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PRIMO PIANO
Venerdì 21 Ottobre 2016
11
Gruppo spaccato tra dissidenti (Putti in Comune) e ortodossi (la Salvatore in Regione)
5 Stelle in panne a casa Grillo
A Genova parte la rivolta degli operai contro i grillini
DI
GIOVANNI BUCCHI
È
in casa di Beppe
Grillo che i 5 Stelle
appaiono dilaniati in
maniera irreversibile,
roba che le divisioni romane
sembrano normali scambi
di vedute tra fratelli. Da un
anno e mezzo, da quando
cioè il Movimento ha sfiorato
il 25% alle regionali pur arrivando terzo dopo centrodestra e centrosinistra, si è creata una spaccatura interna
con gli ortodossi e fedeli alla
linea del fondatore da una
parte, il cui megafono sotto
la Lanterna è la capogruppo
regionale Alice Salvatore
già candidata governatrice,
e dall’altra lo storico zoccolo duro di attivisti genovesi
rappresentati dal gruppo comunale e in particolare dal
capogruppo Paolo Putti.
Nel tempo il divario tra
le due correnti interne
(perché di questo si tratta) è
andato allargandosi, tra incomprensioni, scorrettezze e
sgarbi reciproci, fino all’incomunicabilità. Le candidature per le amministrative del
2017 a Genova, e in primis la
scelta del candidato sindaco,
sono materia del contendere,
con i dissidenti che chiedono
il ricorso alle primarie (via
web o reali come fatte a Mi-
lano) e la Salvatore pronta a
incoronare su volere di Grillo e di Davide Casaleggio
l’attivista Luca Pirondini,
musicista e artista.
Guarda a caso, l’assemblea
plenaria degli attivisti convocata per ieri sera dal gruppo
comunale è stata snobbata
dalla capogruppo regionale,
che ha preferito andare a
dibattere di referendum costituzionale con il consigliere regionale del Pd Pippo
Rossetti. E non è la prima
volta che si verificano tensioni su incontri relativi alle
candidature del 2017. Basti
ricordare il caso La Spezia già
raccontato da ItaliaOggi, con
il giurista ambientale Marco Grondacci prima lanciato lancia in resta dall’assemblea comunale spezzina
come candidato sindaco, poi
defenestrato da Grillo (con la
Salvatore d’accordo) per il suo
passato nell’orbita del Pci.
L’ultimo scontro interno
ai 5 Stelle genovesi ha assunto contorni imbarazzanti. È andato in scena qualche
giorno fa nella sede del consiglio regionale, quando un
nutrito drappello di operai
delle Riparazioni Navali di
Genova ha fatto irruzione in
aula dopo aver indetto uno
sciopero per protestare contro
la possibilità di trasferimento
del sito a 5 chilometri della
città, un’eventualità che a
loro dire metterebbe a rischio
i posti di lavoro.
Chi aveva sollevato questo
problema? Proprio il Movimento 5 Stelle e proprio la
Salvatore, con un’interrogazione alla giunta in cui
si chiedeva conto se, dati i
problemi di inquinamento
atmosferico causati da quelle attività presenti al Porto,
fosse in programma il trasferimento di quegli stabilimenti. Apriti cielo; lo scontro
tra salute e lavoro che tiene
ancora banco a Taranto sul
caso Ilva, si è così ripetuto
pure a Genova. E i 5 Stelle
ci sono finiti nel mezzo. La
Salvatore ha provato a discolparsi dicendo di non voler danneggiare i lavoratori
e di aver chiesto solo gli intendimenti della giunta, ma
si è presa le pesanti critiche
dei lavoratori aizzati dai dirigenti sindacali, a partire
da quelli della Fiom. In un
certo senso, si è celebrata la
fine della luna di miele tra
Movimento e operai, per la
gioia dell’area a sinistra del
Pd che in Liguria sta cercando di riorganizzarsi.
Il gruppo regionale
grillino si è pertanto diviso, perché il consigliere
Francesco Battistini (dato
ormai in uscita, come Putti in
Comune) ha votato con il Pd
l’ordine del giorno a sostegno
del settore delle riparazioni
navali, a differenza degli altri colleghi pentastellati. Al
governatore Giovanni Toti
non è sembrato vero di poter
cogliere la palla al balzo per
infierire sulle divisioni grilline e assicurare che i cantieri
delle Riparazioni Navali non
si sposteranno dal Porto.
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SCOVATI NELLA RETE
Faremmo riscrivere la Costituzione a gente che scrive
qual è con l’apostrofo?
IN CONTROLUCE
A nessuno dei nuovi telespettatori viene in mente di guardare
le interviste di Veltroni quando vanno in onda o in differita
pate fossero un problema della sola
Rai (che com’è noto è sgovernata da
quando esiste, e che oggi non sembra
utti a sospirare perché la
più sgovernata del solito). Ma i flop,
Rai, ragazzi, non è più quelcosì come le trasmissioni pretenziola d’una volta. Cosa rimpianse e quelle sciocche, ma soprattutto
gano, non so. Studio Uno?
le trasmissioni superflue, non sono
L’approdo? Non è mai troppo tardi?
un problema della sola Rai. Sono un
Canzonissima? Carosello? Se glielo
problema di tutte le tivù, e non un
chiedete, si grattano pensierosamenproblema semplicemente
te la testa, senza rispondere.
ideologico (trasmissioni
Perchè la verità, naturalmenCome ormai ciascuno possiede un telepredicatorie, tra l’agitprop e
te, è che «i vecchi tempi non ci
il minculpop, oppure orripisono mai stati», come diceva
fono personale, e dei telefoni di casa del
lanti programmi escapisti)
Henry Fonda in un vecchio
ventesimo secolo non c’è praticamente più
ma un problema culturale
western. A scatenare la batraccia, allo stesso modo ciascuno dispone,
e tecnologico. Culturale:
garre il flop del sabato sera,
con lo smartphone e il tablet, anche d’un
ridotta a barocco e ininDieci cose, un format miliotelevisore personale e di tutti i pollici di
terrotto discorso da bar, la
nario (anzi plurimilionario,
cui c’è bisogno. Basta prediche, basta quiz
televisione non riesce più a
più d’un milione a puntata)
competere con la vita reale,
ideato da Walter Veltroni.
e talk show, basta stupidate, basta «dada
fatta di discorsi da bar in
Mentre gli antipatizzanti si
umpa» e «Sandokaan-Sandokaan». Quel
genere molto più appasfingono sgomenti, ma intanto
modo
vintage
d’intrattenere
il
pubblico
sionanti di quelli ripresi
se la ridono sotto i baffi perdavanti
al
piccolo
schermo
è
morto
per
dalle telecamere. Tecnoché la Rai di Daria Bignardi
sempre, insieme ai 45 giri e ai jukeboxes
logico: sono sempre meno
ha mancato l’obiettivo di «rarivestiti di bachelite
gli spettatori passivi dei
dicalscicchizzare» (per dire
palinsesti televisivi, e non
così) il pubblico televisivo, gli
soltanto tra i giovani ma
ammiratori e i seguaci dell’ex
sindaco dell’Urbe (ed ex competitor iosa e predicatoria oppure becera e anche tra gli anziani.
Walter Veltroni non lo sa, idem
di Massimo D’Alema) minimizzano noiosa, dalla televisione non c’è mai
stato da aspettarsi niente, uggia e chi rimpiange la Rai d’una volta, ma
e si consolano.
Share bonsai, d’accordo, ma diseducazione a parte; rarissime le non sono più i tempi di Campanile
sera e del Musichiere. Della televiin ogni caso, dicono, Dieci cose ri- eccezioni alla regola.
Si parla di flop, inoltre, come sione per le famiglie (tivù alta o basmane «un programma di qualità»,
mica un telequiz o una carnevalata se le trasmissioni pietose e sgarru- sa ma sempre intrattenitoria, tutti
DI
T
DIEGO GABUTTI
berlusconiana. Simpatizzanti e avversari di Dieci cose ragionano tutti
come se il problema fossero le virtù
nazionalpopolari dei programmi Rai
(evviva i programmi che funzionano,
abbasso quelli che deludono). Ma la
qualità dei programmi conta poco, e
comunque è sempre presunta, mai
provata. Plebea o radical chic, no-
compostamente seduti in salotto
ad ascoltare Maria De Filippi, gli
ospiti di Lilli Gruber o Maurizio
Crozza) nessuno sa più che cosa farsene. Sono sempre di più i telespettatori che s’organizzano i palinsesti
da sè, con Netflix, lo streaming legale o illegale, le playlist personali di
canzonette e le app dei telegiornali.
A nessuno dei nuovi telespettatori
viene in mente di perdere tempo a
guardare le interviste volute da Walter Veltroni, né dopo cena, quando
vanno in onda, né il giorno dopo in
differita. Morale: non c’è programma
televisivo che non sia per definizione
destinato al flop - roba sfibrata, barbosa, canzonettara e «intimittara»,
senza valore.
Come ormai ciascuno possiede
un telefono personale, e dei «telefoni
di casa» del XX secolo non c’è praticamente più traccia, allo stesso modo
ciascuno dispone, con lo smartphone e il tablet, anche d’un televisore
personale e di tutti i pollici di cui c’è
bisogno. Basta prediche, basta quiz
e talk show, basta stupidate, basta
«dada umpa» e «Sandokaan-Sandokaan». Quel modo vintage d’intrattenere il pubblico davanti al piccolo
schermo è morto per sempre, insieme ai 45 giri e ai jukeboxes rivestiti
di bachelite.
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