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Sabato 8 ottobre
2016
ATTUALITA'
10
LE OPINIONI
DALLA PRIMA PAGINA
Questo vuol dire che, fino alla crisi del 2008, erano ben altre le
aspettative sulla globalizzazione:
un foltissimo gruppo di intellettuali e di think-tanker – statunitensi ma anche europei – puntavano a un riequilibrio mondiale veloce ma senza scosse sotto il segno modernizzante e salvifico di
una interconnessione planetaria
degli scambi e delle comunicazioni, che si immaginava guidata dalle democrazie occidentali. Invece, gli esiti recenti della globalizzazione hanno ingenerato una ripulsa per promesse rivelatesi trappole: non certo per i grandi e
grandissimi speculatori (in tutto,
nemmeno un centinaio di società
nel mondo), quanto per la classe
media, e in questa soprattutto per
il suo segmento più impoverito.
Si era detto che la globalizzazione avrebbe redistribuito le risorse: chi sosteneva questa tesi
non intendeva certo che il nuovo
equilibrio (il nostro) sarebbe stato
ancora più sperequato di quello
del capitalismo classico, ma che
una nuova ventata di opportunità
sarebbe stata percepita in tutto il
mondo, India e Cina comprese.
Una redistribuzione c’è stata, ma
nel segno di un rafforzamento dei
RIFONDARE I VALORI...
grandissimi capitali finanziari.
Quella che Luciano Gallino chiamava “lotta di classe dall’alto” si
è palesata in Occidente con il suo
strascico di vite precarie che hanno sostituito quelle dei salariati
del secolo scorso, impoverendone
i redditi e schiacciandone quotidianamente l’autostima, mentre il
risveglio industriale delle masse
cinesi ha coinciso con la creazione di una classe operaia schiava
dei ritmi di lavoro e ricompensata dello sfruttamento intensivo
con un digitale da intrattenimento
che ne nasconde l’occlusione degli orizzonti di vita.
Magatti non si occupa della
deriva complessiva della globalizzazione: salta questo pezzo di
analisi e arriva a quello che per
lui è il punto centrale con una domanda: “Nell’età post-ideologica
a contare sono le retoriche politiche mediante le quali i sentimenti
dell’opinione pubblica prendono
forma. Oggi significa chiedersi:
dopo anni di stagnazione economica e di fronte alle crescenti difficoltà in cui si dibatte la vita di
tanti cittadini, che cosa può prospettare la politica?” Una prima
obiezione: confondere la crisi del-
INSULTI A BENIGNI?
ABBIAMO PERSO...
I dati sono impressionanti. Sui primi 100
commenti, 8 erano nella sostanza favorevoli alle opinioni di Benigni, 15 erano contrari: sin qui nulla di male, in un caso e nell’altro, la libertà di opinione è la conquista
più importante che la società garantisce all’individuo (insieme alla libertà dal bisogno). Ma fa rabbrividire che 77 commenti
(la grande maggioranza) erano brevissimi e
contenevano solo insulti: pagliaccio, o buffone o giullare (12); venduto (13); misero
(2); da prendere a calci...(3); da sputargli in
faccia (1); verme (3); figlio di... (2); bastardo (2); squallido (4); schifoso (5); sieroso
(1); virus toscano (1). È giusto chiedersi cosa succeda nella rete e perché tanta gente,
invece di ragionare, preferisca insultare.
Chiariamolo subito. L’insulto è insulto,
da chiunque venga e a chiunque sia rivolto,
con qualsiasi mezzo. Generosamente Bambi chiama in causa le parolacce (pipì, cacca, ecc.) con cui i bambini piccoli si divertono quando scoprono certe funzioni del
corpo. Ma poi, a 5 o 6 anni, la smettono e i
loro divertimenti diventano più maturi. I
bambini non c’entrano, siamo fatti male
noi adulti (non tutti, per fortuna).
La volgarità dilaga nei film, negli spetta-
le ideologie classiche otto-novecentesche con un’età “post-ideologica” può essere un grave errore.
Le costruzioni antropologiche e
la proposizione di modelli da
prendere a esempio sono indispensabili a ogni ideologia. Nella nostra età il tentativo di riconfigurare l’individuo attraverso nuovi
dettami dominanti (smantellamento dei servizi sociali, apologia della competizione, del merito, della
valutazione esasperata, del predominio dell’economia sulla politica e della finanza sull’economia,
abbandono della cultura e trionfo
dello spettacolo) non rappresenta
affatto il passaggio a un’era
post-ideologica, quanto piuttosto
l’approdo a un’ideologia che non
viene definita come tale ma che
funziona perfettamente a questo
scopo, cioè a fornire alle moltitudini un insieme di durevoli regole di comportamento.
Magatti ammette che ci attendono anni di crescita contenutissima, in cui la vita dei cittadini –
stanchi e sfiduciati – non cambierà di molto. In questa distanza tra
lentezza strutturale del cambiamento e urgenza di una più decente qualità della vita si radica se-
coli televisivi, penetra nel parlare (e nello
scrivere) dei nostri tempi. Qualcuno si è divertito a contare le cosiddette parolacce presenti in un film americano che ha avuto
molto successo anche da noi, Il lupo di
Wall Street di Martin Scorsese (2013). Nell’originale inglese la parola fuck (che traduciamo “vaffa...”) è usata 506 volte: il film
dura quasi tre ore, in media 3.16 “vaffa...”
al minuto. Se aggiungiamo le altre parolacce del film (il lettore mi scuserà se rinunzio a elencarle) raggiungiamo 569 casi di
male parole, record mondiale meritevole
dell’Oscar (il primo così raggiunto da Leonardo di Caprio, protagonista del film...L’Oscar “vero” l’ha ottenuto solo nel 2016).
Qualcuno (a mio avviso troppo benevolo) sostiene che la volgarità nei film di
Scorsese e di altri non è mai fine a sé stessa, anzi è funzionale al racconto. In Il lupo
di Wall Street servirebbe a descrivere un
mondo fatto di eccessi, di sesso e di droga
che non potrebbe essere spiegato in altri
modi o con altre parole. Parolacce e volgarità servirebbero a rafforzare una certa idea
di realismo, servirebbero a descrivere. Ma
la domanda è: perché altri registi raggiungono lo stesso scopo senza abusare di un certo lessico?
E poi. Dalla rappresentazione cinematografica quel modello entra nella vita quotidiana (non sempre per ottenere effetti di realismo); o forse la direzione è inversa, non
so. Non mi rassegno a riconoscere a parole
condo il sociologo la “nuova retorica che chiamiamo populista”.
Il riferimento è in linea con
un’interpretazione globale di populismo: Magatti non distingue
tra Trump, Le Pen, Orban, Movimento 5 Stelle, Podemos. Diventare “indifferenti” a populismi
che hanno caratteri diversi (a volte anche diametralmente) significa non vedere nulla di nuovo e di
buono da quest’area delle “retoriche politiche”. Da che parte volgersi, dunque? L’austerity a trazione tedesca, scrive Magatti,
non risolve il problema dell’ingiustizia sociale, con l’aggiunta di
“complicanze esterne” (sic) come
gli immigrati, che possono rendere ancora più evidente il fallimento di questa politica. D’altronde
Magatti non sposa nemmeno la
flessibilità di Renzi, perché il suo
pensiero “rimane prigioniero dell’immaginario che abbiamo ereditato dal passato, per il quale la finanza è la soluzione dei nostri
problemi.” Tuttavia il sociologo
afferma che la querelle tra austerity e flessibilità può essere superata “a condizione di riflettere di
più sul fatto che, con la crisi del
2008, siamo entrati in una fase
e locuzioni triviali la funzione di intercalare innocuo (come dire, una parola vale l’altra) o di moltiplicatori di espressività (vuoi
mettere? è così bello usare le parolacce...).
Dalla volgarità si passa spesso agli insulti, il passo può essere breve. Tocchiamo
per questo un altro settore della nostra vita,
quello politico. Su Facebook Salvini definisce il presidente Mattarella «complice di
scafisti, sfruttatori e schiavisti». Lo cito, facendogli involontariamente pubblicità, ma
non è certo unico; succede troppo spesso
nei dibattiti televisivi di oggi, che fanno
rimpiangere le educate e argomentate (anche se un po’ soporifere) tribune televisive
di un tempo. E non succede solo in Italia.
Hillary Clinton e Donald Trump arrivano a
scambiarsi offese sul piano personale, dimenticando che aspirano alla presidenza
della nazione più potente del mondo e uno
dei due avrà enormi responsabilità verso il
mondo intero.
Poco male (forse) se la mancanza di
educazione e la aggressività verbale fossero
confinate in cerchie ristrette. Ma così non
è: i cattivi modelli sono come le male erbe,
proliferano. E la aggressività verbale spesso è accompagnata da comportamenti aggressivi.
Le prediche non servono. La domanda
è: si può fare qualcosa di concreto? Avrei
un’idea, per cominciare: chiamiamo le cose
pessime con il loro nome, evitiamo i camuffamenti.
post-liberista.” Questa affermazione mi sembra molto curiosa e
non suffragata da alcun dato di
fatto. Infiltrazioni massicce di
neo-liberismo sono penetrate addirittura nelle scritture costituzionali di molte democrazie, fissando
obiettivi mercatistici (come l’obbligo del pareggio di bilancio statale) e spacciandoli per dettagli
tecnici. Forse, quando Magatti sostiene che “occorre tornare a conquistare il futuro, perché non c’è
più nessuno – nemmeno mamma-finanza – in grado di garantirlo” intende dire che c’è bisogno
di nuove categorie e di una sferzata teorica per abbandonare il sistema economico-sociale più potente, ineguale e mondialmente pervasivo della storia dell’umanità.
Ma per fare questo non basta mettere un suffisso di distanza
(“post”) ai nomi dell’epoca. Così
come non c’è alcuna “età
post-ideologica”, non c’è alcun
“post-liberismo” in atto. Per andare oltre il liberismo c’è bisogno
di una revisione dei valori di fondo martellati dal mercato e di un
insieme di nuovi valori su cui fondare la convivenza civile e politica. Fino a che quest’impresa non
sarà tentata, il nome della nostra
epoca sarà “crisi”. E non sarà facile viverci, a meno che non si appartenga a una sparuta pattuglia
di super-privilegiati.
Stefano Cristante
Sono numerosi i casi di «bullismo», con
conseguenze tragiche; i soggetti deboli o
vulnerabili non ce la fanno, soffrono e si
suicidano. Molti giovani si sentono «bulli»,
spesso se ne vantano, mettono in rete le loro imprese. Chiamiamo quel comportamento «sopraffazione» e «prevaricazione», definiamo «sopraffattore» e «prevaricatore» chi
si comporta in un certo modo. Le cose saranno più chiare.
A volte ricorriamo alla lingua inglese,
usiamo le parole «stalking» e «stalker»
estranee alla nostra lingua: le capiamo poco, involontariamente contribuiamo a mascherare la brutalità delle azioni. L’etimologia non ci aiuta, il verbo inglese «to stalk»
significa “camminare con circospezione”,
quasi il comportamento di uno che si muove discretamente per non disturbare. Usiamo invece «violenza» e «violentatore», capiremo tutti meglio.
E infine. Oggi molti parlano di «furbetti», «del quartierino», «del cartellino», ecc.
Invece no: chi tenta una frode affaristica o
immobiliare, chi invece di lavorare va in giro a passeggiare e ruba lo stipendio non è
un «furbetto», è un «criminale» (nei casi
più gravi) o uno «scansafatiche» o un «nullafacente», chiamiamoli così.
I mezzi di comunicazione possono dare
l’esempio, cominciamo noi. Usare bene la
lingua aiuta a capire cosa succede nella società, quindi contribuisce a migliorarla.
Rosario Coluccia
NECROLOGI
GIUSEPPE URSO
LETIZIA CARMELA
Ved. ASTUTI
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