed il calore proveniente dai corpi dei personaggi, segnato in rosso, diventa poi un azzurro tetro e glaciale.
La pittura di Kokoschka è condizionata in modo profondo dai suoi tormenti interiori ed è caratterizzata da una sorta di trambusto visivo con
linee fluenti e sinuose, da cui affiorano figure quasi disorganiche. I medesimi elementi sono riscontrabili in un’altra opera dell’artista, Il cavaliere errante. Il tema eroico viene trasposto in un registro tragico e come
prodotto di una visione.
scopo di fornire una proiezione,
quanto più aderente al reale, del
legame tra uomo e donna, è favorito dalla conoscenza delle dinamiche presenti in tutti i rapporti. È il 1914, la guerra è sul punto di
iniziare e di sconvolgere gli animi e le vite dell’artista, della sua compagna, dei genitori, degli amici e di ogni cosa nella loro città. I periodi di
tranquillità assoluta sono un lontano ricordo e tutto viene travolto dalla
tensione e dalla paura per il futuro, persino una scena potenzialmente
dolce e tenera. L’arte è, spesso, l’espressione del contesto nel quale viene prodotta, ne rappresenta la poetica e il linguaggio, quindi nemmeno
l’amore può essere dispensato dall’inquietudine di un momento storico
tanto violento. L’angoscia interiore dell’artista si trasferisce nelle sue
mani e mediante un turbine di distruzione, sfalda e rende immateriali
le figure che diventano inconsistenti, si sgretolano e sono parte del dolore universale intorno a loro. Le ferite dell’uomo esemplificano quelle
di ogni persona nel mondo e il corpo, gravato dal peso di tante sofferenze, quasi si accartoccia su se stesso. Non fa eccezione nemmeno l’alcova che li ospita, si trasforma, infatti, in un mare burrascoso, composto
OsKar KOKOschKa
Il cavalIere errante, 1915
OlIO su tela, 90 x 180 cM
sOlOMOn r. GuGGenheIM MuseuM, new yOrK
172 |
In trincea per la pace
Nell’opera, del 1915, l’artista rappresenta un paesaggio burrascoso nel
quale, al centro, emerge un uomo dalle ali d’angelo, forse il pittore o
forse l’immagine della morte; si distingue sulla destra una leonessa dal
viso di donna e in lei probabilmente si può riconoscere Alma Mahler. Al
centro del quadro possono essere identificate le lettere “E S” che sono
presumibilmente legate ai versi del salmo 21 della Bibbia “Eloi, Eloi, lama
sabachtani”(Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato). Kokoschka
che si identifica nel cavaliere errante, in questo modo realizzerebbe un
tentativo di immedesimazione con la sofferenza di Cristo. Il fatto che
l’immagine del cavaliere disteso collimi con quella dell’artista stesso, rende più affascinante il tema, per la scelta appunto di una figurazione simbolica. Kokoschka è un pittore assillato dai suoi tormenti, addolorato per
il suo tempestoso rapporto sentimentale e catturato, nella vienna del
secondo decennio del Novecento, dagli insegnamenti di Freud.
L’amore per Alma è tragicamente finito dopo l’aborto del bambino che
aspettava e l’artista si ritrae sommerso, virtualmente, da un fiume di
sofferenza, all’interno di un paesaggio lugubre e tetro, con le braccia
allargate e gli occhi indirizzati al cielo. Un cavaliere che capitola di fronte
all’enormità del dolore, fragile e sciagurato, quasi un Orlando innamorato, vittima della follia causata dalla passione. La scioltezza del tratto,
l’espressione libera, l’eleganza quasi decorativa, sono tutti elementi che
affiorano nella struttura figurativa, sia del personaggio che del paesaggio e possono essere riferiti, da un lato, all’arte di Klimt, per la sua elaborazione di forme raffinate, dall’altro, al percorso artistico di van
Gogh, per la sua soluzione innovativa nella rappresentazione di soggetti
circondati e avvolti da ondate cromatiche che si espandono davanti agli
occhi dell’osservatore. Le reminiscenze infantili di Kokoschka sono indicative di un’originaria attitudine al visionario, inizia, infatti, molto presto ad essere sonnambulo, emotivamente instabile, spesso trovato a
sognare un viaggio sulla luna, affacciato al davanzale della finestra. Il
/ 173
pittore convoglia nelle sue opere, tutto il carico delle sofferenze umane, le problematiche apportate dal vivere in una situazione storica, sociale e politica incerta, piena di contraddizioni, di paure, tensioni, emarginazione ed isolamento.
IL CAmbIAmENTO DI CLImA INTELLETTuALE ED EsTETICO
L’artista rende sempre intima e profonda l’indagine sugli stati d’animo e
sulle emozioni delle figure ritratte, mettendo così a nudo la propria, grande, sensibilità. I personaggi deformati, i corpi, le mani, i visi, gli occhi, mai
disegnati compiutamente, ribadiscono questo concetto; le deformazioni,
le pose e i gesti esagerati, sono infatti un mezzo per rendere percepibili
non solo i loro sentimenti ma anche i tratti psicologici. Kokoschka accresce la conoscenza della realtà mediante la sua distorsione ma rimane costantemente aderente ad essa, anzi in questo modo la glorifica.
In opposizione alla temperie culturale ed ai principi che hanno condotto
al conflitto bellico, nasce, proprio durante la Prima guerra mondiale, il
dadaismo, un movimento artistico di protesta il cui intento è quello di
scandalizzare con un’arte indirizzata alla sperimentazione di metodi di
espressione innovativi, ripudiando, quindi, le norme imposte dalla consuetudine. I natali del movimento sono da ricondursi in Svizzera, a zurigo; nel momento in cui la guerra sconvolge l’Europa, una nazione neutrale e pacifista diventa riparo per rifugiati russi, tedeschi, rumeni e
francesi. Si trovano tra loro artisti, attori, poeti ed emigrati politici come
Tristan Tzara che nel 1916 insieme ad hugo Ball fonda il Cabaret voltaire: un caffè letterario intitolato, in maniera provocatoria, al filosofo
illuminista, all’interno del quale si mettono in scena, infatti, spettacoli
che hanno il fine di ridicolizzare proprio la razionalità in cui confidava
tanto voltaire. Nasce da questo la rivolta degli artisti dadaisti: essi, di
fatto, celebrano tutto ciò che è frutto del caso e di conseguenza insensato, promuovendo una completa libertà espressiva, togliendo così legittimazione a dogmi quali patria ed amore, moventi, almeno in parte,
dell’evento bellico.
Lo scopo dell’artista è proprio celebrare la realtà e, attraverso la deformazione, ricostituire un mondo per ora totalmente caotico, all’interno
del quale l’uomo ha perso, in prima istanza, la sua identità.
Tale è il suo apporto all’uomo moderno posto sotto assedio da tutto il
male che lo minaccia.
L’ARTE è, sPEssO,
L’EsPREssIONE DEL CONTEsTO
NEL quALE vIENE PRODOTTA,
NE RAPPREsENTA LA POETICA
E IL LINGuAGGIO,
quINDI NEmmENO L’AmORE
Può EssERE DIsPENsATO
DALL’INquIETuDINE
DI uN mOmENTO sTORICO
TANTO vIOLENTO
174 |
In trincea per la pace
La nascita del movimento dadaista
Dalla Svizzera il movimento si propaga in Germania, in Francia, negli Stati Uniti e diventa internazionale. I dadaisti combinando insieme teatro,
danza, pittura, letteratura, musica, caldeggiano la fusione tra arte e vita;
mediante azioni provocatorie, infatti, anche la vita si trasforma in un itinerario artistico. L’arte per la prima volta è costituita dall’imprevisto,
dalla casualità, dalla concatenazione estemporanea di oggetti, parole
e non scaturisce più soltanto dalla capacità manuale dell’artista o da un
principio estetico. L’idea dell’arte come prodotto di un azione fortuita
viene fatta propria, in seguito, dal movimento surrealista ed è il fondamento della costante indagine riguardo nuove tecniche come l’assemblaggio ed il fotomontaggio o procedimenti nuovi per dar vita agli oggetti, utilizzando elementi insoliti come legni spezzati o chiodi. Regole
e contenuti convenzionali sono ripudiati; i dadaisti non emulano la realtà ma danno origine alla loro arte attingendo materiali da essa ed attaccandoli sul legno, carta fotografica, cartone. Il dadaismo mette quindi in discussione e sovverte le consuetudini di quel periodo storico, coinvolgendo diversi aspetti, dai dettami dell’estetica artistica e cinemato-
/ 175
grafica, alle convinzioni politiche, si prefigge inoltre la rinuncia alla razionalità, alla logica e l’esaltazione dell’eccentricità, della burla e dell’ironia. Gli artisti Dada sono intenzionalmente irriverenti, originali, delusi e amareggiati dalle convenzioni del passato e impegnati ad esaltare
la liberazione dell’atto creativo grazie all’impiego di tutti gli elementi
materiali e le forme disponibili.
Bisogna aspettare il 1918 per ottenere il “Manifesto Dada” ad opera di
Tristan Tzara, scrive l’artista: «Per lanciare un manifesto bisogna volere:
A, B, C, scagliare invettive contro 1, 2, 3, eccitarsi ed aguzzare le ali per
conquistare e diffonder grandi e piccole a, b, c, firmare, gridare, bestemmiare, imprimere alla propria prosa l’accento dell’ovvietà assoluta,
irrifiutabile, dimostrare il non plus ultra e sostenere che la novità somiglia alla vita tanto quanto l’ultima apparizione di una cocotte dimostri
l’essenza di Dio. Scrivo un manifesto e non voglio niente, eppure certe
cose le dico, e sono per principio contro i manifesti, come del resto sono
contro i principi ( misurini per il valore morale di qualunque frase). Scrivo
questo manifesto per provare che si possono fare contemporaneamente azioni contraddittorie, in un unico refrigerante respiro; sono contro
l’azione, per la contraddizione continua e anche per l’affermazione, non
sono né favorevole né contrario e non do spiegazioni perché detesto il
buon senso. Dada non significa nulla»13.
I dadaisti tedeschi dopo la fine della guerra tornano in patria e lì divulgano tutte le sperimentazioni sviluppate al Cabaret voltaire. Berlino,
Colonia, hannover sono i punti di coincidenza della penetrazione Dada
in Germania. Berlino, rispetto all’ex Impero tedesco del periodo di Guglielmo II che andava dal mar Baltico al Reno, è ormai una capitale periferica, la nuova sede del governo tedesco viene spostata nella più centrale Weimar, dalla quale prende il nome la Repubblica omonima. Nonostante tale decadimento logistico e politico, a livello estetico e culturale Berlino rappresenta un centro fondamentale ed è per questo
che il gruppo dadaista sceglie di introdurre qui le proprie istanze corrosive ed iconoclaste. È indubbiamente Raoul hausmann uno dei più
celebri artisti del dadaismo berlinese e una sua opera è il simbolo delle
ricerche innovative di quegli anni: Lo spirito del nostro tempo conosciuta
anche come Testa meccanica. Tutte le discipline, comprese quelle umanistiche, in questo momento storico, avvertono la necessità di sistematizzare scientificamente il loro patrimonio, approfondendo l’indagine
¹ Tzara T., Manifesto del dadaismo e lampisterie, a cura di S.volta, Einaudi, Torino 1964, pp. 33-42.
176 |
In trincea per la pace
in ogni ambito. L’arte, da parte sua, interviene in questa analisi all’interno del sapere umano con l’esaltazione di un nuovo ideale. La macchina
è scelta da molti artisti come tema prediletto, celebrata e portata in
trionfo. vengono create nuove pratiche artistiche come il ready-made,
l’assemblaggio e il fotomontaggio.
Si preferisce utilizzare un mezzo che riesca a figurare la realtà in maniera oggettiva oppure una sua parte, scollegata violentemente dal contesto, per dare lustro anche a realtà diverse che si rifanno ad un registro
che non si trova più al di sopra del reale ma è piuttosto celato sotto di
esso. L’opera di hausmann è un assemblaggio che inizia da una testa
per parrucchieri, alla quale sono uniti diversi oggetti tecnologici trovati:
un metro per sarto, un numero stampato, meccanismi d’orologio, una
custodia contenente un cilindro da stampa, un regolo. Lavoro perfettamente inserito nel panorama culturale tra le due guerre. Una situazione storica quella tra gli anni ’10 e ’20, in cui fondamentali ed innovative tecnologie, portano benefici nella vita di tutti, a fronte di numerose
dispute e dissensi tra le diverse compagini nazionali, destinate a sfociare poi nel secondo conflitto. In questi anni sono pensate le prime armi
di sterminio di massa, i terribili gas tossici e forse è per questo motivo
che hausmann colloca sulla sua Testa anche un bicchiere telescopico,
come quelli di cui sono equipaggiate le truppe al fronte.
Restano aggiornate anche le avanguardie francesi riguardo le azioni del
movimento Dada, grazie ai rapporti costanti mantenuti da Tristan Tzara,
tramite una corrispondenza composta da poemi, riviste, scambi epistolari con artisti, critici e autori francesi. A Neuilly, tranquillo e raffinato
sobborgo di Parigi, si trova lo studio di Marcel Duchamp, uno dei più illustri rappresentanti del movimento dadaista; un giorno afferra uno sgabello da cucina in legno e incardina al centro di esso, la forcella di una
bicicletta con la sua ruota. In questo modo la ruota a testa in giù si trasforma ed è ora in grado di girare liberamente, senza la costrizione dell’ancoraggio al terreno, realizza così Ruota di bicicletta. Duchamp assembla un gioco o come vengono chiamate secondo tradizione le combinazioni creative insolite ed eccentriche, un “capriccio”, la cui importanza
per l’artista si evince dal fatto che mette mano all’assemblaggio di una
seconda versione per il suo studio di New York dove si trasferisce nel
1915; la sorella ripulisce lo studio parigino e l’originale finisce nell’immondizia. In America alla Ruota di bicicletta viene data una definizione,
diventa infatti il primo ready-made, capace di smontare ogni dogma pregresso dell’attività artistica, affrancando quest’ultima da esigenze nar-
/ 177
rative o figurative e anche dalla destrezza tecnica dell’artista. La denominazione scelta, individua opere ideate e sviluppate con oggetti provenienti dalla realtà, non concepiti con propositi di estetica. In pratica è
stato proprio Duchamp ad ideare i ready-made ed è sempre lui a fornirne
la definizione che in italiano può essere tradotta in maniera approssimativa come «già fatti», «già pronti». I ready made, in realtà, non sono un
prodotto diretto del movimento dadaista, dato che la prima Ruota di bicicletta è del 1913 ma divengono una delle risorse più efficaci trovate
dall’estetica dadaista, al fine di demistificare ed irridere le idee convenzionali sull’arte. L’opera di Duchamp, ancorata al suo sgabello, sotto
l’aspetto tecnico è un assemblaggio polimaterico, la combinazione di
oggetti reali composti da differenti materiali comunemente utilizzati
per altri scopi, promossi a dignità artistica per decisione dell’artista.
Tutta l’arte del Novecento deve tener conto della volontà dell’artista
perché il suo punto di vista sul mondo, il suo modo di riflettere sugli
elementi della realtà, alternativamente con tranquillità, con violenza,
con freddezza o sarcasmo rappresenta la base fondante un’opera d’arte. Il quadro o l’oggetto in sé sono proprio la manifestazione pratica di
questa volontà e per di più una manifestazione riproducibile. Duchamp
non si propone di mettere in mostra la Ruota di bicicletta come oggetto
artistico fino al 1951, quando, deve ricostruirla perché anche la versione
newyorkese, nei diversi traslochi, è andata perduta; ne sono state realizzate altre, poi, con il suo beneplacito ed in ognuna forcella e ruota
sono diverse.
raOul hausMann
lO spIrItO del nOstrO teMpO (O testa MeccanIca), 1919
178 |
In trincea per la pace
Marcel duchaMp
ruOta dI bIcIcletta, 1913
replIca del 1951 dell’OrIGInale perdutO
MetallO e leGnO
alt. 129,5 cM, dIaMetrO della ruOta 63,8 cM,
new yOrK
Nell’aprile del 1921 a Parigi si compie la “Stagione Dada”, che può essere riconosciuta come interessante evento anticipatore dell’arte partecipativa nello spazio pubblico. Si tratta di una serie di esplorazioni e
spettacoli organizzati nelle piazze e nei luoghi abituali della città con il
coinvolgimento dei parigini. Quest’iniziativa dadaista si può definire come ready-made urbano, la prima operazione artistica che non abbia carattere di scultura o monumento ma di performance ed esibizione. Un
mese più tardi è organizzato e messo in scena il processo fittizio all’autore anarchico, poi diventato nazionalista, Maurice Barrès, accusato di
“attentato alla sicurezza dello spirito”. Le persone del pubblico sono
chiamate a far parte della giuria e la rappresentazione collettiva termina con la sentenza simbolica, di una pena per Barrès, a venti anni di lavori forzati. Questo avvenimento corrisponde anche al disgregamento
del movimento dadaista, i cui promotori, Tristan Tzara per primo, ripudiano qualsiasi tipo di giustizia inclusa quella disposta da Dada.
/ 179
Giorgio de Chirico e la pittura metafisica
Poco prima della guerra, anche al fine di sfuggire al servizio militare,
Giorgio de Chirico ripara a Parigi per quattro anni, al termine dei quali,
però, torna in Italia e nel 1915 prende la decisione di accettare il reclutamento nell’esercito italiano.
Arruolarsi rappresenta per l’artista il mezzo per acquisire finalmente
quel sentimento di appartenenza prima difficile da legittimare, per via
del suo percorso di vita, la sua fanciullezza vissuta in Tessaglia, le fasi
della sua educazione in Baviera, la sua attività artistica a Parigi. De Chirico entra a far parte del 27° reggimento di Fanteria dell’esercito italiano. A giugno arriva a Ferrara, abbandonando così il panorama artistico
internazionale.
L’adeguamento alla nuova situazione, la vita in una piccola città di provincia e l’attività di soldato, non sono condizioni facili da affrontare e
per scongiurare il rischio di essere emarginato ed isolato, cerca, con tutte le sue forze, di conservare e consolidare i propri legami mediante
una corrispondenza frequente e segnata da un velo di tristezza. Da questi stessi rapporti epistolari si evince, comunque, che de Chirico ha, dal
primo momento, un’ottima considerazione di Ferrara come di un contesto propizio allo sviluppo del suo itinerario artistico.
Un conflitto di dimensioni inimmaginabili sta avendo luogo e ogni giorno decima migliaia di uomini al fronte, nelle trincee, disintegrando la
società europea e mostrando quanto in basso possa cadere il mondo,
privato di buon senso e discernimento. De Chirico è chiaramente consapevole della follia di quella strage e pur concedendo qualche credito,
solo apparente, alla causa nazionalista degli amici italiani, in realtà, è
ben determinato a focalizzare la sua attenzione sugli aspetti concreti
della realtà quotidiana.
Questo è il significato della “ metafisica delle cose comuni” come viene
definita la metafisica ferrarese, i cui elementi caratterizzanti sono, da
un lato, la scelta di allontanarsi da contenuti imperniati su sentimenti
di malinconia e nostalgia, comunque ancora parzialmente presenti ma
in una dimensione circoscritta non più universale come nel periodo parigino, e dall’altro, l’analisi lucida, cosciente e approfondita della “pazzia” di cui diventa preda il cosmo intero:«Poiché la grande pazzia, che è
appunto quella che non appare a tutti, esisterà sempre e continuerà a
gesticolare e a far dei segni dietro il paravento inesorabile della mate-
180 |
In trincea per la pace
ria»14. L’artista è distante dal fronte, in un luogo dove può sentirsi temporaneamente al sicuro da rischi reali ma l’ecatombe attorno si percepisce, e Ferrara, al contrario di Parigi, dopo il trambusto del trasferimento ed il tempo necessario a far l’abitudine all’inaspettata situazione,
si presenta proprio come un riparo protetto e tranquillo, con i suoi letterati ansiosi di aggiornamenti, con la sua vita quieta di città di provincia, con i suoi tanti pregi da studiare, i suoi enigmi e segreti da risolvere,
il suo illustre passato di storia e di miti; lo spirito profondo e sensibile
dell’artista trae grande beneficio da questo ambiente.
Nel 1915 l’artista realizza un’opera esemplificativa del nuovo momento
artistico, Les Projets de la jeune fille. Il dipinto è privo di complicate speculazioni allegoriche ed è interamente centrato sulla realtà. Sullo sfondo del quadro appare, con le caratteristiche torri rosse, il castello Estense che de Chirico può osservare ogni giorno dal suo ufficio di scrivano
e unitamente alla scatola verde con la scritta “Ferrara A.S.S.” guida lo
sguardo dell’osservatore nella reale scena raffigurata e non in uno spazio simbolico e indefinito; l’atmosfera è quella di un indolente pomeriggio d’autunno in cui la città è preda di un tedio flaccido come il guanto sulla parete. In primo piano le spole e i rocchetti di filo sono proprio
i progetti della fanciulla e riportano alla mente immagini di leopardiana
memoria riferite a Silvia, quando «il limitare di gioventù saliva» e «all’opre femminili intenta sedeva, assai contenta di quel vago avvenir che
in mente aveva». Il guanto scombina tutto.
Non è un raffinato guanto da donna di seta, a simboleggiare magari l’illusione di un sentimento d’amore inesaudito, è un guanto di fredda pelle, già utilizzato e segnato da connotati maschili, probabilmente richiamo a qualcosa di proibito, con un velo di tensione erotica. I disegni geometrici figurati nel dipinto, fanno riferimento alla particolare cabala che
disciplina gli elementi dell’universo.
Peculiare della metafisica ferrarese è l’ingresso della realtà naturale
all’interno di una struttura iconografica ideale ed astratta, per una figurazione che sfrutta un metodo di riproduzione delle immagini estremamente preciso e minuzioso. Una sorprendente pratica pittorica quasi tributaria dell’iperrealismo, si riscontra in queste opere: attrezzi per
la pesca, sugheri, tradizionali pani biscornuti ferraresi, biscotti, cioccolatini, dolci, legni con venature perfettamente delineate. La medesima
14
Pubblicato in Valori Plastici, Roma aprile- maggio 1919.
/ 181
contrapposizione tra reale ed irreale si ritrova ora anche nei “quadri
nel quadro”, che invece negli anni di Parigi alludono sempre ed in modo esclusivo ad immagini oniriche. Fatta eccezione per le costellazioni
sulle lavagne all’interno delle stanze popolate dai manichini filosofi, a
Ferrara “i quadri nel quadro” e le scatole accolgono soprattutto figurazioni di elementi e di edifici tratti direttamente dalla realtà, ne è un
esempio quello che si può osservare dalle finestre: parti di costruzioni
e torri rinascimentali specificatamente italiane o grattacieli, icone
dell’epoca nuova a cui è rivolta l’arte metafisica. Il fine precipuo di questa costante transazione tra illusione e realtà è quello di evidenziare
l’enorme pazzia del mondo, esigenza che governa l’animo di de Chirico
fino alla fine della guerra.
Nel 1917 de Chirico viene ricoverato per alcuni mesi a villa del Seminario, dove risulta degente anche Carlo Carrà, con il quale si crea una breve collaborazione artistica. Si tratta di una struttura ospedaliera specializzata nella cura delle malattie di guerra, organizzata e diretta da Gaetano Boschi. Il programma di studio e d’indagine sulle nevrosi di guerra
è considerato fondamentale: si tenta per la prima volta di differenziare,
in modo elaborato, le patologie nervose causate dalla guerra dai disturbi psichiatrici propriamente detti e dagli atteggiamenti di simulazione.
Le sintomatologie più ricorrenti, mostrate al fronte, sono da riferirsi a
blocchi catatonici, paralisi, crisi epilettiche, perdita di sensibilità e linguaggio, gravi attacchi di panico e contratture muscolari.
Il soggiorno a villa del Seminario finisce a metà agosto del 1917 e
l’esperienza di de Chirico a Ferrara sta per concludersi quando realizza
l’illustre ciclo di capolavori in cui diventa, di nuovo, centrale il soggetto
del manichino. Il Trovatore, Ettore e Andromaca e le Muse inquietanti sono tutti collocati in un ambiente esterno. Il Trovatore, rappresentazione
dell’artista nei panni di un manichino disumanizzato, è il poeta provenzale che nell’opera di Nietzsche la Gaia Scienza indica una dottrina profetica, intuitiva e lampante; la costruzione rinascimentale di colore rosso a sinistra rende evidente che la scena si svolge a Ferrara. I dipinti innegabilmente più innovativi per il contenuto scelto e per il vigore
espressivo ed emotivo sono Ettore e Andromaca dell’autunno 1917 e Le
Muse inquietanti del maggio 1918.
Il 24 ottobre del 1917 inizia la disfatta di Caporetto e la drammatica ritirata dell’esercito italiano verso la linea del Piave che si conclude il 12
novembre. La situazione di urgenza avvicina le partenze per il fronte,
sono richiamati, infatti, migliaia di uomini. Prima di affrontare il dolo-
182 |
In trincea per la pace
GIOrGIO de chIrIcO
les prOjets de la jeune FIlle
(I prOGettI della FancIulla), FIne 1915
OlIO su tela, cM 47,5 x 40,3
MuseuM OF MOdern art, new yOrK.
lascItO dI jaMes thrall sOby, 1979.
GIOrGIO de chIrIcO
Il trOvatOre, 1917
OlIO su tela, cM 91 x 57
cOllezIOne prIvata
GIOrGIO de chIrIcO
ettOre e andrOMaca, 1917
OlIO su tela, cM 90x 60
cOllezIOne prIvata
roso momento del commiato, è consuetudine tra i soldati recarsi in uno
studio fotografico per un ritratto con la moglie o la fidanzata e de Chirico raffigura quest’ultima occasione di stare insieme come il leggendario ultimo incontro di Ettore e Andromaca, raccontato da Omero, pieno di previsioni funeste. Due elementi di colore rosso ai lati in funzione
di quinte e un pavimento di legno, diretto in prospettiva verso un cupo
tramonto, definiscono il luogo come ideale. Astratti sono anche i protagonisti del dipinto, manichini essenziali e raffinati con il loro atteggiamento quasi teatrale e ricercato.
Le teste dei manichini appaiono sostenute da strutture in legno simili a
quelle utilizzate dai fotografi per permettere ai modelli di adagiarvi la testa e poter in questo modo mantenere la posa per un tempo maggiore;
questa sorta di impalcature lignee sono divenute caratteristiche insostituibili del manichino a livello iconografico ma sono anche il nesso imprescindibile con la realtà. L’impulso emotivo che emanano questi due personaggi, costruiti, non naturali, tocca le corde più intime dell’animo umano in maniera molto profonda e appassionata; non sarebbe possibile raggiungere tale intensità attraverso una figurazione del tutto aderente al
vero perché cadrebbe facilmente e prevedibilmente vittima della retorica. L’uomo è stabilmente fermo sulle sue gambe, il busto ampio e caloroso comunica sensazioni di riverenza e insieme di fiducioso abbandono.
La donna è più tenera e riservata, con un delicato richiamo al ventre e
nessun altro segno che la possa caratterizzare appunto come donna,
eppure nonostante questo si percepisce come tale, per la posizione aggraziata del piede sinistro e della gamba che le permette di allungarsi
in modo amorevole, con un atteggiamento insieme di protezione ed invocante affetto, verso l’uomo più rigoroso e severo. Le due teste ovali
si accarezzano, sfiorandosi, con profonda dolcezza. Una circostanza unica, in tutta la pittura di de Chirico, spesso percepita come poco umana.
All’inizio del 1918, tra aprile e maggio, viene realizzato il dipinto Le Muse
inquietanti. La struttura dell’opera è essenziale e sconcertante. Due statue probabilmente di pietra, immagini che richiamano la classicità e più
propriamente le sculture antiche, con vesti scanalate in modo severo,
si trovano sopra un grande pavimento di tavole che fugge in prospettiva e ricorda le grandi strade ferraresi dell’Addizione Erculea. Una delle
due figure è in piedi, di spalle rispetto all’osservatore e con la sua testa
allungata, rosa, somigliante ad un pallone oscillante, sembra intenta a
scrutare la città in lontananza; il corpo affiora dalle pieghe del vestito,
ricadenti parallelamente come le scanalature di una colonna ionica ed
184 |
In trincea per la pace
è fisso, assolutamente privo di movimento. L’altra è seduta su una scatola blu con le braccia sopra il grembo, è più massiccia e il suo atteggiamento sembra quello di chi è soddisfatto per la posizione ottenuta; al
posto della testa ha un birillo nero di legno come nei manichini utilizzati
in sartoria ed è un particolare che accorda all’immagine l’idea di una
mancanza di acume. Ai suoi piedi un’altra testa ovoidale, rossa, separata
da tutto il resto. In primo piano, sul pavimento, c’è un parallelepipedo
a losanghe colorate e tra le due statue un esile bastoncino a spirali rosse, simile a quelli fatti di zucchero. Nell’ombra dietro, una figura sembra
avanzare in direzione dell’osservatore cercando un qualche tipo di comunicazione mediante segni indecifrabili.
Il pavimento di assi termina all’improvviso e sullo sfondo si ergono le
immagini di Ferrara: la monumentalità del castello Estense e la sua ritmica volumetria come in un quadro cubista, le facciate degli edifici e
dietro, una massiccia torre arcaica. De Chirico avverte la città come un
enigma inquietante, un segreto difeso e protetto da personaggi eccentrici eppure inflessibili; per svelare l’arcano al di là delle torri e delle ciminiere è necessario passare il controllo di due guardie che danno proprio l’impressione di essere folli.
L’aria è assente, non si sentono voci o rumori, tutto è statico, immobile,
quasi cristallizzato dalla precisione geometrica delle ombre e delle luci
eppure l’atmosfera insieme arcaica e teatrale evoca sensazioni di cupo
romanticismo. Le due figure, muse del poeta, personificazioni del suo
spirito e guardiane della città, sono rappresentazioni straordinarie ed
introvabili all’interno dell’iconografia metafisica. Le due Muse, infatti,
per la sostanza pittorica, il colore e per la materia in cui vengono composte, pietra, marmo o cartapesta, sono svincolate da tutto il resto e si
uniformano soltanto alla torre arcaica che si leva dal fondo. In mezzo a
questo palcoscenico teatrale, dove l’osservatore scorge la statua nell’ombra di stile ellenistico, le costruzioni rinascimentali, le case e le officine industriali moderne, le due Muse suggeriscono studi e conoscenze
differenti. Per manifestare il suo convincimento che ogni cosa è soggetta all’incontenibile ed irrefrenabile pazzia del mondo e per evocare
quel momento storico importante in cui Ferrara, all’epoca di Borso
d’Este ed Ercole I, diventa il luogo di confluenza del classicismo rinascimentale (e delle sue credenze alchemiche ed astrologiche testimoniate
dagli affreschi di palazzo Schifanoia), con le lezioni enigmatiche e mistiche della kabbalah ebraica importata dai sefarditi a fine Quattrocento, de Chirico rappresenta le Muse di Ferrara, testimoni di consuetudini
/ 185
e segreti magici, come essenze divine in grado di instillare nel poeta il
respiro inquietante dei luoghi e sceglie di raffigurarle in modo insensato
folle. Il mondo e la materia posseggono, quindi, una sorta di struttura
interna, composta da forze imperscrutabili e questo permette una profonda relazione con i dettami culturali della metafisica e anche con le
personali credenze superstiziose del pittore; Ferrara diventa così per l’artista, uno dei luoghi fondamentali della sua storia umana ed artistica.
L’intento di de Chirico è quello di tornare a Parigi al termine della guerra
ma la disfatta di Caporetto e la successiva controffensiva dell’esercito
italiano e dello schieramento alleato nel 1918, fanno intuire imminente
la fine del conflitto e l’artista decide di radunare le forze e di organizzarsi per esporre in Italia. Le mostre allestite a Roma del 1918 e del
1919 si rivelano però un fallimento tale dal punto di vista critico da avere gravi conseguenze anche sul suo morale. Nel 1922, con il ritorno a
Parigi, de Chirico può godersi il primo vero successo con una riedizione
aggiornata e brillante dello straniamento metafisico.
mondrian e De stijl
Tra le tendenze non figurative dell’inizio del ventesimo secolo la più originale è rappresentata dall’astrattismo di Piet Mondrian, che arriva, contemporaneamente ai primi due anni della rivista De Stijl, ad un assetto
rimasto poi invariato per più di vent’anni. Il gruppo che lavora nella rivista, fondata da Theo van Doesburg nel 1917, riesce a dar vita all’ultima tra le prime avanguardie storiche, a queste congiunta per via di molteplici elementi e relazioni ma al medesimo tempo legata ai movimenti
che vogliono oltrepassarle o metterle in discussione.
GIOrGIO de chIrIcO
le Muse InquIetantI, 1918,
OlIO su tela, cM 97 x 66
cOllezIOne prIvata
186 |
In trincea per la pace
Nel 1915 van Doesburg propone a Mondrian il primo progetto per una
rivista, così ha inizio la loro problematica amicizia. In quel momento però Mondrian ritiene che l’idea non abbia ancora fondamenta salde e circostanze favorevoli. Il primo saggio pubblicato da quest’ultimo sulla rivista a dispense mensili, tra l’ottobre 1917, quando esce il primo numero, e il dicembre 1918, da origine al termine “Neoplasticismo”, anche se
non è la traduzione letterale di De nieuwe beelding; esso è coniato in
francese, nel 1920, e poi utilizzato anche in olandese. Le istanze generali accolte dal gruppo De Stijl, sono spiegate in due prefazioni alla rivista, datate giugno 1917 e ottobre 1919 e nei tre manifesti: il primo del
/ 187
1918, firmato da van Doesburg, van’t hoff, huszàr, Kok, Mondrian, vantongerloo, Wils; il secondo del 1920, caratterizzato da un registro maggiormente letterario e da un impostazione già propriamente dadaista,
firmato da van Doesburg, Mondrian e Kok; il terzo del 1921, più conciso
e privo di firma. Questi fatti e le tensioni che emergono numerose da
varie lettere e testimonianze, suggeriscono come il percorso formativo
e le convinzioni estetiche ed esistenziali di ognuno degli artisti del gruppo siano essenzialmente ed intimamente differenti. Diverso pertanto,
è anche il modo di determinare le relazioni con i dadaisti, i futuristi e
anche gli espressionisti. È utile in questo senso, evidenziare la convergenza in termini cronologici, tra la creazione di De Stijl e quella del Dadaismo nel 1916. De Stijl come Dada nasce in una zona protetta e isolata rispetto a quelle coinvolte dal ciclone bellico ma non rivela apertamente la stessa tensione rivoluzionaria.
Nelle due prefazioni, il gruppo tenta di fornire un compendio dell’obiettivo comune a De Stijl, quello di «ottenere che la nuova estetica plastica
si riveli, come stile, in tutti gli oggetti, nascendo da nuovi rapporti tra
l’artista e la società»15. Premesse essenziali si rivelano essere prima di
tutto, la conoscenza dell’arte astratta e la sua comunicazione al pubblico; il rifiuto di una spiegazione unicamente incentrata sulla forma, a favore del proposito, da tutti riconosciuto, riguardo un nuovo senso estetico, un nuovo legame quindi tra arte e vita. Comunione d’intenti basata
su un linguaggio universale e sulla facoltà di oltrepassare il concetto
dell’artista come entità individuale; per effetto di questo dovrà chiamarsi moderno, possessore di uno spirito razionale. Del movimento devono far parte i protagonisti di tutte le arti plastiche, scrive Mondrian:
«Tutte le arti si sforzano di pervenire all’espressione plastico-estetica
del rapporto esistente fra l’individuale e l’universale, fra il soggettivo e
l’oggettivo, fra la natura e lo spirito: dunque tutte le arti, senza alcuna
eccezione, sono plastiche»16. All’interno del gruppo si rileva realmente,
una transizione dalla pratica pittorica all’elaborazione di progetti architettonici e di oggetti comunemente utilizzati. Si estrapola dai manifesti
anche un altro obiettivo, il desiderio cioè, di stabilire una solida rete di
connessioni a livello europeo ed internazionale. L’intento di portare le
loro istanze ad un registro internazionale non mira assolutamente a subordinare l’arte alla politica; il fine dell’uomo è infatti lo stile e lo stile è
15
De Micheli M., Le avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, 1988, p. 416.
16
Il Neoplasticismo, a cura di Federico Ferrari, Abscondita, Milano 2008, p. 14.
188 |
In trincea per la pace
una questione spirituale. Questo punto rappresenta e rende evidente
l’insegnamento delle prime avanguardie e l’origine dei contrasti nelle
relazioni con altri movimenti europei.
La dichiarazione inserita nella prima prefazione che la rivista non nasce
da teorie prestabilite e l’indispensabile rifiuto dell’artista come essere
individuale sono fattori che creano perplessità riguardo la saldezza del
gruppo. Questi elementi portano, infatti, allo scontro, i due artisti più
rappresentativi, Mondrian e van Doesburg. Quest’ultimo viene di solito
valutato, rispetto al primo, meno idealista e più disilluso, personaggio
eversivo e attento divulgatore. Le motivazioni profonde del disaccordo
tra i due artisti si riallacciano ad opinioni differenti riguardo proprio
l’equazione arte-vita ma anche al modo diverso di avvicinarsi agli insegnamenti del Futurismo e del Dadaismo.
Nel 1920 Mondrian indica il Futurismo e il Dadaismo tra i movimenti che
«depurarono e demolirono il tragico nella plastica»17, approntando la
vera liberazione del Neoplasticismo. Alcune istanze futuriste si riconoscono nell’itinerario artistico di Mondrian verso l’astrazione: stimoli originati non tanto dall’attività pittorica futurista quanto dall’opera letteraria di Marinetti, di cui senza dubbio l’artista olandese è a conoscenza.
In particolare il concetto espresso da Marinetti nel 1914, di distruzione
dell’«Io letterario perché si sparpagli nella vibrazione universale»18:
quest’ultima definizione è utilizzata nel lessico spiritualistico degli ambienti letterari parigini ma in questo caso il significato preciso è il disgregamento dell’individuale, concetto diventato poi essenziale all’interno dei principi estetici di De Stijl.
L’artista per Mondrian deve essere alacremente occupato dall’incessante esplorazione dell’universale che si compone di quella che lui stesso
definisce “realtà pura”. La rivelazione della realtà pura viene impedita
da ogni elemento individuale e non oggettivo ma anche dalla scelta di
figurare la descrizione di tutti i particolari. L’astrazione diventa quindi
l’unica soluzione per arrivare alla piena manifestazione della realtà pura.
L’intento innovativo di Mondrian si sviluppa nel provare a rappresentare
mediante la pittura l’impulso collettivo astratto non quello individuale
legato alla realtà, attraverso una sola forma chiamata dall’artista “neutra”, il rettangolo; in esso infatti, la linea non possiede l’equivocità della
curva ma la risolutezza della retta e le due forze antitetiche delle diffe-
17
Le Nèoplasticisme. Principe général de l’équivalence plastique, Editions de l’Effort Moderne, Paris 1920.
/ 189
renti direzioni della linea, quella orizzontale e quella verticale vengono
bilanciate in un elemento unico, negli angoli. Il fine della pittura moderna, la Neoplastica, è fornire un senso logico, coerente, lineare, uniforme, a una realtà insensata. La pittura non deve mirare all’apparenza del
rilievo ma deve disporre di due dimensioni e circoscrivere la gamma dei
colori da utilizzare a quelli elementari, per sfuggire al rischio che dalla
loro combinazione risulti di nuovo, la percezione della tridimensionalità.
È necessario sottrarsi in maniera accorta al realismo.
Un itinerario artistico in ascesa che porta l’artista a slegarsi da ciò che è
materiale, per giungere alla forma della bellezza astratta, vale a dire l’assoluto. L’unico modo per arrivare alla bellezza astratta è mediante l’affrancamento del pittore da tutte le aggiunte naturalistiche superflue
che contaminano il vero punto di vista sulla natura. Il concetto di Mondrian riguardo l’arte è che quest’ultima non deve essere alterata da nulla
che sia soggettivo, l’obiettivo è la nitidezza, quindi la Plasticità. I piani
bianchi sono attraversati dalle famose strisce nere, linee pure segnano
quadrati gialli, blu, rossi dagli imprescindibili angoli retti. Il metodo rigido
e la fermezza nell’applicarlo sono alcuni degli elementi che permettono
di attribuire a questo artista un grande spirito volto alla modernità e all’innovazione. Convinto che solamente la nuova pittura da lui creata può
penetrare e scoprire la realtà, l’armonia assoluta e la perfezione eterna,
scrive l’artista: «L’arte attraverso il suo sistema diventa necessariamente
individuale. Ma quanto più il sistema diventa astratto e si esprime autonomamente secondo i mezzi che gli sono propri, tanto meno l’artista
può esprimere la propria individualità. Infine quando il sistema raggiunge il massimo grado di astrazione (ossia quando l’artista si serve di mezzi
plastici universali in una composizione equilibrata), diviene possibile
l’espressione plastica dell’immutabile, dell’universale. Soprattutto qui
deve intervenire il talento puro dell’artista, per impedire che l’opera diventi“ un sistema senz’arte”. Infatti, poiché l’artista lavora a una composizione equilibrata con mezzi creativi universali, non può servirsi dei mezzi specifici del sistema naturale. L’intuizione pura, ossia la chiara visione,
l’esperienza dell’universale come bellezza, deve manifestarsi attraverso
un’immagine esteticamente chiara»19. Gli elementi per mezzo dei quali
Mondrian costruisce la sua astrazione sono: le linee rette(orizzontali e
verticali), i colori primari (rosso, blu e giallo) e i non-colori(nero, bianco e
grigi intermedi), più le forme e lo spazio. Inoltre l’equilibrio delle linee e
dei colori in un piano rappresenta lo spazio infinito, che tutto comprende e racchiude, fuori del tempo e affinché il colore non abbia relazione
con l’apparenza naturale delle cose deve essere puro, cioè:
1) essere piano
2) essere primario
3) essere condizionato nella sua estensione, però in nessun modo limitato20.
I colori devono essere puri, senza modulazioni, per annullare ogni soggettivismo da parte dell’artista e dello spettatore, questi deve trovarsi
di fronte ad una unità matematicamente perfetta, oggettiva, fredda,
però più reale di quelle della natura, che sono solamente realtà apparenti, ingannevoli e limitate.
Secondo la teoria che lo stesso Mondrian definisce Neoplasticismo, lo
scopo ultimo dell’artista consiste nel ridurre la rappresentazione alla
sua funzione più elementare. I suoi lavori più noti, come Composizione
con piano rosso grande, giallo, nero, grigio e blu del 1921, perseguono
questo scopo. L’opera consiste, infatti, in una serie di rettangoli nei colori primari, separati da una griglia di linee nere verticali e orizzontali,
indispensabili per evitare che un rettangolo dipinto suggerisca un’illusione di profondità. Il dipinto intende essere totalmente impersonale,
controllato e armonioso e vuole trasmettere un senso di equilibrio che
riveste un forte significato spirituale; porta l’artista a un particolare
ascetismo pittorico, che lo spinge a rifiutare ogni legame con la realtà
materiale, per cercare nella semplicità geometrica un’armonia e una
grazia che lo conducano a contatto con l’assoluto.
L’artista olandese conserverà quest’austera visione artistica per il resto
della vita, sviluppando variazioni sui principi essenziali delle sue composizioni, ad esempio usando tele romboidali come base per i suoi raggruppamenti di linee e colori. Mondrian lascia il movimento nel 1925 e alla
morte di van Doesburg nel 1931, la rivista De Stijl cessa le pubblicazioni,
ciascun artista quindi prosegue la propria carriera in maniera autonoma.
18
Marinetti F. T., Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica, Direzione del Movimento
Futurista, Milano 1914.
19
Il Neoplasticismo, op. cit., p. 63.
190 |
In trincea per la pace
20
Id., p. 64.
/ 191
CONCLUSIONI
pIet MOndrIan
cOMpOsIzIOne cOn Grande pIanO rOssO, GIallO, nerO, GrIGIO e blu, 1921
OlIO su tela, 59,5 x 59,5 cM.
Fin dall’inizio del XX secolo si assiste alla creazione continua di movimenti e correnti la cui finalità è determinare quali possa o debbano essere, all’interno della società contemporanea, le peculiari funzioni dell’arte. Diversi paesi europei, in via d’industrializzazione, diventano luogo
d’origine di movimenti di avanguardia che vedono nell’arte, il mezzo
per incentivare una radicale trasformazione del costume sociale e culturale. L’arte di avanguardia si prefigge di accelerare, mediante la facoltà di modificare le proprie strutture, il mutamento della società, ripudiando la mentalità e i rapporti sociali borghesi. Questo pressante
impulso al cambiamento è chiaramente accentuato dallo scoppio della
Prima guerra mondiale. Uno dei movimenti in questione, il Futurismo,
auspica proprio che questa trasformazione possa avvenire grazie alla
guerra ormai imminente, motivo per il quale, vengono prodotti manifesti e programmi interamente incentrati sul più fervente interventismo. L’entusiasmo per l’evento bellico, potenzialmente riformatore, caratterizza anche i principi della corrente espressionista, influenzata dal
pensiero nichilista di Nietzsche che propone il conflitto come tramite
salvifico, per la redenzione della società europea nel suo complesso.
Alle correnti di avanguardia si contrappongono poi correnti di segno
opposto; per queste ultime l’arte, in sostanza, resta l’unica attività propria dell’individuo in una cultura di massa e preferisce l’auto-negazione
al rischio di rendersi partecipe di una temperie culturale considerata
negativa. Estrema, in questo senso, è la posizione assunta dal Dadaismo; l’attività artistica non può essere altro che un’operazione priva di
tecnica, senza un programma e senza uno scopo, di fronte al fatto che,
all’interno della contrapposizione tra le tecniche dell’arte e le tecniche
industriali, queste ultime risultano dominanti. Le due guerre mondiali
acuiscono una crisi già profonda e influiscono inevitabilmente anche
sull’indirizzo e l’impegno politico dell’arte contemporanea. L’avversione
contro la borghesia che caratterizza le correnti artistiche avanzate dal
192 |
In trincea per la pace
/ 193
Romanticismo in poi, dopo la Prima guerra mondiale diventa una critica
e una recisa condanna del sistema; che la guerra sia una conseguenza
devastante dell’economia industriale capitalistica è evidente, un errore
proprio di un sistema inaccettabile e fallace, per opporsi efficacemente
al sistema quindi, l’arte deve trasformarsi in puro arbitrio.
Un altro movimento non aderente all’iniziativa progressista delle avanguardie, specialmente del Futurismo, è in Italia, la pittura Metafisica:
all’arte che aspira ad essere attiva, dinamica e al passo con i tempi, se
ne contrappone un’altra, priva di ogni legame con la realtà, distaccata
ed impassibile, irreale e lucida come i sogni, indubitabilmente preludio
alla poetica del Surrealismo, per cui la sfera inerente l’arte non è più
quella della coscienza ma quella onirica dell’inconscio.
Il panorama artistico del secolo scorso presenta, inoltre, un vero e proprio salto qualitativo, almeno nell’area della cultura occidentale, vale a
dire il passaggio dalla figuratività alla non figuratività o come correntemente si definisce, all’astrazione. La pittura di Piet Mondrian, deduzione
logica del Cubismo, aspira senza dubbio ad una riproduzione rigorosa
dello spazio, nella quale la terza dimensione, rappresentabile soltanto
in maniera illusoria, viene ritenuta impossibile da accertare, scartata e
ridotta alle altre due, quindi implicata nel rapporto delle coordinate
verticali ed orizzontali sul piano. Il quadro insomma diventa uno schema, un modello per mezzo del quale si ha una percezione non più emozionale ma intellettuale della realtà.
In ogni caso, infine, che si chiamino futuristi, espressionisti, metafisici,
dadaisti o non appartenenti ad alcuna corrente, gli artisti di questa generazione sono decisi a cambiare tutto. L’evento bellico rappresenta la
concreta possibilità di sconvolgere e distruggere consuetudini e tradizioni riguardo l’arte, acquisite dalla storia ma ormai desuete; molti protagonisti della scena artistica contemporanea scelgono quindi di parteciparvi in prima persona e questo, come abbiamo visto, segna in maniera
profonda e indelebile la loro vita e il loro percorso di artisti, anche dopo
l’11 novembre 1918, quando la guerra finisce; crollano gli imperi e a crollare, per tanti di loro, è anche il senso della storia e la fiducia nel futuro.
194 |
In trincea per la pace
BIBLIOGRAFIA
ARGAN G. C., Storia dell’Arte Moderna,
Sansoni, Firenze 2000
BERTELLI C., BRIGANTI G., GIULIANO
A., Storia dell’Arte Italiana, Mondadori,
Milano 1992
BOCCIONI UMBERTO, Pittura e Scultura Futuriste, a cura di zeno Birolli, Abscondita, Milano 2006
BUSSAGLI MARCO, L’Arte e la Prima
guerra mondiale, Giunti Editore, Milano 2015
De Chirico a Ferrara. Metafisica e Avanguardie, catalogo della mostra a cura
di Paolo Baldacci, Fondazione Ferrara
Arte, Ferrara 2016
DE MIChELI M., Le Avanguardie artistiche del Novecento, Feltrinelli, Milano
1988
GENTILE E., L’Apocalisse della modernità, Mondadori, Milano 2014
Le Nèoplasticisme. Principe général de
l’équivalence plastique, Editions de l’Effort Moderne, Paris 1920
MARINETTI F.T., Lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica, Direzione del Movimento Futurista, Milano 1914
MONDRIAN PIET, Il Neoplasticismo, a
cura di Federico Ferrari, Abscondita,
Milano 2008
NIGRO COvRE J., Mondrian e De Stijl,
Giunti Editore, Milano 2008
PONTIGGIA E., La Nuova Oggettività
Tedesca, Abscondita, Milano 2002
Sironi e la Grande Guerra. L’arte e la Prima guerra mondiale, dai futuristi a
Grosz e Dix, catalogo della mostra a
cura di Elena Pontiggia, Allemandi, Torino 2014
TzARA T., Manifesto del Dadaismo e
lampisterie, a cura di S. volta, Einaudi,
Torino 1964
vERDONE M., Il Futurismo, Newton
Compton Editori, Roma 1994
MARChIONNI N., La Grande Guerra degli artisti, Pagliai Polistampa, Firenze
2005
/ 195
2
PROGETTO
“FORmAZIONE
sTuDENTI-GuIDE”
LICEO FALCONE, bERGAmO
DON ANGELO RONCALLI
PARTENZA E IMMEDIATO RITORNO A BERGAMO
ATTIVITÀ
IL PATRIOTTISMO DI RONCALLI
CONCLUSIONI
uN sERGENTE DELLA sANTITà
E CAPPELLANO A bERGAmO:
DON ANGELO RONCALLI
NOI, TRE ITALIANI E LA LETTERATuRA
NELLA GRANDE GuERRA
REsOCONTO DELL'EsPERIENZA
DEGLI sTuDENTI DEL LICEO FALCONE
GOFFREDO ZANChI
Docente presso il Seminario vescovile Giovanni XXIII di Bergamo
PARTENZA E ImmEDIATO RITORNO A bERGAmO
Il richiamo nel maggio del 1915 di don Angelo Roncalli al servizio militare – aveva già prestato il servizio di leva dal 1 dicembre 1901 al 30 novembre 1902 a Bergamo nel 73° di fanteria – presenta una nota quasi
divertente per il carattere rocambolesco del suo esito. La domenica
mattina del 23 maggio 1915, don Angelo, della classe del 1881, ricevette l’ordine di presentarsi alla caserma-ospedale di S. Ambrogio a Milano.
Incerto sulla destinazione che lo attendeva, si affrettò a salutare i colleghi del Seminario, dove era insegnante di storia, patrologia e apologetica e nel pomeriggio si recò a Sotto il Monte per il commiato dalla
famiglia. La mattina di buonora era a Milano nel luogo fissato. In trepida
attesa della destinazione, un suo alunno, Pietro Personeni (1888-1962)
di Bedulita, lo presentò ad un sergente che cercava personale per gli
ospedali militari di Bergamo. Fu accettato immediatamente e messo in
lista come sergente di sanità. Don Roncalli annota che avrebbe potuto
con una mancia approfittare di quella situazione caotica, per ottenere
l’incarico di cappellano militare, che gli avrebbe consentito un grado
superiore con un buon stipendio e soprattutto la certezza di non partecipare ai combattimenti1. Ma Roncalli non volle ricorrere a questi mezSui privilegi del cappellano militare, che godeva del grado di tenente e riceveva un buon stipendio
vedi R. MOROzzO DELLA ROCCA, La fede e la guerra. Cappellani militari e preti-soldati (1915-1919), Edizioni
Studium. Roma 1980, pp. 11-13; P. MELOGRANI, Storia politica della Grande Guerra, Mondadori, Milano
2014, ristampa, pp. 123-127.
1
198 |
In trincea per la pace
/ 199
zi sleali, volle fidarsi unicamente nella Provvidenza e questa fiducia fu
ben ripagata. Dopo la visita alla tomba di S. Carlo e aver ascoltato il card.
Ferrari che la sera del 25 maggio rivolse un’esortazione ai preti arruolati,
fece ritorno a Bergamo a capo di circa 25 soldati. Presentatosi al capitano Gerolamo volpi, Maggiore Medico della Difesa, gli fu annunciata
la destinazione al seminario di Bergamo, che era stato requisito come
ospedale. Così dopo tre giorni, la sera del 26 maggio si ritrovava esattamente nel suo piccolo appartamento del seminario, mentre i colleghi
avevano dovuto sgomberare il loro per far posto all’ospedale. Un don
Angelo quasi divertito commentava la sua destinazione, ma riconosceva
in questo la mano della Provvidenza2.
ATTIvITà
Nell’ospedale del seminario Roncalli fu occupato fino all’inizio di gennaio del 1916, quando gli ammalati furono trasferiti nella Pia Casa di
Ricovero, detta Ricovero Nuovo, nel quartiere periferico della Clementina, costruito di recente sulla strada per Brescia che era in posizione di
più facile accesso per i soldati feriti provenienti dal fronte. Gli anziani
trovarono ospitalità in seminario, il quale fu diviso in due settori distinti,
di cui uno riservato ai seminaristi più giovani, dato che gli alunni delle
ultime classi del liceo e della teologia erano stati arruolati per la guerra3.
Come sergente di sanità era agli ordini di un maresciallo responsabile
e del tenente medico, a completo servizio dei militari ammalati in tutte
le loro piccole e grandi esigenze, dalle disinfezioni alle vaccinazioni, dal
trasporto dei malati più gravi negli ospedali cittadini alla pulizia della
biancheria e dell’ambiente4.
2
A.G. RONCALLI, Il Giornale dell’anima. Soliloqui, note e diari spirituali, Edizione critica e annotazione a
cura di Alberto Melloni, Istituto per le Scienze Religiose, Bologna 1987, 23 maggio 1915, p. 279: «Domani parto per il servizio militare in Sanità. Dove mi manderanno? Forse sul fronte nemico? Tornerò a
Bergamo, oppure il Signore mi ha preparata la mia ora sul campo di guerra? Nulla so; questo solamente
voglio, la volontà di Dio in tutto e sempre». Il medesimo atteggiamento viene espresso nella rievocazione del suo arruolamento, stesa due anni dopo, il 26 maggio del 1917 in ANGELO GIUSEPPE RONCALLI
Nelle mani di Dio a servizio dell’uomo. I diari di don Roncalli, 1905-1925, Edizione critica a cura di Lucia
Butturini, Istituto per le Scienze Religiose, Bologna 2008, 26 maggio 1917, pp. 284-286.
3
C. PATELLI, Uomini e vicende del Seminario di Bergamo dal 1567 al 1921, “Studi e Memorie 1”, p. 106;
ANGELO GIUSEPPE RONCALLI, Fiducia e obbedienza. Lettere ai superiori del Seminario Romano 1901-1959, a
cura di Carlo Badalà, San Paolo, Cinisello Balsamo 1997, Lettera a don Domenico Spolverini, 22 marzo
1917, pp. 150-151.
4
M. BENIGNI, Papa Giovanni XXIII chierico e sacerdote a Bergamo 1892-1921, Glossa, Milano 1998, p. 292.
200 |
In trincea per la pace
Agli inizi di marzo del 1916 fu trasferito alla Infermeria presidiaria, che
ospitava 70 uomini con 20 soldati5. Su richiesta del nuovo vescovo di
Bergamo mons. Luigi Maria Marelli all’Ordinario Militare mons. Angelo
Bartolomasi e col sostegno della Direzione degli Ospedali di Bergamo6,
fu nominato il 28 marzo 1916 cappellano militare all’ospedale chiamato
Banco Sete, capace di circa 150 letti e situato presso lo stabilimento
zuppinger in via Broseta7. Qui fissò la sua abitazione, coadiuvato da un
gruppo di suore delle Pie Madri della Nigrizia8. Dal 1° di aprile del 1917
don Angelo iniziò la celebrazione della messa anche al nuovo ospedale
dei Rachitici, dove esercitò l’assistenza fino all’ottobre del 1918, quando si trasferì al Ricovero Nuovo del quartiere della Clementina9. Sovente Roncalli parla dei suoi due ospedali, riferendosi esplicitamente al Banco Sete e ai Rachitici, che rappresentarono il principale campo della sua
attività10. A partire dal 7 giugno 1917, per un periodo limitato, si impegnò anche all’assistenza presso l’ospedale ricavato nel vasto complesso
dell’Orfanatrofio di S. Lucia11. L’impossibilità di provvedere adeguatamente ai circa 350 ammalati ivi ospitati12, indusse Roncalli alla richiesta
di un nuovo cappellano presentata a mons. Bartolomasi alla fine di luglio del 191713. Presumibilmente fu accettata, perché non abbiamo se5
Fiducia e obbedienza, Lettera a don Spolverini, 6 marzo 1916, pp. 135-136. L’Infermeria Presidiaria
era nella caserma di Piazza d’Armi, nella zona di Borgo S. Caterina.
Archivio Fondazione Giovanni XXIII di Bergamo (d’ora in poi AFGBG), serie 1.6, Vita Militare, fasc. 18,
Lettera della Direzione dell’Ospedale Militare di Bergamo al vescovo castrense mons. Bartolomasi,
11 dicembre 1915.
6
7
L. PELANDI, Attraverso le vie di Bergamo scomparsa, III, Il Borgo S. Leonardo, Bolis, Bergamo 1965, p. 27 ss.
8
M. BENIGNI, Papa Giovanni XXIII, pp. 295-296.
9
Nelle mani di Dio, 1 aprile1917, p. 278.
Ivi, 2 febbraio 1918, p. 299; 11 febbraio 1918, p. 301; 22 marzo 1918, p. 312; 19 maggio 1918, pp.
325-326; 11 agosto 1918, p. 351; 16 agosto 1918, p. 353; 1 ottobre 1918, p. 367. Il 7 luglio 1918 ai Rachitici viene trasferita la divisione chirurgica del Ricovero Nuovo, perché questo ospedale viene riservato all’accoglienza dei prigionieri tubercolotici rilasciati dall’Austria, ivi, p. 339; Fiducia e obbedienza,
Lettera a don vincenzo Bugarini, Bergamo, 4 aprile 1918, p. 162: «Presto la mia assistenza a due Ospedali non molto numerosi per verità».
10
11
Nelle mani di Dio, 7 giugno 1917, pp. 287-288.
Roncalli afferma che il totale degli ammalati da assistere con l’aggiunta di quelli del Banco sete era
di circa 500: GIOvANNI XXIII, Lettere ai familiari 1901-1962, I, a cura di L. Francesco Capovilla, Edizioni di
Storia e Letteratura, Roma 1968, Lettera al fratello Saverio, 6 maggio 1917, p. 48.
12
M. BENIGNI, Papa Giovanni XXIII, p. 309. Si accenna ad una lettera di Roncalli al vescovo castrense, 31
luglio 1917. Questa lettera era stata richiesta dal vescovo castrense per assegnare ufficialmente come
vice cappellano in servizio all’ospedale don Remigio Negroni, che era già stato dichiarato disponibile
ad assumere il compito: serie 1.6, Vita Militare, fasc. 7, Lettera dell’Ordinario militare al Cappellano
Militare don Angelo Roncalli, 30 giugno 1917: «Non abbiamo ancora avuta alcuna richiesta ufficiale di
Aiuto Cappellano per l’Ospedale di Bergamo. Quando questa sarà giunta all’Ufficio, ci faremo premura, come già abbiamo scritto mesi sono a Mons. vescovo di Bergamo, di designare il Rev. Negroni».
Don Remigio Negroni (1879-1951) fu prevosto di Alzano Maggiore dal 1925 alla morte: Altare da cam-
13
/ 201
gni di una sua regolare presenza in questo luogo14. Nel grande ospedale
del Ricovero Nuovo Roncalli fu impiegato stabilmente solo per quattro
mesi a partire dal 16 ottobre 191815. Il 19 luglio aveva ricevuto dal Direttore degli ospedali la richiesta di provvedere all’assistenza religiosa
e morale dei soldati tubercolotici, rilasciati dall’Austria16. Roncalli aderì
prontamente alla proposta, che non era priva di rischi per il pericolo di
contagio, trovandola conforme «alle alte e nobili idealità del mio ministero»17. Nonostante i rischi, seppe mantenersi sereno attribuendone
il merito all’aiuto divino nel quale poneva interamente la sua fiducia18.
Erano più preoccupati gli altri che l’interessato, al quale veniva affidata
non solo l’assistenza religiosa, ma anche quella morale del più grande
ospedale di Bergamo che contava circa 1000 letti19. Iniziò il suo servizio
il 16 ottobre, il giorno in cui giunse a Bergamo il primo treno con il suo
triste carico di «poveri giovani sfioriti e sfiniti che tornano dalla prigionia
austriaca». Poté contare sull’aiuto di un giovane prete milanese, don Alfredo Pini20 e successivamente di don Remigio Negroni, che gli permisero di svolgere numerose attività all’esterno, soprattutto per l’apertura della Casa degli Studenti in Città Alta21. Il lavoro però non mancava
al Ricovero Nuovo, un lavoro triste, perché l’arrivo dei convogli si susseguiva senza sosta22 come i decessi dei giovani soldati, che Roncalli doveva accompagnare al cimitero23. Il suo impegno si prolungò fino al 7
po, chierici e sacerdoti di Bergamo al servizio della patria in armi, Associazione Nazionale Cappellani Militari d’Italia in Congedo, Sezione di Bergamo, Bergamo 1961, p. 160.
Diversamente M. BENIGNI, Papa Giovanni XXIII, p. 310, ritiene che Roncalli assicurasse la presenza a
tre ospedali, il Banco Sete, Rachitici e Orfanatrofio.
14
Precedentemente i suoi interventi erano stati occasionali: Nelle mani di Dio, 2 febbraio 1918, p. 299;
20 marzo 1918, pp. 311-312.
15
Questi rilasci venivano effettuati spesso attraverso la mediazione della S. Sede, vedi J. POLLARD, Il
Papa sconosciuto. Benedetto XV (1914-1922) e la ricerca della pace, S. Paolo, Cinisello Balsamo 2001,
pp. 132-137. “La Civiltà Cattolica” segnalava puntualmente gli scambi e il rilascio di prigionieri gravemente malati nella rubrica di G. QUIRICO, L’opera del s. padre Benedetto XV in favore dei prigionieri di guerra, “La Civiltà Cattolica”, 69,2,1918, pp. 116-129, 293-308, 398-414; 69,3, 1918, pp. 396-413; 69,4,
1918, pp. 273-284, 396-408.
16
AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 8, Lettera di don Angelo Roncalli al maggiore col. Roncalli cav.
Franco, Bergamo, Ospedale Banco sete 19.7.1918.
17
febbraio del 1919, quando fu rilevato da don Domenico Calvi24. Fu questo l’addio definitivo alla missione di cappellano militare.
Roncalli ricordò con particolare commozione anche da Papa questa
esperienza che gli offrì la possibilità di accrescere la conoscenza diretta
di uomini e situazioni, con grande vantaggio per quella capacità di incontrare le persone che costituisce il tratto peculiare della sua personalità25. Egli traccia le linee principali di questa attività nelle note dei
Diari stese nel 1917 e 191826 ed occasionalmente in alcuni discorsi, come quello tenuto in occasione del Congresso Eucaristico Nazionale di
Bergamo nel 192027. La risposta dei soldati era buona, spesso superiore
alle attese del loro cappellano, che si riteneva ricompensato oltre i meriti. Scopriva che la sua presenza tra i militari costituiva un’occasione
molto propizia di evangelizzazione. Dei suoi soldati diceva che «con un
po’ di garbo e di grazia di Dio riesce ad aver tutto da loro»28. Incontrava
grande disponibilità all’ascolto soprattutto da parte dei più giovani, nei
quali scopriva imprevisti spazi di bontà29. Accenna alla morte cristianamente esemplare di molti giovani soldati30. Due i casi particolarmente
24
Ivi, 7 febbraio 1919, p. 396. Su don Domenico Calvi (1885-1973) vedi Altare da campo, p. 97.
A.G. RONCALLI, Fiducia e obbedienza, Lettera a Bugarini, 4 aprile 1918, p. 162: «La guerra mi ha offerto
l’occasione di avvicinare anime più assai che dapprima e di studiare le vie migliori per giungere ad
esse. È dunque un’esperienza che mi ha fatto e mi fa molto bene, mi rende più buono, più disposto a
compatire i difetti altrui»; GIOvANNI XXIII, Discorsi, messaggi, Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, I,
Poliglotta vaticana, Città del vaticano 1960, Ricordi di un sacro ministero presso i militari, p. 751 «Furono vari anni e tra i più laboriosi della sua vita; ma anche fra i più densi di esperienza, perché si avevano
tante possibilità – a cominciare dal conforto dato a molti che dovettero compiere, e lo fecero con serenità, il passo supremo – di conoscere la vera anima della gioventù italiana».
25
26
Per il 1917 abbiamo note solo dal 1 gennaio al 17 giugno, eccetto una breve nota del 1° dicembre.
Per il 1918 le note riguardano l’anno intero. A questo si aggiungono due brevi note relative al 23
maggio 1915 e al 4 novembre 1916. Tutto il materiale è stato pubblicato nella edizione Nelle mani di
Dio, pp. 251-385.
Discorso al VI Congresso Eucaristico Nazionale 9 settembre 1920, pubblicato in L.F. CAPOvILLA (a cura
di) Il rosario con papa Giovanni, Camerino 1979, pp. 119-121: «Oh! Le lunghe notti vigilate tra i giacigli
dei cari e valorosi soldati ad accogliere le loro confessioni e a disporli a ricevere sul mattino il Pane dei
forti! Oh le belle canzoni a Maria intonate presso i semplici altari provvisori! Oh, la sublime solennità
delle messe al campo, e le care e piccole feste dell’ospedale, dove si rigustava specialmente a Natale,
a Pasqua, nel maggio, la poesia della chiesa del proprio paese, nel tenero ricordo delle madri e delle
spose lontane nell’ansiosa aspettazione della fine del sacrificio!».
27
GIOvANNI XXIII, Lettere ai familiari 1901-1962, I, Lettera al fratello Saverio, 6 maggio 1917, p. 48.
18
Nelle mani di Dio, 19 luglio 1918, p. 343; 31 luglio, 1918, pp. 347-348.
28
19
Fiducia e obbedienza, Lettera a don Spolverini, Bergamo 4 agosto 1918, pp. 164-165.
20
Nelle mani di Dio, 16 ottobre 1918, p. 372; 31 dicembre 1918, p. 385.
21
Ivi, 6 dicembre 1918, p. 383.
Lettere ai familiari 1901-1962, I, Lettera al padre, 23 giugno 1917, I, p. 52: «D’altra parte questi cari
giovani soldati non si può non amarli quando si sono avvicinati una volta; e sono tanto degni di ogni
cura e di ogni conforto. Per me confesso che vorrei potermi per loro sacrificare anche di più di quello
che faccio».
22
Ivi, 30 ottobre 1918, p. 373; 1 dicembre 1918, p. 382.
Ivi, 2 novembre 1918, p. 374: «La strada del Cimitero è diventata per me quotidiana perché vi conduco uno al giorno i miei poverini che di ritorno dall’Austria non hanno potuto trarre altro vantaggio
che quello di morire in patria»; 12 dicembre 1918, p. 385; 31 dicembre 1918, p. 385.
23
202 |
In trincea per la pace
29
Ivi, Lettera al fratello Saverio, 6 maggio 1917, I, p. 49: «Pensa che in un mese mi sono morti ben cinque artiglieri e tutti di polmonite. Ti so dire però che essi erano angeli veramente: ed ora mi proteggono dal Paradiso dove li ho avviati»; Nelle mani di Dio, 5 maggio 1917, p. 282; 1 ottobre 1918, p. 367;
4 ottobre 1918, p. 367; 6 ottobre 1918, p. 368.
30
/ 203
commoventi rievocati da Roncalli in pagine intrise di commozione: la
morte di Diani Egidio (1898-1917)31 di San Romano di Garfagnana e di
Orazi Domenico (1897-1917) di Montegallo di Ascoli Piceno. Roncalli
seguiva da vicino la grave malattia di questo giovane marchigiano
È di Ascoli Piceno, e conta 19 anni. Umile contadino ha l’anima pura come un angelo.
Gli traluce dagli occhi intelligenti dal sorriso ingenuo e buono. Stamane e stasera
sentendolo ragionarmi all’orecchio mi inteneriva... «Per me, signor cappellano, morire è una ricchezza, io muoio volentieri, perché sento ancora per grazia di Dio, di
aver l’anima innocente. Se morissi più vecchio, chi sa, chi sa, il sacco diverrebbe pesante. E poi morendo vecchio il distacco è più doloroso: lasciar moglie, figli, casa,
campi costa molto. A me ora che cosa costa il morire?» E un momento fa mi ripeteva: «A me, signor cappellano, piacerebbe tanto di morire ora, così,... vicino a lei... in
modo che sino al mio ultimo respiro io rimanga tutto del Signore». Ed io invece caro
Menicuccio voglio pregare tanto il Signore perché ti lasci vivo per lunghi anni. Il
mondo ha bisogno della permanenza di queste anime elette e semplici che sono
tutte un profumar di fede, di purezza, di santa e fresca poesia cristiana: ed anche
noi sacerdoti ne abbiamo bisogno per sentirci edificati alla virtù ed allo zelo32.
Il giovane, trasportato dal Banco sete al Ricovera Nuovo per un’operazione chirurgica, morì improvvisamente il successivo 8 di aprile, giorno
di Pasqua. Roncalli commentava:
Il mio caro soldato Domenico Orazi è morto oggi improvvisamente al Ricovero
Nuovo dove l’avevano trasportato per una operazione chirurgica […]. Finché
l’Italia ha di questi figlioli che salgono al cielo non può dubitare della benedizione di Dio33.
Roncalli era soddisfatto dei risultati ottenuti. Il Diario abbonda di annotazioni compiaciute per la partecipazione ai sacramenti e alla sue inizia31
Nelle mani di Dio, 19 aprile 1917, pp. 280-281; AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 23, Cartolina postale con ritratto di Diani Egidio e necrologio di don Angelo Roncalli: «Diani Egidio di S. Romano di
Garfagnana (verrucola) distretto di Lucca, prov. di Massa, 3° Artiglieria di Montagna, classe 1898, morto di polmonite violenta e da me assistito all’Osp. Mil. Banco Sete in Bergamo la notte del 19 aprile
1917. Anima eletta e pura carattere schietto e amabilissimo era troppo degno di abitare cogli Angeli
prima che i contati profani non potessero contaminare il cristiano candore. Nelle ore estreme mi promise di ricordarsi di me e delle cose mie in Paradiso: il ricordo di questa promessa tempera di soavità
la mestizia lasciatami dalla sua dipartita, mentre mi è incoraggiamento e conforto».
32
Ivi, 8 marzo 1917, p. 277.
Ivi, 8 aprile 1917, p. 280. Il commovente episodio, rievocato recentemente da mons. Capovilla, ha
coinvolto i familiari e la comunità di provenienza del giovane soldato con il trasporto dei resti mortali
dal cimitero di Bergamo a quello del paese natale nel luglio del 1994: AFGBG, serie 1.6, Vita Militare,
fasc. 31-32. I documenti relativi alla rievocazione di questo soldato per interessamento di mons. Capovilla sono stati riuniti nella pubblicazione: v. DI vINCENzO, G. GhIGhI, Montegallo onora il giovane artigliere Orazi Domenico (1897-1917), Ascoli Piceno 1994.
33
204 |
In trincea per la pace
/ 205
tive religiose34. Alta appare anche l’affluenza alla messa domenicale del
soldato35. Senza dubbio la possibilità di una continua assistenza e il non
eccessivo numero di assistiti facilitavano il compito del cappellano, però
non si deve trascurare la sua dedizione e la capacità di ascolto, che gli
permetteva di creare spesso legami non superficiali. Nonostante la
maggiore facilità di apostolato negli ospedali rispetto ai reparti dislocati
al fronte, non erano risultati del tutto scontati36.
L’esperienza di cappellano permise incontri con miscredenti e non cattolici che misero in luce e affinarono la particolare sensibilità Roncalli.
È il caso del tenente Emanuele Bufano, di confessione valdese, con il
quale si avviò un dialogo di reciproco ascolto superando le barriere di
ostilità che da secoli caratterizzavano le chiese cristiane. Roncalli riconosce la buona fede del tenente e la superiorità del metodo del rispetto
e della dolcezza, frutto della carità. Siamo davanti alle prime intuizioni
ecumeniche:
«Io lo credo in buona fede: certo che egli ha un’anima bella. Che il Signore lo illumini! Oh! Come apprezzo sempre nel contatto con queste creature la necessità che noi siamo dolci, non irosi, longanimi e insieme pronti e chiari nell’esporre la verità, nel rispondere alle obiezioni! Altro che tuoni dal cielo! Carità ci vuole, carità e verità semplice, schietta e amorevole37».
Diversamente da questo incipiente ecumenismo, il rapporto con i non
cristiani appare ancora legato al principio tradizionale dell’extra ecclesiam nulla salus, cioè del pericolo di dannazione per i fedeli di una diversa religione. Nell’ospedale Banco sete v’è Salem Serdaney, un negro
34
Nelle mani di Dio,19 marzo 1917, p. 278; 8 aprile 1917, Pasqua, p.280; 20 marzo 1918, p. 312; 20
marzo 1918, p. 312; 22 marzo 1918, p. 312; 19 maggio 1918, Pentecoste, p. 325.
35
Ivi, 9 maggio 1918, p. 322.
36
MOROzzO DELLA ROCCA, La fede e la guerra, pp. 196-197.
37
Nelle mani di Dio, 17 agosto 1918, p. 354. Il tenente Bufano successivamente faceva dono a Roncalli
di una copia del Nuovo Testamento e dei Salmi, accompagnata dalla seguente lettera del 14 settembre
1918: «Egregio sig. Cappellano, sebbene con ritardo – non causato però dalla mia volontà – oggi ho
potuto inviarle il volume del N. T. e Salmi che le promisi. La prego tanto volerli accogliere – oltre che
per le sue doti – anche come ricordo di un’Anima che quaggiù ha sofferto e soffre nella lotta incessante
per la purificazione, guidata e illuminata dal Sommo Ideale Cristiano che nel suo Mistero massimo di
Redenzione è tutto interiore sublimamente silenzioso, individuale! Non importa se una delle manifestazioni esteriori del Cristianesimo ci separa: la Chiesa; poiché esso è qualcosa di più grande, di più
universale, e certo che le anime infrangendo gli ostacoli umani non possono che sentirsi unite, affratellate, per tutte operare all’avvento nel Regno dei Cieli per l’annunzio del vangelo alle Creature di
questa terra di dolori […]». Sulla copertina del volume don Angelo Roncalli annota: «Questa versione
del N.T. e dei Salmi è opera di un protestante: perciò deve trattarsi con riserva. Me la mandò oggi da
Bari il sottotenente E. Bufano che fu degente all’Ospedale Rachitici agosto-settembre 1918: protestante anche lui, ma anima buona e retta». (AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 14).
206 |
In trincea per la pace
di religione mussulmana in grave pericolo di vita; Roncalli trepida per
la salvezza della sua anima. Non potendo fare nulla per convertirlo, si
limita a pregare38. Si consola quando viene a sapere che prima della
morte è stato battezzato sotto condizione, quindi a sua insaputa, dalla
superiora delle religiose che lo coadiuvano. Roncalli non giudica il gesto
irrispettoso, nella convinzione che il beneficio ottenuto – la salvezza di
un’anima - sia nettamente superiore al mancato rispetto della libertà
personale. Naturalmente del battesimo non si fa alcun accenno al mufti,
il ministro mussulmano che è venuto a celebrare le esequie39. Ma qualche giorno dopo, Roncalli ha occasione di incontrarlo e può costatare
la bontà d’animo di questo non cristiano, del quale afferma che anche
lui “forse è in buona fede”40.
IL PATRIOTTIsmO DI RONCALLI
Allo scoppio della guerra, l’ambiente cattolico bergamasco non sembra
essersi scostato di molto dall’atteggiamento assunto dalla Chiesa italiana. Nel periodo della neutralità i vescovi furono sensibili al naturale
pacifismo delle masse, specialmente nelle regioni meridionali e di confine con l’Austria, esponendo, nello loro pastorali, il giudizio del pontefice sulla guerra come flagello divino, ma furono egualmente disposti
a riconoscere il principio dell’obbedienza all’autorità in caso di intervento dell’Italia in guerra41. Questa pare l’evoluzione tenuta dal principale
organo di stampa della diocesi, “L’Eco di Bergamo” , mentre il periodico
“Il Campanone”, destinato ai ceti popolari, presenta toni più marcati di
neutralismo42. Il nuovo vescovo, mons. Luigi Marelli (1915-1936), nella
38
Nelle mani di Dio, 5 ottobre 1918, p. 368.
IVI, 5 ottobre 1918, pp. 368; 10 ottobre, pp. 370-371: «È morto stamattina il mio povero nero Salem
Serdaney: ma coll’anima bianca dalle acque del battesimo che Suor M. Ida la superiora gli ha amministrato sub conditione la notte tra il 5 e il 6 corr. Ufficialmente non se ne deve sapere nulla, e verrà il
suo mufti musulmano a portarlo al Cimitero con tutte le sue cerimonie. Quanto al corpo facciano pure:
è l’anima che mi premeva e questa parmi di poter dire che è salva. Oh! I misteri dell’amore di Dio!»
39
40
Ivi, 2 novembre 1918, p. 374.
A. MONTICONE, L’episcopato italiano dall’Unità al Concilio Vaticano II in G. DE ROSA (a cura di) Clero e società nell’Italia contemporanea, Laterza, Bari-Roma 1992, pp. 286-288; R.P. vIOLI, Vescovi /2. Dalla svolta
antimodernista a Pio XII in Cristiani d’Italia. Chiesa, Società, Stato, 1861-2011, Enciclopedia Treccani, II,
Roma 2011, pp. 831-832.
41
A. CANAvERO, Bergamo tra neutralità e intervento in Cultura e spiritualità in Bergamo nel tempo di Papa
Giovanni XXIII, Convegno di studio, Bergamo 19-22 novembre 1981, Bergamo 1983, pp. 185-207; C.
ONGARO, Il 1915 a Bergamo: cattolici e socialisti nel primo anno di Guerra, “Studi e ricerche di Storia Contemporanea”, 14, giugno 1980, pp. 5-33.
42
/ 207
lettera indirizzata ai fedeli in occasione dell’entrata in guerra, usava toni
di moderato patriottismo, andando oltre la logica dell’obbedienza verso
le autorità costituite, le cui decisioni erano insindacabili e come tali doverosamente accettate. Durante le fase di neutralità, i fedeli avevano
pregato per la pace, ma, una volta decisa l’entrata in guerra, essi dovevano impetrare il successo, garanzia di una pace durevole e sicura43. Il
cappellano don Angelo Roncalli si muove secondo questa linea, comune
del resto ad altri vescovi come il card. Ferrari, arcivescovo di Milano44. Il
suo pensiero è ricavabile da diversi interventi, di cui si sono conservate
svariate testimonianze: omelie, conferenze, interventi a pubbliche manifestazioni patriottiche, articoli su “L’Eco di Bergamo” e “La vita Diocesana” e corrispondenza privata. In modo particolare sono da ricordare
le omelie della messa del soldato che celebrava la domenica presso la
chiesa di S. Spirito alle ore 8,1545 e quelle dedicate al S. Cuore, collegate
all’atto di consacrazione dei militari46.
La guerra come castigo ed occasione di espiazione e di rinnovamento
vi sono in Roncalli vistosi lasciti della cultura intransigente, segnata da
un giudizio negativo sulla moderna civiltà, generata dalla Rivoluzione
Francese47. La guerra è vista come un castigo dovuto alla sua apostasia
dai valori cristiani. Roncalli si richiama all’insegnamento di Benedetto
XIv che aveva posto la radice della guerra nella dissoluzione dell’ordine
morale e sociale creato lungo i secoli dalla Chiesa. Questo aveva proLettera di S. E. Mons. Vescovo ai Ven. Fratelli e dilettissimi Figli , 25 maggio 1915, “La vita Diocesana”,
vII (1915) 6, pp. 157-159. Tra l’altro il vescovo scrive: «Gesù stesso insegna ad amare la patria terrena
e spesso noi ricordiamo le sue lagrime sui dolori ed afflizioni della patria sua; ma lo vediamo poi anche
amarla efficacemente, spendendo per lei le sue fatiche ed anche sacrificandosi per essa. Sentiamo
quindi pure noi il dovere di amarla questa patria nostra, tanto più in questi giorni in cui le sorti sue
sono affidate alla fortuna dell’armi».
vocato alcune gravi conseguenze, giudicate come le vere cause della
guerra: la mancanza di comune amore tra gli uomini, il disprezzo dell’autorità, l’ingiustizia dei rapporti fra le varie classi sociali e la promozione del materialismo con la ricerca sfrenata dei beni materiali48. La
predicazione di Roncalli è disseminata di tali accenni. La guerra è un castigo divino, ma solo permesso e non provocato da Dio, in quanto conseguenza inevitabile di scelte umane contrarie alla sua legge:
Che cosa sono i mali che ci circondano? Sono l’opera di Gesù? No anzi essi esprimono il rovescio, quasi diremmo il fallimento dell’opera sua: sono la contraddizione, la violazione flagrante della sua dottrina. La guerra gli uomini l’hanno voluta e non Iddio, e non Gesù. Iddio l’ha permessa, tanto è il suo rispetto all’umana libertà, e l’ha trasformata in un battesimo di penitenza per tutti poiché tutti
abbiamo le nostre colpe49.
Nel castigo l’uomo subisce una sorta di pena del contrappasso che dovrebbe portarlo a riconoscere le sue colpe. Questo ripensamento riguarda le ideologie care alla Modernità, come gli ideali di emancipazione e di libertà, smentiti clamorosamente dalla ferrea disciplina richiesta
dalla guerra. In tal modo l’uomo è richiamato al principio del rispetto
dell’autorità, negato dalle moderne rivoluzioni sovvertitrici dell’ordine
sociale50. Ugualmente si è scordata la necessità della penitenza come
condizione necessaria di rinnovamento individuale e collettivo; la guerra si è incaricata di mostrare che solo dal sacrificio possono derivare quelle virtù, che sono il sostegno della società51. Il tema dell’unione con Cri-
43
44
R.P. vIOLI, Vescovi /2. Dalla svolta antimodernista a Pio XII , pp.831-832.
A Bergamo venivano celebrate altre due messe analoghe; una al Conventino alle 8,15 e a S. Pancrazio alle 8: AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 20, manifestino.
45
46
Roncalli partecipò a svariate cerimonie, tra cui quella a S. Spirito del 1* gennaio 1917: ANGELO RON-
CALLI, La solenne consacrazione dei nostri soldati al Sacro Cuore di Gesù, “L’Eco di Bergamo” 30 dicembre
1916; Nelle mani di Dio, 1 gennaio 1917, lunedì, p. 257; 6 gennaio 1917, sabato, p. 259; ANGELO RONCALLI,“L’Eco di Bergamo”, 8 gennaio 1917, Fra i nostri soldati del nostro presidi. Sul significato di questa
consacrazione promossa da fra Agostino Gemelli vedi SANTE LESTI, «Per la vittoria, la pace, la rinascita
cristiana», Padre Gemelli e la consacrazione dei soldati al Sacro Cuore (1916-1917), “humanitas”, LXIII,
(2008), 6, Novembre-Dicembre, pp. 959-961.
AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 16, vIII, Omelia La Divina regalità di Gesù. I nostri bisogni: «vero
è che nei tempi moderni, noverunt i cattivi e muovono omnem lapidem per soffocare la storia o quanto
meno per neutralizzare la perennità dell’opera incivilitrice della Chiesa. Origine prossima e remota di
questi sforzi: umanesimo, Lutero; rivoluzione francese.»; “L’Eco di Bergamo”, 15 settembre 1917, Scintille domenicali.
47
208 |
In trincea per la pace
BENEDETTO Xv, Ad beatissimi Apostolorum Principis , 1° novembre 1914, in Enchiridion delle Encicliche,
4, Pio X - Benedetto XV (1903-1922), Edizioni Dehoniane, Bologna 1998, nn. 371-394.
48
49
AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 19, Omelia della domenica 17.12.1916, tenuta da Roncalli alla
messa del soldato in S. Spirito. Il medesimo principio è ripetuto i frammenti di una predica tenuta da
don Angelo Roncalli nel maggio del 1917 presso la sede della Compagnia di S. Angela a Bergamo Alta,
CARMELO EPIS, Consacrate secolari in mezzo al mondo. Cent’anni di presenza nella diocesi di Bergamo della
Compagnia di S. Orsola Istituto secolare di S. Angela Merici, Bergamo 2000, p. 93: «La guerra è un castigo,
ma non è voluta da Dio, ma bensì da noi. Noi ci siamo abusati dei suoi doni, cioè dei piaceri, delle ricchezze, degli onori [...]».
AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 19, Omelia tenuta in S. Spirito, 7.1.1917: «Gran cosa questa obbedienza! Il mondo moderno l’avea dimenticata: la sua parola d’ordine recata in trionfo, fatta penetrare nelle masse popolari fu invece emancipazione. Ebbene guardate che cosa è accaduto: il mondo
moderno emancipato ha dovuto imporre a se stesso per forza quella legge di soggezione che non si
era voluta accettare dal vangelo per amore. Ecco qui milioni di uomini compressi sotto la ferrea disciplina militare, chiusi come in tante armature di ferro. Potevasi immaginare ironia più feroce degli avvenimenti?».
50
51
AFGBG Serie 1.3. Scritti e Discorsi, fasc, 49, Omelia sulla Redenzione e la Madonna di Lourdes, luglio
1915: «La penitenza non l’abbiamo voluta per amore: ecco che ci conviene prenderla per forza. Sine
sanguinis effusione non fit remissio. Da questo bagno di sangue verrà la remissione. Gesù Redentore
accolga il sacrificio di tante giovani vite, di tante lacrime, di tanto sangue e l’unisca al suo: e si salvi
/ 209
sto e alla sua passione è richiamato per motivare positivamente la sofferenza. Per questo Roncalli aspetta con fiducia un rinnovamento individuale alla luce dei principi cristiani, di cui si intravedono i segni nel risveglio religioso tra i soldati da lui assistiti52. Percepisce che il dopoguerra
in Italia comporterà un rinnovamento politico-sociale cui i cattolici dovranno partecipare da protagonisti53. In lui è viva la recriminazione per
i soprusi ripetutamente subiti dai cattolici da parte della classe liberale54. Il culmine della polemica avviene dopo Caporetto, quando diventano di dominio pubblico le clausole del trattato di Londra: le mire territoriali del governo Salandra, estese ben oltre Trento e Trieste, e la
clausola di esclusione dalle trattative della S. Sede. Roncalli, quasi colto
in contropiede, accusa la classe politica italiana di ingordigia, e confessa
di capire finalmente il rifiuto da parte di Sonnino della Nota di pace del
1 agosto 1917 avanzata da Benedetto Xv55. Una classe politica simile
merita di scomparire; tuttavia anche in questo frangente non venne
meno la lealtà di Roncalli verso le legittime autorità56.
così il mondo». Nel corso della predicazione del mese di maggio del 1917 i titoli dati alle prediche
sono significativi nella loro progressione; sfortunatamente non ne possediamo i testi: AFGBG, Serie
1.6, Vita Militare, fasc. 16: La realtà della vita. Il sacrificio; Nel sacrificio il castigo; Nel sacrificio l’espiazione;
Nel sacrificio la trasformazione in Cristo crocifisso. Nello stesso corso del mese di maggio alcune omelie
sono dedicate ai molteplici Fiori di guerra: L’umiltà, la pazienza, l’amore di Dio, l’amore della famiglia, la
preghiera, la penitenza, la misericordia, il pensiero del paradiso.
52
AFGBG, Serie 1.6, Vita Militare, fasc. 19, Omelia 10.12.1916. Tali principi erano condivisi anche dalle
più alte sfere ecclesiastiche: DANIELE MENOzzI, Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti, Il Mulino, Bologna 2008, pp. 15-22.
Nelle mani di Dio, 24 agosto 1918, p. 356: «ho parlato a quei buoni giovani dell’Italia di domani che
tutti noi attraverso le trasformazioni della guerra dobbiamo contribuire a che sia veramente più grande, più libera, più cristiana»; 20 settembre 1918, p. 362.
53
54
AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 16, vIII. Omelia La Divina regalità di Gesù. I nostri bisogni: «L’atteggiamento attuale dei tristi contro la Chiesa 1) Non ha saputo impedire la guerra. 2) Italia poi tarpa
le ali al patriottismo. valore di queste obiezioni di contro ai fatti di tutti i giorni. Metodi subdoli di diffusione di questi pregiudizi attraverso la stampa quotidiana e (leggi poi Corriere della sera) e le pubbliche concioni e le più o meno grandi montature.»
Nelle mani di Dio, 1° dicembre 1917, p. 292: «I giornali di Russia pubblicano i documenti segreti di
guerra, e da questi risulta che l’Italia non è entrata nel conflitto se non in vista di ingorde speculazioni
territoriali – oltre quelle modeste e universalmente riconosciute per Trento e Trieste -: e quel che è
peggio ha posto per condizione o fuori di discussione che le tre potenze alleate: Inghilterra, Francia e
Russia, l’avrebbero aiutata a respingere in ogni modo ogni tentativo di qualunque interessamento
della S. Sede in questioni di guerra e di pace [...] Conviene dunque conchiudere che l’Italia è una povera
nazione tradita dal suo governo evidentemente asservito alle imposizioni delle sette e tutte le responsabilità della guerra gravano sopra il pregiudizio anticlericale. Altro che lotta della civiltà contro
la barbarie [...] passato il pericolo tutta l’Italia cattolica deve insorgere e schiacciare finalmente questo
infame liberalismo massonico e di tutte le tinte che ha rovinato la patria nostra».
55
56
Ivi, 31 gennaio 1918, p. 296: «Io amo l’Italia, ma detesto i governi che l’hanno guidata sin qui. Atro
è la patria e altro è lo Stato. Bisogna distinguere sempre».
210 |
In trincea per la pace
Un patriottismo cristiano
L’amor patrio era considerato da Roncalli espressione di carità, quindi
di amore verso i fratelli. L’idea viene ribadita più volte57. Un fonte autorevole, citata da Roncalli, fu la celebre pastorale del cardinale Mercier
Patriottismo e pazienza, dove si ribadisce fortemente l’idea58. In secondo
luogo l’adesione alla guerra era ritenuta un dovere in forza del principio
di sottomissione e di obbedienza nei confronti delle legittime autorità.
All’autorità veniva riconosciuto quel “principio di presunzione” che delegava ad essa il compito di stabilire la giustezza di una guerra. Roncalli
vede nella voce della Patria che chiama la voce di Dio, ne consegue la
necessità dell’obbedienza59. Egli, come del resto i vescovi, si mostra preoccupato del riconoscimento della lealtà dei cattolici e quindi della loro
distanza dal neutralismo socialista60. Infine il cappellano Roncalli è convinto della validità delle ragioni che militano a favore dell’Intesa: l’Italia
sta combattendo una guerra giusta, perciò non trova incoerenze tra la
partecipazione alla guerra e l’amore universale della legge cristiana61.
La ragione è da ricercarsi nella convinzione della guerra giusta che autorizza l’uso della forza contro gli avversari in vista del raggiungimento
di una pace “duratura e giusta”62. Non nasconde la sua inclinazione naturale alla pace tra i popoli, desidera perciò che la guerra finisca al più
Nelle mani di Dio, 26 maggio 1917, p. 284: «Intesi subito una letizia interiore di poter ostare a fatti
come io sacerdote sentivo l’amor di patria che poi non è altro che la legge della carità applicata giustamente»; GIOvANNI XXIII, Lettere ai familiari 1901-1962, I, Lettera al fratello Saverio, 6 maggio 1917,
p. 48; Lettera al fratello Giuseppe, 5 dicembre 1917, p. 61.
57
58
D. MERCIER, Patriottismo e penitenza, Lettera pastorale Natale 1914, Roma 1915, p. 18: «La religione
di Cristo fa del patriottismo una legge: non si è cristiano perfetto se non si è perfetto patriota». Questa
lettera ebbe grande diffusione in Italia. A Bergamo se ne fece un’edizione dall’Editrice S. Alessandro
nel 1915, con la stessa traduzione italiana dell’edizione romana. viene citata da Roncalli nella predica
n. 8 del mese di maggio del 1917, tenuto nella chiesa di S. Pancrazio: AFGBG, serie 1.6, Vita Militare,
fasc. 16, fiori di guerra. La pazienza.
AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 19, Omelia del 7 gennaio 1917 tenuta in S. Spirito: «A parte ogni
giudizio sulla legittimità e “santità” come suol dirsi, della nostra guerra questo è certo che per la coscienza di ogni soldato nella voce della patria che chiamò e impone i sacrifici c’è la voce di Dio, la volontà del Padre celeste: e ciascuno di noi servendo la patria serve a Dio.»
59
A. RONCALLI, Scintille domenicali, “L’Eco di Bergamo”, 13 aprile 1918: «In questi anni nei quali l’amor
di patria ha cessato di essere una formula rettorica [...] i cattolici hanno saputo dimostrare coi fatti
come la religione sia maestra di eroismi, di sudditanza e di fedeltà».
60
61
AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 16, Fiori di guerra: l’amore di Dio: «Ma non è un ironia parlare
oggi agli uomini in guerra sanguinosa fra loro dell’amore di Dio? Non lo è affatto». Roncalli non fornisce
una risposta in questa occasione, perché qui finisce la stesura dell’omelia.
AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 11, “L’Azione” settimanale della Lega Democratica Italiana, Anno
X, N.24, 13 giugno 1915, Ai soldati d’Italia. Roncalli conserva questo articolo, probabilmente perché
ne condivide le idee di fondo; vi sono esposte le ragioni che militano a favore dell’intervento in guerra
da parte dell’Italia: liberazione dei territori irridenti, riscatto dei popoli oppressi del Belgio, della Polonia, della Serbia.
62
/ 211
Queste posizioni lo portano a scontrarsi con alcuni colleghi del seminario, inguaribili triplicisti che difendono gli Imperi Centrali e criticano le
potenze dell’Intesa; Roncalli li accusa di essere fuori dalla realtà67. Troviamo tali giudizi netti nel 1918, ma questa convinzione, in fondo mai
abbandonata, ha conosciuto oscillazioni. Come molti, inizialmente Roncalli sperava in una guerra breve; ne abbiamo l’eco in alcuni suoi interventi dove un insolito linguaggio bellico risuona nelle sue esortazioni,
come nel dicembre del 191668.
Nell’estate del 1917 risulta evidente un senso di stanchezza per il prolungarsi della guerra69. Accoglie favorevolmente la Nota del 1° agosto
del 1917 di Benedetto Xv, ma questo non lo induce a sposare il pacifismo70. La conoscenza delle clausole segrete del trattato di Londra lo avvilisce per il gioco sporco effettuato dal Governo italiano alle spalle degli
ignari cittadini71, tuttavia l’entità della catastrofe convince Roncalli al dovere di una resistenza ad oltranza contro l’invasore72. Nel fatale proseguimento della guerra lo vediamo impegnato in prima persona in una
Nelle mani di Dio, 9 luglio 1918, pp. 339-340; Ivi, L. BUTTURINI, Servizio militare e impegni pastorali fra
i giovani nell’episcopato di Marelli, p. 223, nota 15; L. BRUTI LIBERATI, Il clero italiano nella grande guerra,
Roma 1982, p. 153. Un altro periodico moderatamente filotriplicista, almeno fino all’agosto del 1917,
fu l’ “Unità Cattolica”, diretta da Alessandro Cavallanti (1880-1917) dal 1909 al 1917: M. TAGLIAFERRI,
L’Unità Cattolica. Studio di una mentalità, Analecta Gregoriana 264, Pontificia Università Gregoriana,
Roma 1993, pp. 195-243.
67
presto63; tuttavia riconosce che è inevitabile, se la giustizia è lesa64. A
guerra finita non ha alcun dubbio che il Signore ha favorito la vittoria
di vittorio veneto in nome degli ideali di libertà, di civiltà e di giustizia65.
Questo carattere provvidenziale viene ribadito qualche giorno più tardi,
in occasione della resa della Germania, quando scrive che essa segna
un grave colpo per la causa luterana e il suo spirito. Era questo uno dei
motivi agitati dalla propaganda francese a giustificazione della guerra
contro la Germania66.
63
Fiducia e obbedienza, Lettera a don Spolverini, 2 agosto 1917, p. 155; 20 settembre 1917, p. 157.
AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 19, Omelia 3 dicembre, 1917: « Non parliamo poi di carità e di
pace fra tanto scempio di vite e di nazioni. Eppure a questo anelano le anime nostre alla luce, alla
forza, alla devozione: questo vuole la società, le nazioni: questo vogliamo noi figli d’Italia la verità, la
giustizia, la pace […] Oh! La pace affrettata da noi col nostro coraggio e col nostro valore, la pace bella
e gloriosa dopo la nostra vittoria s’intende – mi permettete voi di nominarla, di salutarla, di invocarla
come visione soave e confortatrice?».
64
65
Nelle mani di Dio, 30 settembre, 1918, p. 365; 5 novembre 1918, p. 375.
Ivi, 12 novembre 1918, p. 377. Roncalli fa di Lutero l’iniziatore dell’apostasia moderna della società
dalla Chiesa: “L’Eco di Bergamo”, 15 settembre 1917, Scintille domenicali. Sul motivo di Lutero vedi ROBERTO MOROzzO DELLA ROCCA, Benedetto XV e la sacralizzazione della I Guerra Mondiale in M. FRANzINELLI, R.
BOTTONI, Chiesa e Guerra. Dalla “benedizione delle armi” alla “Pacem in terris”, Bologna 2006, pp. 168-169.
66
212 |
In trincea per la pace
68
A. RONCALLI, La solenne consacrazione dei nostri soldati al Sacro Cuore di Gesù, “L’Eco di Bergamo” 30
dicembre 1916: «Quante volte il volere di Gesù fu compiuto, altrettanto i soldati colsero palme di
trionfo. Lo sa la Francia […] l’anno scorso vide il generale Castelnau e i suoi prodi, fregiato il petto
dell’emblema del S. Cuore, correre intrepidi alla battaglia della Marna e cingersi il capo di un’aureola
che li dirà gloriosi nei secoli. L’eroismo è una virtù nativa della razza latina: e noi ne ammiriamo tutto
di magnifiche prove. Ma la religione di Gesù amato e servito a dovere vi aggiunge gesta così sublimi,
tali fiori di entusiasmo, slanci così nobili nella completa dedizione di se: una grandezza così divinamente semplice, che sarebbe un vero peccato trascurarne le risorse preziose. Soldati d’Italia – noi vi diremo
con un prelato francese – siate i cavalieri della patria, siate i cavalieri del S. Cuore».
69
Fiducia e obbedienza, Lettera a don Spolverini, 2 agosto 1917, p. 155; 20 settembre 1917, p. 157.
Nelle mani di Dio, 17 settembre 1918, pp. 360-361: «Eppure io penso che in un modo o nell’altro sarebbe pure bene che una buona volta ci si incontrasse sul terreno della equità e del buon senso da
ambedue le parti. Finora […] la guerra politicamente e militarmente è ancora «l’inutile strage» che fu
rimproverata dalla immortale Nota Pontificia. Non è forse verissimo?». Roncalli conservò alcuni articoli
de “L’Italia” che difendevano la Nota di Benedetto Xv dalle accuse di ispirazione tedesca e filotriplicismo: AFGBG, serie 1.6, Vita Militare, fasc. 11.
70
71
Nelle mani di Dio, 1° dicembre 1917, p. 292; 30 settembre 1918, p. 366, nota 183.
Nelle mani di Dio, 16 maggio 1918, p. 324: «Io dicevo che […] il fare opera e propaganda di resistenza
rientra nel nostro dovere di cristiani e di sacerdoti e che i nostri giusti risentimenti per le offese antiche
e recenti e continue fatte e permesse dal governo al Papa e ai cattolici nulla tolgono a questo dovere
nell’ora presente»; Ivi, 31 gennaio 1918, pp. 296-297. Roncalli conserva l’articolo dè “L’Italia” del 29
ottobre del 1917, I Cattolici e l’ora presente, in cui il giornale pubblicava l’invito della Giunta direttiva
dell’Azione Cattolica che esortava alla resistenza. Esso è conservato in AFGBG, serie 1.6, Vita Militare,
fasc. 11. Anche “L’Eco di Bergamo” rinnovava gli appelli alla resistenza, vedi Nelle mani di Dio, 31 gennaio 1918, nota 6, pp. 296-297.
72
/ 213
serie di iniziative per favorire la resistenza dell’intera popolazione73. Tra
queste occupano un ruolo fondamentale le pubbliche preghiere per la
vittoria delle armi italiane74. Roncalli ha una forte inclinazione per queste cerimonie religiose di invocazione collettiva a Dio attraverso la mediazione della vergine Maria e del patrono cittadino S. Alessandro. Esse
sono la continuazione di una lunga tradizione storica, alla cui riproposizione Roncalli partecipa convintamente.
Così, in occasione della solennità dell’Immacolata, celebrata in S. Maria
Maggiore dopo la disfatta di Caporetto, con parole solenni e non prive
di retorica, ma sincere, invita tutta la cittadinanza ad innalzare pubbliche preghiere per la salvezza della patria minacciata75. In precedenza,
il 15 novembre del 1917, aveva rievocato l’anniversario dell’apparizione
nel 1514 di S. Alessandro al comandante spagnolo che minacciava la
città e che fu costretto a togliere l’assedio. Dopo Caporetto, rimane
sotto assedio l’Italia intera, per cui è necessario ricorrere con
maggior impeto di fede e di preghiera al nostro Patrono S. Alessandro, perché
sopra le nostre anime fatte più pure e più degne nella mortificazione e nella
prova, sulle nostre case, sui nostri soldati, sulle regioni vicine, su tutta l’Italia,
rinnovi i prodigi dell’antica protezione76.
Questi testi mostrano la convinzione di Roncalli circa la stretta connessione tra patriottismo e religione77. Ai liberali che si attribuiscono la prerogativa dell’autentico amor di patria che prescinde dalla religione, Ron73
Nelle mani di Dio, 1° dicembre 1917, p. 292: «Oggi e finché gli Austriaci non hanno ripassato le frontiere bisogna combattere strenuamente ed incitare tutti al compimento del proprio dovere: ma passato il pericolo tutta l’Italia cattolica deve insorgere e schiacciare finalmente questo infame liberalismo
massonico e di tutte le tinte che rovinato la patria nostra»; Lettere ai familiari 1901-1962, I, Lettera al
fratello Saverio, 22 novembre 1917, p. 60; lettera al fratello Giuseppe, 5 dicembre 1917, p. 61.
74
Nelle mani di Dio, 24 marzo 1918, p. 313. Roncalli fa pregare i soldati perché sia respinta l’offensiva
tedesca nella primavera del 1918: «Le notizie della irruzione Tedesca in Francia fanno rabbrividire:
sono ondate di vita fiorenti che si spezzano sanguinosamente contro gli scogli della resistenza tenace
degli Inglesi ed eroica dei Francesi […] A S. Spirito ho fatto pregare particolarmente per gli eserciti alleati. Mi è parso cosa bella e doverosa».
“L’Eco di Bergamo”, 7 dicembre 1917, Domani in S. Maria Maggiore: «L’intervento del vescovo con tutto
il clero urbano, l’assistenza delle autorità civili e militari, la maestà del popolo, del popolo nostro così degno dei suoi figli gloriosi che si battono da eroi, così fiero delle sue tradizioni civili e religiose, il vibrare
delle anime in un consentimento di più fervido amore, nell’ora trepida, per Iddio e per la Patria, questi
elementi insieme riuniti, lassù, sotto le volte che sanno la nostra storia secolare, contribuiranno ad imprimere un carattere di incomparabile solennità al pio convegno». Resoconto della solenne celebrazione:
“L’Eco di Bergamo”, 9 dicembre 1917, Nell’ora più tragica della Patria Bergamo si prostra alla Vergine.
75
76
A. RONCALLI, “L’Eco di Bergamo”, 14 novembre 1917, 15 Novembre 1514-1917. Divo Alexandro Bergomi
patrono.
Nelle mani di Dio, 27 maggio 1918, p. 328: «Consiglio migliore è indire solenni preghiere pubbliche
per la patria e combinare la nota patriottica con quella delle fede e della pietà».
77
214 |
In trincea per la pace
calli auspica la fine di questo separatismo, che impoverisce e svuota di
contenuti. Sostiene un patriottismo fortemente segnato dallo spirito religioso, che, a differenza di quello liberale, può richiamarsi ad una tradizione più antica ed autorevole. Nella solenne commemorazione dell’anniversario del giuramento di Pontida - 7 aprile 1167 - svoltasi a Bergamo
e Pontida il 7 aprile del 1918, rileva la voluta astensione degli oratori
ufficiali dal fare riferimenti religiosi nell’interpretazione di un evento
profondamente marcato dalla pietà cristiana quale fu la stipulazione della Lega Lombarda78. La religione contribuisce all’elevazione soprannaturale delle virtù civiche, le purifica e conferisce loro spessore spirituale79.
Nell’omelia in S. Spirito del 7 gennaio 1917 rileva l’insufficienza della motivazioni umane per la scelta del militare chiamato alle armi costretto ad
abbandonare il lavoro e la famiglia. Solo la consapevolezza di obbedire
alla voce di Dio presente nel richiamo dei superiori, permette di superare
lo strazio del distacco e sublima il sacrificio conferendo ad esso un valore
soprannaturale80. Così per la virtù della pazienza, indispensabile per la
prosecuzione degli obblighi di guerra, Roncalli sottolinea l’insufficienza
delle ragioni dello stoicismo, cui si richiamava la tradizione laica, rispetto
alla ricchezza delle motivazioni cristiane81. Solo l’esempio di Cristo con
la prospettiva della vita eterna è in grado di convincere adeguatamente
gli spiriti al compimento generoso del proprio dovere82. Lo sforzo di Ron78
“L’Eco di Bergamo”, 8 aprile 1918, La commemorazione del giuramento di Pontida – a Bergamo – a
Pontida; Nelle mani di Dio, 7 aprile 1918: «Fra i soldati ho voluto porre in rilievo ciò che certo non fu
toccato se non per viva forza e incidentalmente dai promotori della duplice dimostrazione odierna a
Bergamo e Pontida, cioè il carattere profondamente religioso della Lega Lombarda […] Tornate, tornate, glorie di Pontida e di nuovo trionfo della fede e del patriottismo». Roncalli aveva commemorato
solennemente il giuramento di Pontida il 1 di settembre del 1912: AFGBG, serie 1.3. Scritti e Discorsi,
fasc. 29, ANGELO RONCALLI, ‘La Lega Lombarda’ pubblicato in “Pro Fide et Libertate” numero unico a cura
del Circolo Universitario bergamasco Angelo Maj in occasione della XXv Festa federale delle associazioni cattoliche bergamasche a Pontida il 1 settembre 1912.
AFGBG, serie 1.6. Vita militare, fasc. 7, testo dattiloscritto e copia stampata con firma autografa di
Roncalli e copia dattiloscritta del testo alle donne bergamasche firmato da lui a nome del Comitato
bergamasco dell’Unione fra le Donne cattoliche d’Italia (5 novembre 1917).
79
AFGBG, serie 1.6. Vita militare, fasc. 19, Omelia 7 gennaio, 1917, chiesa S. Spirito: « Tutte le nostre
piccole e grandi privazioni e separazioni – che varrebbero ben poco quando le confortasse un semplice
motivo umano e naturale – acquistano un valore soprannaturale e divino e immensamente meritorio
per noi, per la nostra famiglia, per la patria ove siano sostenute con spirito di fede e con sentimento
di cristiana carità».
80
AFGBG, serie 1.6. Vita militare, fasc. 16, Mese di maggio S. Pancrazio 1917, 8 Fiori di guerra. La pazienza: «I moderni nei discorsi e nelle letteratura spicciola, ostentatamente areligiosa e acattolica, non
sanno che richiamare quella filosofia e quegli esempi. È qualche cosa ciò: ma troppo povera cosa in
confronto del pregio e della significazione cui fu elevata la virtù della pazienza dal cristianesimo.»
81
AFGBG, serie 1.6. Vita militare, fasc. 19, VII, La divina regalità del Cuore di Gesù. I nostri bisogni: « Nulla
ci si capisce alla stregua dei soli criteri umani: le ragioni del patriottismo di moda ci lasciano freddi:
alla luce della fede e del vangelo tutto si illumina, si accende, divampa».
82
/ 215
calli è teso a mostrare come la medesima carità di Cristo ispiri una serie
di comportamenti diversi esigiti dalle svariate circostanze in cui si esprime lo sforzo bellico. Si direbbe che qui Roncalli esprime una sorta di universalismo cristiano basato sulla carità, che comprende nazioni, momentaneamente divise dalla guerra, che le colpe hanno messo l’una contro
l’altra, ma che dopo la guerra potranno superare tale frattura con il pieno e reciproco riconoscimento. Risulta evidente il carattere piuttosto
problematico di questa concezione, la quale, se da un lato esprime la
larghezza d’animo di Roncalli incline all’amore universale non contagiato
da un gretto nazionalismo, dall’altro ignora le inimicizie e gli strascichi
che la pratica della violenza porta inevitabilmente con sé, particolarmente gravi nella Grande Guerra per la proporzione e l’entità delle stragi83.
Questa prospettiva superiore, propria del soprannaturale, è assente
nella consueta la propaganda politica e militare, che si rivela tanto più
chiassosa e retorica quanto più appare vuota di argomentazioni. Anzi
spesso assume toni nettamente negativi, quando istiga al disprezzo e
all’odio verso i nemici. Il 28 luglio 1918 Roncalli ha partecipato ad una
festa patriottica a Sarnico per i caduti, i mutilati e gli invalidi. Il suo intervento ha “commossero molto”, segno che le esortazioni di contenuto religioso risultano sempre le più accette agli ascoltatori, perché trasmettono valori spirituali che sollevano gli spiriti angosciati nelle grandi
tragedie collettive. Biasima il capitano Giupponi, presidente dei mutilati
ed invalidi, il quale, nell’intervento successivo al suo, non esita ad eccitare all’odio contro i Tedeschi. Roncalli annota che ciò non è umano, né
cristiano, né cavalleresco, ritenendo che la necessità di combattere il
nemico non implica l’odio84. Ci chiediamo però se realisticamente ciò
fosse possibile al fronte, quando la propaganda vi ricorreva ad esso per
ridestare lo spirito bellico di soldati sfiduciati e sfibrati fisicamente e
psicologicamente85.
83
A. RONCALLI, Scintille domenicali, “L’Eco di Bergamo”, 1 giugno 1918: «L’amore di tutti gli uomini,
sempre costante anche fra il tumulto degli avvenimenti più disparati e complessi, la condanna ripetuta
della falsa dottrina dell’odio verso chicchessia, connazionale, alleato o nemico, e insieme la generosità
del sacrificio per i propri fratelli spinta fino all’eroismo, elevata al merito di vita soprannaturale, associata ai divini dolori di Cristo: poi la larghezza incessante di cuore, di denaro, di sostanze per sovvenire
i bisogni altrui; e soprattutto la sincerità e la rettitudine di questo sentimento dimostrato non a parole,
ma a fatti, senza stupirsi e senza scomporsi per la malevolenza e i falsi apprezzamenti del mondo: tutto
ciò è qui in questo documento apostolico [Accenno alla I lettera di Giovanni]; e tutto ciò è fiore eletto
di patriottismo verace, è programma sano di pensiero, di azione, di vita per le coscienze cattoliche».
84
Nelle mani di Dio, 28 luglio 1918, pp. 346-347.
PIERO MELOGRANI, Storia politica della Grande Guerra, pp. 231-241. Padre Agostino Gemelli è stato
molto più realista di Roncalli nella descrizione del soldato impegnato in trincea nella sua famosa opera,
Il nostro soldato. Saggi di psicologia militare, Treves, Milano 1917.
85
216 |
In trincea per la pace
La risposta all’appello del Governo
L’8 aprile del 1918 il ministro Sacchi indirizzava ai vescovi la circolare Per
la Resistenza e Mobilitazione civile, in cui chiedeva la collaborazione e il
sostegno del clero per i gravi momenti attraversati dalla patria. Una settantina di vescovi risposero positivamente86.
Anche Roncalli si mostrò favorevole e ne discusse animatamente con i
colleghi del seminario che trovavano sempre il modo di criticare l’Italia.
Roncalli riteneva invece dovere cristiano e sacerdotale aderire alla proposta e lasciar perdere i risentimenti verso un’autorità che prima e durante la guerra si era mostrata priva di riguardi versi i cattolici e avversa
alle iniziative di pace di Benedetto Xv. Terminava le sue osservazioni
con una nota tipicamente sua: convinto dell’enormità del male presente, vedeva però le opportunità di bene, che non andavano lasciate cadere, ma elevate e moltiplicate. Concludeva: «Dico forse male così?» 87.
Su incarico del vescovo toccò a don Angelo stendere una circolare ai vicari foranei e ai parroci in cui si comunicavano le direttive da praticarsi
per una resistenza cristianamente ispirata.
La circolare, che porta la data del 29 maggio, si articola in cinque punti.
Il primo stabilisce la preferenza da accordarsi alle cerimonie religiose
con preghiere per i soldati e la patria rispetto a quelle profane. Il secondo privilegia le cerimonie all’interno di una chiesa rispetto a quelle all’aperto. Il terzo riguarda i contenuti della predicazione dei sacerdoti,
che deve evitare argomentazioni politiche per attingere al vangelo e
alla tradizione cristiana le motivazioni dei doveri patriottici88. Nel quarto
punto si raccomanda al predicatore la debita prudenza e di fare spazio
al sentimento per immedesimarsi nello stato d’animo popolare e così
essere vicino alle sue sofferenze. Conviene evitare recriminazioni polemiche nei confronti dello Stato e garantire da parte dei cattolici l’adempimento del dovere per ottenere rispetto e considerazione nella futura
Nelle mani di Dio, 16 maggio 1918, p. 324, nota 69. La circolare ministeriale fu pubblicata su “La vita
Diocesana”, 10 (1918) 6, p. 75. Roncalli ha conservato tra le sue carte un articolo che riportava le dichiarazioni dei vescovi di Bologna, Brescia e Mantova di adesione all’invito del ministro Sacchi: “L’Italia”,
L’episcopato e l’ora presente, 16 maggio 1918 in AFGBG, serie 1.6. Vita militare, fasc. 11.
86
87
Ivi, pp. 324-325.
[A. RONCALLI] Per l’azione del clero nell’ora presente, “La vita Diocesana” 10(1918)6, p. 87: «Noi non
abbiamo bisogno di ricorrere a profani argomenti per destare nobile e vigorosa la coscienza del proprio dovere nel nostro popolo. Il vangelo e tutto il vangelo, le lettere di Paolo, la Dottrina e la tradizione della Chiesa Cattolica, i grandi esempi antichi e recenti, sopratutto i dolori di Cristo Crocifisso e
trionfatore, ecco una fonte inesauribile di principii e di pensieri sufficienti a suscitare un popolo di
eroi nell’esercizio di quelle grandi virtù che il cristianesimo ha saputo sublimare e che sono la pazienza,
la concordia, la disciplina, il coraggio».
88
/ 217
società italiana. Infine, a modo di conclusione, Roncalli offriva preziose
raccomandazioni di stile oratorio riassumibili nell’espressione nota pia,
la sottolineatura tipicamente roncalliana del carattere religioso e di
commossa partecipazione alla sofferenza, in modo da toccare i cuori e
disporli con maggiore convinzione al proprio dovere. A questo stile Roncalli si era richiamato fin dagli esordi della sua missione di cappellano89.
Infatti scrive che i concetti ivi espressi erano quelli che gli erano famigliari da tre anni. Naturalmente era soddisfatto della loro coincidenza
con le intenzioni del vescovo90.
Don Angelo offrì prove convincenti di questo stile in almeno due circostanze: a Terno d’Isola in occasione di una festa patriottica del 31 maggio 191891 e a Bergamo nella festa dello Statuto e dell’inizio del quarto
anno di guerra, celebrata la domenica 2 giugno. Roncalli intervenne
presso il direttore de “L’Eco”, don Clienze Bortolotti, perché la cerimonia avesse il suo momento religioso, inizialmente non previsto. Soddisfatto per aver ottenuto la celebrazione della messa, Roncalli avanzò
riserve sul comportamento di mons. Marelli in una discussione con i superiori del Seminario. Il vescovo aveva declinato l’invito di celebrare la
messa, mentre acconsentì ad essere rappresentato da una delegazione
nella sfilata successiva. Secondo Roncalli, il pericolo di compromettersi
troppo con la politica era insussistente nel caso della cerimonia religiosa: il vescovo avrebbe compiuto il suo dovere illustrando l’autentico
amor patrio secondo lo spirito cristiano. Al contrario trovava inopportuna la presenza delle delegazione vescovile nella parata militare92. Per
espresso desiderio del vescovo Roncalli fu incaricato della celebrazione
della messa fissata alle 7 in piazza Baroni. Benché la vigilia si fosse coricato all’1,30 del mattino per il prolungarsi dell’assistenza ai malati, preparò il discorso nella chiesa di S. Marco. Annota che tutto andò bene e
che molti rimasero commossi fino alle lacrime dalle sue parole. Egli stesso confessa che difficilmente avrebbe provato in futuro una commozione simile, per cui ci troviamo davanti a un precedente significativo
del futuro papa Giovanni che in certe occasioni sapeva toccare le corde
giuste del sentimento, ed entrare in piena sintonia con i suoi ascoltatori
Ivi, p. 88: «Specialmente raccomando in questi discorsi la nota pia, quella che più va al cuore e lo
raddolcisce e lo conforta e lo eleva e lo tempra».
89
90
Nelle mani di Dio, 16 maggio 1918, pp. 328-329: «vi ho messo i concetti che io ritengo più opportuni
e che mi sono famigliari da tre anni ormai».
“L’Eco di Bergamo”, [...]. Trafiletto dedicato ad una cerimonia patriottica a Terno d’Isola, tenuta il
31 maggio.
91
92
Nelle mani di Dio, 1 giugno, sabato 1918, p. 330.
218 |
In trincea per la pace
dando il via a incontri indimenticabili, come fu questo nel giugno del
191893. Nel testo del discoro pubblicato su “L’Eco di Bergamo”, possiamo notare come egli si sia richiamato a temi già ampiamente utilizzati
e collaudati negli anni precedenti. Con un linguaggio non immune da
retorica, ma sincero, Roncalli ricorda la purificazione effettuata dal sacrificio di Cristo che associa a sé quello dei fedeli. Esso eleva i propositi
di servizio a favore dei fratelli, li sostiene e li porta a compimento fino
al dono della vita. Infine chiede che la preghiera innalzata da Cristo sull’altare della croce abbia a discendere su tutti come potente energia divina per l’ottenimento degli scopi prefissi. Il discorso terminò con l’invito a rivolgere la preghiera al Dio salvatore del suo popolo. Il cronista
afferma l’impressione enorme ricevuta dalla folla94.
Come riconoscimento di questo impegno patriottico, è da ricordare l’intenzione del Prefetto di Bergamo a fine guerra di proporre il nome di
don Angelo Roncalli al Governo per la onorificenza di «cavaliere della corona d’Italia», per il contributo della sua «parola sacerdotale a mantenere
saldo lo spirito e il dovere patriottico durante la guerra». Roncalli però
riteneva questa onorificenza troppo profana e tale da farlo passare presso l’opinione pubblica per un prete liberale, ciò che non voleva essere95.
CONCLusIONI
Agli inizi del Novecento l’atteggiamento dei cattolici verso lo Stato Italiano muta per il venir meno degli steccati della polemica risorgimentale, la fine del temporalismo e l’accettazione del Regno unitario. Per
la generazione cattolica nata dopo il 1870 non si trattava più di rivendicare un’altra Italia, ma di mostrare come la fede religiosa fosse l’elemento di innovazione, di arricchimento, ma anche di moderazione e di
Ivi, 2 giugno domenica, pp. 330-331: «Molti hanno pianto a quella cerimonia e a quelle parole: anch’io
ero commosso. Certo non mi accadrà più di provare una impressione somigliante. Lasciamo sempre
fare al Signore».
93
94
“L’Eco di Bergamo”, 3 giugno 1918, La giornata di ieri a Bergamo. La cerimonia religiosa: «Poiché al di
fuori e al di sopra di ogni altra considerazione di carattere materiale e semplicemente umano è alla
scuola di Cristo, o soldati, o concittadini, che noi uomini di fede attingiamo le ragioni supreme dell’amore verso la patria. Qui si comprende come esso sia un grande dovere. E come tale lo predichiamo
e lo vorremmo scrivere su tutte le fronti, su tutti i cuori […] Ebbene , o soldati, l’altare è la più alta
scuola del dovere: sull’altare Eucaristico si accende e fiammeggia la divina virtù del sacrificio».
Nelle mani di Dio, 23 agosto 1919, p. 439. Il direttore dè “L’Eco”, don Clienze Bortolotti, insignito
della medesima onorificenza l’anno precedente, l’aveva invece accettata, ibid. 27 aprile 1918, pp.
319-320.
95
/ 219
freno davanti all’irrompere del nuovo ruggente nazionalismo96. Roncalli
appartiene a questa nuova generazione, che si sente italiana e quindi
avverte la necessità di mostrare e motivare un autentico amor di patria,
attingendo alla dottrina tradizionale cattolica del dovere verso la propria
patria e dell’obbedienza alle legittime autorità, cui spettava il diritto insindacabile di esprimere il giudizio morale circa la “guerra giusta”, la
sola che potesse giustificare la partecipazione dei cattolici. L’amor patrio era una virtù umana alla quale il cristianesimo aggiungeva un sovrappiù di motivazioni e che rendeva meritorio presso Dio. Era una tesi
insufficiente per affrontare gli eventi bellici dell’età contemporanea
per la natura e le proporzioni che essi stavano assumendo nel XX secolo. Il tema della “guerra giusta” andava radicalmente riesaminato da
parte del pensiero teologico e del magistero ecclesiastico. Un passo significativo in questo senso era stata effettuato da Benedetto Xv che
nella Nota del 1° agosto 1917 aveva definito la guerra inutile strage.
Il patriottismo mostrato dai cattolici li abilitava ad una piena partecipazione alla vita politica. A guerra ultimata, la loro presenza avrebbe consentito di riparare gli errori del liberalismo e del separatismo tra Chiesa
e Stato, derivati dai principi della Rivoluzione francese, e di avviare riforme sociali conformi alla dottrina della Chiesa, di cui l’Italia aveva bisogno97. Questa prospettiva è ben presente in Roncalli e si imporrà nell’immediato dopoguerra come esigenza generale, cui cercherà di dare
una risposta il Partito Popolare di don Sturzo. Ma, a causa della sua impostazione aconfessionale e democratica, la sua accettazione non sarà
scontata. Le difficoltà sociali e politiche offriranno invece l’opportunità
a Mussolini di affermarsi ed una parte del mondo cattolico collaborerà
convinta di poter immettere nello stato fascista i contenuti di un cattolicesimo dal forte spirito nazionale. Allora il patriottismo cattolico nato nelle trincee correrà il rischio di assumere quei toni nazionalisti, che
Roncalli tanto biasimava, ma che troverà non pochi seguaci.
SINTESI DELL’ARTICOLO SUL CAPPELLANO
MILITARE DON ANGELO RONCALLI
Per una serie di fortunate circostanze don Angelo Roncalli, richiamato
alle armi il 23 maggio 1915, si ritrovò ad esercitare il compito di
sergente di sanità esattamente nello stesso luogo da cui era partito: il
Seminario Vescovile di Bergamo, che era stato requisito come ospedale.
Il 28 marzo 1916 ottenne la nomina di cappellano militare e prestò
prevalentemente servizio nell’ospedale del Banco sete e dei Rachitici.
Dal 16 ottobre del 1918 fino al successivo 7 febbraio 1919 accettò di
assistere i soldati ricoverati presso il Ricovero Nuovo della Clementina
e rilasciati dai campi di prigionia austriaci perché colpiti da tubercolosi e
ormai prossimi alla morte.
L’esperienza di cappellano arricchì notevolmente Roncalli e contribuì ad
affinare le sue doti di sacerdote e di uomo disponibile all’ascolto ed al
dialogo con tutti. Durante tutto il periodo bellico, Roncalli mostrò un
sincero amore verso la patria, che si fondava sull’obbedienza verso le
legittime autorità e sulla doverosa solidarietà nei confronti del popolo
Italiano. Tali sentimenti erano rafforzati dall’ispirazione cristiana
fondata sul sacrificio e sullo spirito di servizio, evitando forme
esasperate di odio verso i nemici. (don Zanchi)
G. FORMIGONI, L’Italia dei cattolici. Fede e nazione dal Risorgimento alla Repubblica, il Mulino, Bologna
1998, pp. 75-76.
96
97
Nelle mani di Dio, 8 febbraio 1917, p. 269. Nell’aprile del 1917 Roncalli ritaglia e conserva un articolo
di Sturzo, nel quale affrontava il problema delle riforme sociali nel dopoguerra: AFGBG, serie 1.6. Vita
militare, fasc. 11, “L’Italia”, 13 aprile 1917. Il giugno successivo “L’Eco di Bergamo” presentava una
sorta di programma per risolvere i problemi sociali e politici del dopoguerra: Cattolici occhio al domani,
“L’Eco di Bergamo”, 9 giugno 1917.
220 |
In trincea per la pace
/ 221
NOI, TRE ITALIANI
E LA LETTERATuRA NELLA
GRANDE GuERRA
mAssImO sImONINI
Scrittore
DI quEsTE CAsE / NON è RImAsTO / ChE quALChE
bRANDELLO DI muRO / DI TANTI / ChE mI CORRIsPONDEvANO
NON è RImAsTO / NEPPuRE TANTO / mA NEL CuORE
NEssuNA CROCE mANCA / è IL mIO CuORE
IL PAEsE PIù sTRAZIATO
G. UNGARETTI, SAN MARTINO DEL CARSO
Sono parole che fanno venire i brividi quelle che scriveva Ungaretti cento anni fa. viveva una guerra nuova, dalle dimensioni inaspettate, lunga
e dolorosa. Oggi possiamo rileggere quei versi con maggiore comprensione, ma mai con indifferenza.
È da questi presupposti che è nato l’incontro tra me e un folto gruppo
di studenti bergamaschi lo scorso 4 giugno 2015, presso l’Istituto Falcone di Lovere. All’interno del progetto “Giovani Guide in Trincea per
la Pace”, il Ministero dell’Istruzione ha voluto raccontare la Grande
Guerra sotto diverse prospettive, atte a produrre un messaggio moderno di pace e sviluppo. Ed è stato un piacere, oltre che una bella sfida,
poter dare il mio personale contributo a questa affascinante iniziativa.
Parlare di Grande Guerra attraverso la letteratura non è un’idea scontata, in quanto è la guerra stessa ad aver generato certo genere di prosa. I primi scrittori sono stati gli stessi soldati – Ungaretti ne è un esempio – che hanno scoperto nella letteratura uno strumento per raccontare ciò che altrimenti non è descrivibile. Diceva Carlo Emilio Gadda nel
/ 223
Giornale di Guerra che l’unico modo per comprendere una guerra è viverla. Per chi, come noi, vive fortunatamente distante da questa dimensione, è possibile adoperare altri strumenti. Di fronte ad una platea attenta e partecipe, ho condiviso con i ragazzi dell’Istituto Falcone
la mia personale esperienza di autore letterario, dimostrando come
non ci sia pretesto migliore del centenario della Grande Guerra per riscoprire un contesto storico troppo spesso trascurato. Insieme abbiamo attraversato i nomi degli scrittori più significativi, a partire dagli interventisti come Marinetti fino a narratori sul filo del thriller come Federico De Roberto. E ancora hemingway e virginia Woolf, interpreti
stranieri di un sentimento di orrore e incomprensione che è stato trasversale e planetario. Sulla Prima Guerra Mondiale si sono poi cimentati
registi di ogni ideologia, basti citare Francesco Rosi e Monicelli, e tutti
con un solo obiettivo: raccontare per insegnare.
Le future “guide” di questo ambizioso progetto del Ministero dell’Istruzione, hanno un estremo bisogno di esempi concreti con i quali confrontarsi sinceramente e fuori da ogni forma di revisionismo. Perciò ho avuto
il doppio piacere di fare di uno dei miei romanzi l’oggetto di discussione
e dibattito dell’incontro del 4 giugno. Nel romanzo Noi, tre italiani (Edizioni Anordest) vengono raccontate le storie di tre ragazzi realmente
esistiti che della guerra proprio non sapevano nulla. Riccardo Giusto, Giovanni Coppola e Ciro Scianna nascono in Friuli, Abruzzo e Sicilia, lontani
e certi che la loro vita sarebbe stato un meritato susseguirsi di successi
ed insuccessi. Invece la guerra del 1915-1918 li ha catapultati in un mondo nuovo, fatto di marce, pianti, morti insensate ed atti di coraggio.
I protagonisti di questo romanzo diventano, loro malgrado, eroi; questo
semplicemente facendo delle scelte di coscienza basate su valori ben
precisi (la famiglia e la carità su tutti). A partire da loro, è facile per un
giovane di oggi farsi delle domande sulle proprie scelte, su come distinguere il bene dal male. È in questo modo che i giovani studenti bergamaschi potranno diventare a loro volta delle guide per i loro colleghi
più giovani. Attraverso il racconto di Noi, tre italiani, si è arrivati ad una
proficua interazione durante la conferenza: che cosa possiamo fare noi
oggi? Cosa sceglieremmo se ci trovassimo al posto di quei tre ragazzi
contadini? Apriremmo il nostro cuore a degli sconosciuti? Come si diventa fratelli dentro una trincea?
ne: la rappresentazione teatrale di Noi, tre italiani, liberamente ispirata
al romanzo, che già sta facendo il giro d’Italia con la produzione dell’Associazione Culturale Sperimentiamo. La conferenza si è così conclusa
con l’invito, concretizzato il successivo 24 ottobre 2015, al Teatro San
Filippo Neri di Darfo-Boario Terme. Una doppia occasione per raccontare in immagini la Prima Guerra Mondiale, ricordando che la strada da
fare verso l’educazione alla pace è ancora molta, ma che è possibile percorrerla se siamo disposti ad ascoltare il nostro passato con il cuore e
con la mente.
LA vITA è PIENA DI COsE NON NECEssARIE ChE ANDREbbERO
FILTRATE ATTRAvERsO IL CuORE.
PERChé sE è vERO ChE LE mEDAGLIE NON vANNO IN PARADIsO,
CI vANNO PERò LE IDEE CON LE quALI sI è vIssuTO
FINO ALL’uLTImO REsPIRO.
ALCuNI vI RACCONTERANNO ChE, uNA vOLTA INsIEmE,
I NOsTRI NOmI sI sONO CONFusI, ChE CI sOmIGLIAvAmO
TuTTI, ChE NEI CONTEGGI DI uNA GuERRA uN NumERO
è uGuALE AD uN ALTRO. ALLORA vOI TORNATE quI,
AsCOLTATE I NOsTRI RACCONTI, ImPARATE I COGNOmI
E I sENTImENTI DI mIGLIAIA DI vENTENNI COmE vOI.
E FERmATEvI A RIFLETTERE.
quEsTE sONO LE NOsTRE vITE, EsEmPIO E TEsTAmENTO
DI ChI NON sARà mAI PERDuTO NEL sILENZIO
MASSIMO SIMONINI, NOI, TRE ITALIANI
EDIZIONI ANORDEST, 2015
Il messaggio del romanzo e la mia entusiasta partecipazione al progetto
“Giovani Guide in Trincea per la Pace” è passato anche per un altro importante appuntamento, fortemente voluto dal Ministero dell’Istruzio-
224 |
In trincea per la pace
/ 225
RELAZIONE sTuDENTI
LICEO FALCONE
E vIsITA A REDIPuGLIA
IN TRINCEA PER LA PACE
suLLE TRACCE DELLA GRANDE GuERRA
ChIARA GhIsALbERTI
Nelle giornate di lunedì 23 e martedì 24 novembre si è svolta la visita
al Redipuglia e ad Aquileia per i ragazzi che hanno partecipato al progetto “In trincea per la pace”, un progetto organizzato in occasione del
centenario della prima guerra mondiale per l’Italia.
Noi ragazzi siamo partiti alle 7:00 dalla sede del liceo Falcone guidati
da due accompagnatori e in pullman, dopo circa quattro ore di viaggio,
siamo finalmente arrivati al Redipuglia, dove abbiamo visitato subito il
Sacrario Militare e il Museo della Grande Guerra.
Costruito in epoca fascista il Sacrario è dedicato alla memoria di oltre
100.000 soldati italiani caduti durante la prima guerra mondiale. Alle
spalle si elevano i 22 gradoni che, in ordine alfabetico, costudiscono le
spoglie dei soldati identificati. Ogni loculo è sormontato dalla scritta
“Presente” e sono raggiungibili grazie alle scalinate laterali che conducono in cima. Al centro del primo gradone si trova l’unica donna sepolta,
una crocerossina. Arrivati al termine della scalinata e dei gradoni, una
cappella custodisce alcuni resti di altri numerosissimi soldati. Il museo
invece è composto da un atrio d’ingresso in cui è stata allestita una pianta dei luoghi in cui si è svolta la guerra nella regione e da tre sale dove
si possono ammirare la bacheche dove sono esposte le armi usate dai
combattenti durante il conflitto, alcune divise dei soldati e le attrezzature mediche. Al centro di una stanza invece sono esposte diverse attrezzature di uso quotidiano utilizzate dai soldati. Il pomeriggio, dopo
aver visitato i resti di alcune trincee sempre nei pressi del Sacrario, abbiamo visitato la piccola città di Grado, per poi recarci ad Aquileia presso
l’ostello Domus Augusta che ci ha ospitati. Il mattino seguente invece,
accompagnati da una guida, abbiamo visitato un museo dove sono con-
/ 227
servati ed esposti resti romani, che testimoniano la colonizzazione ad
Aquileia. I resti conservati sono di vario genere: sculture, gioielli, ceramiche, utensili di uso quotidiano, monete e nella parte esterna del museo sono esposti anche resti di pavimentazioni di antichi edifici decorati
con la tecnica del mosaico. Successivamente abbiamo visitato la Basilica
di Santa Maria Assunta, affascinante per via dei diversi stili che ingloba:
nella pavimentazione a mosaici romani (visibile anche nella sottostante
Cripta degli schiavi), al ciclo di affreschi della seconda metà del XII secolo nella Cripta degli affreschi, che racconta la storia della cristianizzazione della città di Aquileia al battistero del Iv secolo. Il più suggestivo
rimane il Cristo in trincea, un crocifisso creato da un artista-soldato sopravvissuto che cercò di trasmettere le sofferenze sue e dei suoi compagni di trincea attraverso l’espressione del Cristo. Nel pomeriggio abbiamo fatto una sosta nel centro della città di Palmanova per poi rientrare a Bergamo per le ore 20.00 circa.
visitare luoghi come il sacrario è molto suggestivo, e l’esperienza lascia
un ricordo amaro e quasi triste, se si pensa a quanti uomini hanno sofferto e perso la vita in quelle terribili condizioni, senza poter più riabbracciare la propria famiglia. Percorrere i gradoni e leggere in ordine
alfabetico cognomi conosciuti, di amici o familiari, o addirittura il proprio cognome provoca una sensazione definibile come un sottile confine fra l’orologio, nel pensare che questi cognomi conosciuti hanno sacrificato la vita per il proprio paese, e la sofferenza, nel pensare al dolore vissuto in trincea e a quello delle famiglie che non hanno più visto
questi uomini tornare. Magari loro avevano pure promesso che sarebbero ritornati.
PROGETTO “IN TRINCEA PER LA PACE”
FORmENTI FRANCEsCA
Nei giorni 23 e 24 novembre 2015 noi ragazzi del liceo Falcone partecipanti al progetto “In Trincea per la Pace”, iniziato la scorso Giugno, ci
siamo recati con due accompagnatori in Friuli, sul Carso in conclusione
del progetto. L’obbiettivo della visita era proprio quello di vedere con i
nostri occhi i luoghi e i posti che hanno segnato la storia della Prima
Guerra mondiale in Italia, andando oltre al semplice elenco di avvenimenti raccontatici da esperti e studiati sui libri di storia. Abbiamo avuto
228 |
In trincea per la pace
l’opportunità di camminare nelle trincee, simbolo della Prima Guerra
mondiale, per capire effettivamente in quali condizioni i soldati fossero
costretti a vivere e vedere il Sacrario Militare di Redipuglia, un cimitero
dedicato alla memoria di oltre 100.000 soldati italiani caduti durante la
guerra. Ciò che più impressiona di questo luogo sono proprio i nomi e i
cognomi di tutti i soldati incisi sulle gradinate del Sacrario che sottolineano come la guerra (non solo la Grande Guerra ma tutte, fin dall’antichità) non sia semplice “vittoria” o “sconfitta” di uno Stato o di un esercito ma piuttosto la morte di migliaia di persone che si sacrificano per
il loro Paese, ciascuna con un nome e con una vita che la guerra ha brutamente strappato via. Oltre ai luoghi della guerra abbiamo visitato la
città di Aquileia, piccolo comune famoso per i resti romani di edifici e
mosaici che vi sono stati trovati nella Basilica risalente al XI secolo contenente una Cripta in cui sono visibili i resti della Basilica Paleocristiana.
Complessivamente il progetto è stato molto interessante e ben strutturato ma soprattutto utile per conoscere una parte della storia Italiana
che a significativamente segnato il nostro Paese.
/ 229
PROGETTO “IN TRINCEA PER LA PACE”
mIChELLE CuRNIs
Nei giorni 23-24 Novembre abbiamo partecipato al progetto “In trincea
per la pace”. La prima tappa è stata a Redipuglia, dove abbiamo visitato
un Sacrario vedendo più di 30.000 nomi di caduti in guerra. Ciò è stato
molto interessante perché a volte non ci rendiamo conto del fatto che
dietro a un numero ci sono davvero tante vite, tante persone esistenti,
che hanno fatto la nostra storia.
Successivamente abbiamo visitato un museo di armi e oggetti vari della
guerra, abbiamo pranzato e siamo andati in un museo all’aperto in cui
c’erano armi più grandi. Dopo di che ci siamo recati a Grado, una città
turistica, per visitarla. Infine abbiamo raggiunto Aquileia, dove abbiamo
cenato e dormito nell’ostello Domus Augusta. Il mattino seguente, oggetto della nostra visita sono stati un museo romano e una chiesa di stile
romanica/gotica, nei cui sotterranei erano presenti resti di Domus romane. Dopo pranzo, abbiamo deciso di recarci a Palmanova, dove abbiamo visitato il paese per poi tornare a casa. È stata una bellissima esperienza, molto interessante e ben strutturata.
RELAZIONE suL PROGETTO “IN TRINCEA PER LA PACE”
sELENE mAGNI
Il progetto “In trincea per la pace” è un progetto organizzato dal Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (MIUR) in occasione del centesimo anniversario dell’entrata in guerra dell’Italia nella Grande Guerra, meglio conosciuta come Prima Guerra Mondiale. Esso consiste in un
corso pomeridiano e in alcune visite e/o viaggi di istruzione, allo scopo
di imparare le nozioni da esprimere poi durante la nostra esperienza da
guida. ho deciso di prendervi parte per due principali motivi: sono abbastanza interessata della storia, soprattutto quella moderna del nostro Paese; una delle professioni che vorrei fare in futuro è appunto
quella di guida turistica; questa era un’occasione per potermi mettere
alla prova e fare esperienza in questo campo.
Durante il corso pomeridiano ci sono state insegnate, oltre alle nozioni
principali e alle date più importanti, altri aspetti della guerra, come la
corrispondenza di lettere di alcuni soldati, in cui si mostravano le reali
condizioni dei soldati nelle trincee, il coinvolgimento di personaggi im-
230 |
In trincea per la pace
portanti, come il futuro papa Giovanni XXII. Le tre date del corso si sono
svolte nella prima settimana di Giugno, dove si è appunto discusso di
vari argomenti inerenti alla Prima Guerra Mondiale. Si è poi svolta nello
stesso mese una visita d’istruzione sull’Adamello, al quale io non ho potuto partecipare.
PROGETTO “IN TRINCEA PER LA PACE”
sILvIA RIvA
Il viaggio di istruzione a cui ho preso parte si è svolto il 23 e il 24 novembre presso alcune località del Friuli-venezia-Giulia. Nella prima giornata abbiamo visitato Fogliano Redipuglia, conosciuta per il Sacrario:
esso è un monumento consistente in una scalinata di 22 gradoni. Ogni
piano contiene i nomi e i resti di circa 4500 caduti provenienti da tutta
Italia, per un totale di circa 100.000 soldati. Sulla cima di questa scalinata si trova un piccolo santuario a loro dedicato. Successivamente abbiamo visitato un museo inerente sempre all’argomento principale del
progetto e un parco commemorativo. Nel pomeriggio ci siamo spostati
in un parco poco distante dal paese per osservare in prima persona alcune delle trincee e dei sentieri che furono utilizzati durante la guerra.
In serata ci siamo diretti verso Aquileia, dove abbiamo prenottato. La
mattina successiva abbiamo fatto una visita guidata nel museo romano
di Aquileia e in alcuni edifici legati al periodo romano. Nel pomeriggio
abbiamo visitato la città di Palmanova per poi ritornare a Bergamo. Nonostante il progetto non ci abbia dato l’effettiva possibilità di metterci
alla prova come guide turistiche, penso che il progetto sia stato molto
interessante. In particolar modo mi è piaciuto il corso, poiché non ha
mostrato solo gli aspetti storico-nozionistici, ma anche quelli più nascosti e prettamente umani, legati alle persone che hanno vissuto sulla loro
pelle questa guerra.
PROGETTO “IN TRINCEA PER LA PACE”
visita a Redipuglia, Aquileia, Grado e Palmanova
A seguito del progetto “in trincea per la pace” si è svolta nei giorni 23 e
24 novembre 2015 un’uscita didattica in alcuni dei luoghi della Grande
Guerra. Precedentemente era già stata fatta un’uscita al museo della
/ 231
vamente piccolo. Nel Museo abbiamo girato da soli all’interno della sala
principale, nella quale sono esposte per lo più le armi usate durante la
guerra, divise militari, una ricostruzione di una trincea e anche oggetti
usati quotidianamente dai soldati nelle trincee. Nel corridoio situato
tra le due stanze del museo, sui due muri, vi sono inoltre affissi due pannelli che danno maggiori informazioni ad esempio sul numero di morti,
di persone scomparse e i nomi delle armate, battaglioni e brigate.
Mentre stavamo pranzando abbiamo inoltre incontrato un signore del
posto, gentilissimo, che ci ha dato ulteriori spiegazioni riguardo, per
esempio, al Milite Ignoto e anche qualche curiosità. Ad esempio ci ha
raccontato che la catena, che si trova davanti al Sacrario, apparteneva
ad una nave austro-ungarica poi divenuta italiana (se non ricordo male
il nome della nave era “Grado”) e, la catena, è stata poi regalata al Sacrario. Ci ha inoltre raccontato che sulle lastre che si trovano, superata
la catena, nel pezzo di strada che conduce al Sacrario, sono indicati i nomi delle località del Carso in cui si sono svolte le battaglie più importanti. Dopo pranzo abbiamo raggiunto il Parco della Rimembranza, che si
trova sulla cima di un colle, proprio di fianco al museo. Qui in un grande
spazio aperto, circondato da cipressi, si trovano, oltre ad un monumento, diversi modelli di cannoni usati all’epoca. In seguito siamo ritornati
al Sacrario, di fianco al quale si trovano i resti di una trincea.
Guerra Bianca in Adamello, che era stata, a mio parere, molto interessante. La mattina del 23 Novembre ci siamo incontrati di fronte alla sede di via Dunant dove abbiamo conosciuto i nostri accompagnatori, che
hanno contribuito a rendere l’uscita ancora più piacevole, cercando anche di sdrammatizzare e alleggerire il clima in quella situazione un po’
più pesanti, ad esempio durante la lunga visita guidata ad Aquileia.
La nostra prima “tappa” è stata la Cappella del Sacrario di Redipuglia
che si trova in cima alla famosa scalinata. Qui, seduti tra i banchi della
Cappella, abbiamo ascoltato il discorso del cappellano, che ci ha riassunto in breve la storia della cappella e anche, in modo molto generale,
ciò che era avvenuto durante la guerra lì dove ora si trova il Sacrario.
Purtroppo il resoconto del cappellano è stato forse un po’ troppo breve
e generale. In seguito abbiamo sceso le scalinate del Sacrario militare
e letto i nomi dei caduti e dell’unica crocerossina, la cui tomba si trova
nella prima linea e si distingue dalle altre perché vi è sopra una croce.
In seguito siamo andati al Museo della Grande Guerra che si trova esattamente dal lato opposto della strada, rispetto al Sacrario, ed è relati-
232 |
In trincea per la pace
Dopo aver visto anche la trincea siamo risaliti sul pullman che ci ha portato a Ronchi dei Legionari, in un posto lontano del centro della cittadina, dove i nostri accompagnatori ci hanno letto qualche informazione
riguardante le trincee e poi, seguendo dei sentieri, ne abbiamo visto
qua e là alcuni resti. In seguito siamo ritornati in pullman e siamo arrivati, quando ormai era già sera, a Grado, qui abbiamo fatto una passeggiata per le vie della cittadina e le piccole piazze, che con il buio erano
ancora più suggestive. Dopo la “sosta” a Grado abbiamo infine raggiunto l’ostello ad Aquileia, dove abbiamo trascorso la notte.
La mattina del giorno seguente ci siamo recati alla zona archeologica
di Aquileia, dove abbiamo incontrato la guida che ci avrebbe appunto
“guidato” attraverso i periodi, le fasi storiche vissute dalla città. Prima
di tutto la guida ci ha portato al Museo archeologico anche della civiltà
romana in generale. Il museo è abbastanza grande e con molto sale nelle quali abbiamo visto ad esempio statue, vasi, anfore mosaici, gioielli,
statuette, candelabri, oggetti di vetro e in generale tutti quegli oggetti
e reperti di epoca romana. Sempre parte del museo è anche un ampio
giardino, nel quale abbiamo visto numerose epigrafi e mosaici.
/ 233
Terminata la visita al museo, abbiamo raggiunto la Basilica patriarcale di
Santa Maria Assunta, dove la guida che ci ha parlato soprattutto dell’arte
e dell’architettura paleocristiana e romananica. Abbiamo visitato la basilica, con i vari ampliamenti e modifiche della pianta che sono state apportate, e l’annessa cripta. A fianco della basilica si trova il Cimitero degli
eroi, che avremmo dovuto visitare e che in teoria avrebbe dovuto essere
la parte della visitata guidata che ci interessava di più, in quanto legata
alla Prima Guerra Mondiale. Purtroppo non abbiamo potuto visitarlo,
perché qualche settimana prima era caduto un cipresso sul tetto della
Basilica e quindi il cimitero, e gli alberi, che la percorrevano, troppo alti
non abbiamo avuto nemmeno la possibilità di vederlo fuori. Quindi la
guida si è limitata a dirci due informazioni riguardanti il cimitero e il suo
collegamento con il Milite Ignoto. Qui, di fronte al Cimitero degli eroi, è
finita la nostra visita guidata ad Aquileia, una visita lunga, senza dubbio
interessante, ma purtroppo poco c’entrava con il progetto inerente alla
Grande Guerra. Ciò non toglie, come già detto, che essa sia stata molto
educativa e piacevole, avrei preferito la guida si fosse concentrata di più
sul periodo della guerra mondiale e meno sul resto. Magari avrebbe avuto l’occasione si parlarne di più se non ci fosse stato l’inconveniente della
caduta del cipresso e avessimo potuto visitare il cimitero.
Dopo esserci separati dalla guida, dato che avanzava ancora del tempo
prima di tornare a Bergamo, ci siamo fermati a Palmanova. Qui siamo
rimasti un po’ nella Piazza Grande e siamo entrati nel Duomo. In serata
siamo, infine, rientrati a Bergamo.
Nel complesso questa visita didattica è stata, a mio parere, molto interessante e ci ha dato modo di imparare nuove cose o curiosità, che non
erano state dette durante il corso, ma soprattutto di vedere, dal vero,
come erano le trincee e gli oggetti, le armi che i soldati usavano e anche
che indossavano, o almeno di farcene un’idea. Inoltre credo che vedendo le cose e non ascoltandole e basta, esse ci rimangono più impresse.
RELAZIONE RELATIvA AL vIAGGIO DI IsTRuZIONE A REDIPuGLIA
PER IL PROGETTO “IN TRINCEA PER LA PACE”
AuRORA GALIERO
Il giugno scorso insieme ad altri alunni delle classi terze ho frequentato
le lezioni formative relative alle vicende avvenute durante la prima
guerra mondiale. Queste lezioni, organizzate dal Convitto Nazionale
234 |
In trincea per la pace
“Cesare Battisti” di Lovere, in collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, avevano lo scopo di formarci per
il centenario della Grande Guerra. Le lezioni formative sono state tre e
i relatori che hanno presieduto ai corsi sono stati: Camillo Andreana;
prefetto di Bergamo e cultore della Prima Guerra Mondiale, Lorenzo
Benadusi; docente di Storia contemporanea presso l’Università e il relatore dell’ultimo incontro è stato Massimo Simonini che tramite delle
letture del suo libro “Noi, tre italiani” ci ha fatto entrare nel mondo dei
giovani partigiani.
Il progetto è terminato con il viaggio d’istruzione sui luoghi della Grande Guerra. Il viaggio a Redipuglia si è svolto nelle giornate tra il 23 e il
24 Novembre 2015. Il nostro accompagnatore è stato il Professore Cesare Tomasoni. Lunedì 23 Novembre siamo partiti dalla sede di via Dunant dell’istituto “Giovanni Falcone” alle ore 7.00. Dopo l’arrivo a Redipuglia alle ore 11.00 abbiamo visitato il Sacrario Militare, il monumentale cimitero militare, costruito in epoca fascista a memoria degli oltre
centomila soldati italiani caduti durante la Prima Guerra Mondiale. Scalino dopo scalino abbiamo letto tutti i nomi dei caduti ed è stata
un’esperienza che ci ha fatto molto riflettere, parlare di soldati caduti
è molto triste, ma vedere con i propri occhi quello scenario è molto più
impressionante. Dopo la visita al Sacrario abbiamo visitato le vere e proprie trincee. Successivamente abbiamo pranzato e visitato il Museo della Grande Guerra, nel quale abbiamo visto le diverse armi utilizzate durante la battaglia. Nel tardo pomeriggio abbiamo visitato la cittadina di
Grado e dopo ci siamo sistemati ad Aquileia nell’ostello Domus Aurea.
La cena si è svolta presso il ristorante “Osteria al parco” che abbiamo
raggiunto a piedi verso le 20.00/20.30. La mattina del 24 Novembre dopo la prima colazione all’ostello, siamo andati a visitare la città di Aquileia. La visita guidata al museo archeologico nazionale di Aquileia ci ha
fornito informazioni sulla civiltà romana.
L’ultima visita guidata si è svolta alla Basilica di Santa Maria Assunta, che
è ricca di mosaici nella pavimentazione. All’esterno, attorno all’abside
della Basilica, vi è il cimitero dei caduti della Guerra 1915-1918, dove riposano dieci degli undici militi ignoti tra i quali Maria Bergamas, madre
di un caduto volontario di guerra, scelse quello le cui spoglie mortali riposano all’Altare della Patria a Roma dal 1921. Lei è la donna italiana
che fu scelta in rappresentanza di tutte le madri italiane che avevano
perso un figlio durante la Prima Guerra Mondiale, dei quali non erano
state restituite le spoglie. Avremmo dovuto visitare il cimitero ma a cau-
236 |
In trincea per la pace
sa di lavori non è stato possibile. Dopo la visita abbiamo pranzato al ristorante “Osteria al Parco”. Nel primo pomeriggio abbiamo visitato Palmanova, un comune nella provincia di Udine. Questa città è molto particolare e viene chiamata “città stellata” per la sua pianta poligonale a
stella con nove punte. A Palmanova abbiamo visitato la piazza e la chiesa. Alle ore 16.oo siamo ripartiti per tornare a Bergamo e siamo arrivati
in via Dunant, presso l’Istituto Giovanni Falcone alle ore 20.00. Penso
che questa esperienza sia stata estremamente educativa. Nonostante
la guerra sia sempre presente in molti parti del mondo, noi giovani europei non l’abbiamo personalmente conosciuta, per questo motivo ritengo che questo progetto ci abbia avvicinato alla vita e alle emozioni
provate da tanti ragazzi delle nostra età di cento anni fa. La storia si ripete e noi che siamo la nuova generazione dobbiamo fare in modo che
non si ripetano gli stessi errori commessi in passato e uno dei primi modi per evitare di commettere gli stessi errori è la nostra formazione. Conoscere la storia e conoscere cosa è accaduto prima di noi ci aiuta a
prendere spunto dalle situazione positive e allontanarci da quelle negative, al fine di essere cittadini migliori.
PROGETTO “IN TRINCEA PER LA PACE”
Il 23 Novembre ci siamo recati presso Redipuglia, una piccola ma importante località in Friuli venezia Giulia. Per mezza giornata abbiamo
visitato il luogo, prestando maggior attenzione e tempo alla cappella
del Sacrario dedicato ai soldati italiani caduti durante la Prima Guerra
Mondiale e al cimitero monumentale, in cui erano seppelliti i loro corpi.
È stata un’esperienza molto formativa; infatti, grazie all’aiuto degli accompagnatori e del cappellano militare del cimitero di Redipuglia, sono
venuto a conoscenza di numerosi dettagli e informazioni interessanti
riguardanti sia la Prima Guerra Mondiale sia la storia del Friuli. Conclusasi la visita al Sacrario, verso sera, ci siamo spostati a Grado, una tranquilla cittadina marittima. Trascorse un paio d’ore, dopo un breve viaggio, siamo giunti ad Aquileia. Lì abbiamo passato una notte presso un
ostello e la mattina seguente abbiamo visitato l’importante museo archeologico romano delle cittadine e l’antica chiesa medievale di Aquileia e il suo cimitero militare.
Terminate le visite e il pranzo, ci siamo messi in viaggio per ritornare a
Bergamo. Durante il ritorno, abbiamo fatto sosta presso Palmanova,
/ 237
Il fulcro della giornata di lunedì 23 novembre è stata la visita al Sacrario
Militare di Redipuglia, il cimitero monumentale dedicato alla memoria
di oltre 100.000 soldati italiani caduti durante la Prima Guerra Mondiale.
Ad accoglierci e a introdurci alla visita è stato Don Sigismondo Schiavone, cappellano del sacrario, che ha raccontato ai ragazzi la storia del
monumento, ma soprattutto diversi aneddoti tratti da alcune lettere
ancora inedite di soldati, veri e propri spaccati della vita di trincea che
raccontano la guerra come non la si può leggere su nessun libro di storia. Scorrere poi il lunghissimo elenco di nomi, alla ricerca magari di qualche possibile antenato, ha significato per i ragazzi prendere coscienza
di un sacrificio che riguarda tutti da vicino, ma che purtroppo rischia di
essere già dimenticato.
La visita è proseguita con il Museo della Grande Guerra, con i suoi interessanti reperti (dalle armi, alle divise, agli oggetti di uso quotidiano in
trincea), e con un breve itinerario a piedi sull’area del Monte Sei Busi,
dove si possono vedere diverse opere trincerate, teatro degli scontri
fra le truppe italiane e quelle autro-ungariche.
una cittadina costruita secondo il modello urbanistico post-rinascimentale. Paese molto interessante e importante poiché, questa era dotata
di una pianta poligonale (da qui il nome “città stellata”), circondata da
possenti mura. Terminata la visita siamo rientrati a Bergamo.
“IN TRINCEA PER LA PACE”
vIsITA AL sACRARIO DI REDIPuGLIA E AD AquILEIA
Nell’ambio del progetto formativo promosso dal Miur “In trincea per la
pace” in occasione del centenario dell’entrata dell’Italia nella Prima
Guerra mondiale, è stata organizzata una visita di alcuni luoghi d’importanza rilevante per la Grande Guerra. Diciannove studenti del Liceo Falcone di Bergamo e una studentessa del Collegio vescovile Sant’Alessandro di Bergamo hanno preso parte all’uscita che si è svolta nei giorni
23 e 24 novembre 2015.
238 |
In trincea per la pace
La giornata di martedì 24 novembre è stata dedicata alla visita guidata
di Aquileia, uno dei siti archeologici più importanti dell’Italia settentrionale. visitando il ricchissimo Museo Archeologico Nazionale e la Basilica
con i suoi mosaici, i ragazzi hanno potuto apprendere come quello che
ora è un comune di poco più di tremila abitanti, era un tempo una fiorente città e un punto nevralgico dell’impero romano, grazie alla sua
posizione strategica avvantaggiata dal lungo sistema portuale e dalla
raggiera di importanti strade che se ne dipartivano.
Progressivamente abbandonata dai Romani, Aquileia ritornò al centro
della storia con la Prima Guerra Mondiale, sempre a causa della sua posizione, contesa dall’Impero Asburgico e il Regno d’Italia, a cui fu annessa definitivamente nel 1918.
La visita non poteva che concludersi con un luogo molto significativo:
il Cimitero degli Eroi, che si trova proprio nel cuore della cittadina, a ridosso della Basilica, dove furono raccolti i primi caduti del 1915 sul Carso (purtroppo, la visita al cimitero è stata soltanto parziale, a causa della
caduta di un cipresso ad opera del vento). Si tratta di un sito storico
molto importante perché, a differenza degli altri cimiteri, sacrari ed ossari, è l’unico ad aver mantenuto la sua forma originale da quando sono
iniziate le sepolture nel 1915. Inoltre, proprio da questo luogo, è partita
nel 1921 la salma del Milite Ignoto verso l’Altare della Patria a Roma.
/ 239
3
RACCONTARE LA GuERRA
NOI, TRE ITALIANI
PROGETTO TEATRALE
NOI, TRE ITALIANI
PROGETTO TEATRALE
sACERDOTI COL FuCILE, LA ChIEsA
E LA GRANDE GuERRA
DRAmmA IN DuE ATTI
CENTENARIO DELLA PRImA GuERRA mONDIALE
A CURA DI MASSIMO SIMONINI
E ASSOCIAZIONE SPERIMENTIAMO DI ROMA
PROGETTO DOCUMENTARISTICO
Testo di Massimo Simonini
Regia di Nataliia Florenskaia
Scenografie e Costumi di Amedeo D’Amicis e Paola Tosti
Maestro di combattimento Luca Ventura
Una Produzione di Associazione Culturale Sperimentiamo di Roma
PREsENTAZIONE DELL’OPERA
Noi, tre italiani nasce in occasione del
Centenario della Prima Guerra Mondiale ed è tratto dall’omonimo romanzo di
Massimo Simonini (Edizioni Anordest,
febbraio 2015) ideato e curato in collaborazione con lo Stato Maggiore della
Difesa. Lo spettacolo, allestito dall’Associazione Culturale Sperimentiamo, affronta la guerra non solo dal punto di vista storico e militare, ma soprattutto da
quello umano e spirituale. Tre giovani
italiani realmente esistiti, un friulano,
un abruzzese e un siciliano, portano in
scena le loro storie e più in generale fotografano un’epoca fatta di povertà e scoperte; un’epoca trasformata dalla guerra in modo tragico e
inatteso. Queste passioni rivivono sul palcoscenico per informare, formare e far crescere gli eredi di quella gioventù.
242 |
In trincea per la pace
/ 243
ObIETTIvI
Il testo di Massimo Simonini e la regia di Nataliia Florenskaia si fondono
in un’importante sinergia tra una visione più letteraria della Grande
Guerra ed una puramente drammaturgica ed emotiva. Il risultato è un
insieme di suggestioni alle quali il pubblico non può rimanere indifferente e che fa di Noi, tre italiani un’opera assolutamente unica per contenuti e forma.
LO sPETTACOLO è sTATO RAPPREsENTATO DuE vOLTE:
IL 17 OTTObRE 2015 A ROmA PREssO IL TEATRO sAN GIusTINO
E IL 24 OTTObRE 2015 A DARFO bOARIO TERmE (bs)
PREssO IL TEATRO sAN FILIPPO NERI.
244 |
In trincea per la pace
Suoni, musiche, luci e combattimenti scenici rendono l’opera dinamica
e invitano il pubblico a riflettere. Perché non si dimentichi ciò che abbiamo ereditato – e forse perso – in questo secolo di attesa: lo spirito
di nazione ma pure il disprezzo per ogni forma di violenza.
/ 245
sACERDOTI COL FuCILE
LA ChIEsA E LA GRANDE GuERRA
PROGETTO DOCumENTARIsTICO
A CURA DI OFFICINA DELLA COMUNICAZIONE DI BERGAMO
Paolo è un ragazzo di diciassette anni, frequenta il liceo e il pomeriggio
fa il proiezionista nel piccolo cinema della sua città. Di solito non presta
molta attenzione alle immagini sullo schermo, più intento a fissare quello del suo smartphone, ma oggi qualcosa è diverso, qualcosa cattura la
sua attenzione.
Un soldato è seduto in una cella di prigionia e compila il suo diario. È il
9 marzo 1919 e quest’uomo, che pare aver perso ogni speranza, parla
degli anni appena trascorsi, della tragedia della guerra e della bestialità
a cui è stata ridotta l’umanità.
Paolo sente che qualcosa dentro di lui si è smosso, vuole capire e trovare delle risposte con quello che ha a disposizione oggi. Ancora senza
saperlo inizia un viaggio tra date, stralci di giornale, diari e relazioni; un
viaggio che lo porterà a conoscere le storie di uomini che grazie alle
loro scrupolose testimonianze hanno permesso di far giungere fino a
noi il dramma vero della Grande Guerra. Sono le piccole storie quotidiane dei cappellani militari impegnati tra le fila dell’esercito italiano
durante il primo conflitto mondiale, narrazioni che solitamente restano
soffocate dalle vicende storiche di una guerra, e che invece danno qui
volto e calore umano a date e nomi altisonanti.
Il documentario In trincea. Piccole storie della Grande Guerra si propone quindi di indagare la figura del cappellano militare, in particolare
modo dal momento della sua istituzione per mandato del Generale Luigi Cadorna nel 1915 fino alla fine della guerra quando i cappellani militari si trovano ad affrontare problematiche legate alla fede, alla morale
e a recuperare un ruolo attivo e proattivo all’interno delle comunità
profondamente turbate dalle tragedie appena trascorse.
Per la realizzazione del documentario le fonti privilegiate di analisi e di
studio sono state i diari e le relazioni che i cappellani compilavano privatamente o per la consegna ai loro superiori. Da queste testimonianze
/ 247
è stato quindi possibile ricostruire una narrazione dell’andamento della
guerra vista dall’interno con la possibilità di accostare filmati originali
d’archivio a piccoli episodi di ricostruzione storica in grado di restituire
una dimensione umana e tangibile degli orrori quotidiani con cui gli uomini, soldati e non, erano costretti a convivere. Infatti con la Prima Guerra Mondiale l’uomo si è trovato a dover combattere in situazioni di totale impreparazione sia contro nuove e devastanti tecnologie belliche,
sia contro una natura spietata sempre pronta a fare il suo corso.
Tre sono i luoghi principali e punti di osservazione privilegiati nei quali
vediamo coinvolte queste figure di fede e di cui abbiamo diretta testimonianza: la trincea, luogo dei combattimenti, del logoramento e sentore di morte; l’ospedale militare, spesso ambiente di conforto per i feriti e i mutilati, ma anche teatro dell’ultimo saluto e del trapasso a volte
violento e crudo; infine la casa del soldato, istituita per volere dei cappellani militari che rappresenta una vera e propria bolla di sollievo e di
recupero per l’animo del soldato.
L’andamento del documentario si muove grazie alle ricerche di Paolo
che, muovendosi concretamente nella città e sul web, trova le informazioni per restituirci un quadro che sia il più completo possibile mettendo in evidenza le figure di alcuni cappellani che si sono distinti, oltre
che per le loro azioni durante la guerra, anche nel trovare un modo virtuoso per contrastare le inevitabili crisi post-belliche. In questo viaggio
Paolo indaga il dramma della guerra attraverso le parole dei cappellani
militari ponendo in primo piano gli uomini che si sono resi protagonisti
loro malgrado di quella che è stata definita l’inutile strage.
Diventano quindi importanti le parole di Padre Minzoni per respirare
l’aria di trincea durante gli assalti e quelle di Don Peppino Tedeschi per
raccontare non solo il dramma della guerra, ma anche la beffa della prigionia a guerra finita. Importanti sono le figure di Don Mazzolari che
istituisce le prime scuole di alfabetizzazione per i soldati durante i periodi di riposo e, ancora, le azioni di Padre Semeria e Don Minozzi che si
occupano degli orfani di guerra e dei figli illegittimi nati durante il conflitto. Infine le parole di disperazione di Don Angelo Roncalli e Padre
Cortese con quelle di dura condanna di Padre Piantelli sono fondamentali per delineare il quadro di un’umanità distrutta dall’odio per volere
dei potenti.
248 |
In trincea per la pace
NOTE TECNIChE
Scelta produttiva e registica è stata
quella di creare un documentario o
meglio, un film documentario, con diversi registri visivi. La narrazione infatti è supportata da preziose immagini di repertorio accuratamente selezionate nell’immenso archivio storico dell’Istituto luce, al fine di poter
dare allo spettatore, in maniera talvolta molto diretta, la percezione dell’atrocità della guerra.
A queste immagini, al fine di entrare
nella storia dei diversi cappellani militari si è scelto di creare veri e propri
momenti di fiction. Qui, attraverso
l’utilizzo delle più alte tecnologie di ripresa in 4K, carrelli, steadycam e impianti di illuminazione cinematografici si è potuto raccontare, ricreandoli,
alcuni momenti drammatici della vita
al fronte. La suggestione di queste riprese è avvalorata dalla scelta di location d’eccezione, testimoni reali della
guerra come le trincee di Brestovic, in
Friuli venezia Giulia al confine con la
Slovenia.
Infine sempre con le medesime tecnologie, si è girata la parte di fiction
del presente, dove Paolo, studente
dei giorni nostri, va alla ricerca del
passato e delle storie dei cappellani
che vengono raccontate.
La post produzione del documentario, affidata a professionisti dell’editing cinematografico, è stata gestita
con i più avanzati software di post
produzione e di computer grafic.
Infine una particolare attenzione è
stata affidata al suono, registrato in
presa diretta e post prodotto accuratamente in un laboratorio dedicato.
Quello che emerge è l’insieme di tecnologie e linguaggi cinematografici
che si amalgamano alla perfezione
per raccontare un unico grande racconto.
Il film documentario, per i suoi standard qualitativi, potrà essere distribuito oltre che nelle scuole attraverso dvd o il downloading, anche nelle
tv italiane e intarnazionali, oltre che
poter avere una distribuzione internet attraverso portali dedicati.
/ 249
CONCLusIONI
IL REFERENTE PROF. FAbIO mOLINARI
Il volume, che raccoglie un lavoro che si è protratto per ben due anni
scolastici, rappresenta una mirabile sintesi, che unisce la dimensione
teorica dell’insegnamento a quella pratica. I contributi, che affrontano
il conflitto mondiale sia nella dimensione cronologica, sia cogliendone
le ripercussioni nel mondo dell’arte e della letteratura, forniscono sicuramente del materiale molto importante e per alcuni aspetti inedito,
che viene offerto al mondo della scuola quale supporto a quanto usualmente si può ritrovare nei manuali in adozione. Tuttavia, il maggior pregio di questo testo è quello di far sentire anche altre voci che normalmente sono escluse o, per meglio dire, non vengono coinvolte attivamente nell’elaborazione di un progetto. In questo caso gli studenti, che
hanno affrontato un percorso formativo profondamente innovativo,
hanno avuto anche la possibilità di raccontare la loro esperienza e la loro visione dei luoghi che hanno fatto da scenario ai momenti più terribili
della Prima Guerra Mondiale.
Quanto emerge da questo volume è quindi una splendida sintesi fra la
voce dei discenti e quella degli accademici, che viene ulteriormente arricchita dalla presenza di contributi che provengono dal mondo del teatro e da quello cinematografico. In questo modo abbiamo reso evidente
la convinzione che si possa parlare di guerra non solamente limitandoci
ad una mera cronologia degli eventi, ma anche facendone uno spettacolo teatrale o addirittura ricavando da essa, o meglio da un suo aspetto
piuttosto nascosto, persino un accattivante documentario cinematografico.
Ritengo che la sfida maggiore che il mondo della scuola dovrà affrontare nei prossimi anni sarà quella di rendere sempre più frequente la
stretta collaborazione tra linguaggi diversi, perché il prodotto finale
possa essere veramente utile allo sviluppo delle conoscenze e delle
competenze dei nostri studenti. In particolare il lavoro condotto con
grande perizia da Officina della Comunicazione, su suggerimento di
/ 251
Mons. Dario viganò, ci ha consentito di aprire un capitolo nuovo relativo
al grande tema della Guerra, facendoci conoscere la figura del Cappellano militare, che dimostra di essere tutt’altro che secondaria in una situazione di tragedia, disperazione e isolamento quale è quella che ha
caratterizzato la Prima Guerra Mondiale. Allo stesso tempo, è apprezzabile il fatto che un congruo numero di studenti abbia volontariamente seguito un percorso di formazione denso di contenuti e abbia potuto
completarlo attraverso due itinerari in loco: a Temù in valle Camonica
dove è allestito il museo della Guerra Bianca e presso il sacrario militare
di Redipuglia. Nessun libro è in grado di comunicare le emozioni, il dolore e le storie di tanti soldati che hanno sacrificato la propria vita per
la Patria, quanto una visione guidata dei luoghi dove queste tragedie si
sono consumate.
Sono particolarmente compiaciuto per il fatto che questo progetto sia
partito da alcune scuole di provincia e si sia rivelato talmente contagioso da includere nel suo sviluppo anche l’Ordinariato Militare, che ha offerto un prezioso sostegno e una qualificata consulenza scientifica, insieme alla Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede; l’introduzione che il Sen. Franco Marini ha voluto donare a questa connotazione
costituisce poi un sigillo di condivisione anche da parte delle nostre Istituzioni repubblicane. Il mio auspicio è quello che, grazie alla preziosa
opera di sostegno ai progetti scolastici che il MIUR offre, tali iniziative
possano moltiplicarsi ed abbracciare non solo la storia, ma tutte le discipline che connotano i nostri ordinamenti scolastici.
252 |
In trincea per la pace
/ 253
sI RINGRAZIANO IN mODO
PARTICOLARE
PER LA COLLAbORAZIONE
NELLA REALIZZAZIONE
E NELLA PROmOZIONE
DEL PROGETTO
CAmILLO ANDREANA,
GIà PREFETTO DI bERGAmO;
LORENZO bENADusI,
DOCENTE PREssO L’uNIvERsITà
DEGLI sTuDI DI bERGAmO
ChE NON hA POTuTO INsERIRE
LA suA RELAZIONE
NEL PREsENTE vOLumE;
GIOvANNI sANGA,
DEPuTATO;
L’AssOCIAZIONE NAZIONALE ALPINI
DI bERGAmO
Progetto grafico e realizzazione
Orione, cultura, lavoro e comunicazione / Brescia
Ottobre 2016