PDF - Spaghetti Writers

Download Report

Transcript PDF - Spaghetti Writers

1
ACCELERAZIONI #1
DAVID VALENTINI
2
Dopo essersi ripresa il telefono strappandomelo dalle mani mi ha mollato quello schiaffo così
carico di livore che mezza piazza s’è voltata a guardare il teatrino che stavamo montando su
– che lei stava montando su, perché io ero già caduto nel mutismo, incapace di pensare dire
fare qualsiasi cosa. Quando alla fine mi sono detto che forse potevo provare a tirare fuori un
discorso strampalato con cui magari cavarmela in qualche modo, se n’era già andata.
Sono rimasto così, impalato davanti a tutta quella gente che parlottava e formulava ipotesi
e giudizi su cosa fosse successo – ma che cazzo si guardavano poi, non hanno mai visto due
che si lasciano? – come un coglione, le braccia sospese a fissare lei e quell’ombrello grande
verde che aveva appena aperto con cui sembrava voler nascondermi tutti i misteri che
l’avrebbero circondata da quel momento in poi, gli abbracci che già non mi appartenevano
più, centinaia di risposte che stavano scivolando via insieme a quella sua camminata nervosa.
Nei pochi secondi che ha impiegato a voltare l’angolo – credo abbia tentennato un istante
soltanto, magari chiedendosi se valesse la pena darmi modo di spiegare, ma poi decidendo
che no, non la valevo proprio, e probabilmente è per questo che ha lasciato cadere la fedina
dentro il tombino – ho realizzato come tutto ciò che riguardava questi nostri cinque anni
insieme appartenesse già a un passato recente e tremendamente confuso.
Tipo l’odore di fumo che persiste in una stanza quando il fuoco è spento da poco.
Giuro, non sapevo che fare se non continuare a chiedermi che fare. Mi sono toccato la
guancia, ho acceso una sigaretta, ho fissato il cielo nero. E ora?, mi ripetevo. E ora?
Quando gli scrosci sono venuti giù più intensi ho preso a camminare fra chi correva via a
testa bassa per la pioggia che s’andava incanalando fra i sampietrini e chi spudoratamente si
baciava addosso ai muri invasi dalla pubblicità. Baci, i loro, che hanno bruciato subito di
ricordo. Stronzi.
Ho buttato le prime due ore di altre indefinitamente umbratili ore che passeranno senza lei
mangiando qualcosa, facendo qualche giro intorno alla piazza sperando di incontrarla di
nuovo, ché magari le era venuta voglia di tornare indietro per dirmi qualcosa, e controllando
su WhatsApp la nostra conversazione che continuava a sputarmi addosso solo gli ultimi sterili
messaggi e quel suo devo parlarti scritto ieri. Niente emoticon, niente nomignoli. Solo devo
parlarti.
Che poi più che le assenze eccetera sono i progetti andati a male la cosa che brucia di più.
Tutto il tempo sprecato a pensarli, a montarli, a tenerli al caldo.
Le strade erano ormai deserte mentre vagavo con la quarta o quinta sigaretta in bocca e la
mano in tasca sempre a contatto col cellulare. Non si sa mai, dicevo a voce bassa. Non si sa mai.
Che poi potevo pure provare a chiamarla, ma… era quella sua espressione a bloccarmi,
quell’espressione che aveva addosso e che rimandava decisamente a qualcosa di definitivo, di
ultimo. Non sarebbe servito a un emerito cazzo.
Di tornare a casa non se ne parlava. Mi avrebbero aspettato le domande di quel rompipalle
di Gab tipo che è ’sta faccia, ch’è successo, se vuoi sono qui. Ho continuato a girare a cazzo,
poi ho sentito quella cavolo di canzone strappalacrime nell’aria che ancora adesso non mi
viene il titolo… and I give up forever to touch you, na na na nana, poi non me la ricordo più.
Ho seguito la melodia attraverso vie tutte uguali schivando un paio di pozzanghere piene
di merda di cane sciolta finché mi sono ritrovato in questo pub coi tavoli di legno intaccati da
centinaia di scritte incise, pareti grezze con torce tipo medievali, il bancone con quattro birre
3
alla spina dai nomi strani, la cameriera strappona coi soliti tatuaggi e le unghie finte, il barman
fighetto con la barba e i baffetti da hipster che porca puttana gliela strapperei via. Dozzinale
il pub, dozzinali gli universitari laggiù appollaiati sui trespoli a giocare a Jenga come noialtri
del vecchio gruppo ci giocavamo ai tempi dell’università, dozzinale io che fissavo il telefono
buttando giù l’inutile birretta rossa piccola per evitare che mi rompessero i coglioni. C’era quel
giacchetto per terra che proprio m’incarogniva l’animo, fortuna che quella deficiente coi rasta
se n’è accorta e l’ha raccolto.
Ho scorso la conversazione avanti e indietro come se roba nuova potesse saltare fuori dal
nulla. Ma ce l’ho ancora impressa la sua espressione di quando m’ha sbattuto il telefono
addosso e m’ha detto ora tu mi spieghi che cazzo vuol dire questo messaggio, senza contare
che poco prima m’aveva raggiunto con quel passo furioso che le avrò visto sì e no quattro o
cinque volte in questi anni, e sempre quando combinavo qualche stronzata delle mie e non
c’era modo di parlare ma potevo solo sorbirmi dei cazziatoni biblici che manco il catechista
quand’ero piccolo.
E poi l’ombrello che s’allontana, e allora penso a perché si combinano i casini e che problemi
abbiamo tutti quanti con la felicità, che la cacciamo a calci in culo appena ci si accosta vicino
come un cane che non ha ancora preso abbastanza bastonate per capire che non c’è da fidarsi.
Che ci scoccia la felicità, vero?, ci rende tutto noioso e scontato, anche la ragazza perfetta che
ama i Radiohead e ti costringe a cantare Creep al karaoke e ti regala i biglietti per andare a
sentirli all’Ippodromo delle Capannelle per il tuo compleanno.
Bravo coglione, un applauso, ti spaccherei il bicchiere in fronte se potessi, deficiente, cretino.
Ecco, invece di chiamarla e dirle scusa, sono stato un vero stronzo ma non credi che
meritiamo una seconda chance, resto qui a pensare a cinque anni fa – quando dopo due ore di
paranoie con Gab tipo che le dico, come mi presento, porca eva quanto è bella, Gab non
t’azzardare a provarci ché ti strappo le palle, le avevo teso la mano, piacere Marco, piacere
Anna, anche a te ti piacciono i Radiohead, ma dai?, e poi m’aveva sorriso sistemandosi i capelli
dietro l’orecchio ed era stato un colpo di fulmine tipo di quelli che capitano se ti dice culo una
volta nella vita –, penso a tutte ’ste cazzate e mi uccide l’idea di quello che non potremo più
dire e fare insieme domani.
Mi sa che dovrò togliere la foto dal comodino quando torno, così magari Gab capisce che
non è aria e non deve venire a rompermi le palle con le sue cazzo di domande.
In tasca ho ancora i biglietti coi nostri nomi in stampatello, partenza Roma arrivo Dublino,
le date eccetera, ma non so che farmene e allora li strappo, ne faccio rettangolini sempre più
piccoli e butto tutto sul tavolino infestato di promesse d’amore, anzi se non ci fosse quello
stronzo con la barba da hipster darei fuoco a tutto il locale per non ritrovarmi davanti i
brandelli di scritte che mi parlano ancora di brandelli di noi.
Mi uccide, mi uccide proprio l’idea di quello che non potremo più dire e fare insieme
domani.
Il telefono vibra, sbaglio tre volte il codice di sblocco, mi fiondo su WhatsApp e vedo che
mortacci sua non è lei. È Laura.
Dove sei?, ha scritto.
Che cazzo c’entra Laura adesso? Che vuole da me questa?
In un pub a San Lorenzo, perché?, ma è una risposta più di cortesia che altro.
4
Sono in zona, ti raggiungo.
Sto già scrivendole che non è il caso, che sono di pessimo umore e lei è l’ultima persona al
mondo che voglio vedere, stronza maledetta, ma poi aggiunge devo parlarti, è urgente.
Tutte oggi dovete parlarmi?
E quindi ordino un’altra birra, stavolta media, ché ho proprio l’impressione che questa sarà
una lunga serata di merda.
David Valentini
5