Appunti non conformi

Download Report

Transcript Appunti non conformi

Nuccio Carrara
Appunti
non conformi
=o=o= o=
Progetto grafico e impaginazione Angelo Restifo
Supplemento a:
nuovitalia.com
Giornale d’informazione online
Direttore Responsabile: Nuccio Carrara
Iscrizione Registro della Stampa del Tribunale di Patti n.162
del 9 maggio 1997 e successive modificazioni
Distribuzione gratuita
NO ALLA RIFORMA DI PINOCCHIO
Introduzione
La Costituzione italiana, nel tempo, è stata modificata più volte e le
modifiche non sempre sono state leggeri rimaneggiamenti o semplici
“rifiniture”. Le ultime due riforme, ad esempio, sono state particolarmente “invasive” sulla previsione istituzionale e sugli effetti.
Le modifiche apportate con la riforma del 2001, voluta dal centrosinistra, hanno profondamente inciso sugli assetti istituzionali accentuando l’impianto regionalistico e ripartendo, in maniera poco
chiara e coerente, le competenze tra lo Stato e le Regioni. La riforma
fu spacciata come fattore di modernizzazione delle istituzioni, che
sarebbero divenute più efficienti e meno dispendiose. L’esperienza
ci ha ampiamente dimostrato che così non è stato, ed anzi sono cresciute le disfunzioni della pubblica amministrazione, ne sono aumentati i costi ed è iniziato uno scontro tra Stato e Regioni che ha
moltiplicato a dismisura il lavoro della Corte Costituzionale, cui è
stato affidato l’ingrato compito di dirimere il contenzioso, sì da rendere applicabili, attraverso un certosino lavoro interpretativo, le
nuove norme.
La successiva riforma del 2012, voluta dal governo Monti, avrebbe
dovuto consentire il risanamento dei bilanci pubblici e la crescita
dell’economia italiana, in particolare con la modifica dell’art. 81 e
l’introduzione dell’obbligo del pareggio di bilancio. In realtà, ha
spogliato lo Stato di ogni residuale sovranità economica, e si è da
3
subito rivelata un fattore di recessione e di avvitamento su se stesse
delle istituzioni centrali e periferiche, nel vano e disperato tentativo
di star dietro al contenimento dei costi, al patto di stabilità, e al rispetto degli assurdi parametri di Maastricht.
Adesso è in arrivo la riforma Renzi-Boschi propagandata dal governo e dalla maggioranza come una sorta di panacea per i mali italiani e di premessa indispensabile per un futuro di crescita, di
occupazione, di maggiore efficienza persino nella lotta al terrorismo
(!). Esilarante, a tal proposito, il titolo dato ad un articolo apparso
sul sito filogovernativo ”Bastaunsì.it”: “Come la riforma del Titolo
V alleggerisce le bollette”. L’ottimismo non è mai troppo.
Naturalmente, nessuna Costituzione è immune da difetti, meno che
mai la Costituzione italiana che, frutto di compromessi tra forze politiche disomogenee che uscivano dal trauma di una guerra, risente
del particolare momento storico in cui è nata e necessita sicuramente
di una revisione che la renda più attuale.
Ma se su questa premessa è facile convenire, ogni volta che si pone
mano a delle modifiche, i conti non tornano. Ecco quindi che rinascono antiche contrapposizioni alle quali se ne aggiungono delle
nuove. E se tutti dicono di non volere modificare la prima parte della
Costituzione, quella che definisce i principi su cui si fonda la convivenza civile e politica italiana, a ben guardare, le riforme sin qui
prodotte, hanno messo in crisi proprio la reale attuazione di quei
principi che, non a parole, dovrebbero essere per tutti un punto di
riferimento immodificabile.
In realtà, dopo la modifica dell’art. 81, cui si è accennato sopra, con
conseguente aziendalizzazione dello Stato, è venuta a mancare la
certezza che esso debba e possa garantire i proclamati diritti al lavoro, alla salute, all’istruzione ecc. Tutto, infatti, viene subordinato
alla “sostenibilità di bilancio”, provocando così una frattura, tra la
4
prima e la seconda parte della Costituzione, che vede i diritti assoluti,
inviolabili e fondanti, trasformarsi in diritti “sostenibili”, cioè in diritti legati alla disponibilità finanziaria dello Stato, quindi non più
garantiti a tutti, ma riservato a coloro che se li possono pagare.
A tal proposito l’art. 97 (pure questo voluto da Monti) non lascia
spazio a dubbi: “Le pubbliche amministrazioni, in coerenza con l’ordinamento dell’Unione europea, assicurano l’equilibrio dei bilanci
e la sostenibilità del debito pubblico.”. La priorità sta quindi nella
necessità di sostenere il debito pubblico, cui vanno sacrificati i diritti
e le stesse vite umane sull’altare dell’equilibrio dei bilanci. Lo stesso
debito pubblico, dal momento che è ormai entrato in Costituzione,
è assurto al rango di elemento coessenziale ed imprescindibile della
vita economica della Repubblica.
Del resto, come diceva Ezra Pound, “uno Stato che non s’indebita
fa rabbia agli usurai”. Meglio non farli arrabbiare. Da loro dipende
la vita di tutti noi. Da quando è venuta meno la sovranità monetaria
dello Stato e con essa la possibilità di produrre ed utilizzare una moneta propria, sganciandone la quantità di circolazione dai capricci
del mercato e dal gravame degli interessi, ci si ritrova a dover fare i
conti con l’approvvigionamento di risorse monetarie attraverso il
circuito dell’usura, con il ricorso a coloro che elegantemente vengono chiamati “investitori istituzionali”, di fatto speculatori finanziari che lucrano sul lavoro di intere nazioni condannate ad un debito
senza fine.
A tanto si è arrivati attraverso un processo lungo e lento, ma già
iscritto nel codice genetico della nostra Costituzione.
Come si è visto, alcune delle modifiche sin qui apportate al vecchio
testo, hanno progressivamente annullato quel che di buono c’era
nella nostra Costituzione, che inizialmente ha visto prevalere una
visione solidaristica cui, però, si è progressivamente sostituita una
5
propensione decisamente liberista, dettata da organismi internazionali cui si sono affidate le sorti dell’Italia.
Se, infatti, diverse anime politiche si fronteggiavano all’interno della
Costituente, in particolare quella cattolica, quella socialista e quella
liberale, tutte concordavano pregiudizialmente sulla necessità di prevenire “derive nazionaliste” che avrebbero potuto riconsegnare l’Italia a movimenti o partiti di tipo fascista. Il rimedio si è creduto di
trovarlo nell’adesione ad organismi sovranazionali che avrebbero
dovuto pacificare il mondo.
Con gli articoli 10 e 11, furono quindi gettate le basi affinché l’Italia
si avviasse verso la perdita di ogni forma di sovranità nazionale sotto
la spinta dell’internazionalismo trasversale che animava i costituenti,
a prescindere dalla loro provenienza ideologica e culturale.
Il primo, l’articolo10, prevede che “L’ordinamento giuridico italiano
si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto”. Questa norma contiene una indubbia rinuncia a dotare
l’Italia di un suo ordinamento giuridico sovrano, rispondente alla
volontà popolare ed agli interessi della Nazione. E non è dato capire
come si possa riconoscere “generalmente” il diritto internazionale.
Il secondo, l’art. 11, dopo avere sancito il ripudio della guerra “come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali”, aggiunge che l’Italia
“consente in condizioni di parità con gli altri stati, alle limitazioni
di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la
giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”. L’esperienza ci ha dimostrato che
le limitazioni di sovranità a beneficio di alcune organizzazioni internazionali (FMI, NATO, UE ecc.) ci sono state, ma non sempre a
garanzia della pace e della giustizia. Lo dimostrano i numerosi tentativi di “esportare” manu militari la democrazia e i diritti umani in
6
ogni parte del mondo e l’incessante contributo alla destabilizzazione
dei governi non graditi, dovunque ciò sia possibile.
Sulle “condizioni di parità” è meglio stendere un velo pietoso. Oltre
ogni evidenza, gli effetti dello status di minorità dell’Italia rispetto
agli atri Stati, si fanno sentire quotidianamente, in ambito economico, militare e politico.
Ma l’Italia “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali”,
anche a prescindere dagli obiettivi di pace e di giustizia, e ad esse si
affida con entusiasmo. Tra queste spicca l’Unione europea che, soprattutto in materia economica, fissa la direzione di marcia e detta i
suoi metodi. Grazie ad essa, e a dispetto della nostra Costituzione,
“i doveri di solidarietà politica, economica e sociale”, sanciti dall’art. 2, sono stati riassunti nel principio “comunitario”, globale e
universale di “competitività”. Una sorta di guerra di tutti contro tutti
che vale, allo stesso modo, per gli individui, per le aziende e per gli
Stati. A maggior gloria del più forte. Per il trionfo dell’ultraliberismo.
Sulla possibilità che il “popolo sovrano” possa incidere su un tale
perverso meccanismo, la Costituzione provvede a vanificare ogni
speranza. Basta dare uno sguardo all’articolo 117, come riformato
nel 2001, che al comma 1 si fa carico di mortificare espressamente
il potere legislativo della Repubblica e del Parlamento in particolare:
“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel
rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento europeo e dagli obblighi internazionali.”.
Una previsione che paradossalmente trasforma i trattati costitutivi
dell’Unione europea e gli altri trattati internazionali, in norme di
rango costituzionale pur essendo stati introdotti nel nostro ordinamento giuridico attraverso la procedura legislativa ordinaria.
Ciò li rende di fatto irrevocabili e immodificabili, in tutto o in parte,
anche in presenza di norme e “obblighi” che si rivelassero partico7
larmente lesivi degli interessi nazionali.
A blindare ulteriormente quei trattati, ci pensa l’artico 75 voluto dai
costituenti: “Non è ammesso il referendum per le leggi... di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”. L’Unione europea può
stare tranquilla, il “popolo sovrano” non può esercitare alcun reale
potere o controllo su tutto ciò che lo riguarda.
Scivolando sul piano inclinato predisposto dai “padri costituenti”
con volontà quasi unanime,
alla fine l’Italia, dotata della “Costituzione più bella del mondo”, si
è ritrovata succube di organismi internazionali di impronta marcatamente liberale e liberista che hanno progressivamente eroso e marginalizzato la sovranità popolare, fondamento costituzionale del
potere politico.
Ed è proprio in quest’ultima direzione che spinge ancora una vola
l’ulteriore riforma che andremo ad esaminare brevemente nei suoi
aspetti più problematici.
8
MODIFICHE AL TITOLO I DELLA PARTE II
DELLA COSTITUZIONE
(Ordinamento della Repubblica)
Il nuovo Senato in sintesi
Il nuovo Senato della Repubblica sarà composto da 95 senatori (74
consiglieri regionali e 21 sindaci) eletti dai Consigli regionali (nuovo
art. 57). A questi potranno essere aggiunti altri 5 senatori nominati
dal Presidente della Repubblica il cui mandato non sarà più a vita
ma avrà la durata di sette anni e non potranno essere nuovamente
nominati (nuovo art. 59). Continueranno ad essere senatori a vita
quelli di nomina presidenziale attualmente in carica; nulla cambierà
per gli ex Presidenti della Repubblica che manterranno il rango di
“senatori di diritto e a vita”.
Basteranno 18 anni e non più 40, per essere senatore (soppressione
dell’art. 48).
Il Senato concorrerà a legiferare con la Camera dei deputati in forma
paritaria per le leggi non riservate per materia all’approvazione della
sola Camera. Le questioni di competenza saranno decise dai Presidenti delle Camere d’intesa tra loro (nuovo art. 70).
Il Senato manterrà il potere di inchiesta limitatamente a materie concernenti le autonomie territoriali (nuovo art. 82).
I nuovi senatori godranno dell’immunità parlamentare (non viene
modificato l’art. 68).
Il Senato nominerà due giudici della Corte Costituzionale (nuovo
art. 135)
9
Il Senato non eletto dal popolo
Il Senato della Repubblica, nella versione originale proposta dal Governo, avrebbe dovuto chiamarsi “Senato delle Autonomie” e
avrebbe avuto come componenti di diritto i Presidenti delle Giunte
Regionali ed i Sindaci delle città capoluogo di regione. Ad essi si
sarebbero aggiunti 37 senatori eletti dalle Assemblee regionali e dai
Sindaci di ogni regione, ed altri 21 (ventuno!) nominati dal Presidente della Repubblica.
Le successive modifiche, apportate durante il dibattito parlamentare,
hanno cercato di rendere meno pesante la mortificazione della sovranità popolare sancita dall’art. 1 della Costituzione. La pillola è
stata addolcita cercando di lasciare invariata la sostanza: tutti i consiglieri regionali e tutti i sindaci potranno essere eletti (elettorato
passivo); solo i consiglieri regionali avranno il diritto al voto (elettorato attivo). Si tratta del metodo dell’elezione indiretta o di secondo grado, un metodo del tutto discutibile, soprattutto per un
organo legislativo, e finora utilizzato solo per gli enti amministrativi
di secondo livello.
Ma se tutti i consiglieri regionali e i sindaci potranno candidarsi al
Senato, non tutti potranno concorrere al seggio senatoriale su basi
di parità concreta. I presidenti delle Giunte regionali potranno non
essere eletti dalle loro Assemblee regionali, ma solo in via teorica.
In pratica, se si candidassero (come è molto probabile) e non venissero eletti, ciò si tradurrebbe di fatto in un voto di sfiducia nei loro
confronti da parte dei rispettivi Consigli regionali. A quel punto, il
Presidente non eletto potrebbe dimettersi provocando lo scioglimento del proprio Consiglio e la decadenza di tutti i consiglieri regionali, compresi i novelli senatori che verrebbero allontanati da
Palazzo Madama ancor prima di mettervi piede.
I sindaci delle grandi città e specialmente i sindaci delle Città me10
tropolitane che, in via automatica e senza elezioni (grazie alla legge
Delrio) sono equivalenti in tutto e per tutto (forse con più poteri) ai
vecchi presidenti di provincia, sicuramente avranno più possibilità
di essere eletti senatori rispetto ai sindaci delle altre città minori o
dei piccoli centri. Sicuramente, possono mettere in campo “argomenti” molto più “forti” e “convincenti” nei confronti dei loro grandi
elettori. Non bisogna dimenticare, infatti, che i consiglieri regionali
vengono eletti grazie anche alla loro rete di consenso clientelare che
non disdegna i finanziamenti comunali e provinciali.
Come si vede, le modifiche rispetto al progetto originario non sortiscono nuovi effetti significativi nella rappresentanza territoriale e rimane il fatto che gli elettori sono comunque tenuti a debita distanza
dal processo elettorale.
Distorsione della rappresentanza
La stessa rappresentanza, da una parte è realizzata attraverso un meccanismo che favorisce la selezione tra coloro che hanno più “potere
contrattuale” sul territorio, in violazione del principio di eguaglianza,
dall’altra è distorta e squilibrata in rapporto anche alla consistenza
territoriale ed abitativa delle singole regioni.
Se l’art. 55, come modificato dalla riforma, prevede che “Il Senato
della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali”, in realtà queste non saranno messe su di un piede di parità perché non tutte potranno essere rappresentate allo stesso modo. I senatori divenuti tali
sulla base del requisito di consigliere regionale o sindaco, non potranno avere la stessa “intensità” di rappresentanza rispetto a istituzioni, territori ed elettori che non hanno avuto alcuna parte nella loro
elezione pre-senatoriale Inevitabilmente, si faranno carico delle istanze
di chi ha concorso a renderli eleggibili al Senato, più che di quelle di
chi non ha avuto alcun ruolo nel determinare il loro destino elettorale.
11
Alla fine, ne risulteranno istituzioni più rappresentate, di serie A, ed
altre meno rappresentate, di serie B. Alcune concorreranno al processo legislativo, magari attente agli interessi del proprio territorio,
altre potranno solo subirlo.
Anche in rapporto agli abitanti, la rappresentanza territoriale risulterà
non priva di forti squilibri e irragionevoli sproporzioni. Avremo territori fortemente rappresentati ed altri molto meno. Ad esempio, la
Valle D’Aosta, che conta 126.806 abitanti, e che oggi ha un solo senatore, avrà 2 (due) senatori, uno ogni 63.403 abitanti; la Sicilia,
con oltre cinque milioni di abitanti, cioè con una popolazione di circa
quaranta volte maggiore, avrà solo 7 (sette) senatori, uno ogni
714.700 abitanti, perdendone 18 (diciotto) rispetto a quelli che ha
oggi.
Naturalmente, una forte perdita di rappresentanza parlamentare sul
territorio comporta una minore capacità di incidere sulle scelte politiche dei governi, specie quando c’è da contrastare scellerate politiche di austerità volte a sopprimere servizi indispensabili come gli
ospedali, le scuole, i tribunali ecc.
Il nuovo Senato, pur essendo poco rappresentativo sotto il profilo
numerico, elettorale e territoriale, potrà persino eleggere, da solo e
con soli cento componenti, due giudici della Corte costituzionale; la
Camera, invece, potrà eleggerne solo tre, a dispetto della sua investitura popolare e nonostante i suoi 630 (seicentotrenta) parlamentari: una consistenza numerica di oltre sei volte quella del Senato.
Difficile capirne la logica.
Il partito del Presidente
Ai 95 senatori eletti dai consiglieri regionali, il Presidente della Repubblica potrà aggiungere cinque senatori che rimarranno in carica
per sette anni (non più a vita come oggi) e la loro nomina non potrà
12
essere reiterata. Ma la rappresentanza territoriale del Senato, prevista
dalla riforma, risulta del tutto incompatibile con la presenza di senatori scelti tra “cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi
meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario” (art. 59).
Non si capisce come, con quali competenze e per quali meriti specifici, queste figure senatoriali possano rappresentare le istituzioni
territoriali in un Senato che si vorrebbe rappresentativo delle “autonomie territoriali”.
I cinque, di nomina presidenziale, non eletti in alcun modo, saranno
di fatto “il partito del Presidente”, un partito del 5%, attestato ben
oltre l’attuale soglia di sbarramento elettorale del 3% prevista per
l’elezione della Camera dei deputati. Un partito che potrà incidere
sugli equilibri politici del Senato e divenire determinante per la formazione di qualsiasi maggioranza. La volontà di casta “la trionferà”.
Cumulo di cariche
Dei futuri senatori colpisce anche il cumulo di cariche che potranno
ricoprire e che oggi la Costituzione ritiene giustamente incompatibili
tra loro. Ciò che oggi è motivo di incompatibilità con la carica di senatore, come l’essere sindaco di una grande città o di un grosso comune, oppure consigliere regionale, domani sarà il presupposto e la
condizione imprescindibile per diventare senatore.
Ci troveremo, così, di fronte ad una sorta di super casta che potrà
cumulare cariche di indubbio rilievo, che richiedono un impegno
non facilmente conciliabile e che comportano ruoli di natura profondamente diversa: legislativo in sede nazionale e amministrativo
in sede locale. Ad esempio, non si può escludere - anzi è probabile
- il triplice incarico per i sindaci che siano anche sindaci di Città metropolitane e senatori. Per non parlare di altri eventuali incarichi di
natura parlamentare.
13
Come ciliegina sulla torta, volendo combattere l’assenteismo istituzionale, la riforma prevede che questi senatori tuttofare, così carichi
di pesanti e differenziate responsabilità, “hanno il dovere di partecipare alle sedute dell’Assemblea e ai lavori delle Commissioni”.
Se tale previsione è logica e consequenziale per i deputati, in forza
del loro mandato unico e popolare, per i senatori sembra piuttosto
una sorta di autorizzazione indiretta, implicita, a trascurare il mandato territoriale a vantaggio del mandato senatoriale.
Peccato che il dono dell’ubiquità non possa essere elargito con
norma costituzionale.
Sotto il profilo istituzionale e del rapporto tra elettori ed eletti, appare
del tutto illogico che, partendo da elezioni locali - inevitabilmente
legate a logiche e dinamiche decisamente diverse dalle elezioni su
scala nazionale - si dia vita ad un organo legislativo e di alto profilo
politico come il Senato.
A questo punto gli elettori, chiamati ad eleggere un sindaco o dei
consiglieri regionali sulla base di proposte politiche a misura del
proprio territorio, si potrebbero ritrovare con dei senatori attestati su
posizioni politiche non gradite e lontane dai motivi che hanno indotto a votarli in sede locale.
Senatori giovani ed immuni
Lo status giuridico dei senatori, come disegnato dalla riforma, offre
altri spunti di riflessione.
La condizione preliminare, e condicio sine qua non, dell’essere consigliere regionale o sindaco per poter diventare senatore, abbatterà
l’età di ingresso nel Senato dagli attuali 40 anni a 18, l’età minima
richiesta per candidarsi alle elezioni regionali e comunali. Ciò grazie
alla soppressione dell’art. 58. L’età per diventare deputati rimane
ferma a 25 anni, che è anche, nel sistema vigente, il limite minimo
14
per poter votare per l’elezione del Senato.
Dopo la riforma, potremo avere senatori di 18 anni in quella che da
sempre è stata concepita come un’Assemblea degli anziani e che
proprio dai termini latini senex e senectus, ha tratto il nome di Senato. Naturalmente, la questione linguistica non è rilevante e, in
tempi di Jobs Act e Buona Scuola, è già tanto che non siano entrati
in Costituzione gli orribili anglicismi così cari al Presidente del Consiglio e alla sua maggioranza.
L’abbassamento del limite di età per i senatori, a fronte del mantenimento del limite di età per i deputati a 25 anni, appare fuori luogo
e privo di fondamento. Ad esempio, non si capisce perché i senatori
potranno modificare la Costituzione ed essere “padri costituenti”
già a 18 anni, mentre i deputati a 25.
Per i novelli riformatori costituzionali, i 18 anni sembrano essere
anche l’età giusta per vestire i panni del magistrato inquirente. I
nuovi senatori, infatti, potranno fare parte di eventuali Commissioni
di inchiesta “con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell’autorità
giudiziaria” (art.82)
Va pure notato che il Senato non potrà istituire commissioni d’inchiesta su tutto. No! dovrà limitarsi a poterlo fare solo per le materie
“concernenti le autonomie territoriali”. Praticamente, per le materie
che ai senatori stanno particolarmente a cuore, che sono cosa loro,
e che potrebbero vederli non solo come competenti ed esperti, ma
anche come persone direttamente coinvolte nelle indagini in qualità
di amministratori delle “autonomie territoriali”.
Pensare che simili senatori possano sedere nei banchi di una Commissione d’inchiesta che magari si starà occupando delle spese pazze
dei colleghi consiglieri regionali, mette qualche brivido. Ma affidare
i pollai alle volpi sembra ormai una regola ampiamente condivisa e
adesso costituzionalmente rilevante.
15
Infine, ciò che colpisce maggiormente è che, senatori non eletti direttamente dal popolo, continueranno a godere dell’immunità parlamentare. A poco serve sostenere che l’immunità riguarderà solo
la loro attività di parlamentari e non anche quella di amministratori
locali.
L’art. 68 non è stato in alcun modo modificato e garantisce pertanto
l’immunità a tutti i membri del Parlamento. E così, anche per i nuovi
senatori non sarà possibile l’intercettazione telefonica, la perquisizione personale e domiciliare o l’arresto, senza autorizzazione da
parte del Senato.
Non dovremo stupirci se, in una tale Assemblea, priva di vincoli
politici con il governo (voto di fiducia) e con gli elettori (elezione
popolare e diretta), prevarrà inevitabilmente la solidarietà di casta.
Senato “europeo”
Il Senato che, come già visto “rappresenta le istituzioni territoriali”,
esercita anche una doppia funzione di “raccordo”: la prima, “tra lo
Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica”; la seconda, “tra
lo Stato, gli altri enti costitutivi della Repubblica e l’Unione europea” (nuovo art.55).
Non è dato capire in quale attività concreta si possano tradurre le
“funzioni di raccordo” ed in cosa queste funzioni potranno differenziarsi da quelle che sembrano essere le funzioni proprie di organismi
amministrativi o burocratici privi di potere politico decisionale. Verosimilmente, si tratta di funzioni riconducibili a quelle attualmente
svolte dalle diverse Conferenze: la Conferenza Stato Regioni; la
Conferenza Stato Regioni e Province Autonome; la Conferenza Stato
Comuni. Il Senato sarà, quindi, una sorta di Conferenza unificata di
ultima istanza, di cui non si avverte quale possa essere il vero ruolo
e l’utilità istituzionale.
16
In compenso, vi si insinua l’illusione che possa davvero “partecipare” concretamente (in che modo?) “alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea”, in
ordine ai quali procederà a “valutare” e “verificare” l’impatto sui
territori. Un vero salto di qualità per il Senato: da organo legislativo
ad Ufficio di Valutazione e Verifica.
Il richiamo all’Unione europea è reiterato per ben tre volte nello
stesso articolo, quasi a volere stabilire un legame indissolubile tra il
Senato e l’Unione.
A tal proposito, il Servizio Studi della Camera, nelle sue “Schede di
lettura” relative al disegno di legge costituzionale, è oltremodo
chiaro: “L’attribuzione delle suddette funzioni trovano, in particolare, il loro fondamento nell’intenzione di attribuire alla seconda
Camera un ruolo propulsore – unitamente alla Camera – nell’integrazione europea in ragione della sua natura prevalentemente territoriale”.
All’Unione europea servono, dunque, dei luogotenenti in Parlamento, meglio se radicati anche nelle autonomie locali. Il momento,
del resto, è particolare e la fiducia nelle sue istituzioni tocca i minimi
storici, laddove insensate politiche di austerità, dettate dai burocrati
di Bruxelles, mordono le carni vive dei popoli.
Il legame tra il Senato e l’Unione europea viene ribadito ulteriormente dalla previsione contenuta nel nuovo art. 80: “Le leggi che
autorizzano la ratifica dei trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea sono approvate da entrambe le Camere”.
Per l’occasione, si fa ricorso al bicameralismo perfetto (proprio quel
meccanismo che si vorrebbe “superare”) su questioni di politica internazionale che non dovrebbero essere affidate a politici che, per
la loro provenienza dalle istituzioni territoriali, sono generalmente
più interessati ai finanziamenti europei che ai trattati europei.
17
A maggior gloria delle clientele. E, come diceva Napoleone
“la mano che dà è al di sopra della mano che riceve”.
Bicameralismo, semplificato o complicato?
L’esigenza dichiarata, ma non soddisfatta, di superare il bicameralismo paritario o perfetto tra Camera e Senato, anziché suggerire
l’idea di sopprimere una delle due Camere ed introdurre un meccanismo parlamentare monocamerale, ha spinto il legislatore costituzionale verso un bipolarismo zoppo e mal funzionante.
Partendo dal presupposto che la Camera dovrà continuare a rappresentare la Nazione, mentre il Senato rappresenterà “le istituzioni territoriali” (nuovo art. 55, c. 3), il nuovo impianto costituzionale
prevede che sia solo la Camera a dover mantenere il rapporto di fiducia col Governo (nuovo art. 55 co 3 e nuovo art. 94, co. 1) E fin
qui tutto sembra semplice. Ma l’attività legislativa del Senato, sganciata dal vecchio rapporto paritario con la Camera e non più rivolta
alla generalità delle materie, non viene limitata soltanto a quelle materie che abbiano maggiore attinenza alla sua natura e conformazione, ma si spinge ben oltre le questioni relative alle istituzioni
territoriali.
In tutto sono sedici i casi in cui il Senato potrà concorrere paritariamente all’approvazione delle leggi. Tra le materie di competenza bicamerale vi sono perfino “le leggi di revisione della Costituzione e
le altre leggi costituzionali”.
Ed è curioso pensare che gli elettori, prima di votare i loro sindaci o
consiglieri regionali, debbano tenere conto di u loro eventuale seggio
senatoriale e delle loro idee in materia di leggi costituzionali. C’è
pure un caso che non manca di apparire paradossale: sindaci e consiglieri regionali, in veste di senatori, potranno legiferare sull’Ordinamento di Roma Capitale. Naturalmente, anche su questo argomento
18
dovrà interrogarsi il loro elettorato prima di votarli in sede locale.
Ma, al di là della comicità involontaria, vi sono aspetti che destano
qualche seria preoccupazione.
I senatori avranno potestà legislativa paritaria su materie per le quali
dovrebbe valere il principio di incompatibilità per manifesto conflitto di interessi. E’ il caso delle leggi riguardanti la loro stessa ineleggibilità o incompatibilità, sia come senatori che come sindaci e
consiglieri regionali. Potranno persino occuparsi, a pieno titolo, delle
leggi sugli emolumenti degli organi regionali, cioè dei loro stessi
emolumenti (nuovo art. 122).
Siamo lontani da una vera semplificazione legislativa
I procedimenti di approvazione delle leggi sono molteplici e non
sempre molto chiari, a seconda della competenza per materia riconosciuta alla sola Camera o ad entrambi i rami del Parlamento.. Addirittura, si potrebbe verificare un autentico ingorgo normativo
qualora le leggi da approvare dovessero prevedere al loro interno
norme riconducibili a competenze differenziate e sovrapposte, non
suscettibili di un’unica procedura.
In ciò non aiuterebbe certo il fatto che “I Presidenti delle Camere
decidono, d’intesa tra loro, le eventuali questioni di competenza,
sollevate secondo le norme dei rispettivi regolamenti” (art. 70, co.
6, modif.). Non si capisce, infatti, come le competenze riconosciute
dalla Costituzione possano essere ignorate e travolte attraverso
un’intesa che fissi una procedura piuttosto che un’altra. Se ciò dovesse avvenire, riconoscendo una sorta di competenza prevalente
della Camera, per norme che potrebbero toccare anche i poteri del
Senato, ne nascerebbe un contenzioso costituzionale che potrebbe
travolgere in tutto o in parte la legge approvata.
Inoltre, che l’ultima parola sia affidata ai presidenti delle Camere,
19
non necessariamente potrebbe rivelarsi un fattore di speditezza e di
semplificazione, non potendosi escludere un autentico stallo dell’attività legislativa qualora i due non si trovassero d’accordo.
Il fatto poi che il Senato non possa essere sciolto e sia affrancato dal
rapporto di fiducia, piuttosto che semplificare i rapporti tra le Camere, potrebbe rivelarsi un impedimento per l’attuazione del programma del Governo e per il monopolio (a questo punto solo
formale) della “funzione di indirizzo politico” riconosciuta alla sola
Camera dei deputati.
Il doppio volto del voto di fiducia, affidato ad una sola Camera, mostra tutta la fragilità del nuovo impianto costituzionale. La cancellazione di ogni controllo democratico sul Senato, ne favorisce una
sorta di deresponsabilizzazione ogni volta che sarà chiamato all’approvazione di leggi che dovranno seguire un iter bicamerale paritario: i senatori potranno bloccare il procedimento legislativo qualora
la Camera ritenesse di non doversi adeguare ai loro desideri.
Alla fine, la pretesa semplificazione conduce ad un labirinto procedurale, dove non sarà facile trovare la via d’uscita e non si potrà essere aiutati dal contorsionismo linguistico delle nuove norme
costituzionali che non ne agevola certo la lettura e l’interpretazione.
A tal riguardo, valga per tutti il nuovo art. 70 che, nella sua spropositata lunghezza, costituisce un autentico capolavoro di un nuovo stile
giuridico-costituzionale che potremmo definire “a struttura labirintica”, data la difficoltà di trovare il “bandolo della matassa” nelle
troppe e poco chiare previsioni normative. Bisogna scorrere ben 432
parole (a fronte delle attuali 9), in un intreccio di incisi e richiami
normativi che costringono il lettore a trattenere il fiato, a procedere
quasi in apnea, per non perdere il filo del discorso e capirne il senso.
Alla fine, tuttavia, si capisce poco di cosa spetterà decidere alla Camera ed al Senato in condizioni di parità e cosa invece potrà essere
20
deciso dalla Camera dopo l’intervento, interlocutorio, del Senato.
Nelle norme successive verrà fuori un’autentica giungla di prescrizioni, di quorum di maggioranze differenziate, di scadenze temporali, cui sarà difficile stare dietro. Ed infatti, neppure i
costituzionalisti sono concordi sul numero esatto dei procedimenti
legislativi che vengono fatti oscillare da sei a dodici, a fronte dell’unico oggi previsto.
Tanto basta per descrivere l’irragionevolezza di un sistema bicamerale differenziato, ma non sempre, talvolta del tutto paritario e “perfetto”, ma sostanzialmente privo di sufficiente coerenza e
ragionevolezza. Dalla semplificazione alla confusione il passo è
stato breve.
Allargamento della partecipazione popolare?
Come si è visto, il popolo sovrano è stato allontanato dalle elezioni
del Senato che, come già sperimentato con le Province e con le Città
metropolitane, sarà il risultato di elezioni di secondo grado.
Eppure, i corifei della riforma sostengono che in essa si è dato spazio
a nuovi strumenti di partecipazione democratica con l’istituzione di
nuove fattispecie referendarie: il referendum consultivo ed il referendum propositivo.
Attualmente in Costituzione è previsto solo il referendum abrogativo, che consente agli elettori di poter cancellare, in tutto o in parte,
le leggi approvate dal Parlamento (art. 75).
Nell’art. 71, che tratta della “iniziativa delle leggi”, i riformatori
hanno inserito un quarto ed ultimo comma che introduce “referendum popolari propositivi e d’indirizzo, nonché altre forme di consultazione anche delle forme sociali”. Sembrerebbe un’ottima
previsione normativa ispirata da una nobile intenzione chiaramente
espressa: “Al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla de21
terminazione delle politiche pubbliche”.
Se però si legge l’intero comma, si scopre che le cose stanno diversamente e nessuna reale novità è stata introdotta. Dovranno essere
altri costituenti, con un’altra riforma costituzionale, a dovere rendere
effettiva l’introduzione dei previsti strumenti referendari. Infatti ,
“la legge costituzionale stabilisce condizioni ed effetti di referendum
popolari propositivi e di indirizzo...”. Come dire: sarà una nuova
legge costituzionale ad introdurre i nuovi referendum, ma non questa
di cui si esaltano le virtù che non ha.
In realtà, siamo di fronte all’ennesimo proclama di un governo che
finora ha vissuto quasi esclusivamente di proclami. Ma nessun proclama ha mai avuto rilievo costituzionale. Stavolta si è battuto ogni
primato.
Lo stesso art. 71, riformato, ci riserva un’ulteriore sorpresa: il vecchio quorum di 50.000 (cinquantamila) firme per la presentazione
di un progetto di legge di iniziativa popolare, viene portato a
150.000! Naturalmente, “Al fine di favorire la partecipazione dei
cittadini alla determinazione delle politiche pubbliche” (!). Alla
faccia del popolo sovrano, anche la sfrontatezza entra in Costituzione!
Elezione del Presidente della Repubblica (art. 83)
Attualmente la Costituzione prevede che il Presidente della Repubblica venga eletto dal Parlamento e dai delegati eletti dai Consigli
regionali. Più in dettaglio: dai 630 deputati; dai 315 senatori eletti
più i senatori a vita; dai 58 delegati regionali: tre per ciascuna regione, ad eccezione della Valle D’Aosta che esprime un solo delegato. Con la nuova riforma, non ci saranno più i delegati regionali
e, con 200 senatori in meno, il collegio elettorale si ridurrà di 258
componenti.
22
Se si votasse oggi, il collegio elettorale sarebbe composto da 1008
grandi elettori; con la nuova riforma, da 730.
In entrambi i casi, si tratta di un sistema elettorale che poco ha a che
vedere con la sovranità popolare. Piuttosto si presta ad alimentare
giochi di corridoio ed estenuanti trattative tra i partiti e tra le stesse
correnti dei partiti. Un sistema che non si è avuto il coraggio di modificare affidando agli elettori l’elezione diretta del loro Presidente.
Addirittura si è proceduto nella direzione opposta restringendo la
base elettorale ed affievolendo ulteriormente il consenso e la legittimazione democratica del Presidente.
La volontà riformatrice è intervenuta anche sul quorum elettorale.
La differenza non è di poco conto.
Con il sistema attualmente in vigore, per eleggere il Presidente della
Repubblica occorre la maggioranza dei due terzi dei componenti dell’Assemblea (Parlamento più delegati regionali), nelle prime tre votazioni; dalla quarta votazione occorrono i voti di almeno la metà
più uno dei componenti.
La riforma, invece, dopo avere previsto la maggioranza dei due terzi
del Parlamento per la prima votazione, per le tre successive prevede
la maggioranza dei tre quinti; dalla settima votazione, rimane la
maggioranza dei tre quinti, ma non più calcolata sul numero dei parlamentari, bensì sul numero dei votanti.
A questo punto, venuta meno una soglia minima certa, potranno bastare anche pochissimi voti per eleggere il Capo dello Stato.
Ad esempio, posto che la seduta, per essere valida, deve sempre vedere la presenza di almeno la metà più uno degli aventi diritto al
voto, col metodo elettorale in vigore ci vorranno 505 componenti
per rendere valida la seduta ed altrettanti 505 voti per eleggere il
Presidente. Con la norma proposta dagli ineffabili neo-costituenti,
per rendere valida la seduta ne basterebbero 366 ed il Presidente
23
potrebbe essere eletto con 220 (i tre quinti di 366): meno della metà
di quelli che occorrono oggi. Ma ne potrebbero bastare molti di
meno qualora non tutti i presenti decidessero di votare.
Ad esempio, se i voti espressi si limitassero a 100, a fronte di una
larga astensione dei presenti (sempre possibile), basterebbero 60 voti
per eleggere il Presidente della Repubblica.
Non mancano ipotesi ancora più pessimistiche: basta ridurre ancora
il numero effettivo dei votanti a fronte di un equivalente aumento
delle astensioni. Si tratta di ipotesi sicuramente basate su un tasso
di probabilità molto ridotto, ma che la dicono lunga sulla ragionevolezza della norma in questione. Soprattutto se essa è messa in relazione con la nuova legge elettorale, l’Italicum, che alla Camera
dà un premio di maggioranza al partito che vince che gli consente
di avere almeno 340 seggi, come è già avvenuto per il Pd alle ultime
elezioni del 213.
Alla fine, avremo comunque un Presidente a legittimità limitata,
che non solo non sarà scelto dalla maggioranza degli italiani, ma che
potrà essere eletto persino da un’infima minoranza parlamentare.
24
MODIFICHE AL TITOLO V DELLA PARTE II
DELLA COSTITUZIONE
Soppressione delle province?
Nella versione originale dei Costituenti, l’art. 114 era così formulato:
“La Repubblica si riparte in Regioni, Province e Comuni”. Con la
riforma costituzionale del 2001 si adottò una elencazione dal basso
verso l’alto: “La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province,
dalle città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato.”.
Le novità introdotte furono più profonde di quanto si pensi: a)
l’espressione “si riparte in” venne sostituita con quella più pregnante, e più idonea a dare l’idea di un assetto per così dire “federale”, di: “è costituita da”; b) viene introdotta la nuova figura di
“Città Metropolitana”; c) lo Stato non si identifica più con la Repubblica, e viene riconosciuto come un ente pubblico sullo stesso
piano degli altri tre.
Il nuovo progetto di riforma cancella le Province. Si dice che ciò sia
stato fatto per rendere la norma coerente con la legge Delrio, ponendo la Costituzione all’inseguimento di una legge ordinaria che
avrebbe soppresso le Province.
La verità è ben altra. Le province esistono ancora e non basta cancellare la parola dagli articoli della Costituzione dove essa ricorre
più volte.
Il vero elemento di novità, non certo apprezzabile, è costituita dal
fatto che le province non sono più elette dal popolo, ma da una mini
casta formata dai sindaci e dai consiglieri comunali. Anche le province, come il Senato, sono poste al riparo dal processo elettorale.
25
Delle Città metropolitane, cui è rimasto l’onore di stare in Costituzione, si può dire la stessa cosa, in quanto del tutto sovrapponibili
alle ex province di riferimento. Con l’aggravante, però, che i loro
presidenti, rinominati “sindaci”, non vengono eletti in alcun modo,
neppure col metodo elettorale indiretto: gli stessi ricoprono l’incarico di sindaci delle Città metropolitane, in via automatica, in quanto
sindaci della città capoluogo della ex provincia di riferimento. Ed i
cittadini che hanno votato per un sindaco, come per incanto si ritrovano con un presidente di provincia, detto sindaco, che nessuno
ha mai votato.
I nuovi costituenti temono di “abusare” delle elezioni dirette e popolari che, a loro avviso, sono particolarmente dispendiose. Preferiscono risparmiarla la democrazia, potrebbe riuscire dannosa.
Ma le sorprese non finiscono. A parte alcune province che continuano a sopravvivere in Costituzione come città Metropolitane, nel
progetto di riforma compaiono nuovi soggetti istituzionali che, non
solo ripropongono le vecchie province diversamente chiamate, ma
che possono nascondere persino qualcosa di peggio: “enti di area
vasta” (comma 4 dell’art. 40, Disposizioni transitorie). Se non è
zuppa è pan bagnato.
La riforma della riforma dell’art. 117
L’articolo 117 disciplina e riparte le competenze legislative tra lo
Stato e le Regioni. Nel testo del 1948, alle Regioni veniva riconosciuto un limitato potere legislativo per alcune materie di rilevanza
territoriale locale.
Durante la tredicesima legislatura, il centrosinistra volle accentuare
i poteri delle Regioni, prima attraverso la legislazione ordinaria, “a
Costituzione vigente”, successivamente attraverso un’articolata riforma costituzionale. Nella nuova stesura, oggi in vigore: a) allo
26
Stato viene riconosciuta la “legislazione esclusiva” per alcune materie espressamente elencate; b) per altre materie, anch’esse elencate
e definite “di legislazione concorrente”, allo Stato viene riservata
soltanto “la determinazione dei principi fondamentali”, spettando
alle Regioni il potere di emanare le leggi di dettaglio; c) per le materie non espressamente riservate allo Stato, viene riconosciuta “la
potestà legislativa” alle Regioni.
Va subito chiarito che la ripartizione delle materie non è avvenuta
nel migliore dei modi e risente della fretta dei riformatori che, incalzati dalle imminenti elezioni, volevano esitare ad ogni costo una
riforma di tipo “federale”.
Inevitabilmente, ne nacque una grande confusione interpretativa,
con sovrapposizioni di poteri e continui conflitti istituzionali finiti
di fronte alla Corte Costituzionale, che si è dovuta far carico di rimettere un po’di ordine tra competenze affastellate e spesso di non
facile attribuzione.
Alla luce di un’esperienza problematica e per certi aspetti fallimentari, il nuovo centrosinistra ha voluto nuovamente riformare l’art.
117.
Ma i migliori propositi non sempre sono accompagnati dai migliori
risultati.
Nel nuovo corso “autonomista” e non più “federalista”, alle Regioni viene sottratta la competenza su alcune materie. Tra queste risultano particolarmente efficaci ai fini propagandisti, quelle
riguardanti le infrastrutture, l’energia, l’ordinamento della comunicazione e il turismo
A tal proposito, gli “statalisti” fanno salti di gioia ed applaudono
(anche da destra)alla riforma; i “federalisti, invece, si sentono derubati e ne soffrono parecchio. Emozioni che si possono risparmiare.
Nella sostanza cambia molto poco. Già la Corte Costituzionale, per
27
le stesse materie, si è reiteratamente pronunciata facendo valere il
principio generale di “attrazione in sussidiarietà”, ed il principio di
sussidiarietà ascendente in particolare, laddove vi sia la necessità
di garantire una “disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale”.
Per chi avesse tempo e voglia di andare a verificare, suggeriamo alcune sentenze: n. 303/2002 (infrastrutture); n. 4/2004 e n. 383/2005
(energia); n. 163/2012 (comunicazione); n. 214/2006, n. 88/2007,
214/2006 (turismo).
Tuttavia, quella che viene spacciata per la vera novità nel nuovo
testo dell’art. 117, è la scomparsa dell’elenco delle materie a “legislazione concorrente”. E va da sé che già i nostri riformatori vedono profilarsi tempi migliori nel rapporto istituzionale tra Stato e
Regioni e prefigurano un alleggerimento del carico di contenzioso
costituzionale. Peccato doverli deludere.
Basta scorrere il nuovo art. 117 per accorgersi che la legislazione
concorrente, anziché scomparire, riaffiora ripetutamente con definizioni diverse ed elaborate perifrasi.
Così scopriamo che per molte materie spetta allo Stato definire: “disposizioni generali e comuni”, “disposizioni di principio”, “norme...
tese ad assicurare l’uniformità sul territorio nazionale”, “profili ordinamentali generali”.
Più in dettaglio:
“disposizioni generali e comuni per la tutela della salute, per le
politiche sociali e per la sicurezza alimentare” [art. 117 lettera m)];
“disposizioni generali e comuni sull’istruzione; ordinamento scolastico; istruzione universitaria e programmazione strategica della
ricerca scientifica e tecnologica” [art. 117 lettera n)];
“disposizioni generali e comuni sull’istruzione e formazione professionale” [art. 117 lettera o];
28
“disposizioni generali e comuni sulle attività culturali e sul turismo”
[art. 117 lettera s)];
“disposizioni generali e comuni sul governo del territorio; sistema
nazionale e coordinamento della protezione civile” [art. 117
lettera u)]
“disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni” [art.
117 lettera p)];
“norme sul procedimento amministrativo e sulla disciplina giuridica
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche tese ad
assicurarne l’uniformità sul territorio nazionale” [art. 117
lettera p)];
“i profili ordinamentali generali relativi agli enti di area vasta”
Art. 40 del progetto di legge costituzionale (Disposizioni finali)
comma 4].
Ce n’è abbastanza affinché il caos, introdotto con la riforma del
2001, rischi di trovare nuovo alimento.
Clausola di supremazia
Tra le modifiche all’art. 117, merita particolare attenzione la cosiddetta clausola di supremazia. Si tratta della norma contenuta nel
comma 4 riformato, che consente allo Stato di avocare a sé il potere
legislativo “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.
Una norma simile era stata introdotta dalla riforma del 2005 che non
riuscì a superare lo scoglio referendario. Oggi, la clausola di supremazia piace anche a molti di coloro, soprattutto a sinistra, che in passato dicevano di aborrirla in quanto lesiva delle autonomie regionali.
Premesso che, anche per la clausola di supremazia, è in parte valido
quello che si è osservato sopra a proposito del principio di
29
sussidiarietà ascendente, bisogna ricordare che, nell’odierno contesto politico e internazionale, essa va vista tenendo conto dei vincoli
europei, che oggi strangolano la vita economica e politica dell’Italia.
Tra questi, in via incidentale, si ricordano i vincoli alla sovranità
legislativa introdotti, nel 2001 con la riforma del primo comma
dell’articolo 117, a vantaggio dell’ordinamento dell’Unione europea;
e di quelli derivanti dalla riforma del 2012 che, oltre a prevedere
l’obbligo del pareggio strutturale di bilancio, sacrifica alle decisioni
dell’Unione europea ogni forma residuale di sovranità economica
dello Stato. E ciò, a detrimento non solo dell’economia nazionale,
ma persino in spregio ai più elementari diritti individuali e collettivi
sanciti nella parte prima della Costituzione.
Così come stanno le cose, la clausola di supremazia potrà valere,
nella migliore delle ipotesi, come un buon proposito, una pia aspirazione, una pietosa bugia (una tra le tante); se proprio non si vuole
aderire alla tesi dell’ennesimo raggiro. Potrà valere per fare presa
su un elettorato “sensibile”, particolarmente incline ai richiami allo
Stato e alla Nazione, un elettorato che si pone fuori dal recinto ideologico dentro il quale è stata elaborata la riforma costituzionale, e
che potrebbe tornare utile al referendum grazie ad un simile specchietto per le allodole.
In realtà, nella malaugurata ipotesi che la riforma superi la prova referendaria, l’interesse nazionale potrà essere fatto valere solo all’interno dei confini nazionali e non anche europei; solo su
iniziativa del Governo e non anche del Parlamento; solo per limitare il potere legislativo delle Regioni e non anche quello dell’Unione europea.
Come sempre, ci si dovrà adeguare alla parola d’ordine: “ce lo
chiede l’Europa”, e sarà essa stessa a fissare per noi quale sia il
“vero” interesse nazionale. In ultima istanza, se non ci verrà chiesto
30
nulla dall’Europa, ci adegueremo alla volontà, sovrana ed
indiscussa, dei mercati.
La concorrenza innanzitutto
Come già si è detto, la sovranità del Parlamento ha subito un forte
ridimensionamento di fronte alla legislazione dell’Unione europea.
Ciò non ostante, nella lettera e) dell’art. 117, troviamo una serie di
competenze attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato
che sono lo specchio del processo di svuotamento subito dalle sue
prerogative a vantaggio di poteri sovranazionali estranei ai reali
interessi nazionali ed ispirati da obiettivi economicisti ed antisolidaristi.
Colpisce innanzitutto la competenza sulla moneta conferita allo
Stato [c. 2, lett. a)]. La norma non aggiunge nulla a tal proposito,
ma verrebbe da pensare che lo Stato possa disciplinare ogni aspetto
monetario, compresa l’emissione stessa della moneta. Questa “competenza” venne introdotta dal riformatore del 2001 con ipocrita disinvoltura e non è stata più modificata.
E’ del tutto evidente che, se c’è una materia che sfugge completamente alla competenza ed al controllo dello Stato italiano, questa
è proprio la moneta. Già a partire dal trattato di Maastricht, l’Italia
decise di aderire alla creazione della moneta unica: l’euro, la moneta
che oggi viene utilizzata da 18 stati dell’Unione europea su 27 e che
non pochi problemi ha creato e continua a creare alla nostra economia. A ciò si aggiunga che l’attuale ordinamento europeo, al cui rispetto l’Italia è tenuta in forza di una norma costituzionale, prevede
che sia il Sistema europeo delle banche centrali (SEBC) a dettare
la politica monetaria nell’ambito dell’eurozona (art. 3, TUE). La
stessa emissione monetaria, affrancata da ogni controllo pubblico,
è di esclusiva competenza della BCE (art. 128 c. 1, TFUE) che, tra
31
l’altro, non gradisce interferenze nelle sue sovrane decisioni, neppure da parte degli Stati sedicenti “sovrani” (art. 130, TFUE).
Sempre nella stessa lettera e), nella versione riformata, troviamo un
ulteriore passo avanti verso l’omaggio costituzionale al principio di
competitività, che è la bussola di tutto l’impianto europeo. Pertanto
accanto alla tutela del risparmio dei mercati finanziari e della concorrenza è stata aggiunta la tutela dei mercati “assicurativi” e, come
se non bastasse, la “promozione della concorrenza”
In questa sede non sono rilevanti le differenze tra la prima e la seconda riforma: rispetto a prima cambia molto poco, dal momento
che la legislazione europea in materia è ormai prevalente rispetto a
quella dello Stato, la cui sovranità è fortemente ridimensionata. Si
vuole però sottolineare come i mercati e la concorrenza siano ormai
divenuti dei valori da tutelare costituzionalmente alla stessa stregua
del paesaggio (art. 9), della libertà personale (art. 14), dei diritti individuali (art. 24), della salute (art.32), del lavoro (art. 35) ecc.
I mercati non sono, quindi, dei semplici strumenti di natura economica al servizio della comunità nazionale, Ma è la stessa comunità
nazionale che viene posta al servizio dei mercati e della concorrenza. In perfetta sintonia con l’Unione europea che ribadisce ad
ogni piè sospinto l’adozione di una politica economica condotta
conformemente ad un’economia di mercato e in libera
concorrenza.
Pertanto se i riformatori non si sono accontentati di tutelare la concorrenza, ma hanno avvertito la necessità di promuoverla, non dovremo stupirci se ciò sarà fatto anche attraverso spot pubblicitari,
inserzioni sulla stampa, conferenze e quant’altro, per finire con l’insegnamento nelle scuole di ogni ordine e grado.
In realtà, i mercati e la concorrenza andrebbero disciplinati e non
tutelati e promossi, come peraltro si è tentato di fare in precedenti
32
tentativi di riforma, per evitare che i rapporti economici si trasformino in una guerra di tutti contro tutti avallata e incoraggiata dalla
stessa Costituzione.
Del resto, sarebbe interessante indagare come la Repubblica fondata
sul lavoro possa, allo stesso tempo, tutelare i lavoratori, i risparmiatori e i mercati finanziari; richiedere “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2) e
promuovere allo stesso tempo la concorrenza.
Sinora la Storia si è incaricata di farci sapere che non è possibile. E
i recenti disastri bancari confermano che i mercati finanziari, in
nome della libera concorrenza e della competitività, hanno divorato
non solo i risparmi, ma le stesse vite dei lavoratori e dei
risparmiatori.
Quali risparmi?
I risparmi sono il chiodo fisso di ogni governo. Ce lo chiede l’Europa, lo richiede l’enorme debito pubblico. I soldi non bastano mai
e bisogna risparmiare persino sulle spese necessarie: sui costi delle
istituzioni che, per loro natura, non potranno mai essere abolite.
Si ritiene che i parlamentari siano troppi e che costino troppo. Ma
tagliare la rappresentanza politica e risparmiare sulle elezioni significa segare le gambe non ai politici, ma alla “sovranità popolare”.
Sicuramente c’è un problema di moralizzazione della vita politica,
che necessita di un maggiore senso dello Stato e di maggiore sobrietà, rifuggendo da ingiustificati privilegi. Ma qui si è di fronte ad
un problema di ordine etico e non economico. Dire che uno Stato
non ha i soldi per pagare le proprie istituzioni ci ricorda l’esempio,
caro a Ezra Pound, dell’ingegnere che non può progettare una strada
per mancanza di chilometri.
La verità e ben altra e molto più grave di quanto si pensi. I soldi
33
mancano, e non solo per le istituzioni, perché lo Stato non è più sovrano: lascia che siano altri, il sistema bancario, a rifornirlo di denaro che, benché creato dal nulla, dovrà essere restituito con gli
interessi, come fosse espressione di una reale ricchezza sottostante.
Lo ha detto chiaramente Maurice Allais, premio Nobel per l’Economia: “L’attuale creazione di denaro dal nulla operata dal sistema bancario è identica alla creazione di moneta da parte dei falsari. La
sola differenza è che sono diversi coloro che ne traggono profitto”.
Chi ne trae profitto sono coloro che vivono da parassiti sul debito
pubblico da loro stessi inventato, creato e alimentato. E chi ha trovato la gallina dalle uova d’oro non ha alcun interesse a farla morire.
Il debito pubblico, pertanto, non potrà e non dovrà mai essere eliminato essendo questa una prospettiva che non tornerebbe loro utile.
Adesso, forse, è più facile capire come la polemica sui costi della
politica sia montata ad arte per mantenere invariato il Sistema attraverso il discredito sistematico non solo dei politici indegni ma della
stessa politica nel suo insieme. In questo clima, il popolo sovrano,
nel suo furore punitivo, viene indotto a fare come quel marito che
per fare dispetto alla moglie si privò degli attributi virili.
Ma veniamo ai pretesi risparmi che deriverebbero dalla riforma. Innanzitutto, c’è da notare che, comunque ci si voglia districare tra le
cifre, i calcoli meno attendibili sono proprio quelli di fonte governativa.
L’on. Maria Elena Boschi, Ministro per le riforme costituzionali, rispondendo l’8 giugno 2016 nell’aula della Camera ad un’interrogazione sui costi della riforma, si è lasciata andare ad una stima di circa
500 milioni nell’immediato, aggiungendo che “Fondo monetario internazionale, Ocse e Unione europea indicano nei prossimi dieci anni
una crescita dello 0,6 grazie alle nostre riforme”
Stime, queste, del tutto disallineate rispetto ai calcoli della Ragio34
neria dello Stato che, in un rapporto del 28 ottobre 2014, stilato su
richiesta dello stesso ministro, ha calcolato un risparmio complessivo di 57,7 milioni di euro, di cui “circa 49” derivanti dalla riforma
del Senato.
In ogni caso, si tratta di cifre molto al di sotto, ad esempio, dei 72
(settantadue) milioni al giorno (!) che l’Italia spende per finanziare
la NATO. Molto al di sotto dei circa 159 milioni al giorno (!) spesi
nel 2015 per contribuire al “sostegno finanziario” di altri paesi
dell’Unione europea. Molto al di sotto degli oltre 200 (duecento)
milioni al giorno (!) pagati per interessi sul debito pubblico, che cresce di circa 387(trecentottantasette) milioni al giorno (!).
Non sarà certo la riforma costituzionale che potrà salvare l’Italia
dalla bancarotta. Non basta un guscio di noce per svuotare il mare.
Ma i risparmi reali potrebbero essere rivisti ancora al ribasso, perché
nelle spese non vengono quantificati i costi delle trasferte pendolari
settimanali dei senatori, che dovranno dividersi tra le proprie amministrazioni e la loro nuova attività legislativa.
Come si vede, attenendoci ai calcoli della Ragioneria di Stato, che
non può essere certo accusata di partigianeria antigovernativa, l’abolizione dell’elezione diretta del Senato farà risparmiare non più di
un caffè l’anno per ogni cittadino italiano; l’intera riforma varrà
poco più di un caffè. A fronte, però, di un notevole “risparmio di
democrazia”.
35
CONCLUSIONI
Ormai siamo alla vigilia del referendum sulla riforma costituzionale
ed occorre esprimere un voto consapevole, evitando le false suggestioni ed il condizionamento psicologico messo in atto dai grandi
mezzi di informazione.
Bisogna innanzitutto evitare di cadere nella trappola della formulazione del quesito referendario, elaborato e proposto secondo lo
schema delle domande retoriche, che contengono la risposta nella
domanda stessa. Ed il quesito sembra portare la mano dell’elettore
a votare sì: “Approvate il testo della legge costituzionale concernente: Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario,
la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi
di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal
Parlamento ecc. ?”
Nei precedenti due referendum costituzionali la domanda era stata
posta in maniera decisamente più sobria ed asettica chiedendo agli
elettori di esprimersi su: “Modifiche al Titolo V della parte seconda
della Costituzione” (2001); “Modifiche alla parte II della Costituzione”.
Anche in questo si può riscontrare l’ennesimo tentativo di raggiro
per far passare una riforma concepita male, scritta male e approvata
attraverso assurde forzature dei regolamenti parlamentari.
Nelle poche pagine che precedono, si è voluto dare un modesto
36
contributo alle ragioni del no utilizzando un approccio “non conforme” e “politicamente scorretto”.
L’anima solidaristica, che ha trovato ospitalità nella prima parte
della Costituzione del 48 e che avrebbe dovuto garantire un solido
stato sociale, è stata travolta dall’anima internazionalista e anti nazionale.
Purtroppo, la “Costituzione più bella del mondo”, attraverso le numerose modifiche, si è sviluppata in una direzione piuttosto che in
un’altra. Per noi, nella direzione sbagliata. Per affidarci a delle istituzioni non rappresentative degli interessi nazionali, preferibilmente “poste al riparo dal processo elettorale”, per usare
un’espressione di Mario Monti che vede nelle istituzioni non elette
dell’Unione europea l’esempio da seguire. Quella stessa Unione
che, secondo il suo collega e sodale J. M. Barroso, “è un antidoto
ai governi democratici” che “sbagliano spesso”.
Adesso i poteri sovranazionali e internazionali intervengono a
gamba tesa nel dibattito che dovrebbe essere tutto italiano, spesso
adottando toni ricattatori e velate minacce.
Per non farci sbagliare.
Questa riforma “ce la chiede l’Europa”; ce la chiede il Fondo monetario internazionale; ce la chiede l’Ocse; ce la chiedono i colossi
bancari; ce la chiedono le agenzie di rating; ce la chiedono i grandi
investitori; ce la chiede persino l’ambasciatore USA, alto rappresentante dello Stato nostro “liberatore” e “protettore”. Ma soprattutto,
ce la chiedono i mercati: il vero motore “che move il sole e l’altre
stelle”.
Sono davvero in molti, sicuramente troppi, soprattutto stranieri, a
chiederci di accettare di buon grado la riforma di Renzi e di votare
sì al referendum, “preoccupati”, chissà perché, per le vicende
italiane.
37
In realtà, si vuole che l’Italia prosegua il suo cammino verso
l’eutanasia non solo del sistema democratico, ma persino della politica stessa come strumento sovrano per decidere della vita e del destino di una nazione.
Votare NO è un preciso ed ineludibile dovere.
38
Indice
NO ALLA RIFORMA DI PINOCCHIO
Introduzione
p. 3
MODIFICHE AL TITOLO I DELLA PARTE II
DELLA COSTITUZIONE (Ordinamento della Repubblica)
Il nuovo Senato in sintesi
p. 9
Il Senato non eletto dal popolo
p. 10
Distorsione della rappresentanza
p. 11
Il partito del Presidente
p. 12
Cumulo di cariche
p. 13
Senatori giovani ed immuni
p. 14
Senato “europeo”
p. 16
Bicameralismo, semplificato o complicato?
p. 18
Siamo lontani da una vera semplificazione legislativa p. 19
Allargamento della partecipazione popolare?
p. 21
Elezione del Presidente della Repubblica (art. 83)
p. 22
MODIFICHE AL TITOLO V DELLA PARTE II
DELLA COSTITUZIONE
Soppressione delle province?
La riforma della riforma dell’art. 117
Clausola di supremazia
La concorrenza innanzitutto
Quali risparmi?
p. 25
p. 26
p. 29
p. 31
p. 33
CONCLUSIONI
p. 36
Nato a Militello Rosmarino (Me) il 2 settembre 1950
Laurea in lettere classiche.
Eletto alla Camera dei deputati nella XII, XIII e XIV legislatura.
Sottosegretario alle Riforme Istituzionali nel terzo
Governo Berlusconi (2005).
Finito di stampare
nel mese di ottobre 2016
presso la
TIPOGRAFIA GRAFICA 2000
Via F.lli Bandiera 37 - 98070 Capri Leone (ME)