Miracolo a Milano? Alcune sorprese sulle educande nel

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Francesca Medioli
Miracolo a Milano? Alcune sorprese
sulle educande nel XVIII secolo
Francesca Terraccia, In attesa di una scelta. Destini femminili ed educandati
monastici nella diocesi di Milano in età moderna, Roma, Viella, 2012, pp. 284.
Nel 1821 un’inglese poco ortodossa, madre spossessata della piccola
Allegra, figlia sua e dell’assai più celebre e potente Lord Byron, commentava
circa «the state of ignorance and profligacy of Italian women, all pupils of
convents. They are bad wives and most unnatural mothers, licentious and
ignorant and they are the dishonour and unhappiness of society».1 Si può
essere d’accordo o meno con quanto asserito da Claire Clairmont, senz’altro
influenzata dal fatto che il convento di Bagnacavallo, scelto per la piccola
Allegra (che vi morì a cinque anni), era quello dove era stata educata l’amante
in carica del padre di sua figlia, Teresa Gamba Guiccioli. E senz’altro l’autrice
di questo libro non è di questo avviso. Tuttavia entrambe concordano nel
definire l’educazione monastica come l’unica educazione di fatto impartita
alle fanciulle nobili di allora nella penisola, sia che poi si sposassero, sia che
divenissero monache.
Da questo assunto di base prende le mosse il libro di Francesca Terraccia.
L’oggetto specifico, e viene dichiarato fin dall’inizio, è poi quello di un’élite
di donne, o meglio di ragazze e bambine, parte di un’élite più complessiva,
quella del patriziato milanese durante il XVIII secolo, un secolo assai poco
studiato per quanto riguarda le religiose. Esse di fatto rappresentano una
porzione precisa all’interno dei monasteri della diocesi, quasi un’élite
generazionale dell’élite (delle monache) dell’élite (del patriziato). Le
educande erano infatti coloro che entravano non per diventare sempre e in
tutti i casi monache. E anzi – come dimostra questo libro – molte di loro
potevano aspirare a divenire come le loro madri, ossia non solo di restare
al secolo in una condizione d’ombra, ma mogli e madri a loro volta. Darei
cifre e numeri perché, come disse la grande storica inglese Eileen Power:
«We must gard ourselves against exagerating the size and the importance of
1. Iris Origo, Allegra, London, The Hogarth Press, 1935, p. 42.
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the nuns».2 E Terraccia è molto consapevole del punto, tanto da intitolare il
secondo capitolo I numeri delle educande (pp. 39-80). Prima di tutto, e va
sottolineato con forza, le educande rappresentavano un ottimo business per
i conventi, che tendevano ad avere una cronica mancanza di liquidi, se non
proprio a essere poveri, come pietivano. Nel 1708 (p. 41), ognuna di esse
versava la cifra di 800 lire annue, pari, in cinque anni, alla dote spirituale
richiesta per monacarsi, di 4.000 lire. Secondariamente, stando all’autrice
(p. 29), nel 1576 le monache a Milano erano circa 2.500, nel 1704 3.400
su 120.000 abitanti, pari al 2,8% della popolazione: le educande, dunque,
potevano rappresentare al massimo l’1,4% della popolazione complessiva.
In più, fin dal titolo questo libro pone una questione spinosa, introdotta
dal termine “scelta” che evoca subito, in un gioco freudiano di associazioni,
“libera”. Essa è però immediatamente controbilanciata dall’altra parola del
sottotitolo, “destini”, che a sua volta porta con sé “segnati”. Ma questo libro
ha, fra gli altri, il merito di non ripartire da zero, lasciandosi alle spalle una
polemica non mai sopita su vocazione e costrizione, su quante monache
scandalose e quante monache sante, su matrimonio o monastero, se era
meglio questo (e correre il rischio di morire di parto, un’evenienza che in
natura si verifica più o meno in un caso ogni nove) o quello (e rinunciare per
sempre a uscire anche solo per un’innocente passeggiata serale a prendere
il fresco).3 La ricerca prende atto di una bibliografia sul tema, ottima, ben
utilizzata in nota e citata accuratamente a fine volume, per andare oltre e
aggiungere un primo elemento riscontrato, che a questo punto mi sentirei di
chiamare “fatto”. Il primo punto dimostrato una volta per tutte, sfatando un
mito o un luogo comune, è quello per cui non tutte le educande si facevano
monache: secondo l’autrice, per il periodo 1720-1864 a monacarsi furono
solo uno sparuto 14%, che a Milano scendeva addirittura al 7% e nel contado
saliva al 26,3% (pp. 72-73). E questo non solo per via del dettato tridentino
che in ogni monastero poneva un numero massimo di educande pari alla
metà delle monache professe. L’implicazione di una simile regola è che, se
il numero delle monache decresce, decresce automaticamente anche quello
delle educande (secondo Lucia Aiello, a Milano le professioni cominciarono
già a calare nel Seicento: nel periodo 1611-1630 vi furono 1.159 ragazze
che entrarono in monastero, nel periodo 1630-1650, anche considerando
gli effetti della peste coi suoi 30.000 morti, 873).4 Invece, secondo fatto e
secondo mito sfatato (cito da p. 45) «si rivela erronea la proporzione spesso
ritenuta ovvia tra il calo delle professioni e il calo dei numeri in educazione.
2. Eileen Power, Medieval English Nunneries c. 1275 to 1535, Cambridge, Cambridge
University Press, 1922, p. 25.
3. Si veda, a titolo di esempio, Lucietta Scaraffia, Gabriella Zarri, Introduzione, in Donne e
fede. Santità e vita religiosa in Italia, a cura di Ead., Roma-Bari, Laterza, 1994, pp. V-XVI.
4. Lucia Aiello, Il mondo della clausura a Milano: consistenza e modalità d’accesso, in
«Archivio storico lombardo», 122 (1996), pp. 85-117, in part. pp.105-107.
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I due fattori erano indipendenti [proprio] perché l’educandato non era
finalizzato alla professione religiosa». Anche perché, terzo mito sfatato (dato
il controllo ferreo esercitato, almeno fino a una certa fase, da Roma e dalla
Sacra Congregazione dei Vescovi e Regolari sulle ragazze che entravano,
ingurgitate dalla stretta clausura, e che una volta uscite, dovevano rifare
tutta la trafila della domanda di ammissione per essere ammesse in un altro
convento), le educande invece giravano spesso fra più di un monastero, e
questo accadeva non solo, come c’era da aspettarsi, nei momenti delle
soppressioni delle case religiose, quando era giocoforza che ciò accadesse.
Ciò avveniva anche prima fra i 43 monasteri cittadini e i 36 della diocesi
(assai meno gettonati), con spostamenti dalla città al contado e viceversa: fra
il 1720 e il 1774 (p. 164) su un totale di 8.446 giovani in educandato, ben 866
chiesero di trasferirsi, il 10,2%. Una simile prassi permetteva a una ragazza
che si monacasse di sperimentare più di un convento e di una regola religiosa
e di una comunità di possibili consorelle, ma anche, restando al secolo, di
sperimentare diversi ambienti e avvicinare – o evitare accuratamente – i
membri femminili della propria famiglia. Vedi due esempi per tutti: il caso
della ragazza appartenente alla famiglia dei marchesi Taverna, educanda in
Santa Marta (agostiniane) nel 1722, e che poi professò nel monastero di San
Lazzaro (domenicane) (p. 153, 81); o quello della ragazza dei conti Pertusati
che fu educanda in Santa Marta nel 1758, poi raggiunse le due sorelle in
San Paolo nel 1764, poi andò presso le Visitandine nel 1767 e infine nello
stesso anno in Santa Maria della Vittoria (p.136). Inoltre, stando ai numeri,
è possibile vedere il successo o il passare di moda di certi monasteri e certe
regole rispetto ad altre: vi veda (pp. 235-249) l’ascesa incontrovertibile della
Visitazione durante tutto il XVIII secolo, non solo rispetto alle orsoline e
alle angeliche cinquecentesche, che pure avevano ideali simili, ma anche
rispetto alle regole più stabilite, quelle medievali, che potevano contare su
una tradizione, una visibilità e un’ascendenza cittadina.
E vengo a un ulteriore punto, che io personalmente considero molto
illuminante e innovativo, ed è quello, documentato con pazienza certosina
nel terzo capitolo (Destini femminili si avvicendano nei chiostri, pp.
117-168), su matrilinearità e monasteri. Parlo di matrilinearità perché la
patrilinearità è ovvia e balza immediatamente agli occhi se si prende in
considerazione un unico monastero, ad esempio quello di San Lazzaro in cui
si trovano tre zie e una nipote Taverna (p. 153). Ma già il gioco si complica
se si passa a seguire le singole educande appartenenti alla stessa famiglia,
perché di colpo entrano in gioco tre monasteri: San Lazzaro, Santa Marta e
Sant’Agostino in Porta Nuova e il numero delle educande e delle monache
sale a otto, sempre nell’ambito delle stesse due generazioni summenzionate.
Lo stesso accade per la famiglia Crivelli-Castiglioni (pp. 121-131) che
colloca contemporaneamente in Sant’Agnese, in Sant’Antonio e di nuovo
in Sant’Agostino in Porta Nuova le proprie ragazze. Con la matrilinearità,
poi, il gioco si fa più complesso: si veda il caso delle famiglie imparentate
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Dal Verme-Taverna-Serponti-Vitali (pp. 151-157 e alberi 9 e 10), in cui una
Taverna, educata in Sant’Agostino, sposa un Dal Verme e manda tre delle
proprie figlie in educazione in San Lazzaro dove sono professe tre sue sorelle
e una nipote. Se senz’altro incideva anche l’altro dettato tridentino, che
non ammetteva più di due sorelle monache senza togliere alla terza la voce
attiva e passiva in capitolo, c’era indubbiamente anche una diversificazione
consapevole ed esplicita nella scelta del monastero.
Tutto questo per arrivare a dire, oltre al gioco di pazienza, anche l’intreccio
che Francesca Terraccia riesce a ricostruire, schedando nominalmente 11.646
domande di ammissione di educande per un totale di 2.634 gruppi famigliari
censiti (il che, anche scorporando 1.122 casi di famiglie citate un’unica volta,
fa pur sempre un campione di 1.542), su un periodo dal 1720 e il 1864. Si
tratta di un immenso lavoro di spoglio che copre 86 faldoni conservati presso
l’Archivio della Curia Arcivescovile. Il libro nasce come tesi di dottorato e
a volte – va detto – si vede: tuttavia un simile immenso lavoro di spoglio
poteva avvenire ormai solo in un simile contesto, coniugatosi poi all’attuale
professione di Terraccia, archivista. L’autrice correda il libro di due appendici
documentarie (pp. 81-115 e pp. 169-199, oltre a 10 magnifici alberi genealogici,
vera delizia per chi – come Anna Frank e, si parva licet componere magnis,
la sottoscritta – se ne diletti), permettendo un controllo sul proprio operato
(grande segno di onestà intellettuale) e un riutilizzo delle stesse fonti da parte
dei propri colleghi (ugualmente segno di generosità).
Venendo ora all’ultimo punto, vorrei sottolineare l’inusuale cronologia
di questo lavoro. Si tratta senz’altro, oltre che di un’analisi prosopografica,
di un’analisi di lungo periodo. Mi sento di dissentire però sull’età moderna
citata nel sottotitolo che è riduttiva, nonostante il primo capitolo, senz’altro
necessario (Delle giovani secolari che s’allevano ne’ monastero (XVI e XVII
sec.), pp. 19-37), ma il meno originale e il meno basato su una ricerca di
prima mano. Le periodizzazioni sono ovviamente convenzionali e ogni storia
ha le proprie date importanti interne alla branca della disciplina stessa: per la
storia religiosa una data sicuramente periodizzante è il 1563, ossia la chiusura
del più lungo e travagliato concilio ecumenico della cristianità, quello di
Trento, ed è una data che segna il passaggio da un’epoca alla successiva.
Per questo libro una tale periodizzazione di età moderna non rende di fatto
giustizia alla fase in cui il grosso delle fonti si concentra, ossia il XVIII
secolo, con il passaggio dalle soppressioni teresiane e giuseppine a quelle
napoleoniche, passando per una delle poche date veramente universali, il
1789. Il libro getta una luce sul trapasso di quest’epoca di Antico regime,
sottolineando come, se non sopravvissero gli stessi monasteri femminili che
già avevano perso d’importanza, a loro sopravvissero invece gli educandati,
ormai non solo ideali cassette di sicurezza a tempo per conservare l’onore
delle fanciulle, garantito dal sigillo della stretta clausura introdotta a Trento,
ma anche luoghi fisici di educazione e disciplina personale.
Per concludere, si tratta di un libro umile e molto utile, che accerta una
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specifica realtà, quella milanese, e che solleva il problema storiografico,
non trascurabile, circa il fatto se sia essa stata applicata anche in altre aree
geografiche, come a Venezia e a Firenze. Ciò, naturalmente, previa altrettanto
congrua ricerca che apra ambiti nuovi alla storia religiosa e alla storia
dell’educazione, tenendo presente l’ambito, imprescindibile in questo caso,
di genere, e sfati un ultimo mito: se cioè le donne italiane fossero davvero
ignoranti e dissipate come l’infelice madre di Allegra sosteneva: stando
all’ultimo capitolo (Pietro Verri e l’educazione monastica delle figlie, pp. 201249), i casi potevano essere molti e assai disparati...
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