Untitled - Spaghetti Writers

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Marco cresce
Dino Ranieri Scandariato
Diede un’occhiata all’orologio. Mancano pochi minuti, si disse.
«Sarò breve… e conciso», sussurrò brandendo il coltellino svizzero di suo padre. Si sedette su uno
sgabello piegandosi leggermente in avanti. Era in vena di speculazioni filosofiche quel giorno,
tant’è vero che, contemplando la corta lamella, ne paragonò la lunghezza alla brevità della vita.
Cercò i suoi occhi nell’acciaio inossidabile, ma l’acciaio inossidabile non è vetro: vi lesse solo fasci
di ebeti ombre opache, qualcosa di simile a ciò che un cieco vede quando guarda la luce. Lui
credeva che fosse l’epifania della sua anima. Era solo acciaio inossidabile.
Alzò gli occhi e vide il suo migliore amico legato a una sedia, imbavagliato. Non sai quanto mi
dispiace vederti in questo stato, si disse. Ma ci sono leggi naturali che non possono essere
trasgredite, lo capisci? Ti prego, non dare a me la colpa di tutto ciò.
Il suo migliore amico lo guardava per forza di cose muto. Nonostante il suo ridicolo costume – un
completino da coniglietta con shorts che lasciavano scoperte due lunghe e ossute gambe pelose, un
top cosparso di brillantini, bianchi guanti e guance imbellettate, rossetto e una cuffietta che fungeva
da base per le orecchie posticce – e nonostante le percosse a lungo subite, nonostante il sangue si
confondesse già con il labello e gli occhi fossero ormai inespressivi, malgrado ciò, e suo malgrado,
la persona sepolta viva sotto una simile maschera aveva tutta l’aria di pensare ancora. Di sopportare
ancora. Peggio, di amarlo ancora.
Qualcuno bussò alla porta della stanza.
«Marco, è ora!» disse la voce della sua coscienza e un istante dopo anche chi da dietro la porta
vociava.
“Sono circondato!”, pensò Marco, “Non posso salvarmi. Ma non posso nemmeno condannarmi allo
scherno di chi mi vuol male”. La lametta tremava nella sua mano. L’anima tremava nella sua tomba.
“E così sia!”
Si alzò dallo sgabello e si avvicinò al suo migliore amico. Lo guardò con tutto l’amore che aveva
represso e che ora, come una bottiglia di champagne stappata, traboccava da ogni suo poro in forma
di paura. Gli tolse il bavaglio dalla bocca.
«Vuoi dire qualcosa?»
Lui continuava a guardarlo con quel suo sguardo che diceva tutto senza dire una parola. Che
coraggio morire per mano di chi ami senza nemmeno un lamento. Senza nemmeno dedicare un
ultimo “ti amo” al tuo boia. Che condanna a morte per chi t’uccide, pensò Marco.
Sollevò il coltellino svizzero di suo padre e colpì al cuore il suo migliore amico.
Una, due, tre, quattro, cinque volte. Il corpo sobbalzò una due tre volte: il quarto e il quinto colpo
furono disperazione gratuita. Il coltellino cadde a terra.
«E ora a noi due…» disse guardando verso la porta.
Prese la pistola e se la mise sotto i jeans.
***
«Ma che stavi facendo in camera tua, coniglietto mio?»
«Smettila di chiamarmi così, mamma: sono cresciuto. Ho trent’anni, non lo sai?» rispose Marco
sedendosi a tavola e accendendo la televisione.
«Ma resterai sempre il mio cucciolino, il mio bel coniglietto!» disse la signora Paterna versando gli
spaghetti nel piatto del suo figlio prediletto, il primo e l’unico. «Ne vuoi ancora?»
«No, mamma, non ho poi tanta fame oggi: ora, per favore, siediti e mangia anche tu.»
In televisione davano Dragon Ball, il suo anime preferito. Lo conosceva a memoria ormai da
decenni, ma continuava a seguire e riseguire tutte le puntate. Costringeva la signora Paterna a
pranzare alle 14:30 solo per poter conciliare cibo e super sayan. La sigla, come l’overture di
un’opera wagneriana, lo estraniava dalla contingenza del suo qui e ora per condurlo nell’epico
mondo ariano di quell’Anello del Nibelungo nipponico, ma non a tal punto da impedirgli di sentire
la voce della madre che gli parlava dall’altro mondo, quello finto della realtà.
«Come sta il tuo amico?»
«Mamma, lo sai che mentre guardo il mio programma non voglio essere disturbato.»
«Ma c’è la sigla…»
Marco batté il pugno sulla tavola senza staccare gli occhi di dosso dalla Tv. La signora Paterna
tacque. Meccanicamente il suo prediletto si portò una forchettata di spaghetti alla bocca.
«Oh, tesoro, ti sei sporcato di sugo la maglietta!»
Marco abbassò lo sguardo.
…una nuova realtà / con le sue verità / scaverà nel tuo passato…
Il sangue del suo migliore amico colava ancora dalla maglietta come lacrime piante da tutta una
vita.
…e guardando più in là / il tuo cuore saprà / ritrovare Dragon Ball!
«Non è sugo…» disse con noncuranza.
La signora Paterna si alzò da tavola e prese una spugnetta.
«Ora ci penso io, coniglietto mio.»
…l’oscurità splendente diverrà con te / perché la tua fiamma oramai / è più ardente che mai!
«Mamma, levati dai coglioni o ti ammazzo, hai capito?»
«Marco, non si dicono le parolac…»
Più veloce dell’articolazione della frase, il prediletto sfoderò la pistola dalle mutande e sparò in
faccia alla madre.
...what’s my destiny / Dragon Ball / tu non ci provi mai / Dragon Ball / maturerai / e già lo sai / il
buio vincerai!
La signora Paterna mugugnò e scivolò all’indietro.
«Sono cresciuto, mamma. Adesso so badare a me stesso.»
Marco riprese a mangiare. Poi sentì un gemito. Un braccio si posò sulla tovaglia minacciando un
agguato di rapace. Guardò in basso e vide quello che restava della faccia di sua madre, un grumo di
carne marcita a forma di punto interrogativo. La vecchia rideva con quella metà della bocca che le
restava.
«Ma resterai sempre il mio cucciolino, il mio bel coniglietto!»
Si tolse dal viso la freccetta a ventosa che il figlio le aveva sparato in faccia e corrugò la fronte.
«È questo il modo di trattare tua madre, razza di ingrato!» Prese il telecomando e spense la
televisione: «E adesso vai in punizione in camera tua, signorino! E lascia gli spaghetti sul tavolo: li
mangerai stasera, freddi!»
Marco si alzò da tavola con disinteresse. E tornò in camera sua.
Vi trovò il suo peluche preferito, il coniglietto che la mamma gli aveva regalato quando era piccolo,
tutto smembrato, con l’imbottitura che gli usciva fuori: i due occhi smeraldini lo guardavano gioiosi
e lui non poté sopportarlo. Lasciò cadere la pistola giocattolo. Si fiondò sul peluche con avidità e lo
strinse singhiozzando.
«Cosa ti ho fatto, Marcolino! Oh dio! Devo portarti da un dottore…»
Marcolino non rispose. E come poteva? Era morto. Marco tentò di rianimarlo, ma in questi casi non
c’è niente da fare. Cercò i suoi occhi nei bottoni smeraldini del peluche, ma i bottoni del peluche
non sono vetro: vi lesse solo fasci di ebeti ombre opache, qualcosa di simile a ciò che un cieco vede
quando guarda la luce. Lui credeva che fosse l’epifania della sua anima. Ma capì ben presto che
erano solo i bottoni del peluche.
Era cresciuto.