medicina_e_sanita_4_2009:intolleranze alimentari

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CEFORMED
CENTRO REGIONALE DI FORMAZIONE
PER L’AREA DELLE CURE PRIMARIE
Via Galvani n. 1 – 34074 MONFALCONE (GO)
In questo numero di “Medicina e Sanità” continuiamo a pubblicare, analogamente ad altre riviste mediche, delle pagine di educazione sanitaria rivolta ai pazienti, che possono essere staccate, fotocopiate o esposte nelle sale d’attesa e consegnate ai pazienti
L’informazione per il paziente:
Intolleranze alimentari
A cura di Gianni Tubaro, MMG Codroipo
Le intolleranze alimentari sono le “allergie non allergiche”. Questa definizione risale al 1991, quando l’allergologo Kaplan
presentò un suo articolo in cui descriveva l’esistenza di stati allergici che non era possibile correlare alle immunoglobuline
E (IgE).
Quindi, il primo punto da comprendere è che allergie tradizionali e intolleranze alimentari non sono la stessa cosa.
Se una sostanza verso la quale si è intolleranti raggiunge il nostro organismo le difese (i globuli bianchi, in particolare i linfociti) vengono distolte dai loro normali compiti per far fronte all’aggressore; in tal modo si crea una diminuzione delle difese
immunitarie generali.
Le intolleranze accertate - Attualmente la medicina convenzionale ha evidenziato intolleranze solo nei casi del lattosio
e del glutine (celiachia). Anche per queste due intolleranze occorre comunque procedere con i piedi di piombo ed evitare
di attribuire ad esse malesseri del soggetto; non a caso in entrambi i casi molti sono i falsi positivi a test troppo “disinvolti”.
A tutt’oggi non esiste una causa dimostrata e da tutti accettata sulla natura delle intolleranze (fra le più gettonate, (l’introduzione precoce del latte vaccino, le infezioni intestinali virali o batteriche, l’uso massiccio di antibiotici, lo stress ecc.) e ciò è
fonte di gravi contraddizioni e di posizioni scientificamente prive di valore.
Intolleranze e patologie
Il campo delle intolleranze alimentari è in continua evoluzione; secondo chi opera con le intolleranze, il 40-50% della
popolazione ne sarebbe afflitto, secondo la scienza ufficiale
non più del 5-10% avrebbe disturbi dovuti alle intolleranze.
Poiché le intolleranze alimentari sono responsabili di una
minor difesa dell’organismo, alcune patologie potrebbero
essere significativamente interessate: riniti, asma, congiuntiviti, dermatiti, dermatosi, eczemi, psoriasi, coliti. Per altre si
ipotizza l’importanza del ruolo degli aspetti immunitari dell’alimentazione, ma sembra ancora prematuro inserirlo fra i
fattori prioritari di considerazione. Ciò che è importante
notare è che la relazione fra patologia e intolleranza è probabilistica nel senso che la patologia può dipendere dall’intolleranza, non dipende necessariamente da essa. Utilizzando
la legge di guarigione totale, il soggetto che soffre di una
patologia e al quale è stata diagnosticata un’intolleranza, nel
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momento in cui elimina l’intolleranza, deve guarire dal suo problema: un generico leggero miglioramento o un semplice
allungamento delle recidive deve far continuare l’indagine delle cause al di fuori del campo alimentare. In altre parole non si
deve incorrere nell’errore di monocausa, rapportando ogni stato del soggetto al suo profilo alimentare.
Credi di avere un’intolleranza alimentare? - Abbiamo esaminato 86 casi di soggetti che lamentavano presunte intolleranze (nessuno di essi era risultato intollerante ai test per la celiachia o per il lattosio condotti con i metodi della medicina
ufficiale) e che erano risultati positivi a test vari nell’ambito della medicina alternativa. Molti di essi lamentavano sintomi
genericamente riconducibili all’apparato digerente, altri stanchezza, altri sintomatologia dermatologica o respiratoria. Alla
fine dell’esame un risultato eclatante: NESSUNO di loro aveva un buon stile di vita. Anziché pensare a intolleranze avrebbero sicuramente fatto meglio a migliorare prima il loro stile di vita.
I test per le intolleranze
Esistono diversi test che promettono di rivelare le intolleranze alimentari. Nella
medicina convenzionale i test attualmente riconosciuti sono rivolti a un solo alimento
(lattosio, glutine); ciò è garanzia di serietà. In campo non convenzionale si pretenderebbe con un’unica tipologia di test di scoprire tutte le intolleranze possibili.
Quando si parla di “test per le intolleranze” (al plurale e generico) si vuole indicare
un test che vada bene per tante intolleranze. Limitandoci a questa definizione, è quindi
importante distinguere fra:
• test non convenzionali
• test validabili convenzionalmente.
I primi (che chiameremo non scientifici) non hanno basi scientifiche (cioè non spiegano scientificamente i motivi dell’intolleranza; per esempio dire che l’intolleranza è prodotta da tossine che si accumulano nell’organismo è una spiegazione di
validità nulla, se non si spiega il meccanismo d’accumulo, di quali tossine si tratta, se non le si rilevano realmente ecc.). Si
basano su concetti generici molto discutibili che tendono a dare di un fenomeno una determinata spiegazione (l’intolleranza) fra le tante possibili (errore di partigianeria).
Non sono mai sottoposti a test di validazione su campioni di popolazione molto numerosi, anzi chi li promuove evita
queste verifiche.
I secondi (test scientifici) sono molto recenti e sono la risposta della scienza ufficiale al dilagare (spesso facilitata da
enormi interessi commerciali) di test non scientifici. Negli ultimi anni sono nati alcuni test che, partendo da una spiegazione
dell’intolleranza, si prefiggono di rilevarla. Purtroppo, nonostante l’entusiasmo dei promotori, sono ancora sotto esame e
nulla di definitivo si può affermare.
Vediamo le difficoltà dei test per le intolleranze.
La sensibilità - È la probabilità che soggetto malato (quindi intollerante) presenti un test positivo. Se il test è affidabile
dovrebbe essere il 100%. Poiché si conosce e si riesce a diagnosticare l’intolleranza al glutine (celiachia), si può usare questa
forma di intolleranza per valutare la sensibilità dei test. I test non scientifici hanno dimostrato sensibilità che non arrivano
mai al 30%, nonostante siano molto propensi a giudicare un soggetto intollerante a qualche alimento. Alcuni test scientifici
sotto esame sembra possano arrivare al 70%, una percentuale comunque non soddisfacente. Ricordiamo che una percentuale non indica affatto un successo: anche inventando un test a caso, è possibile giudicare intolleranti individui celiaci con
percentuali dell’ordine del 20-30%. Il trucco è semplice: basta considerare l’80% della popolazione intollerante a qualcosa,
privilegiare le intolleranze più conosciute e si azzeccherà almeno nella metà dei casi di celiachia.
La specificità - È la probabilità che un soggetto sano presenti un test positivo. Dovrebbe essere zero. Questo è il punto
dolente dei test anti-intolleranze.
I falsi positivi sono quella percentuale (variabile da test a test) che risulta intollerante, ma non presenta problemi, cioè è
sana. Per i test non scientifici tale percentuale è molto alta, circa l’80%: se prendiamo cioè 100 soggetti sani e li sottoponiamo al test, ben 80 risultano malati! A questo punto il test diventa scarsamente affidabile anche sui malati.
La tipologia degli alimenti - Alcuni test come il VEGA vogliono verificare l’intolleranza su alimenti complessi, per esempio il cioccolato. Il problema è come fare a capire se uno è intollerante a latte, cacao, nichel, zucchero, lecitina di soia, o grassi idrogenati vegetali. Altri (come il DRIA) raffinano gli alimenti. Però anche se si semplificano gli alimenti, si tratta sempre di
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cibi costituiti da decine di sostanze. E se si scoprisse che l’intolleranza è per una certa vitamina (per esempio chi è intollerante al lievito potrebbe essere intollerante a vitamine del gruppo B contenute nel lievito) o per un certo aminoacido, che senso
ha testare alimenti anche semplici che contengono decine di vitamine o decine di aminoacidi?
La quantità degli alimenti - Generalmente si arriva a 30-40, nei test più costosi a 100-150. Non è credibile scientificamente che ne bastino così pochi. A volte si ragiona per classi (i formaggi), ma ciò nasce dal non sapere esattamente ancora
qual è la vera sostanza che produce l’intolleranza. Analizzare il grana e supporlo rappresentante di tutti i formaggi (ricotta,
pecorino, groviera) dal punto di vista scientifico è l’equivalente per un biologo analizzare un topo anziché un elefante (tanto
sono tutt’e due mammiferi). Basta pensare che gli additivi sono centinaia per capire come è rozzo definire una persona
intollerante ai salumi: e se fosse intollerante ai conservanti contenuti in essi, piuttosto che all’alimento in sé (la maggior
parte dei salumi contiene nitriti e nitrati). È molto più ragionevole pensare che un soggetto sia intollerante a un additivo (e,
ripetiamo, sono centinaia) che a un alimento.
Le estensioni - Molti terapeuti hanno visto che eliminando gli alimenti positivi la situazione del paziente non migliorava
(già questo è un limite al test); allora hanno esteso gli alimenti proibiti a partire dall’alimento trovato positivo. A prescindere
dal fatto che se le estensioni sono troppo vaste l’alimentazione diventa un incubo, che senso ha escludere alimenti che
sono risultati negativi? Per esempio l’intolleranza al solo lievito chimico genera l’esclusione di tutto ciò che è fermentato;
genera anche l’esclusione del lievito di birra, del formaggio grana, del dado da brodo ecc. In genere ciò viene spiegato con il
fatto che nel meccanismo di somma infiammatoria che si determina mangiando cibi verso cui esiste intolleranza, ogni cibo
che determina fermentazione ha un minimo effetto o grande effetto nel determinare la sommatoria finale. Spiegazione a
livello di stregoneria, piuttosto che di scienza, poco convincente perché a questo punto il cibo incomincia a diventare un
GRANDE NEMICO.
L’incompatibilità - I vari test sono fra di loro incompatibili nel senso che non danno gli stessi risultati. Questa non è una
prova di condanna generale (potrebbe essercene uno valido e gli altri no), ma deve far riflettere. Inoltre molti test non scientifici risalgono a 40-50 anni fa: nonostante ciò non sono riusciti ad affermarsi con credibilità.
Riportiamo un riassunto dall’inserto Salute di Repubblica.
Vega - In due recenti studi (2001-2002) la metodica non si è dimostrata in grado di distinguere i sani dai malati allergici ad
acari o gatto.
Citotest - Nulla dimostra che l’allergia alimentare sia sostenuta da meccanismi di citotossicità; il test non individua reazioni
immunologiche.
Test del capello - In uno studio del 1987 (pubblicato su Lancet) si è valutata l’incapacità di discriminare soggetti affetti da
allergie alimentari al pesce da soggetti sani. In 5 diversi laboratori stesso negativo risultato.
DRIA - Uno studio pubblicato dal British Medical Journal (1988) ha dimostrato che la capacità di discriminare pazienti con
patologie è “puramente casuale”.
Dosaggio IgG specifiche - Almeno 4 studi controllati evidenziano che anticorpi IgG specifici per i comuni allergeni alimentari
possono essere riscontrati in soggetti sani e in altre patologie. Il loro dosaggio non fa parte della diagnostica dell’allergia alimentare.
Iridologia - Una rassegna di studi controllati disponibili (4) ne esclude la validità diagnostica.
Perché hanno successo? “Offrono una risposta ai malesseri“ risponde Carolina Ciacci, gastroenterologa al Federico II di
Napoli “sono facilmente accessibili, si decide da soli quando farli, basta pagare. Io, però, li vieterei“.
Intolleranze: facciamo il punto
Le intolleranze sono molto di moda e purtroppo una parte della medicina convenzionale le sopravvaluta. I fatti a oggi
certi sono:
• Nessuno sa cosa sono.
• Sono note scientificamente l’intolleranza al glutine (celiachia) e quella al lattosio; alcune allergie vengono scambiate
per intolleranze (come quella per il nichel).
• I test antintolleranza non funzionano.
• Il 90% delle presunte intolleranze sono intolleranze di secondo livello o false intolleranze.
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Nessuno sa cosa sono
Le spiegazioni che danno i fautori delle intolleranze sono di una genericità assoluta, senza termini scientifici precisi (i
pochi presenti sono negativi, del tipo “le intolleranze NON sono ecc.”), a metà strada fra la spiegazione di uno stregone e la
spiegazione di un “filosofo” alimentare. Leggiamone alcune prese dalla rete e pubblicate su siti di un certo spessore. I nostri
commenti in rosso.
L’intolleranza alimentare invece agisce in relazione alla quantità di alimenti non tollerati ingeriti e con un fenomeno di accumulo di cosiddette “tossine” nell’organismo… Le cosiddette tossine nessuno le specifica mai, né chimicamente né biologicamente.
L’intolleranza alimentare non è esattamente un’allergia, ma può mantenere in piedi un’allergia vera e propria. Vi sembra
preciso???
L’intolleranza alimentare è sempre dose-dipendente ed è determinata da molecole particolari farmacologicamente attive presenti negli alimenti, oppure conseguente ad un disturbo della digestione o dell’assorbimento dei principali costituenti alimentari.
Quali molecole? Nessuno lo dice mai...
L’ultima definizione, forse la più precisa, spiega chiaramente perché le intolleranze sono una bufala.
Infatti dire che si è intolleranti a un cibo è un’approssimazione scientifica inaccettabile.
Un medico che dice a un paziente che è intollerante per esempio al pomodoro è equivalente a un medico che si esprime
su una forma tumorale dicendo che è “un brutto male”.
Infatti non è mai l’alimento che può causare intolleranza, ma una molecola contenuta nel cibo. Non si è intolleranti
al frumento, ma al glutine, un gruppo di proteine contenute in alcuni cereali. Questa banale constatazione fa crollare il tentativo di mettere in piedi test per le intolleranze basati su cibi (tutti quelli che ci sono in giro!).
Infatti non ha senso provare il paziente con un cibo, si deve provarlo con una molecola fisiologicamente attiva. Solo che
le molecole possibili sono milioni. Non tutti i broccoli sono uguali, alcune varietà contengono sostanze che altri non contengono: che senso ha parlare di intolleranza al broccolo? Pensiamo alle decine di pani diversi con ingredienti diversi. Che
senso ha parlare di intolleranza al pane?
Quindi:
diffidate di chi vi dice che siete intolleranti a un cibo: scientificità nulla!
Le intolleranze note
Sono quella al glutine e al lattosio. Si può ipotizzare che se ne scopriranno altre, ma è importante notare che queste
intolleranze si rivelano con esami molto precisi. Per esempio per l’intolleranza al glutine, la diagnosi di celiachia si effettua
mediante dosaggi sierologici: gli AGA (anticorpi antigliadina di classe IgA e IgG), gli EMA (anticorpi antiendomisio di classe
IgA). Recentemente è stato messo a punto un nuovo test per il dosaggio di anticorpi di classe IgA, gli Anti-transglutaminasi.
Insomma la diagnosi avviene non certo con l’analisi di un capello o con test ottimistici e sbrigativi. Notiamo comunque
ancora una volta che il test ricerca entità ben più fini del generico concetto di cibo.
Un consiglio ai fautori delle intolleranze:
invece di colpire i cibi, cercate di studiare le eventuali molecole (sostanze) che possono causare il problema.
I test non funzionano
A prescindere dal tipo di test e dalla stupenda spiegazione che vi danno, dovrebbe essere ormai chiaro che un test non
dovrebbe indagare il cibo, ma le centinaia di sostanze contenute in esso.
Per saperne di più abbiamo aggiornato la situazione dei test sulle intolleranze.
Le false intolleranze
Ma allora perché il concetto di intolleranza ha così successo? Per i seguenti motivi:
• promette di risolvere tante fastidiose patologie in modo semplicistico (elimino un cibo!).
• È comunque supportato da terapeuti che, grazie alla loro preparazione, possono facilmente dare spiegazioni a chi è
dotato di scarso spirito critico. In effetti, i test antintolleranze a una prima passata sembrano “credibili”.
–4–
• Eliminando una serie di cibi, molti soggetti stanno effettivamente meglio.
La comprensione dell’ultimo punto è fondamentale. Ma
come? Se molte intolleranze sono false, perché il soggetto
migliora eliminando una serie di alimenti?
Spieghiamolo con un’analogia.
Consideriamo Tizio, quarantenne in sovrappeso; gli facciamo fare uno sprint di 100 m.
Al termine Tizio è paonazzo, respira affannosamente e
ha sensazioni spiacevolissime.
Soluzione sbrigativa e disastrosa: Tizio è intollerante
alla corsa, “non correre più!” è il consiglio che ci sentiamo
di dargli.
Con questa soluzione Tizio non corre più, ma dopo una ventina di anni ha un infarto e muore mentre sale una semplice
rampa di scale. Cos’è successo? Tizio non era intollerante alla corsa, era semplicemente un sedentario non allenato; il consiglio (non correre più!) ha addirittura facilitato l’infarto, perché Tizio ha continuato a vivere nella sedentarietà e con un’alimentazione scorretta.
Ora dovrebbe essere chiaro il concetto di intolleranza di secondo livello: non è una patologia, ma è un sintomo di
una patologia.
E c’è una bella differenza fra malattia e sintomo!
Non a caso, l’ultima definizione che abbiamo dato all’inizio dell’articolo parla di disturbi dell’assorbimento o della digestione.
Se per esempio il soggetto ha problemi gastro-intestinali è ovvio che la sua digestione non avviene correttamente; in
particolare alcuni cibi possono essere mal digeriti e provocare tutta una serie di sintomi spiacevoli.
Eliminandoli, la qualità della vita del soggetto migliora, ma resta sempre un soggetto debole con una situazione dell’apparato digerente non ottimale.
L’intolleranza all’alimento non è cioè la causa del problema, ma è uno delle conseguenze (ed è perciò detta di secondo
livello).
Si pone pertanto una domanda fondamentale: è più opportuno eliminare l’alimento o la causa che è alla radice del problema digestivo? Con un’analogia spieghiamo perché è preferibile rimuovere la causa e costruirsi un corpo forte e sano
piuttosto che fuggire ed eliminare tutta una serie di alimenti che il nostro corpo non sa gestire. Si consideri un depresso e la sua “intolleranza alla vita”. Qual è quello psichiatra che consiglierebbe al depresso, visto che è intollerante alla vita, di
suicidarsi?
Analogamente è una situazione semplicistica e penalizzante eliminare una serie di alimenti senza capire perché il nostro
fisico li rifiuta e senza cercare di educarlo ad accettarli (quando ciò è possibile, per esempio quando trattasi solo di disabitudine nel trattare l’alimento).
Quali sono le cause delle intolleranze di secondo livello?
Riassumiamole.
• Disturbi dell’apparato digerente (in genere lievi, ma non sempre; si pensi a una diverticolosi, così comune nella
popolazione senza che possano esserci sintomi particolarmente appariscenti nei casi agli esordi o comunque non
gravi). Soluzione: indagare con un gastroenterologo.
• Disturbi emotivi. Ansia, depressione, stress o una situazione psicologica non ottimale si ripercuotono immancabilmente nella gestione dei cibi. Non a caso molti “intolleranti” riferiscono che alcune volte riescono a “digerire” un certo
alimento e altre volte no. Se, travolta da un ritmo di vita sbagliato, una persona non ha tempo per la cura del proprio
corpo come può sperare che questo funzioni bene? Soluzione: cercare un maggiore equilibrio di vita.
–5–
• Scorretto stile di vita. Chi ha una cattiva alimentazione, è sedentario e in genere ha una visione troppo soft dell’esistenza è sicuramente predisposto a una cattiva gestione dei cibi. Se una persona non supera il test del moribondo
come può sperare che il suo apparato digerente funzioni alla perfezione. Prima di parlare di intolleranze, provate veramente a cambiare vita, a diventare più forti. Chiedetevi: intolleranza ai cibi o intolleranza alla vita?
Nel 1900 la vita media degli italiani era di 43 anni, oggi è quasi raddoppiata. Ovvio che i progressi della medicina convenzionale hanno permesso di salvare molte giovani vite che in altri tempi non ce l’avrebbero fatta. Senza scomodare inquinamenti o, nostalgicamente, condizioni di vita precarie rispetto al passato, è lecito supporre che nella popolazione ci sia una
fascia di soggetti più deboli, la fascia che cento anni fa non sarebbe riuscita a superare i 30-40 anni.
E le vere intolleranze?
Come detto, non si può escludere che in futuro si troveranno altre sostanze (non cibi!) che possono causare intolleranze, anche se la percentuale della popolazione con vere intolleranze risulterà sempre piccola. Chi pensa di essere un vero
intollerante (non valgono cioè le tre cause possibili delle false intolleranze), può cercare di scoprire qualcosa con test empirici, ma razionali; lasciando perdere quelli basati su pseudoscienza.
La situazione delle intolleranze è come quella della medicina del XVII sec. nei confronti della peste.
Tante belle teorie che non risolvevano nulla.
I pregiudizi alimentari
Una ricerca del CIRM (1999) ha evidenziato che sono purtroppo ancora molti i pregiudizi alimentari degli italiani. Senza
riportare tutti i dati della ricerca, sottolineeremo i risultati più eclatanti, quelli cioè dove non esiste nemmeno un fondamento di verità in una proposizione ritenuta vera (tra parentesi la percentuale di italiani che incorre nell’errore).
Il pesce fa bene alla memoria perché contiene fosforo (81%)
Non esiste nessuna relazione fra fosforo e memoria; inoltre il pesce non è certo l’alimento
che contiene più fosforo: pistacchi, piselli, carne e uova ne contengono di più.
Le vitamine della frutta sono nella buccia (70%)
Contrariamente a quanto si crede, la frutta non è ricchissima di vitamine, contenute
soprattutto nella polpa. La buccia è invece ricca di fibre insolubili.
Lo zucchero di canna e il miele sono migliori dello zucchero bianco (65%)
Questo pregiudizio è ampiamente dimostrato da chi al bar prende la classica busta marrone dello zucchero di canna per zuccherare il caffè o da chi ritiene che il miele abbia proprietà energetiche miracolose. In
realtà fra zucchero di canna e zucchero bianco non esistono significative differenze alimentari; fra miele e zucchero l’unico
punto a favore del miele è che è meno calorico.
La frutta deve essere mangiata lontano dai pasti (65%)
Purtroppo questo pregiudizio deriva dalla diffusione delle diete che tendevano a separare gli alimenti, vedendo effetti
mostruosamente negativi in certe combinazioni alimentari. Ora che la scienza ha dimostrato la futilità di certe teorie, si
spera che cadano anche i pregiudizi collegati. Mangiare la frutta a fine pasto può bilanciare una ripartizione nutrizionale
troppo proteica e evita di assumere altri alimenti glicidici come i dolci.
Il limone disinfetta i frutti di mare (60%)
Gli acidi contenuti nel limone (citrico e ascorbico) sono del tutto insufficienti contro virus e/o batteri: è come cercare di
fermare un Tir tirandogli contro un sasso.
La vitamina C non fa venire il raffreddore (59%)
Sicuramente un’integrazione vitaminica rafforza l’organismo, ma non previene da infezioni; è il sistema immunitario che
si oppone a malattie come l’influenza. Assumere vitamina C può ridurre i sintomi, ma non riduce il numero delle volte che ci
ammaliamo.
Chi è anemico deve mangiare molti spinaci (54%)
È proprio il contrario. Si veda Gli spinaci e il ferro.
La cioccolata fa venire i brufoli (49%)
L’acne ha motivazioni ormonali che non sono alterate dall’assunzione di alimenti comuni.
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Peperoncino, ostriche e frutti tropicali sono cibi afrodisiaci (47%)
Il fatto che circa la metà degli italiani creda al potere afrodisiaco di alcuni alimenti dimostra che siamo ancora molto arretrati dal punto di vista della cultura alimentare; è come credere nelle proprietà afrodisiache del corno di rinoceronte.
I cibi surgelati sono meno nutrienti di quelli freschi (47%)
Chi crede a questo pregiudizio dovrebbe spiegare perché la surgelazione toglie le proprietà alimentari, visto che tutti
hanno la tendenza a conservare freschi i cibi. I surgelati contengono gli stessi principi nutritivi dei cibi freschi e danno anche
maggiori garanzie per i controlli effettuati prima della lavorazione, nonché per la presenza di chiare indicazioni nutrizionali
sulla confezione.
Le uova fanno male al fegato (41%)
Le uova vanno evitate perché contengono molto colesterolo (36%)
Le uova sono indigeste (28%)
Le uova sono un alimento ricco di proprietà. Il fatto che contengano colesterolo non
deve escluderle dalla dieta; il colesterolo non è un nemico da combattere poiché svolge
funzioni molto importanti: è l’eccesso di colesterolo che deve essere controllato.
Bollare il colesterolo come veleno è come eliminare gli zuccheri dalla dieta perché possono alzare la glicemia.
Mangiare la carne e la pasta nello stesso pasto è sbagliato (39%)
Sono circa 2 su 10 gli italiani che incorrono ancora nell’errore di separare gli alimenti. È invece fondamentale che in ogni
pasto ci sia il giusto equilibrio fra macronutrienti, cioè carboidrati (per esempio la pasta), proteine (per esempio la carne),
lipidi (per esempio i grassi contenuti nel condimento della pasta)
Il forno a microonde è dannoso per la salute (38%)
A chi afferma ciò chiedete il perché. Sicuramente nella sua ignoranza vi dirà che emette radiazioni che contaminano i
cibi. In realtà il microonde funziona come funziona la normale cottura: proprio come con la temperatura (che aumenta l’agitazione delle molecole, fino per esempio all’ebollizione dell’acqua) così con le microonde si aumenta la vibrazione molecolare che è alla base della cottura: i cibi non assorbono nessuna radiazione che produce sostanze nocive.
Meglio friggere con l’olio di semi che con l’olio d’oliva (33%)
L’olio d’oliva è migliore perché ricco di grassi monoinsaturi a differenza di quelli di semi che contengono grassi polinsaturi e soprattutto grassi parzialmente idrogenati, ottenuti con la lavorazione.
Non mangiare la carne fa bene (27%)
La demonizzazione della carne e dei cibi di origine animale si è tradotta nella demonizzazione di uno dei macronutrienti
principali, le proteine. In una dieta non vegetariana solo il 30% delle proteine deriva dai vegetali. I vegetariani sostengono
che è possibile sopperire al bisogno proteico giornaliero con cereali, leguminose ecc. Purtroppo la cosa non è così semplice,
perché, a differenza delle carni, i singoli vegetali non hanno uno spettro aminoacidico completo. Per esempio nei cereali
non c’è la lisina, mentre nelle leguminose non c’è la metionina. Occorre pertanto fare un cocktail molto preciso per avere
un’alimentazione proteicamente corretta. Inoltre l’assorbimento del ferro dai vegetali è veramente scadente se rapportato
con quello che si ha dalla carne.
La dieta dissociata fa dimagrire (25%)
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